Stamane V di
maggio, parlando di voi con
messer
Tommaso Soderini, e del modo da darvi onorevole consiglio per lo
tempo che corre, parea a lui che tornaste ora a dire di vostri fatti; e poi
vi ritornaste costà, se pur voleste. E udito me, si rimutò; con questo,
che gli parea, e a me ancor parve, che doveste, frall'altre, scrivere una
lettera a tutta questa Ventina, poi che ogni vostro pari va a loro a dire di
suo stato. E disse a me: Farai bene a dittagliele, e egli la mandi poi. Io
sorrisi, e dissi:
Messer
Tommaso, io ho diletto che volete bene a
Francesco, ch'io vi prometto che e' ne vuole a voi; e da
Bologna, quando
v'eravate, in sue lettere spesso mi vi ricordava: e ora mi scrive, ha
fidanza in voi più che in molti altri. E in fine mi parve si consolasse del
mio dire: e dice, che poi che arete scritto alla Ventina, vorrà parlare ad
alcuno; e fra gli altri, gravare il vicino e
compagnone suo
Matteo dello Scelto. Io direi così, s'io fossi voi: nondimeno, più e
meno un poco, mutate; e non curate mutare un pochetto alla vostra
maniera. Cioè direi:
«
Signori
Uficiali, e savi uomini. Io sono sì poco uso al paese, e so sì
male dire quel ch'io ho nell'animo quando parlo o scrivo a' vostri pari,
che dirò molto brieve, e contra mia natura; perchè so, ch'io non potrò
fare ch'io non erri: ma dicendo poco, errerò meno. E ancora perchè
avete grandi occupazioni; e questi miei mi dicono, ch'io sono molto
biasimato del troppo dire e troppo scrivere lungo. E s'io credesse a me
propio, ancora questa piccola noia non vi darei; perchè avendo costà,
fuor delle
case, poca o nulla possessione, forse farebbe così
i miei fatti chi me le tollesse come chi le difendesse. Caro arei
però vivere e morire nella mia
città, poi che è naturale, e gli amici miei
me ne confortano. Io ho a fare in
Catalogna e a
Vignone oggi, e i fatti
miei vanno come possono. Quando fia piacere di Dio, e io sia da tanto,
ritrarrò quel ch'io potrò. So bene che tutto giorno mi veggo tòrre il mio:
e chi 'l fa, non n'ha se no il peccato, ch'io non so nè posso castigare.
Vorrei vivere con catuno in pace. E forse morendo, i fatti miei
tornarebbono a poco, sì mi truovo intralicciato. Io voglio
soldi XXII per
lira. E priegovi reverentemente, ch'io sia trattato non altrementi che
vostro servidore. E uditi i nomi vostri, non posso sperare mi facciate
altro che giustizia; la quale insino a qui, certamente, non m'è suta fatta.
Cristo v'aiuti farmela. Tutte le mie possessioni, fuor delle
case, non
vagliono
fiorini 2500. E perchè me ne possiate far vergogna, e 'l danno
v'è agevole a farmelo, ho fatta questa di mia propia mano: sì che, se
dico bugie, abbiate cagione da castigarmene. -
Vostro servidore
FRANCESCO DI MARCO da
Prato, a di 12 di
maggio, in
Bologna».
La
soprascritta: «Magnifichi uomini
Venti della Prestanza di
Firenze, padri carissimi».
«Poichè questi miei fanno migliore lettere di me, l'ho fatta scrivere a
Guido che sta meco; e io l'hoe dettata, sì che dire si può che di mia
mano sia: e così sono contento, e voglio che valga; imperò io l'hoe letta
e riletta parecchie volte. Io
FRANCESCO DI MARCO da
Prato, in
Bologna, vostro servidore».