Per altre v'ho scritto a bastanza; e stamane a dì andai a Domenico Giugni, che mi volea per vostri fatti: e già era ito fuori; chè la furia ci è grande, ed egli è più che sollicito. Voi siete tratto della borsa a farsi ora i vostri fatti: penso se ne pigliarà cauto modo, come che, per barbato che e' sia, costor vogliono vedere i libri. Or non dico più; chè l'apportatore parte, e uno garzone che manda Stoldo astetta questa; e or si leva il sole. E Nofri mi disse iersera, che non v'udì trarre, e che stamane il saprà: e a desinare risponderà. Egli è agevole a far bene: ma è troppo malagevole lo 'ndovinare. E Sei della Mercatanzia mandarono per me e Stoldo. Io astettai più richieste in uno dì, perch'io non volea andare sanza lui, a buono fine. E non potendolo avere in sulla piazza, io fui veduto da due messi; e dissono: I Sei sono ritti, e non astettano se non te. Io andai a loro rattissimo. Ivi era il parente di Tanfuro e quel di messer P. Gambacorti. E dopo dire i Sei molto, ch'egli era impossibile costui potesse mostrare ragione, stando preso; e che questo v'era poco onore, all'uomo siete e al mercatantesco stato tenete, ec.; io feci attendere di fuori l'altra parte, e dissi: Signori, Francesco tiene costui in prigione, come farebbe uno di voi uno suo fattore che vi paresse che v'avesse ingannato, rubato, ec.: e come di Tanfuro voi non eravate punto bene disposto. E qui dissi assai. Manetto Davanzati rispuose in vostro servigio, e così gli altri, con dire: Cotesto è un altro fatto; ma pure qui vuole modo, a onore di Francesco. E a me parve dicessono vostro onore; e di quello sono procuratore, non dell'onor di Tanfuro. Credete il vero. Infine rimanemmo, che se e' consentisse a queste cose vedete qui scritte, che e' n'uscisse; altrementi, no. E dissono al notaio: Acconcia queste cose come ser Lapo scriverà. Io dettai questa scritta: e truovo Stoldo, e mostrogli quello ho fatto; e' parve io l'avesse disfatto: Ser Lapo, a nulla a nulla voglio consentire; a nulla voglio esser richesto. Di che mi ripuosi le carte sotto, e anda'mene: e quel notaio astetta da me il modo, e non l'arà mai; o e' non n'uscirà, o e' n'uscirà con più suo vantaggio. Egli è nuova cosa ch'io ardisca pegli altri amici, e pe' forestieri e cittadini, far l'onor loro, di chi si fida di me; e che di voi io non possa. Resta, ch'io sono amico e non amico: sonne paziente. Ma io non merito non esser creduto; e che Stoldo mi dica non volerne udir nulla. Questo fatto è vostro: io non n'ho nulla a fare. Ma tanto vi dico, che per uomo del mondo non farei quello ch'io non facesse per Lionardo mio fratello, ch'è l'occhio del capo mio. Dicol pertanto, ch'io vivo in modo ch'io non sono atto, per Stoldo o persona, andare alle Corti, e sia domandato dell'onestade, e ch'io dica Crocifiggi. E' non m'ha mai detto nulla della quistione del ronzino: e le cose vi s'avviluppano; e i piati danno queste riuscite. Ed è più il dolore io ne veggio a Stoldo, che si sente villaneggiare, che uno buono corsiere non vale. Or perdonate; io non ho con cui isfogarmi, se non con voi. E di Tanfuro non m'ha mai pregato persona, se no Iddio, cioè la mente mia medesima. Se altro pensaste, peccareste. E io ho i prieghi villani non che a calere, ma a dolore; e non sono di persona, se non mio, e poi vostro. - SER LAPO. XIIII maggio.