Risposta a Bartolo, che s'arebbe a leggere innanzi a' Sei; a qualunche ragione, domanda, che Bartolo facesse: o sindacato, o libri, o panni, o debitori, ec.. Non la perdete; e se Bartolo viene per risposta a Luca, Luca lo rimetta a me. «La sentenzia data per l'Uficiale e' Sei, a dì XVIIII di febbraio 1404, tra Francesco da una parte, e Bartolo procuratore di monna Taddea dall'altra, ha questi proprii e brievi effetti, cioè: In prima, vedute due petizioni fe Bartolo in detto nome, e le risposte, e poi i rapporti della ragione della compagnia, fatti per lo ragionieri mandato a Vignone per l'Uficio de' Sei: e veduta la dota di monna Taddea, e il lascio a lei fatto, e ciò che toccar le potea della redità di Boninsegna compagno fu di Francesco, e di Priore reda di Boninsegna; e ciò che potea dovere avere o domandare, di quella redità o reditadi, o compagnie: e udito infine due cittadini eletti dalle parti a rivedere ogni errore e calculo di detti rapporti già fatti; e autoci lungo pensamento e pratica: condannarono Francesco, per lor sentenza, di tutte dette cose, a dare a monna Taddea fiorini M di Reina; sì veramente monna Taddea il sodasse di cavarlo di danno da ogni persona che domandasse a Francesco per cagione della compagnia, e altre cose dette, ebbe con Boninsegna. Item, il sodasse di rifar Francesco, se i debitori cattivi di quella compagnia fossono più che fiorini 234, come dicea quello rapporto. E questo avessono i Sei a far vedere a Vignone. E se fra quindici mesi Francesco per negligenza nol facesse fare, s'intendano, pure come dice la sentenza, essere stati bene fatti, detti cattivi debitori, fiorini 234. Item, vollono in detta sentenza, che una ragione tenuta in Pisa, dipendente dalla compagnia di Vignone, s'intendesse sospesa, e avessesi a far vedere pe' Sei a' ragionieri o commissarii delle parti. Nella quale se Francesco restasse avere, che monna Taddea il paghi: e così e converso, se monna Taddea reda restasse avere, Francesco paghi. E simile abbino a vedere i ragionieri, se Priore avesse tratti più danari che fiorini 200 di Reina, come nella sentenza chiarirono e accettarono; che Francesco quello più abbia a riavere da monna Taddea. E se fra l'anno Francesco non fa fare queste cose, che monna Taddea sia di ciò libera da lui. E in fine della detta sentenza chiarirono, che Francesco s'intendesse libero e interamente assoluto da ogni debito e cosa, che monna Taddea potesse chiedere a lui e suoi compagni, o per dota, o per lasci, o per reditadi, o per compagnia di Boninsegna o di Priore; e generalmente, in proprio, di ciò che monna Taddea gli potesse chiedere o domandare, per dette reditadi di Boninsegna e Priore. E ch'ella debba farne fine per carta a Francesco: e così fe, per mano di piuvico notaio. Item, che monna Taddea similmente s'intendesse generalmente libera da Francesco. Ora, signor Sei, per questa sentenza si risponde alla domanda di monna Taddea, sopra i libri antichi di Boninsegna quando fallì, i quali Francesco non vide mai; a i libri segreti della compagnia Francesco ebbe con Boninsegna; de' quali, se vi fossono, monna Taddea nulla n'ha a fare; a i panni di Priore, che s'hanno a dare per Dio in Vignone, per certo prelato, come disse Priore in suo testamento; alla copia de' cattivi debitori toccarono a monna Taddea, de' quali i Sei l'hanno ispogliata per detta sentenza e fine; alla ragione da Pisa, che è commessa in due ragionieri. E se frall'anno non si vede, Francesco nulla può domandare. Restava, savissimi uomini, al parere di Francesco, che se monna Taddea o Bartolo si duole di cosa dica detta sentenza, e vuole altro domandare, che gli renda circa fiorini M buoni Francesco ha pagati per ubbidire i Sei. E poi da capo si vegga ogni cosa. E mai non vide Francesco il più lieto giorno, che sarebbe a lui questo: e dice, che poi morrebbe in pace; però che dice che detti M fiorini non arebbe mai pagati, se none in prigione: ma tanto il pregarono i Sei, che e' fosse contento per uscire di quistione, ch'egli il fece. E vollono che e' fosse amico di Bartolo, e che e' perdonasse a' Sei che gli toglievano troppi danari: ma faceano per porlo in pace. Vedete come Bartolo n'è grato!» Luca, a piè di quello Rapporto farei mettere al notaio del Banco queste parole, ove il Giudice pur tolga detto Rapporto: di che poco mi curarei. «Dato fu questo Rapporto sopraddetto, presente e intendente il detto Francesco di Marco, e contradicente in quanto faccia contra lui; e dicente non doversi e non potersi ricevere nè ammettere per lo detto Giudice: e così domanda che e' pronunzi; però che (sia detto in pace) non appartiene al detto Giudice e Corte ricevere nè ammettere tale Rapporto, e di ciò non è giudice competente. Con ciò sia cosa che 'l detto Giudice, Sei e Corte abbino commessa tutta questa principale quistione in Matteo Villani e altri cittadini a ciò diputati e fatti sindichi sopra questa materia. E non si dee nè può fare in due luoghi uno medesimo piato: e essa medesima altra parte l'ha cominciato innanzi a' detti sindichi; e là è il piato principale e pregiudiciale a questo atto, che or fa fare l'altra parte: e non fa l'onoranza de' detti sindichi eletti, sanza la cui diliberazione non dovea nè potea venire. E ancora massimamente questo Rapporto è di niuno valore e efficacia, perchè il detto ragioniere non ha veduto, calculato o praticato le ragioni ha tenute in Firenze il detto Francesco molti e molti anni, rispondenti alla ragione di Vignone tenea per Boninsegna. Nè ha veduto il dare e l'avere di detti libri di Firenze, che sono grande parte di fondamento di quella ragione; massimamente in quelle cose, partite, mercatanzie, e debiti e crediti; di che ne' libri di Boninsegna non si fa menzione alcuna. E per altre ragioni e cagioni, che a suo luogo e tempo si diranno». Luca, fa' copiare questa in un foglio doppio; e fa' dare detta copia a ser Andrea, cancellieri con ser ; e di' che la metta allato alla domanda del sindicato; sì che non ci avvenisse quello proverbio: Tra la pace e la triegua, Guai a chi la leva. «Signor miei. Io Francesco di Marco, vostro cittadino e servidore, vi ricordo, ch'io non so a che fine Bartolo di Iacopo sopraddetto, in nome di monna Taddea, reda di Boninsegna che fu mio compagno e fattore molti anni, si domanda questo sindicato generale sopra la redità d'esso Boninsegna. E sono in Firenze e non sono richesto a nulla, e in singularità n'ho maraviglia, perchè di febbraio passato i Sei, che allora erano sopra tutta quella redità e sindicato che allora vegghiava di Boninsegna, dierono con molta diliberazione e pratica una sentenzia molto lunga e molto ordinata: dove, fatto che avesse l'una parte all'altra certe cose, che tutte sono fatte, l'una parte fosse finita dall'altra generalmente della fattoria e compagnia e d'ogni cosa. E così ci finimmo per carta. Resta solo vedere un poco 'l conto di Pisa; e questo è commesso in ragionieri, come dice a littera quella sentenzia. Ben è vero, che se Bartolo volesse che tutto si rivanghi e rivegga quella sentenzia, mai non udi' cosa che più mi piacesse: e consentirrò a questo sindicato, sì veramente mi renda fiorini 800 o circa, ch'egli ha auti da me per quella sentenzia, come vuole uso di mercatanzia; e io soderò di riporgli su, e quegli e due tanti, veduto e spacciato il sindicato. Ma se pur questo sindicato volesse, e in esso si contenesse, che de' miei fatti, o di cosa che si contenga in essa sentenzia, non s'abbino a impacciare, sono contento; o vuole Bartolo, se gli pare avere nulla da me, porre il suo richiamo, e io sono presto a rispondere a rigore, e rimanere suo amico; come i Sei vollono io rimanesse quando mi chiesono per grazia io perdonasse loro, se troppo mi toglievano, dicendo sempre il facevano per pormi in pace. Nostro Signore vi dia grazia pigliare ragionevole diliberazione».