ÿþQui cumincia l'Ovidio maggiore translatato di latino in volgare per ser Arrigo Simintendi da Prato. Proemio di quello che disse Ovidio di trattare, insino a quella parte che dice Prima che. L'animo mio disidera di dire le forme mutate in nuovi corpi. O idei, date favore a' miei cominciamenti, però che voi mutaste voi, e quelle; e fate menare continuo verso dal primo cominciamento del mondo in sino a' miei tempi. Quello ch'era prima che dio facesse il mondo. Prima che fosse il mare, e la terra, e 'l cielo, lo quale cuopre tutte le cose, era uno volto di natura in tutta la ritondità, lo quale era detto confusione; però ch'era rozza e non divisa gravezza; e non era alcuna cosa, se non uno peso sanza arte raunato in uno medesimo luogo: discordevoli semi delle cose no bene congiunte. Niuno sole dava ancora lume al mondo; e la luna non riparava i nuovi corni crescendo. La terra, fermata in su' suoi pesi, non pendea ne l'aria isparta dintorno; e 'l grande mare non avea distese le braccia pe lo lungo spazio delle terre. Colà dove era la terra, quivi era il mare e la aria. E in questo modo la terra era non ferma; l'acqua da no potere notare; l'aria abbisognava di lume. Niuno elemento avea la sua forma: l'uno contastava agli altri; però che in uno corpo le fredde cose combatteano co le calde, l'umide co le secche, le molli con le dure, le gravi co le lievi. Come idio ordinò e fece il mondo, e divise gli elementi, e ciascuno allogò nel suo stato. Idio e migliore natura divise questa briga, però che dipartio le terre dal cielo, l'acque dalle terre, e 'l liquido cielo divise dalla ispessa aria. Le quali cose poi ch'egli ebbe così divise, e tratte della cieca massa, iscompagnate le legò ne' loro luoghi con amorevole pace. La forza del piegato cielo di fuoco, e sanza peso, risprendeo sopra l'altre, e elessesi luogo ne la somma altezza. L'aria ee prossimana per leggierezza e per luogo: la terra ee più ispessa di questi; e trasse in sè gli grandi elimenti, e ee abbattuta per la sua gravezza: l'acqua possiede l'ultime cose, e hae costretta la salda ritondità de la terra. Qualunque fue quello dell'idiei, che così divise l'ordinato mescolamento, e divise eguale da ogne parte in maniera di grande cerchio. Allora isparse i mari, e comandoe che 'ngrossassoro per li veloci venti, e che intorneassoro i liti della intorneata terra; e aggiunse le fonti, e' grandi stagni, e' laghi; e cinse l'inchinevoli fiumi colle torte ripe, i quali diversi per li luoghi, in alcuna parte trangottiti dalla terra capitano al mare, e in alcuna parte riceuti nel campo, di più libera acqua percuotono i liti in luogo di ripe: e comandò che i campi si distendessoro, e che le valli sedessoro basse, e che le selvi fossoro coperte di frondi, e che i monti petrosi si levassoro in alto. E sì come due coreggie dalla parte diritta, e altrettante da la manca dividono il cielo; la quinta ee più ardente che quelle. De le quali quella del mezzo non s'abita per lo caldo; l'alta nieve cuopre le due; e altrettante n'allogoe trambodue. E così distinse la cura di Dio la racchiusa terra in quello medesimo numero; e altre tante contrade sono premute nella terra: diede temperanza mescolando il caldo col freddo. Sopra queste è l'aria; la quale quanto ella ee più leggieri che la terra e che l'acqua, tanto ee più grave che 'l fuoco. Quivi comandoe che stessoro i nuvoli, e' venti che fanno i freddi, con le saette. Lo componitore del mondo permise a costoro no mattamente avere l'aria. Appena si puote ora contastare a quegli, quando ciascuno regge i suoi soffiamenti con diverso tratto, ch'eglino no ispezzino il mondo: tanta ee la discordia de' fratelli! Euro si n'andoe all'aurora, e a' regni Nabattei, e in Persia, e a' giughi sottoposti a' razzuoli mattotini: Zefiro s'approssimò alle contrade ove lo sole tramonta: Boreas orribile assalio Sizia e 'l settentrione: Austro pieno di piove imbagnoe la contraria terra con continue nebbie. Sopra questi puose lo fermamento del cielo che non hae gravezza, nè alcuna cosa del fastidio della terra: e a pena ebbe così divise tutte le cose con certi terriafini, che le istelle, che lungo tempo erano istate nascoste sotto la detta massa, cuminciarono a risprendere per tutto il cielo: e acciò che alcuna contrada no fosse cieca a' suoi animali, le stelle, forme de l'idiei, tengono il cielo; l'acque da abitare diedoro luogo a' chiari pesci; la terra tenne le fiere; la movevole aria li uccelli. Come l'uomo fue fatto. Ancora mancava l'animale più fermo, e di più nobile mente di questi, lo quale potesse signoreggiare gli altri. Fu formato l'uomo; o vero che quello meraviglioso maestro de le cose fece costui del seme delli dei, imagine di migliore mondo; o vero che la ricente terra, e divisa nuovamente dall'alta aria, ritenea i prencipii del cognato cielo; la quale lo figliuolo di Iapeto, mescolata nell'onde de' fiumi, compuose in forma delli dei che temperano tutte le cose. Con ciò sia cosa che gli altri animali istieano col volto chinato a guardare la terra, iddio diede la faccia alta a l'uomo, e comandògli ch'egli guardasse il cielo, e levasse lo dirizzato volto verso le stelle. E così la terra, che prima era rozza e sanza imagine, convertita, si vestio no conosciute figure d'uomeni. Come l'etadi del mondo sono quattro: la prima fue d'oro, la seconda d'ariento, la terza di rame, la quarta di ferro. La prima età fue formata d'oro, la quale sanza alcuno signore, e sanza istatuti, per sua voglia amava la fede e la dirittura. La nave tagliata ne' suoi monti, per vedere istrano paese, non era ancora discesa nell'acque, e li uomini non conoscevano altri liti che gli loro. Le grandi fosse no attorneavano ancora i castelli; non erano istormenti di rame da fare muovere i cavalieri a combattere; no era cappelli d'acciaio; no era ispada. Sanza uso d'arme, le genti sicure menavano agevoli riposi. La terra, sanza essere lavorata, o fedita da vomeri, per se medesima dava tutte le cose: e li uomini, contenti de' cibi creati sanza essere costretti, coglievano i frutti delli arbori, e l'erbe de' monti, e' corniuoli, e le more tra' duri pruneti, e le ghiande che cadieano dall'alta quercia di Giove. Sempre era primavera, e' piacevoli zefiri colle tiepide aure miticavano i fiori sanza seme nati. Ancora la terra non arata menava le biade, e lo rinovato campo biancicava delle piene spighe. Già andavano fiumi di latte, già andavano fiumi di stelladia; e 'l giallo mele gocciolava della verde quercia. Della seconda età, cioè di quella dell'ariento. Poi che Saturno fue messo nel tenebroso inferno, e 'l mondo era sotto Giove, venne l'etade de l'ariento, piggiore che quella de l'oro, e migliore che 'l biondo rame. Giove ristrinse i tempi dell'antica primavera, e partio l'anno in quattro spazi, cioè in verno, e nella state, e ne l'eguale autunno, e nella piccola primavera. Allora da prima l'arrostita aria da' secchi isboglientimenti si riscaldò, e 'l ghiaccio pendeo stretto da' venti. Allora da prima entrarono ne le case; le case erano spilonche, e gli spessi pruneti, e' rami congiunti co le corteccie. Allora da prima si sotterraro i semi della biada con lunghi solchi, e' giuvenchi gravati dal giogo piansoro. Della terza età, cioè del rame. La terza età del rame venne dopo quella, più crudele per ingegni, e più pronta alle orribili armi, ma no però crudeli. Della quarta, cioè del ferro. L'utima etade ee di duro ferro, e ogne male venne in tempo di piggiore vena. La vergogna, e la verità, e la fede sono fuggite; in luogo delle quali sono venuti l'inganni, e le malizie, e gli agguati, e le forze, e 'l non temperato amore dell'avere. Lo navicatore dava le vele a' venti, ch'egli non conosceva ancora bene; e le navi, che lungo tempo erano state negli alti monti, saltarono ne le non conosciute acque; e lo scalterito misuratore terminò con lungo terriefine la terra, che prima era comune sì come i lumi del sole e' venti: e non fue domandato a la ricca terra solamente le biade e' debuti notricamenti; ma delle sue interiore si cavano le ricchezze, provocamenti de' mali; le quali ella avea riposte all'ombre stigie. Come in questa quarta e utima si fa ogne male. Già uscìo lo nocevole ferro fuori; e l'oro, più nocevole che 'l ferro. Uscìo fuori la battallia che combatte per l'uno e per l'altro; e con la mano sanguinosa l'uomo scommuove le risonanti armi. Vivesi di ratto: l'uno oste non è sicuro dall'altro; lo suocero non è sicuro dal genero; l'amore de' fratelli ee rado; lo marito disidera la morte de la moglie, e la moglie quella del marito; le crudeli matrigne danno li pallidi veleni; il figliuolo anzi tempo disidera la morte del padre: la pietà giace vinta; e la giustizia vergine, ultima delle cose celestiali, hae lasciate le terre bagnate di tagliamento. Come i giganti volloro andare in cielo per forza; e come Giove gli fulminoe, con che del loro sangue nacquoro uomini nemici delli iddei. E acciò che l'alto fermamento non fosse più sicuro che le terre, dicesi che' giganti disiderarono lo regno del cielo, e che ordinarono i raunati monti all'alte istelle. Allora l'onnipotente padre ruppe lo cielo con le mandate saette, e scaricò lo sottoposto monte Pelion al monte Ossa. Dicesi che la terra, piena del molto sangue de' figliuoli, si bagnò dentro, e che 'l caldo sangue prese anima. E acciò che fosse alcuna gente di loro schiatta, volsorsi in forma d'uomini: ma quella schiatta fue dispregiatrice delli diei, e disiderava tagliamento, e fue crudelissima: tu potresti sapere ch'ella fosse nata di quello sangue. Le quali cose poi che 'l padre, figliuolo di Saturno, vide da la somma rocca, pianse dentro; e dicendo i brutti conviti di Licaon non ancora appalesati, perch'erano fatti nuovamente, raccolse grandi animi e ire chenti si convenivano a Giove: chiamò lo concilio. Niuna cosa tenne coloro che furono chiamati. Lo modo come gli diei si raunaro al concilio di Giove. La via ee alta, manifesta nel sereno cielo, e ha nome lattea, da conoscere per la bianchezza medesma. Per questa vanno li diei a la casa del grande tonatore. I palagi de' nobili idei sono guardati dalla parte diritta, e da la manca coll'aperte porti. Li minori idei abitano in altri diversi luoghi. I grandi hanno posto dinanzi a le loro case. Qui è uno luogo, che se l'ardire fosse dato alle parole, io non temerei di dire, che qui fossoro i palagi del grande re. Come Giove si lamenta de' peccati che fanno gli uomini, nel concilio delli idiei; e de l'ardire di Licaon. Adunqua, poi che gli idiei sederono in su gli scaglioni del marmo, Giove tenente lo più alto luogo, e fermato con la verga del vivorio, tre volte e quattro tremoe la terribile chioma del capo, con la quale mosse la terra e 'l mare e le stelle; e poi aperse la 'ndegnata bocca con cotali parole. Io non fui angoscioso per lo regno del mondo in quello tempo che ciascuno de' giganti s'apparecchiava di mettere le braccia nel cielo, ch'eglino volevano pigliare: però che, avvegna dio che 'l nemico fosse crudele, tuttavia quella battallia procedeva da uno corpo e da uno nascimento. Ora mi conviene disfare la generazione umana da quella parte che 'l mare attornea tutto 'l mondo. Io giuro per li fiumi infernali discorrenti per lo bosco stigio, ch' io tenterò prima tutte le cose; ma la fedita che non si puote medicare, si dee tagliare col coltello, acciò che la parte sana non sia tratta a morte. Io hoe i mezzi idei, hoe li dei delle ville, hoe le ninfe e' fauni e' satiri e li dei de' monti, e quegli delle selve; li quali però che non sono ancora degni dell'onore del cielo, gli lascio abitare nelle terre ch'io hoe date loro. O idei, credete voi ch'eglino siano assai sicuri, con ciò sia cosa che Licaon pieno di crudeltà abbia ordinati aguati a me che hoe le saette, e hoe voi, e reggovi? Del portamento che fecioro li diei del concilio, udite le parole di Giove. Tutti li dei, udite queste parole, tremarono insieme, e iratamente domandano per sapere chi fu quelli ch'ebbe tanto ardire: sì come fecioro i romani quando la non pietosa mano incrudelio contra 'l sangue di Cesare per ispegnere lo nome romano, l'umana generazione temeo, e tutto il mondo si spaventoe. O Augusto, la pietà de' tuoi non fue a te meno graziosa che quella fue a Giove. Lo quale, poi che con la voce e co la mano costrinse i mormorii, tutti stettero cheti. Poi che lo romore fue racchetato per l'autorità di colui che reggea, Giove con queste parole anche ruppe il tacere: lasciate questo pensieri, che quegli ne sostiene pene. Io vi dirò quale fue il peccato, e la vendetta ch'io ne feci. Favola come Giove trasmutò Licaon in lupo. La infamia delli uomeni del mondo era pervenuta a' nostri orecchi; la quale disiderante io di trovare falsa, discendo dal cielo, e io idio attorneo le terre sotto imagine d'uomo. Troppo sarebbe grande indugio a volere dire quanto di peccato io trovai in ogne parte. La infamia fue minore che 'l vero. Io avea passato il monte Menalo, luogo orribile per lo nascondimento delle fiere salvatiche, e li spineti del gialato Liteo, e 'l monte Cilleno; e quinci n'andai nelle sedie di Licaon re d'Arcadia, e entrai nelle disabitate case del tiranno: e appariendo i bruzzoli della notte, diedi segnali, che idio era venuto in terra. Lo popolo m' avea cominciato ad adorare. Licaon di prima ischernio gli pietosi preghieri, e poi disse: io proverò apertamente se questi ee idio o uomo, e del vero non si dubiterà. Nella notte s'apparecchia d'uccidere me grave di sonno con morte non disiderata: e questa pruova di verità piace a lui. E ancora, non contento di questo, taglioe lo capo a uno stadico che gli fue mandato dalla gente Molossa, e de' membri mezzi morti parte ne lessoe, e parte n'arrostio: i quali sì tosto com' egli ebbe posti in su la mensa, col fuoco vendicatore io feci cadere le case contra 'l signore. Egli spaventato fuggio, e seguitando le ville urla, e indarno si sforza di parlare. La bocca da lui raccoglie rabbia, e per lo disiderio dell'usato tagliamento usa contra le pecore, e aguale si rallegra del sangue. I vestiri diventarono velli, le braccia gambe; e fue fatto lupo, e osserva l'orma della vecchia forma: così ee canuto com' egli era prima; così ee fiero nel volto: quegli occhi rilucono ch'egli avea; e così ae com' egli avea imagine di crudeltà. Distrutta fue una casa, ma non fu degna di perire quella sola: per tutta la terra regna la crudele furia infernale Erinis. Tu puoti pensare che li uomeni abbiano fatta congiurazione in fare peccato: tutti tostamente patiscono le pene, le quali eglino sono degni di sostenere. Così ee ferma la mia sentenzia. Come tutti li diei consentirono al detto di Giove; ma pure incresceva loro del danno delli uomini. Parte delli dei lodano i detti di Giove con voce, e aggiungono furore a lui adirato; e parte tacendo consentono al detto dei maggiori: ma pure tutti si dogliono del danno dell'umana generazione, e domandano che forma sarà alla terra accecata delli uomini, e chi farà i sagrifici alli diei, o s'egli s'apparecchia di dare le terre a disertare alle fiere salvatiche. Lo re delli dei di sopra vieta loro, che domandavano di sì fatte cose, da temere, e promette loro ischiatta dissimigliante al popolo di prima con meraviglioso nascimento. Come Giove, poi ch'egli ebbe pensato di disfare il mondo con fuoco, diliberò di disfarlo con piove. Già dovea mandare le saette per tutte le terre: ma egli temeo che l'aria non s'accendesse per tanti fuochi, e che tutto lo fermamento non ardesse. E raccordasi che dè venire tempo, nel quale lo mare e la terra e la magione del cielo accesa arderà. E ripuose le saette fabricate delle mani de' ciclopi; e piaceli la pena contraria al fuoco, ciò ee disfare la generazione umana sotto l'acque, e mandare le piove da ogni parte del cielo. Come Giove, poi ch'ebbe diliberato di disfare il mondo con acque, racchiuse lo vento che cacciava i nuvili, e fece uscire fuori quelli che inducono acque. Incontanente rinchiuse lo secco Acquilone nelle prigioni d'Eulo, e tutti i venti che cacciano le recate nebbie, e manda fuori Noto. Noto volò di fuori con le bagnate ale, e che avea coperto il volto di nera caligine, e la barba pesante de' ventipiovoli. L'acqua discorre dai bianchi capelli: i nuvili seggono nella fronte: le penne e' panni suoi sono bagnati. E poi che con la mano egli ebbe costretti i nuvili che pendeano ampiamente, fue fatto fragore; e le spesse piove caggiono dall'aria. Come Giove mandò il diluvio. Iris messaggera di Iunone, vestita di svariati colori, raccoglie l'acque, e reca notricamenti a' nuvili: le biade sono abbattute, e' disidèri pianti da' lavoratori sono disfatti, e la vana fatica del lungo anno perisce, e l'ira di Giove non è contenta solamente de l'aiuto del cielo; ma Nettuno suo fratello con l'acque aiutatrici l'aiuta. Questi rauna i fiumi, i quali poi che furono entrati nella casa del loro signore, egli disse: non è bisogno d'usare ora di molte lusinghe; mandate fuori tutte le vostre forze; così si conviene fare. Aprite le vostre case, e sanza impedimento allargate le redine a' vostri fiumi. Ed ebbe comandato. Questi tornarono, e allargano le bocche a le fonti, e volgonsi verso il mare con isfrenato corso. Egli colla sua verga percosse la terra; e quella mugghiò, e col suo movimento aperse le vie dell' acque. E fiumi allargati ruinano per gli aperti campi, e pigliano le biade e gli arbori, le bestie e gli uomeni, le case e le chiese co' loro sacrifici. Se alcuna cosa rimase, e poteo resistere a così grande male per sua fermezza, ch'ella non cadesse, pur l'acqua più alta copria il tetto di questa; e le gravate torri si nascondono sotto l'acque. Già non era alcuno spazio tra 'l mare e la terra: ogne cosa era mare; liti mancavano al mare. Alcuno si fuggio in su uno colle; alcuno si siede in una navicella, e mena i remi ove nuovamente avea arato; l'altro naviga sopra le biade, o vero sopra l'altezze della tuffata villa; quest' altro pigliava i pesci in sull'alto olmo; e, se la fortuna vuole, l'ancora si ficca nel verde prato; e le piegate navi cuoprono le sottoposte vigne; e' sozzi pesci foce pongono i loro corpi quivi, ove le piacevole caprette pascerono l'erbe. Le dee marine veggiono i boschi sotto l'acqua, e le cittadi, e le case; e' delfini tengono le selve, e percuotono per li alti rami e per le quercie: lo lupo nuota tralle pecore; l'acqua porta i biondi leoni; l'acqua porta i tigri: e le grandi forze non giovano al porco salvatico; e le veloci gambe non giovano al veloce cerbio; e 'l volante uccello, non trovando terra ov' egli si possa riposare, allassate l'ale, cade nel mare. La grande licenzia del mare avea coperti i monti, e le nuove onde percotevano le sommitadi delle montagne. Grande parte di coloro ch'erano scampati dell'acqua furono portati via dall'onde: i lunghi digiuni fanno morire altri per la povera vivanda. Lo luogo ove Deucalion e Pirra sua moglie, che scamparo del diluvio, arrivarono. La terra Focis divide i campi tebani dalli ateniensi. Questa fue abondevole, mentre ch'ella fue terra: ma in quello tempo era parte di mare, e ampia pianura delle subite acque. Uno alto monte ne vae quivi alle stelle con due capi, lo quale hae nome Parnaso, e avanza i nuvili per altezza. In questo luogo arrivò con piccola navicella Deucalion con la consorta del letto, però che tutte l'altre cose avea coperte il mare. Qui adorano le ninfe coritide, e le deitadi de' monti, e Temi idia che dae le risposte de' fati, la quale allora teneva i tempi. Alcuno uomo non fue migliore di colui, nè che più amasse la dirittura; nè alcuna idea da avere più in reverenza che colei. Come Giove fece cessare il diluvio. Poi che Giove vide il mondo coperto d'acqua, e uno uomo e una femina essere scampati di tante migliaia, amendue innocenti, e amatori di dio; rimossi i nuvoli, e cacciate via le piove dal vento Aquilone, mostroe le terra al cielo, e l'aria a le terre; e non è più l'ira del mare: e Nettuno, lasciata la sua arme, mitiga l'acque; e chiamoe lo guidatore che stava sopra il mare, e che avea tinti li omeri di naturale colore, e comandogli che soffiasse col sonante corno, e che partisse l'acque dolci dal mare. Quegli prese lo cavo corno, il quale cresce dal turbamento di sotto; e quando hae riceuto aiuto nel mezzo del mare, ee udito dal levante e dal ponente: e quando toccoe la faccia dello dio gocciolante colla bagnata barba, e enfiato comandò che l'acque si partissono, fue udito dall' onde del mare e della terra; e tutte furono costrette. Come la terra si divide dall'acque per lo diluvio che viene meno. Già hae il mare lito, e riceve li pieni fiumi: la terra pare che si rizzi; i luoghi crescono, scemando l'acque; e dopo il lungo die, le selve mostrano le spogliate sommitadi, e tengono il fango rimaso in su le foglie. Come Deucalion parlò a Pirra sua moglie, e ella a lui; e come rifecioro la generazione umana. Lo mondo fue ristituito: lo quale poi che Deucalion vide voto, e le sconsolate terre menare alti taceri, con lagrime parlò in questo modo a Pirra: o serocchia, o moglie, o sola femina viva, la quale la generazione e 'l nascimento de' padri hae congiunta comune a me, poi mi t' hae congiunta il matrimonio, e ora i pericoli medesmi mi ti congiungono; noi due siamo la turba di tutte le terre che sono dal levante al ponente: tutte l'altre cose hae posseduto il mare; e ancora non è assai certa la fidanza de la nostra vita, ancora spaventano li nuvoli la mente mia. O misera! se tu fossi campata da la fortuna sanza me, che animo averesti tu ora? tu sola, ove potresti portare la tua paura? chi consolerebbe i tuoi dolori? Però che io, credi a me, se il mare t' avesse, o moglie, io ti seguiterei, che il mare averebbe me. Or volesse idio ch'io potesse riparare i popoli con l'arti del padre, e mettere l'anime nella formata terra! Ora rimane la generazione umana in noi due: così è piaciuto alli dei; e siamo esempro delli uomeni. Ebbe detto, e amindue piagneano; e piacque loro pregare la deità del cielo, e domandare aiuto per le sante risposte. Non fu alcuno indugio: andaro insieme all'onde di Cefisos; e no erano ancora liquide, ma partiano i conosciuti guadi. E poi che co' santi licuori ebboro bagnati i vestiri e 'l capo, e andarono al tempio della santa idea; le sommitadi del quale erano pallide per lo sozzo muschio: l'altari erano sanza fuoco. Poi che furono all'entrata del tempio, l'uno e l'altro s'inginocchiò alla terra, e con paura basciaro il gialato sasso, e così dissoro: se le vinte deitadi si raumiliano pelli giusti preghieri, se l'ira delli dei si piega, rispondi, idea Temi, con che arte sia da riparare il danno della generazione nosta, e, o umilissima, dà aiuto alle tuffate cose. La dia fue mossa, e diede la risposta: partitevi dal tempio, e copritevi 'l capo, e sciogliete i cinti vestiri, e gittate l'ossa della grande madre dopo 'l dosso. Lungo tempo si meravigliaro di questa risposta, e Pirra prima ruppe il tacere con voce, e rifiuta d'ubidire a' comandamenti della dia; e priegala con paurosa bocca che gli dea perdono, però ch'ella teme d'offendere l'anime delle madri con le gittate ossa. Intanto ripensano l'oscure parole della data risposta, e rivolgono intra loro. E Deucalion raumilia Pirra con piacevoli detti, e disse: o vero che noi abbiamo vano pensieri, o vero che le pietose risposte non ci faranno alcuno male. La grande madre ee la terra: io penso che le pietre siano dette l'ossa nel corpo della terra, e a noi è comandato di gittare questi dopo 'l dosso. Avvegna che Pirra fosse mossa per la sposizione del marito, tutta via la speranza ee in dubbio. In questo tanto si disfidano amindue de' celestriali ammonimenti: ma che ci nocerà il provare? Partonsi, e cuopronsi il capo, e tagliano i vestiri e gettansi dietro le comandate pietre. Chi potrebbe credere questo, se la vecchiezza nol testimoniasse? I sassi cominciarono a lasciare la loro durezza, e ammorbidati, avere forma. E poi cuminciarono a crescere, ebboro più morbida natura, e apparve in loro alcuna forma d'uomo; ma non ch'ella si potesse vedere manifesta, ma com' ella fosse cuminciata di marmo, e non fosse bene perfetta, e simigliante a nuove imagini. Tutta via quella parte di quegli che è umida per alcuno sugo, e fu di terra, si volse in uso di carne; quello ch'era saldo, e non si potea piegare, si mutoe in ossa; quella ch'era vena, si rimase in quel medesmo nome: e in piccolo spazio, per voluntà delli diei, i sassi mandati da le mani dell'uomo trassoro forma d'uomo, e la femina si trovoe fatta delle pietre ch'avea gittate la femina. Perciò siamo noi generazione dura, e provatori di fatiche; e diamo ammaestramenti di che origine noi siamo nati. Come la terra creò gli altri animali, cessante il diluvio, fuori che l'uomo. Gli altri animali partorio la terra in diverse forme per sua voglia, poi che 'l vecchio omore si riscaldoe dal fuoco del sole, e 'l fango e' molli pantani enfiaro per lo caldo, e gli abondevoli semi delle cose notricati nella viva terra, sì come nel ventre della madre, cuminciarono a crescere, e presoro alcuna faccia per la dimoranza. Così poi che 'l Nillo, che discorre da sette porti, lascioe li bagnati campi, e rendeo i suoi fiumi all'antico mare, e 'l fango ricente riscaldoe per lo caldo del sole; i lavoratori volgendo le zolle trovaro molti animali: in questi alcuni erano nati pure allotta, alcuni no erano compiuti, alcuni paiono troncati ne' loro omeri, e spesse volte in uno medesmo corpo una parte vive e l'altra parte ee rozza terra. E poi che sentiro la temperanza, e l'omore, e 'l caldo, ingenerano, e da questi due nascono tutte le cose: e avvegna che 'l fuoco sia contrario a l'acqua, l'umido vapore crea tutte le cose; e la discordevole concordia è acconcia a fare partorire. Come lo serpente Piton nacque della terra, e come Febo l'uccise. Addonqua poi che la terra, fangosa per lo ricente diluvio, si riscaldò per gli caldi del sole, partorio maniere sanza numero, in parte rinformoe le figure antiche, e in parte creoe nuove maraviglie. O grandissimo Pitone, allora ingenerò ella te, avvegna dio ch'ella non avesse voluto. O serpente non conosciuto, i nuovi popoli temeano te, tanto di spazio tenevi! Lo dio che tiene l'arco uccise costui con mille saette, e presso ch'egli non votoe lo turcasso, e mai non usoe di così fatte armi, se non contra dani e cerbi; e sparse il sangue per le nere fedite. E acciò che la fama dell'opera non potesse venire meno per antichità di tempo, ordinò santi giuochi con festereccia battaglia in questo die, chiamati pitei per lo nome del vinto serpente. A questo giuoco, qualunque vincea co' piedi e co le mani e co la ruota, ricevea l'onore d'essere coronato di frondi esculee. L'alloro non era ancora; e Febo cingea le belle tempie co' lunghi capelli d'ogne arbore. Favola di Febo e di Dafne. Lo primo amore di Febo fue Dafne figliuola di Peneo; lo quale non diede la fortuna, ma la crudele ira dell'amore. Febo insuperbito per lo serpente ch'egli avea vinto, nuovamente vide costui piegante l'arco con aperta corda, e dissegli: o gioioso fanciullo, che faresti tu colle forti armi? Questi si convengono a' miei omeri, lo quale posso dare certe fedite alla fiera, posso dare le fedite al nemico; lo quale uccisi con saette sanza numero l'enfiato serpente Pitone, che premea così grandi ispazi di terra con mortale ventre. Tu sii contento d'infiammare non soe quali con la tua fiaccola, e non t' impacciare nelle mie lode. Lo figliuolo di Venus rispuose a costui, e disse: o Febo, pogniamo che lo tuo arco ficchi tutte le cose, lo mio ficcherà te; e quanto tutti li animali danno luogo a dio, tanto ee la tua grolia minore che la mia. Ebbe detto; e, offesa l'aria colle percosse penne, solicito stette nell'altezza del monte Parnaso, e trasse del turcasso due dardi di diverse opere; l'uno caccia l'amore, l'altro il fa venire. Quello che 'l fa venire è inorato, e risprende con l'auta punta; quello che 'l caccia è rintuzzato, e sotto l'asta hae piombo. Questo ficcò lo dio in Dafne; e con l'altro offese Febo, forandoli l'ossa insino alle medolle. L'uno ama, l'altro fugge lo nome dell'amante, rallegrandosi de' nascondimenti delle selve e degli spogliamenti delle prese fiere, ed è seguitatrice della vergine Diana. La benda stringea i capelli posti sanza legge. Molti dimandaro lei: quella rifiutò coloro che la domandavano: impaziente, e sanza avere provato uomo, andava per li boschi; e non cura di sapere che sia lo dio de le nozze, nè che cosa sia amore, nè che si sia il matrimonio. Spesse volte le disse il padre: o figliuola, io debbo avere genero e nepoti di te. Quella, ch'avea in odio il matrimonio come 'l peccato, copria la bella faccia di rossore di vergogna, e gittandosi colle lusinghevoli braccia al collo del padre, disse: o carissimo padre, concedemi ch'io istea sempre vergine. Quelli le concede: ma questa tua bellezza non vuole che tu sii quello che tu disideri. Come Febo era fortemente innamorato di Dafne. Febo ama, e disidera il matrimonio de la veduta Dafne, e spera d'avere quello ch'egli disidera; e' suoi preghieri lo 'ngannano. E sì come le secche istipe ardono, venute meno le reste; e sì come le siepi ardono per le fiaccole, le quali lo viandante v' hae recate, o lasciate il die; così arde in tutto il petto, e notrica con isperanza lo vano amore. Egli ragguarda' disornati capelli pendere al collo, e dice: come sarebbono belli, se fossono pettinati! E vede li occhi simiglianti alle istelle risprendenti di fuoco; vede la piccola bocca, la quale non basta pur avere veduta; loda le dita e le mani e le braccia ignude più che mezze; e quelle che sono coperte pensa che siano migliori. Quella fugge più veloce che lo leggieri vento; e non si rattiene per le parole di Febo che la richiamava. Come Febo lusinga Dafne, che l'aspetti. O fanciulla, figliuola di Peneo, io ti priego che tu m' aspetti: io non ti seguito come nemico: fanciulla, aspettami. L'agnello così fugge il lupo, la cerbia così fugge lo leone, le colombe così fuggono con paurose penne l'aguglia; tutti li animali così fuggono i loro nemici. L'amore ee a me cagione di seguitarti. O me misero! io temo che tu inchinevole non caggi, e che le spine non graffino le gambe indegne d'essere offese, e ch'io non sia a te cagione di dolore. I luoghi per li quali tu t' affretti d'andare sono aspre. Io ti priego che tu corri più temperatamente: raffrena la fugga, e io ti seguiterò più temperatamente. Come Febo si loda di quattro cose, di ricchezza e di nobiltadi, di potenzia e di sapienza. Vogli almeno cercare a cui tu piaci. Io non sono abitatore di monte, io non guardo qui armenti nè greggi. O isciocca, tu non sai, o isciocca, tu non sai cui tu fuggi! A me serve la terra delfica, e Claros, e Tenedos, e Patera regale: Giove è mio padre; e manifestasi quello che ee, e quello che fue, e quello che sarà, per me: per me s'accordano i versi colle corde: la mia saetta ee certa; ma bene n'è una più certa, cioè quella ch'hae fatte le fedite nel mio vôto petto. Io trovai la medicina, e sono detto aiutatore per lo mondo; e la potenzia dell' erbe ee sottoposta a me. Oi me, che l'amore non si può medicare con erbe; e l'arti che giovano a tutti, non giovano al loro signore! Come Dafne fuggia Febo, e come si mutoe in alloro. La figliuola di Peneo si fuggìe con pauroso corso lui che volea ancora dire più cose, e lasciò con lui parole non compiute: allora li parea piacevole. I venti la scoprivano parte del corpo, e' contrari soffiamenti dimenavano i contrari vestiri, e lo leggieri vento levava alto i capelli dirietro. La bellezza era cresciuta per la fugga: ma lo giovane iddio non sostiene più di perdere le lusinghe; e, sì come l'amore l'ammonia, seguita l'orma con veloce passo. Sì come lo cane seguita la lievore, quando l'hae veduta nella pianura del campo, questi co' piedi domanda la preda, e quegli domanda salute; l'altro simigliante come s'egli li s'accostasse, e già spera di tenerlo, e strigne i piedi colla distesa bocca; l'altro ee in dubbio d'essere preso, e scampa da' morsi, e lascia la bocca che 'l tocca: così facea lo dio e la vergine. L'uno era veloce per la speranza; l'altra per la paura: ma pur quegli che perseguita, aiutato dalle penne dell'amore, ee più veloce, e niega riposo; ed ee sopra 'l dosso della fuggente, e soffia ne' capelli spartile nel capo. Quella impallidita, consomate le forze, e vinta per la fatica dell'affrettata fugga, guardando l'acque di Peneo, disse: o padre, dàmi aiuto, però che voi, fiumi, avete deità: o tu terra, nella quale io sono troppo piaciuta, mi divora; o tu muta questa figura, la quale fa ch'io sia offesa. Appena ebbe finito i preghieri, che uno grave freddo le prese i membri; il cuore fue cinto di sottile corteccia; i capelli diventano foglie, le braccia crescono in rami; lo piede, ch'era ora così veloce, si ferma in pighere barbe; la bocca hae la sommità; uno risprendore rimane in quella. Febo ama costei, e ponendo la mano diritta nel pedale, ancora sente tremare il petto sotto la nuova corteccia. E abbracciante i rami, sì come membra, con le sue braccia, dae basci al legno; ma pur lo legno rifugge i basci. Alla quale disse lo dio: poi che tu non puoti essere mia moglie, certo tu sarai mio arbaro: o alloro, io ti porterò sempre in sulla mia chioma, e alle mie cetere, e a' miei turcassi: tu sarai agli allegri signori, quando la lieta voce canterà lo triumfio, e quando le grandi pompe visiteranno i campidogli. Tu sarai fidatissima guardiana alle porti de' noboli, e difenderai la mezza quercia: e sì come lo mio giovane capo ee sempre con non tonduti capelli, così tu sempre porta perpetuali onori di foglie. Febo ebbe finito di dire: l'arbore parve che gli consentisse co' rami, e parve che crollasse la sommitade come 'l capo. Lo luogo ove Peneo dava le ragioni a' fiumi, e come' fiumi si raunaro quivi, e non sapeano se dovessero rallegrarsi o dolersi con Peneo per lo mutamento della figliuola. Uno bosco ee in Grecia, lo quale chiude d'ogne parte una alta selva. Li uomeni lo chiamano luogo dilettevole: per lo quale Peneo, uscente di sotto al monte Pindo, si volge con ischiumose acque, e ruinante con grave corso induce nuvili menanti gran fummi, e induce omore nell'alte selve, e col suono affatica i luoghi che non sono vicini. Qui ee la casa, qui sono le sedie, qui sono le cose segrete del grande fiume Peneo. Egli stanti in questi luoghi, in una spilonca fatta di scogli, dava le ragioni all'acque, e alle ninfe che cultivavano l'acque. Quivi si raccolsoro prima i vicini fiumi, e non sappeano s'eglino dovessoro fare allegrezza, o se dovessoro consolare il padre. Sperchio rapportante oppi, e lo non riposevole Enipeo, e Endano vecchio, e lo leno Anifisos e Eas: poscia vennero altri fiumi, i quali da quella parte che l'impeto gli porta menano con errori l'affaticate acque nel mare. Inaco solo vi manca; e riposto nella spilonca di sotto a crescere l'acque col pianto, e miserissimo piagne la sua figliuola Io, sì come perduta; e non sae s'ella sia viva o morta; ma quella ch'egli non truova in alcuno luogo, e teme nell'animo piggiori cose. Favola di Giove e di Io. Giove avea veduta Io tornante da Inaco suo padre, e avea detto: o vergine degna di Giove, e che farai beato non soe cui del tuo matrimonio, vae all'ombre di questi boschi, o vuoli di quelli (e aveaglile mostrate amindue) mentre che il sole era caldo, e era altissimo nell'alto cerchio. Ma se tu temi d'entrare sola ne' nascondimenti delle fiere, tu entrerai sicura ne' segreti luoghi de' boschi, essente iddio tua guardia; e non vile iddio, ma colui il quale tengo le signorie del cielo colla grande mano, e che mando le vaghe saette; e non mi fuggire: però ch'ella fuggia, e avea già lasciate le pasture lerne, e' campi litei coperti d'albori; quando iddio coperse l'ampia terra di grandissima nebbia, e ritenne lei che fuggia, e tolsele la virginità. Come Iuno discese del cielo, temendo l'inganni di Giove suo marito. Intanto Iuno guardò di sopra a mezz' i campi, e meravigliandosi che le subite nebbie aveano fatta faccia di notte nel mezzo die, non pensa che quelle siano di fiume, e non sente ch'elle siano uscite dell'umida terra. Guardò d'ogne parte per vedere lo suo marito ove fosse, sì come quella che molte volte avea trovati i suoi furti. Lo quale poi ch'ella non trovoe in cielo, discese dell'aria, e stette in terra, e comandò che le nebbie si partissono. Giove avea sentito dinanzi la venuta della moglie, e avea mutata la figliuola di Inaco in una bella giuvenca. La vacca ee molto bella: la figliuola di Saturno loda la bellezza della vacca, avvegna che mal volontieri, e simigliantemente domanda di cui ella sia, e di quale armento; sì come s'ella non sapesse il vero. Giove mentio ch'ella era nata della terra, acciò che l'autore non sia più cercato. La figliuola di Saturno domanda costei in donamento. Giove non sapea che si fare: crudele cosa gli parea dare colei cui egli amava; e non darla, parea cosa sospetta. La vergogna confortava che gli la desse; l'amore lo ne sconfortava. La vergogna sarebbe istata vinta dall' amore: ma se la vacca, leggieri dono, fosse stata negata alla compagnia della generazione e del letto, già potea non parere vacca. Donata che fue la puttana, la dia non lasciò tutta la paura: temeo Giove, e fue angosciosa per lo furto insino a tanto ch'ella non l'ebbe data a guardare ad Argo. Come Iuno diede in guardia la vacca ad Argo. Argo avea attorneato lo capo di cento occhi, e come la volta toccava, a due a due pigliavano riposo, e gli altri guardavano e stavano fermi nel loro officio. In qualunque luogo era Io, quivi ragguardava; e perch'egli fosse volto in altra parte, sempre avea Io dinanzi agli occhi: lo die la lascia pascere; e quando lo sole ee sotto l'alta terra, la richiude, e attornea lo capresto al non degno collo. Ella si pasce delle foglie delli arbori, e della amara erba, e disavventurata ispesse volte giace in su la terra ignuda in luogo di letto, e bee ne' torbidi fiumi. E quella umile, quando volle distendere le braccia ad Argo per chiederli mercè, no trovò braccia; e sforzandosi di lamentare, mugghiò, e temeo i suoi suoni; e fue ispaventata per la sua voce; e venne alle ripe di Inaco, ov' ella solea spesse volte giocare: e quando ella ebbe vedute le nuove corna nell'acqua, temeo, e sbigottita fuggio se medesma. Le serocchie naiade nolla conoscevano, e Inaco medesmo non conosce chi ella sia. Ma quella seguita il padre, e seguita le serocchie, e soffera d'essere toccata, e proferasi alle serocchie che la guatano. Lo vecchio Inaco le dava le segate erbe; e quella li leccava le mani, e dava i basci alle palme del padre; e non ritiene lagrime; e, s'elle potesse favellare, domanderebbe aiuto, e direbbe il nome suo e la disavventura sua. Ma la lettera, la quale lo piede fece nella polvere in luogo di parole, appalesò lo tristo dimostramento del mutato corpo. Lo padre Inaco grida: o me misero! e avventandosi alle corna della piagnente e bella giuvenca, raddoppia il dire: o me misero! O figliuola mia, e non hoe io cercato di te per tutte le terre? Tu non trovata se' ritrovata; prima era minore il dolore. Tu taci, e non rendi risposte a' miei detti; ma solamente meni i sospiri dall'alto petto; e, non potendo altrimenti parlare, rimugghi alle mie parole. Ma io ignorante apparecchiava a te camera di matrimonio; e la prima speranza ch'io avea di te era d'averne genero; la seconda, avere nepoti. Ora averai marito di gregge, e figliuoli di gregge, e non m' è licito di finire così grandi dolori con la morte; ma nuocemi d'essere iddio; e la chiusa porta della morte distende i miei pianti in perpetuale secolo. Argo, pieno d'occhi, manda via lui che piangea così fatte cose, e mena in diverse pasture la figliuola tolta al padre: ed egli si n'andoe in su uno alto monte, onde, sedendo, puote ragguardare in ogne parte. Come Giove mandò Mercurio per uccidere Argo, e come Mercurio l'uccise. Lo rettore delli dei non puote più sofferire che Io sostenga tanti mali: chiamoe lo suo figliuolo Mercurio, lo quale la bella Pleias gli partorio; e comandagli ch'egli uccida Argo. Questi sanza dimoranza fece de' piedi ale, e tolse la verga, che facea sonno, con la potente mano, e tolse lo cappello. Poi ch'ebbe ordinate queste cose, lo figliuolo di Giove saltò dalla rocca del padre in terra; e rimosse lo cappello, e lasciò le penne, e ritenne solamente la verga. Con questa, sì come pastore, mena le caprette per le ville: ebbele raunate appresso ad Argo, e cantò con strette sampogne. Argo, guardiano di Iunone, preso per la voce della nuova arte, disse: chiunche tu se', tu ti puoti riposare meco in su questo sasso: l'erba non è più abondevole in alcuno luogo al bestiame; e vedi l'ombra acconcia a' pastori. Lo nepote di Atlanta sedeo, e con lunghe novelle ritenne il die che se ne andava: e cantando, tenta di vincere colle giunte sampogne gli guardanti occhi. Quelli combatte per vincere i sonni; e pognamo che 'l sonno sia ricevuto d'alcuna parte delli occhi, dalla altra vegghia: e domanda, perchè la sampogna, e per che ragione sia trovata. Allora lo dio d'Arcadia disse: nelle fredde montagne, tralle fanciulle d'Arcadia, fue una bellissima fanciulla, la quale era chiamata Siringa. Quella non avea pure una volta iscerniti i satiri, e gli altri iddei che la seguitavano; ella ch'abitava nella isola Ortigia, e per la verginità onorava la dia Diana: e alzata a modo di Diana ingannerebbe altrui, e potrebbe essere creduta Diana, se questa no avesse l'arco di corno, e quella non l'avesse d'oro: e pur così ingannava altrui. Pan, uno idio della villa, vede costei tornante del monte d'Arcadia, e dicele cotali parole: o fanciulla, consenti al volere dello dio che si vole congiugnere teco. Molte cose li rimaneano a dire, cioè come la fanciulla, dispregiati i preghieri, era fuggita per le pianure insino a tanto ch'ella era venuta al piacevole fiume Ladone pieno di rena; come quivi impedito il corso dalle acque, pregò le discorrevoli serocchie che la mutassono; e come Pan, credendo avere presa Siringa, tenne le canne del pantano per lo corpo della fanciulla; e come, mentre ch'egli sospira, i venti mossi nelle canne fecioro sottile suono, e simigliante a persona che si lamentasse: e rimanevagli a dire, come Pan era preso per la nuova arte, e per la dolcezza della voce; e, come disse, che non avea altro consiglio che dire con lei; e come con così diseguali canne congiunte intra loro tennero il nome della fanciulla. Come Mercurio uccise Argo, e come Io per comandamento di Iuno fue menata dalla furia infernale per tutto 'l mondo. Mercurio, che avea ancora a dire ad Argo queste cose, vide tutti gli occhi chiusi, e' lumi coperti per lo sonno: incontanente ritrasse la voce, e mitigante gl'infermi lumi colla medicinale verga fermoe il sonno, e sanza indugio fedio con la ripiegata spada lui che dormia, in quella parte ove lo capo ee congiunto al collo; e gettalo insanguinato dal sasso; e macchia lo rotto scoglio di sangue. O Argo, tu giaci morto, ed ee spento lo lume che tu avevi tra cotanti occhi; e una morte prese cento occhi. La figliuola di Saturno tolse questi, e allogolli nelle penne del suo uccello; e empiegli la coda di stellate gemme. E incontanente fue adirata, e non indugiò lo tempo dell'ira: mise la crudele furia infernale nelli occhi e nell'animo di Io, puttana di Grecia, e nascosele i ciechi istimoli nel petto, e cacciolla fuggendo per tutto il mondo. Alla fine si n'andoe al Nilo; lo quale poi ch'ella ebbe toccato, poste le ginocchia nella margine della ripa, si chinoe, e dirizzata con l'arrivesciato collo, levando quel volto ch'ella poteo alle stelle, piangendo e lagrimando e mugghiando con molti suoni, parve che si lamentasse con Giove, e che lo pregasse ch'egli dovesse finire li suoi mali. Come Giove priega Iuno per Io. Quegli, abbracciante il collo della sua moglie, la priega, che gli finisca le pene, e ch'ella lasci ogni paura; e giurale per le paludi stigie, che costei mai più a lei non sarà cagione di dolore. Come Io prese la forma di prima. Poi che la dia fue raumiliata, Io riprese la forma di prima, e fue fatta quello ch'ella era dinanzi: le setole le fuggirono del corpo; le corna sparirono; la ritondità degli occhi fue fatta piue stretta, e non mugghiava più; ritornano gli omeri, e le mani; l'unghia si divise in cinque diti: niuna cosa rimane di vacca in quella, se non la bianca forma. La fanciulla, contenta dello uficio di due piedi, si dirizza; e temeo di parlare per non mugghiare a modo di vacca, e con paura dice mezze parole. Ora ee onorata festereccia dea della turba del Nilo. Qui comincia la favola di Feton figliuolo del Sole. Quinci si crede che sia nato Epafo del seme del grande Giove, e tiene li tempi congiunti al padre pelle cittadi. Feton, nato del Sole, fue eguale a costui di prodezza e d'etade; lo quale parlante gran cose, e non dante luogo a lui, e superbo per lo Sole suo padre, Epafo non sostenne, e dissegli: o pazzo, già credi ogne cosa a tua madre; see superbo per la imagine del falso padre. Feton arrossio; e per la vergogna raffrenò l'ira, e riportò a Climene sua madre quello che Epafo gli avea rimproverato; e disse: o madre, acciò che tu abbi cagione di maggiore dolore sono io libero, e quegli crudele, io stetti cheto: ee a noi vergogna che quelli disnori ci furono potuti dire, e non avere potuto contradire. Ma dìmi s'io sono creato della generazione del cielo, e dàmi segnale di così grande schiatta, e come io sia nato di dio. Ebbe detto, e puose le braccia in sul collo della madre; e pregolla per lo suo capo, e per quello di Meropis suo marito, e per li matrimoni delle serocchie, ch'ella li desse segnali del vero padre. In dubbio ee se Climene si mosse per li preghieri di Feton, o per lo peccato che le fue rimproverato. Ella porse l'uno e l'altro braccio al cielo; e guardando a' lumi del Sole, disse: o figliuolo, io ti giuro per quello sprendore nobile di risprendenti razzuoli, lo quale ode e vede noi, che tu see nato di quello Sole che tu vedi che tempera il mondo; e s'io dico cose non vere, ch'egli non mi si lasci vedere; e questo dì sia lo sezzaio a' miei occhi. E a te non ee grande fatica conoscere le case del tuo padre: la casa ond' egli nasce ee prossimana alla nostra terra: se l'animo til soffera, vavvi, e sapra'lo da lui. Feton lieto, dopo cotali detti della sua madre, subitamente risprende, e prese l'aria nella mente. E passa li suoi etiopi, e gl'indi posti sotto' fuochi delle stelle. Qui ee compiuto lo primo libro dell'Ovidio. Qui cumincia lo secondo libro dell'Ovidio. E scrive com' è fatta la casa del Sole. La casa regale del Sole era dirizzata in su alte colonne, chiara con risprendente oro e con piropo e seguitante a le fiamme; lo chiaro vivorio della quale tenea la sommitade; le porti risprendeano di lume d'ariento. L'opera vincea la materia: perchè Vulcano avea quivi scolpiti i mari che attorneano la ritundità delle terre, e 'l cielo che soprasta al mondo. L'acqua hae quivi gli diei marini, Tritono cantevole, Proteo dubbioso, e Egeona premente i grandi dossi delle balene colle sua braccia, e Dorrida, e le figliuole, parte delle quali pare che nuoti, e parte sedente in sul monte pare che rasciughi i verdi capelli, e parte pare che sia portata dal pesce. Tutte non hanno una faccia, e non l'hanno diversa, ma chente si conviene essere delle serocchie. La terra sostiene uomeni, e cittadi, e selve, e fiere, e fiumi, e ninfe, e altri idiei della villa. Sopra queste cose dette ee posta la imagine del grande cielo: e sono sei segnali dalla parte diritta, e altrettanti dalla manca. Come Feton entrò nella casa del Sole per favellargli. Al quale luogo poi che 'l figliuolo di Climene fue venuto per inchinata via, e entrò nella casa del dubitato padre, incontanente si dirizzò verso il volto del padre, e stette da lungi, però che non sofferiva i lumi suoi più da presso. Lo Sole sedeva adornato in su la sedia di vestiri di porpora, risprendente di chiare pietre smeraldine. Dalla parte diritta e dalla manca erano i dì, e 'l mese, e l'anno, e' secoli, e l'ore poste con iguali spazi. La nuova primavera istava cinta con fiorente corona: la state istava ignuda, e portava corone di spighe: e stava lo brutto autunno colle calcate uve; e 'l verno pieno di ghiaccio, ch'avea arruffati i canuti capelli. Come 'l Sole domanda Feton, perch'egli ee venuto a lui; e come Feton glile dice, e chiedeli a menare i carri suoi. Da quello luogo lo Sole, essente nel mezzo, vide il giovane temente per la novità delle cose, con li occhi co' quali vede tutte le cose; e dissegli: o Feton mio, figliuolo da non dovere essere negato dal padre, qual fue a te la cagione di questa via, e che hai tu addomandato per questa arte? Quegli rispuose: o comunale luce del grande mondo, o Sole padre, se tu mi concedi l'uso di questo nome acciò che Climene non celi la colpa sotto falsa imagine, o padre, dàmi pegni per li quali io sia creduto tuo vero figliuolo, e trai l'animo mio di questo errore. Ebbe detto. Ma lo padre puose giù i razzuoli che gli risprendeano dintorno a tutto 'l capo, e comandogli che gli andasse più presso: e abbiendolo abbracciato, li disse: tu non se' degno d'essere negato d'essere mio; e Climene ti manifestò li veri nascimenti. E acciò che meno ne dubiti, chiedi quale dono tu vogli, e io lo ti darò. E tu pantano dello inferno, per lo quale giurano li diei, non conosciuto da' miei occhi, sii testimonio della promessa. A pena ebbe finito di dire, che quelli domandò i carri del padre, e la signoria e 'l temperamento de' cavalli che hanno ale ne' piedi a far dì. Lo padre si pentò avere giurato; e crollante tre volte e quattro lo risprendente capo, disse: la mia promessione ee fatta scioccamente per la tua domanda. Volesse iddio che mi fosse licito negare quello ch'io hoe promesso. O figliuolo, io ti confesso ch'io ti negherei questa sola cosa. Èmi licito di sconfortartine. O Feton, la tua volontà non è sicura: tu domandi grandi cose, e doni che non si convengono a queste forze, nè a così teneri anni. La tua fortuna ee mortale: quello che tu domandi non è cosa che si convegna ad uomo. Egli è maggiore fatto, che no si conviene alli idiei. Tu non sai quello che tu disideri: pognamo che ciascuno si vanaglori della sua signoria, non è alcuno che possa stare in sul carro del fuoco, fuor ch'io. Lo rettore del grande cielo, lo quale lancia le crudeli saette con la terribile mano diritta, non moverebbe questi carri: e che cosa ee maggiore che Giove? Come lo Sole vole sconfortare Feton, ch'egli non voglia menare i carri. La prima via ee alta; nella quale a pena saliscono la mattina i ricenti cavalli. Quella del mezzo ee altissima; onde io medesmo spesse volte hoe paura di guardare lo mare e le terre, e 'l petto triema con dubbiosa paura. L'ultima via ee inchinevole; e abbisogna di certo temperamento. Allora il mare, che mi riceve colle sottoposte onde, teme ch'io non vi caggia entro. E aggiungi che 'l cielo ee menato con ispesso volgimento, e trae l'alte stelle, e tormentale per lo veloce volgimento. Io vo contra lui; e egli, che vince l'altre cose, non vince me: e sono portato contrario al veloce fermamento. Pognamo ch'io t' abbia dato il carro: potrai tu andare contra 'l cielo che si volge, che 'l veloce fermamento non ti ne meni? E forse che l'animo vedrà quivi i boschi, e le cittadi delli dei, e' tempi ricchi di doni. Converrassi andare per agguati, e per forme di fiere: e avvegna che tu tegni la diritta via, e non si tratto per alcuno errore, tu pur andrai verso' corni del contraposto toro, e verso gli archi di Tessalia, e contra la bocca del crudele leone, e contra lo scarpione piegante le crudele braccia con lungo attorneamento, e contra il cancro che piega le braccia altrementi. E tu non se' pronto a reggere i cavalli animosi per li fuochi ch'egli hanno nel petto e che soffiano per la bocca e per le nari. Poi che gli acerbi animi sono riscaldati, appena sofferano me: è 'l collo contrario alle redene. Ma tu, figliuolo, provedi ch'io non a te sia datore di mortali doni: e mentre che 'l tempo ti lascia, correggi il tuo volere. Tu domandi certi pegni per credere che tu sii nato del nostro sangue: io ti do certi pegni temendo; e manifestasi ch'io sono tuo padre pella paura ch'io hoe di te. Ecco, guata il mio volto. Iddio volesse che tu potessi mettere i tuoi occhi nel mio petto, e conoscere dentro la mente di tuo padre! Finalmente ragguarda dintorno ciò c' hae il ricco mondo; e di tanti e di così grandi beni del cielo e della terra e del mare domanda alcuna cosa: niuna cosa ti sarà disdetta. Priegoti che solo questo tu non vogli; che è per nome pena e non onore. O Feton, tu domandi pena in luogo di dono. O isciocco, perchè tieni lo mio collo colle tue lusinghevoli braccia? Non dubitare, che ti sarà dato ciò che tu vorrai. Noi abbiamo giurato per l'onde stigie. Ma io ti priego che tu disideri più saviamente. Ebbe finiti gli ammunimenti. Ma quegli contasta a' suoi detti, e raddomanda la cosa promessa, e arde per lo disiderio del carro. Addonqua lo padre, abbiendo indugiato quanto poteo il più, mena il giovane agli alti carri, doni di Vulcano. Come è fatto lo carro del Sole. Lo carro era d'oro; lo temone d'oro; la piegatura della ruota era d'oro; l'ordine de' razzuoli d'ariento. I crisoliti, cioè certe pietre preziose, e le gemme poste secondo ordine per li luoghi, rendevano chiari lumi, percosso lo Sole. E mentre che 'l magnanimo Feton si maraviglia per quelle cose, e ragguarda l'opera, ecco la vegghievole aurora manifestò le porti della porpora dal risprendevole nascimento, e' palagi pieni di rose. Le stelle fuggono; le schiere delle quali raccoglie la stella diana, la quale esce dirieto a l'altre della magione del cielo. Come lo Sole ammaestra Feton per quale via egli meni i cavalli, e com' elli si porti. Ma quando lo padre vide arrossire le terre e 'l mondo, e' corni dell'ultima luna quasi essere spariti, comanda alle veloci ore che giungano i cavalli. Le frettolose iddie fanno i comandamenti, e menano i cavalli che vomicano fuoco, satolli nell'alte mangiatoie dell'erba ambrosia, e mettono loro i risonanti freni. Allora lo padre con santo medicamento toccoe la faccia del suo figliuolo, e fecela essere paziente della veloce fiamma: e puose i razzuoli alla chioma: e ripetente i sospiri, segni di pianto, dal solicito petto, disse: o fanciullo, se tu puoti almeno ubidire a questi ammunimenti del padre, priegoti che perdoni alli sproni; e più fortemente usa de' freni. I cavalli s'affrettano per loro voglia: fatica ee a costringere coloro che vogliono. E non ti piaccia la via per li cinque dirizzati archi. La via ee fatta in contro con largo piegamento, contenta dello spazio di tre correggie, e fugge lo cielo australe e la maggiore orsa giunta agli aquiloni. Quinci va: tu vedrai le manifeste orme della ruota. E acciò che 'l cielo e la terra sostengano iguali calori, non menare lo carro troppo basso nè troppo ad alti. Andando troppo in alto, arderai i segnali del cielo; e troppo basso, arderai le terre: ma per lo mezzo andrai sicurissimo. E guarda che la ruota dal lato del settentrione non ti meni al tormentato serpente, e quella del merizzo non ti meni alla premuta altari: tieni per lo mezzo. L'altre cose io accomando alla fortuna; la quale io disidero che t' aiuti, e che ti consigli meglio che non t' hai consigliato tu. Mentre ch'io parlo, l'umida notte hae toccati i termini posti nel lito d'Italia: la dimoranza non ci è libera: noi siamo addomandati: e l'aurora risprende, e caccia via le tenebre. Piglia i freni con la mano: ma se tu hai mutevole petto, usa de' nostri consigli, e non de' carri, in sino a tanto che tu puoti, e see ancora nelle sedie ferme, e mentre che tu ignorante non priemi gli male disiderati carri. Lascia dare me i lumi alle terre, gli quali tu sicuro ragguardi. Come Feton salio in sul carro, e ringraziò il padre. Quegli prese col giovane corpo lo lieve carro; e sta sopra esso, e rallegrasi di toccare con le mani le date redine; e quindi fa grazie al non voluntaroso padre. Come Feton non seppe menare il carro. Intanto i veloci cavalli del Sole, Piron, Eoe, Eton, e 'l quarto Flegon, riempiono i venti con anitriri pieni di fiamme, e picchiano le stange con piedi. Le quali poi che Tetis, ignorante de' fati del nepote, levoe via, e fue loro fatta copia del grande mondo, presoro la via, e mossi i piedi per l'aria, squarciano le contraposte nebbie, e, levate le penne, passano i nati euri delle parti d'oriente. Ma lo peso era piccolo, e da no essere conosciuto da' cavalli del Sole; e 'l giugo non sosteneva l'usata gravezza. E sì come le cave navi si crollano sanza giusto peso, e sono portate no ferme per lo mare per la troppa leggierezza; così per lo non usato incarico lo carro dà i salti per l'aria, ed è simigliante al voto. Ma quando i cavalli l'ebbero sentito, ruvinano, e lasciano l'usata via, e non corrono per l'ordine che correano prima. Egli hae paura, e non sae da qual parte debbia piegare le redine che gli sono commesse, nè qual sia la via; e perchè la sapia, non comanda loro. Come certi segnali del cielo freddi si riscaldaro per lo caldo del Sole. Allora da prima si riscaldaro per li razzuoli i gialati settentrioni, e indarno si tentaro di mollarsi nel vietato mare: e 'l serpente ch'ee posto prossimano al freddo cielo, prima pigro per lo freddo, e da non temere, allora si riscaldò, e per li calori ricevette nuove forze. E dicono gli uomini che Boote si turboe, e fuggio: e pognamo che fosse tardo, i suoi carri portavano lui. Come Feton si penteo della impresa sua; e come egli temea. Ma quando lo sventurato Feton ragguardò le terre dalla somma aria molte abbattute, impallidio, e subitamente gli tremaro le ginocchia, ed ebbe le tenebre negli occhi per così grande lume: e già vorrebbe non avere mai toccati i carri del padre; già si duole avere conosciuta la sua generazione, e avere potuto pregando; già vorrebbe essere detto figliuolo di Meropis. Così ee portato come la nave costretta dal rapido Borea, abbandonata dal suo maestro, e lasciata alli diei e alla fortuna. Che farà costui? Molto del cielo s'avea lasciato dirietro; e più n'avea dinanzi agli occhi. Con l'animo misura l'uno e l'altro spazio. Alcuna volta ragguarda in occidente, ove non gli è licito di toccare: alcuna volta in oriente. Non sae che si fare: meravigliasi; e non lascia i freni, e non gli puote tenere; e non sae i nomi de' cavalli. Vede le sparte meraviglie nello svariato cielo, e pauroso vede le forme de' grandi segnali. Come Feton per paura dello scarpione lasciò i freni; e come i cavalli andavano alto e basso, come piaceva loro. Luogo ee ove lo scarpione piega le braccia in due archi; e, piegando le braccia dall'una e dall'altra parte, porge i membri in spazio di due segnali. Poi che 'l fanciullo vide costui, bagnato del sudore del nero veleno, minacciante fedite con la piegata coda, povero d'animo, per la gialata paura lascioe i freni. Gli quali poi che' cavalli sentiro giacere nel sommo dosso, presoro spazio; e, niuno costringentegli, vanno per li venti di non conosciuta regione; e ove la volontà gli trae, colà ruinano sanza legge: e corrono verso le stelle fitte nell'alto fermamento, e menano il carro per li larghi luoghi. E ora domandano l'alte cose, e ora le basse; ora vanno per la via ch'è più prossimana alla terra. E la luna si meraviglia che' cavalli del fratello corrono di sotto a lei: e' riscaldati nuvoli fummano. La terra profondissima ee fessa per le fiamme, e ee fatta secca per li omori che le sono tolti. Le pasture imbiancano: l'arbore ee arso colle foglie; e la secca biada dà matera al suo danno. Io mi lamento di piccole cose. Le grandi cittadi periscono colle loro mura; e li incendi volgono tutte le genti co' loro popoli in cenere: le selve co' monti ardono. Arde lo monte Atos, e Taurus, e Cilice, e Oete; e Ide allora fu secca, che prima era abbondevoli di fonti; e Elicon, fonte di vergini; e Emon, non ancora detto d'Oegrio padre d'Orfeo. Arde raddoppiati i grandi fuochi di Mongibello, e Parnaso con due capi, e Erix, e Cinto, e Otrix, e Rodope, che finalmente fue senza neve; e Mimas, monte in Asia, e Dindima, montagne di Troia, e Micale, e Citeron, monte fatto per li sagrifici di Bacco. E a Sitia non giovarono i suoi freddi: Caucaso arde, e Ossa con Pindo, e Olimpo maggiore d'ammendue, e l'alpi che sono in aria, e appennino pieno di nebbie. Della pena che sostenea Feton; e come' fonti e' laghi e' fiumi si seccarono. Ma Feton allora vide lo mondo acceso da ogni parte, e non puote sostenere così grandi caldi; e trae colla bocca i boglienti venti, come di profonda fornace; e sente i suoi carri arroventare; e non puote più sostenere la cenere e le faville gittate fuori; e da ogni parte si volge nel caldo fummo: e, coperto d'oscura caligine, non sae ove vada, nè ove sia; e ee menato a volontà de' veloci cavalli. Allora si crede che' popoli d'Etiopia, chiamato il sangue nella buccia di fuori, da prima avessono il nero colore: allora Libia, perduti li omori, ee fatta arida per lo caldo: allora le ninfe, e le fonti, e' laghi piansoro, perdute le loro capellature. Boezia addomanda la fonte Dircen; la città Argos, la fonte Amimone; Nefire, l'onde Pirenide. Nè' fiumi, che hanno acquistate discordanti ripe, stanno sicuri in alcuno luogo: Tanais fumava nelle mezze onde; e 'l vecchio Penneo, e Teutranteo, e Caico, e 'l veloce Ismenis col Focaico Erimanto, e Xanto che ardea un'altra volta, e 'l biondo Licormas, e Meander che giuoca nelle ripiegate onde, e Melas di Midonia, e Eurotas di Tenaria. E arse Eufrates di Babbilonia, e arse Orontes, e lo veloce Parmedon, e Ganges, e Fasis, e Ister. Alfeo si sboglienta; e le ripe Sperchiade arsono; e oro che 'l Tago mena per lo suo fiume. E' cecini, che stanno allato a' fiumi, i quali guardaro le ripe di Troia, si riscaldaro nel mezzo d'Asia. Lo Nilo spaventato si fuggio nell'ultima parte del mondo, e nascose lo capo suo, e ancora ee nascosto: sette porti polverosi sono voti; sette valli sono sanza fiume. Quella medesma fortuna seccoe i fiumi di Trazia, Ebro, e Strimona; e' fiumi d'Italia, lo Reno, e Rodano, e 'l Po, e 'l Tevere, al quale fue promesso lo 'mperio del mondo. Come Pluto e la moglie temero, e li diei del mare. Tutta la terra s'aperse; e per le fessure lo lume passò a l'inferno, e spaventoe lo re de l'inferno con la moglie sua. E 'l mare sbigottio: e quello che poco dinanzi era mare, diventoe campo di secca arena: e' monti si scopriro, i quali l'alto mare avea coperti; e accrescero le sparte isole. I pesci fuggono a fondo; e' piegati delfini no ardiscono di levarsi sopra l'acque contra gli usati venti. Gli corpi delle foce nuotano tramortiti arrivescio nel sommo mare. Dicesi che Nereo e Dorida, e le figliuole, si nascosono sotto le tiepide acque. Nettuno tre volte ardio di trarre le braccia dell'acque con crudele volto, e tre volte non sostenne i caldi dell' aria. Come la Terra si lamenta di Giove, che non mette rimedio a tanto pericolo. Ma la santa Terra, sì come era intorneata dal mare intra l'acque del mare e delle fonti ch'ella avea tratte in se, le quali s'erano nascoste nelle interiore della oscura madre, arida levoe lo volto sostegnente tutte le cose, e puose la mano alla fronte, e con grande tremore iscotente tutte le cose, sedette alquanto di sotto, e fue più giù ch'ella non suole essere; e così parlò con santa voce: o sommo dell'iddiei, se questo ti piace, e io l'hoe meritato, perchè si cessano le tue saette? Sia licito a me che debbo perire per le forze del fuoco, perire per lo tuo fuoco, e alleggiare la pistolenza per l'autore. In verità, che a pena io posso aprire le mascelle in queste parole: lo caldo m' ha costretta la bocca: ecco, ragguarda gli arsi capelli: io hoe lo fummo negli occhi; le faville mi volano sopra la faccia. Rendimi tu questi frutti; rendimi tu questo onore dell'abbondanza e dell'oficio mio, perch'io sostegno le fedite del rauncinuto arato e de' marroni, e sono lavorata tutto l'anno? Perch'io apparecchio al bestiame le foglie, e all'umana generazione i frutti e le biade, e a voi medesmi gl'incensi? Ma pognamo ch'io abbia meritata la morte: che hanno meritato l'acque, che hae meritato Nettuno tuo fratello? I mari dati a lui per sorte perchè scemano, e sono dilungati dal cielo più che non sogliono? Ma se l'amore del tuo fratello, e 'l mio, non ti tocca, almeno abbi misiricordia del tuo cielo: ragguarda d'ogne parte l'uno e l'altro cielo, però che amendue fummano. E se saranno offesi dal fuoco, i vostri palagi caderanno. Ecco, Atalas medesmo s'affatica, e appena sostiene co' suoi omeri lo rovente fermamento. Se' mari, e se le terre, e se la casa regale del cielo periscono, noi siamo confusi nell'antica confusione: scampa delle fiamme quello cotanto che non è arso; e consiglia agli elimenti che sono rimasi. La Terra ebbe dette queste parole; però ch'ella non potea sostenere più il caldo, nè dire più cose: e recò la sua bocca in se medesma, e nelle spilonche più prossimane agli diei infernali. Come Giove uccise Feton. Ma l'onnipotente padre giuroe per tutti gl'iddiei, e per colui che avea dati i carri, che s'egli non dae aiuto, che tutte le cose morranno di grave morte. Egli andoe ad alti nella somma rocca, onde suole mandare le nebbie all' ampie terre, onde muove i tuoni, onde gitta le crollate saette: ma non trovò nebbie ch'egli potesse mandare alle terre, nè piove che potesse mandare dal cielo: ma egli tonoe; e lanciò lo dardo crollato con la mano diritta dall'orecchie nel menatore del carro; e a un'otta lo cacciò dell'anima e delle ruote, e costrinse i fuochi co' crudeli fuochi. Gli cavalli furono abbattuti, e fecioro il salto a dietro; trassoro i colli dal giugo, e lasciano i rotti freni. Dall'una parte giacciono i freni, da l'altra il carro divelto dal timone, e dall'altra i razzuoli delle rotte ruote; e 'l componimento del lacerato carro ee sparto ampiamente. Ma Feton fue molto rivolto, ardendo la fiamma i biondi capelli, e portato per l'aria per lungo tratto; sì come la stella alcuna volta del sereno cielo, pognamo che non sia caduta, poteo parere essere caduta. Lo quale, di lungi dalla patria, lo grande Po ricevette in istrana parte del mondo, e lavògli la fummante faccia. Le die delle fonti d'Italia sotterraro lo corpo fummante di tre fiamme, e con questi versi segnaro il sasso: Qui giace Feton, menatore del carro del padre; lo quale, avvegna che non temesse, morio per grande ardire. Come 'l Sole mostrò dolore della morte di Feton; e come Clumene pianse, e le serocchie sue lo piansoro, e come si mutaro in albori. Lo miserevole padre già avea nascosto lo volto coperto per lo infermo pianto: e, se noi lo vogliamo credere, gli uomini dicono che uno die passoe sanza essere sole: gl'incendi davano lume, e furo alcuna utulità in quel male. Ma Climene, poi ch'ebbe dette tutte le cose che furo da dire in così grandi mali, piagnevole e sanza mente, e abbiente stracciato il petto, cercò tutto 'l mondo: prima cercando per li tramortiti membri, poscia per l'ossa; e finalmente trovò l'ossa riposte in istrana terra. Stette sopra luogo; e imbagnoe di lagrime lo nome letto nel marmo, e notricolle co l'aperto petto. E le serocchie non piangono meno, e danno le lagrime, doni vani alla morte: e percuotono i petti colle palme; e chiamano lo die e la notte Feton, che no udirà i miseri lamenti; e distendonsi in sul sepulcro. La luna quattro volte avea ripieno il mondo con le giunte corna. Quelle a loro costume, però che l'uso avea fatto il costume, aveano pianto: delle quali Fetusa, maggiore delle serocchie, vogliendosi chinare in terra, si lamentò che' piedi le inaspriro: alla quale sforzandosi di venire la bella Iapezie, fue ritenuta per subita radice: la terza, vogliendo con le mani stracciare i capelli, divelle frondi: l'altra si lamenta che le sue gambe sono diventate pedale: l'altra si doleva che le braccia sue erano fatte lunghi rami. E meravigliandosi per queste cose, la corteccia abbraccia il pettignone, e a grado a grado attornea il petto e gli omeri e le mani: e rimanevano solamente le bocche, che chiamavano la madre. Che farà la madre? se non andare qua e colà, ove la furia la mena? e mentre che le è licito, giungere i basci? Questo non basta: ella tenta di divellere i corpi da' pedali, e rompe i teneri rami con le mani; ma quindi escono gocciole sanguinose, sì come di fedita. E qualunche di loro ee fedita, grida: o madre, io ti priego che tu mi perdoni: perdonami, priegotene: lo nostro corpo ee lacerato nell'albore. Già disse la corteccia nell'ultime parole: a dio t' accomando. Quindi escono lagrime; le quali stillate per lo sole indurano, e diventano elettre con nuove rame; le quali lo chiaro Eridano riceve, e mandale a portare alle donne latine. Come Cecine, piangendo per la morte di Feton, si mutò in cecine uccello. A questa meraviglia fue presente Cecine figliuolo di Stellene, lo quale, avvegna che fosse parente di Feton dal lato della madre, più fu suo parente dell'amore del cuore. Quegli, lasciata la signoria; però che avea retto popoli di Lombardia, e grandi cittadi; avea ripiene le verdi ripe e 'l fiume Eridano di lamenti, e le selve cresciute per le serocchie. Al quale uomo la voce fue assottigliata, e' capelli diventaro bianche penne; lo collo si distese di lungi dal petto; la congiungitura legoe gli rossi diti; le penne copriro il lato; lo becco sanza punta tiene la bocca. Fue fatto Cecine nuovo uccello: e non si credette al cielo nè a Giove, ricordatore del fuoco ch'egli mandò indegnamente. Domanda gli stagni e' laghi aperti; e hae in odio il fuoco, e hasi eletti i fiumi contrari alle fiamme. Come 'l Sole, adirato per la morte di Feton, non voleva menare i carri, nè alluminare più il mondo. Intanto lo nero padre di Feton, e sanza parte della sua chiarità, chente egli suole essere quando manca al mondo, e hae in odio la luce, e se, e 'l die: dà l'anima ne' pianti, e aggiunge l'ira a' pianti, e niega l'oficio al mondo. Disse: assai ee stata la mia fortuna sanza riposo da' principii del mondo insino a questo dì; e mi pesa delle fatiche ch'io hoe portate sanza fine e sanza onore. Qualunche altro vuole, meni i carri che portano i lumi. Se neuno uomo ee che gli possa menare, e tutti gl'iddiei confessano che non possono, menilo Giove; e quando tocca le nostre redene, lasci alcuna volta le saette che accecano i padri. E quando egli avrà provate le forze de' cavalli che portano fuoco, saprà che colui che non resse bene quegli, non meritoe la morte. Come tutti gl'iddiei pregaro il Sole che menasse il carro, e Giove lo pregò e minacciollo; e com' egli riprese l'uficio suo. Tutti gl'idiei stettero dintorno al Sole che dicea così fatte parole; e con umile voce lo priegano, ch'egli non voglia indurre tenebre alle cose. E Giove si scusa de' fuochi ch'egli mandò; e a' preghieri aggiunge minacce, come si conviene al re. Quegli raccoglie i pazzi cavalli, e ancora ombrosi per la paura; e doglientesi, incrudelisce con li sproni e con la battitura: in verità egli incrudelisce, e rappresenta loro lo figliuolo, e pensa ch'egli sia morto per loro colpa. Come Giove cercò il cielo che non fosse guasto per l'arsione, e ristituio alle terre quello ch'elle avieno perduto. Ma l'onnipotente padre cerca per tutto 'l cielo per sapere se alcuna cosa vi fosse guasta per le forze del fuoco. Poi ch'egli ebbe vedute tutte le cose ferme e di loro fortezza, ragguardò le terre e le fatiche delli uomini. Ma ebbe maggiore studio nella sua Arcadia; e ristituio le fonti e' fiumi che no ardivano ancora di correre; e dae l'erbe alla terra, le frondi agli arbori; comanda che l'offese selve rinverziscano. Favola di Giove e di Calisto. Mentre ch'egli va e ritorna spesso, si fermoe in Calistone, vergine d'Arcadia; e lo ricevuto amore si riscaldò dentro all'ossa. L'oficio di costei no era filare la lana, nè acconciarsi la chioma; lo vestire della quale costringea la fibbia; la bianca benda costringea i disornati capelli: e alcuna volta avea il dardo nella mano, alcuna volta l'arco. Compagnia era della dea Diana; e non fue alcuna nel monte Menalon che più di costei piacesse a Diana. Ma niuna potenzia basta nel mondo. Lo sole era più oltra che 'l mezzo cielo, quando quella entrò nel bosco, lo quale di neuno tempo era stato tagliato. Questa si levò dal lato il torcasso, e distese lo lento arco; e giaceva nella terra tessuta dall'erba; e tenea sotto 'l capo lo dipinto torcasso. Come Giove ebbe a fare di Calisto. Poi che Giove vide costei lassa e sanza alcuna compagnia, disse: certo la moglie mia non saprà questo furto: e perch'ella lo sapesse, debbo io tanto temere lo suo garrire? Incontanente si trasfigurò nella faccia e nell'abito di Diana, e disse: o vergine, una parte delle mie compagnie, in quali giughi hai tu cacciato? La vergine si levò dell'erba, e disse: o iddea, dio ti salvi, al mio parere maggiore che Giove, avvegna che Giove oda me. Giove ride, e ode, e rallegrasi d'udire innanzi porre se a se; e giunge basci non assai temperati, nè da dovere essere così dati da vergine: e impedisce con l'abbracciamento colei che s'apparecchiava di narrare in qual selva ella avea cacciato; e non si mostra sanza peccato. Quella si difende quanto puote il più, e quanto femina dè potere. O figliuola di Saturno, volesse dio che tu la vedessi! tu saresti più umile. In verità, quella combatte: ma quale fanciulla puote vincere? e chi potrebbe vincere Giove? Giove vincitore se ne va in cielo. A costei ee in odio la selva e 'l bosco ov' ella avea peccato: e uscente di quella, ebbe quasi che dimenticato il torcasso con li strali, e l'arco ch'ella avea appiccato. Come Calisto si vergognò quando vide Diana e l'altre ninfe. Ecco la dia Diana con la sua compagnia entrare per l'alto monte Menalon, e, superba per lo tagliamento delle fiere, vede costei; e veduta, la chiama. Quella, chiamata, fugge; e da prima temeo che Giove non fosse in lei. Ma poi ch'ella vide le ninfe andare ugualemente con lei, sentio che non v' erano inganni, e venne alla dea di costoro. O come ee malagevole cosa non manifestare lo peccato nel volto! Ella a pena leva gli occhi dalla terra; e non è congiunta al lato della vergine, com' ella solea dinanzi; e non fue la primaia in tutta la schiera. Ma ella sta cheta, e col rossore dà segnali dell'offesa castità. E se non che Diana ee vergine, potea sentire la colpa per mille segnali. Dicesi che si n'avvidoro le ninfe. Come Diana e l'altre ninfe s'avvidoro del peccato di Calisto; e com' ella fue cacciata da loro compagnia. I corni della luna si rilevavano già nove volte, quando la dea, tormentata per le fiamme del fratello, entroe in uno gialato bosco, del quale con mormorio discorrea uno rio che volgea le trite arene. Poi che la dia ebbe lodati i luoghi, toccò l'acqua di sopra col piede, e disse: noi non siamo vedute da alcuna persona; laviamo gli nostri ignudi corpi nell'acque. Calisto arrossio: tutte l'altre si spogliaro: questa sola s'indugiava. Lo vestire fue tolto a lei che dubitava: la quale essente spogliata, lo peccato si manifestò nello ignudo corpo. Diana disse a lei spaventata, e che volea celare il corpo con le mani: vae di lungi quinci, e non bruttare le santi fonti. E comandò ch'ella si partisse della sua compagnia. Come Iuno mutoe Calisto in orsa. La donna del grande tonatore ebbe sentito questo, e avea indugiato di farnele sostenere pene in convenevoli tempi. Non fu più cagione d'indugio: e già il fanciullo Arcas, per questo era nato di lei, Iuno si ne doleo. La quale, poi ch'ell'ebbe volta la crudel mente con lume, disse: o adoltera, dunqua ci rimanea questa sola cosa, che mi fosse fatta ingiuria per lo parto, acciò che fosse testimoniata la colpa e disnore del mio Giove. E tu ne sosterrai pena: torrotti la figura, per la quale tu, importuna, piaci a te e al nostro marito. Ebbe detto: e abbiendole presi i capelli dinanzi dalla fronte, l'abbatteo in terra. Quella preghevole distendea le 'nchinevoli braccia: le braccia cuminciaro a inasprire per neri velli, e le mani ad essere piegate, e crescere in rauncine unghie, e usare dell'oficio de' piedi: e la faccia, per adietro lodata da Giove, cuminciò a diventare sozza per l'ampio volto. E acciò che' preghieri e le parole preganti non pieghino li animi, fulle tolto lo potere parlare, e fulle data voce adirata e minaccevole, e piena di errore. Ma pure la mente antica rimase nella fatta orsa: e che testimonia i suoi dolori col continuo pianto, e leva quelle mani, ch'ella hae, al cielo e alle stelle; e sente Giove sconoscente, avvegna che nol possa dire. O quante volte ee menata per li sassi dagli abbaiamenti de' cani! o quante volte temeo il giacere sola nella selva! e andava errando dinanzi alla casa, e per li campi ch'erano stati suoi, e cacciatrice, spaventata per la voce de' cacciatori, fuggio! Spesse volte si nascose, vedute le fiere, abbiendo dimenticato quel ch'ella era: e orsa, temeo li orsi veduti ne' monti, e temeo i lupi, pognamo che 'l padre fosse in quelli. Come Giove fece Calisto e 'l figliuolo Arcas due stelle. Ecco lo figliuolo di Calisto, non conoscente la madre, fue presente, abbiente XV anni. E mentre ch'egli seguita le fiere, e elegge i luoghi acconci a cacciare, e attornea le selve erimantide con lacciuoli e con areti, abbattesi nella madre; la quale vedendo lo figliuolo ristette, e mostrò di conoscerlo. Quegli fuggia, e temeo lei che non volgea gli occhi da lui; e non conoscendola, no ardiva andarle presso: averebbele fitte le saette nel petto; ma l'onnipotente lo vietò, e a una volta levò in cielo loro due, tolti per veloce vento, e feceli vicine stelle. Come Iuno s'adirò quando vide che Calisto e Arcas erano fatti stelle; e com' ella priega l'iddiei del mare, che quelle stelle non si tuffino nel mare. Iunone fue adirata poi ch'ella vide la puttana risprendere in tralle stelle, e discese nel mare alla bianca dea Tetis, e al vecchio Occeano, la reverenza de' quali spesse volte hae mossi l'iddiei: e dice la cagione perch'ella ee venuta a loro che la ne domandano. Voi domandate perch' io reina degl'iddiei, discesa delle sedie del cielo, sia qui? Altra tiene lo cielo in mio luogo. Io mentisco, se non quando la notte avrà fatto lo scuro mondo, vedrete novellamente le stelle, onorate mie fedite, nel sommo cielo, colà ove l'utimo cerchio, piccolissimo per ispazio, attornea l'ultimo fermamento. Ma ee alcuna cosa perch'altre non debbia volere offendere Iunone, e perchè chi l'hae offesa la debbia temere, la quale sola fo prode altrui nocendo? O che gran fatto feci io! o come ee grande la nostra potenza! Io non la lasciai essere femmina; ella ee fatta iddia: così impongo io le pene a' colpevoli! così ee grande la mia potenzia! Racquisti l'antica faccia; lasci lo volto della fiera, sì come Io fece dinanzi. Perchè non la mena egli, cacciata via Iunone, e alluogala nella mia camera; e faccia Licaon suo suocero? Ma se lo dispregiamento mio vi tocca, vietate i settentrioni dal mare, e cacciate le stelle ricevute nel cielo per merito dello strupo, acciò che la puttana non si tuffi nel puro mare. Come l'iddiei del mare consentirono a Iuno. E entra nella favola del corbo. L'iddiei del mare le consentiro. La figliuola di Saturno col bello carro entroe per la discorrevole aria co' dipinti paoni; tanto dipinti novellamente per la morte d'Argo, quanto tu, corbo parlevole, fosti volto novellamente in nere ale, essendo di prima bianco. Perchè questo uccello fue di quinci adietro colle penne bianche, a modo d'ariento, sì ch'egli era tutto candido, come colomba che sia sanza macchia; e non averebbe dato luogo all'oche, che guardano il campidollio con vegghievole voce, in bianchezza, nè al cecino che ama i fiumi. La lingua gli fu a danno; faccendogli la parlevole lingua danno, lo colore ch'era bianco, ora ee contrario al bianco. Come 'l corbo andava accusare al Sole una sua amica c' avea nome Coronis; e come la cornacchia gli disse parole perchè non v' andasse. In tutta Tessalia non fu più bella fanciulla che Coronis di Larissa. Certo ella piacque a te, Febo, mentre ch'ella fu casta, o vero insino a tanto che 'l peccato suo non fue saputo. Ma l'uccello del Sole sentì l'avolterio; e acciò ch'egli scoprisse la nascosta colpa, da non essere pregato che nol palesasse, andava al signore. Lo quale la garritrice cornacchia seguita con le mosse penne, per sapere da lui ogne cosa. Udita ch'ella ebbe la cagione della via, gli disse: tu non fai utile viaggio; e non dispregiare gli ammonimenti della mia lingua. Vedi quello ch'io fui, e quello ch'io sono; e cerca il merito che mi fu renduto. Tu troverai che la fede mi noceo; però che Pallas avea rinchiuso Erittonio, figliuolo creato sanza madre, in una cesta tessuta di giunchi; e avealo dato a guardare a tre vergini, nate del Cicrope c' avea due isole, e non confessò loro quello ch'egli fosse, e comandò loro che non vedessoro quello che fosse. Io, nascosta tralle lievi foglie, guardava dallo spesso olmo quello ch'elle facessoro. Le due sanza malizia guardano quello che è loro commesso, cioè Pandrases e Erse: l'altra, cioè Aglauros, chiama le serocchie paurose, e apre i nodi colla mano, e vede dentro parte fanciullo e parte dragone. Io riporto alla dia quello che si fece. Di che mi fu renduta così fatta grazia, ch'io sono cacciata dalla guardia di Minerva, e sono posta dopo la coccoveggia. La mia pena puote avere ammaestrati gli uccelli, che con la voce non domandino i pericoli. Ma io penso che tu dichi ch'io non venni a lei per sua voglia, ma per mia: io ti dico ch'ella mi ne domandò. E se tu la ne domanderai, ella non ti 'l negerà, avvegna ch'ella sia adirata; però che Coroneo, ricco nella terra Focaica, ingenerò me. Io dico cose palesi. Io era figliuola di re (e non mi avere a schifo): io era domandata da ricchi vagheggiatori. La bellezza mi noceo; però che andandome con lenti passi per trastullarmi, come io soglio, nella somma arena, lo dio del mare innamorò di me: e poi che pregando egli ebbe consumato lo vano tempo con le lusinghevoli parole, apparecchiò la forza, e seguitò me. Io fuggo, e lascio lo spesso lito, e invano m' allasso nella molle arena. Quindi chiamo gl'iddiei e gli uomini. Alcuna mia voce non pervenne ad uomo. La vergine Pallas si mosse per me vergine, e diedemi aiuto. Io distendea le braccia al cielo: le braccia cuminciaro a nerire con lievi penne. Io m' apparecchiava di gittare lo vestire dagli omeri: quegli diventarono piume, e aveano messe le barbe nella buccia. Io mi sforzava di percuotere lo ignudo petto colle palme: ma io non mi trovai le palme, nè trovai lo ignudo petto. Io correva: e la rena non riteneva gli piedi, come facea dinanzi. Ma era levata dalla somma terra; poscia menata per li venti, sono levata in alto, e sono data compagnia sanza colpa a Minerva. Ma questo che mi giova, se Nittimine, fatta uccello per crudele peccato, hae socceduto al nostro onore? Egli è manifesto per tutta l'isola di Lesbon, che Nittimine giacque col padre: e tu noll'hai udito? In verità, quella fatta uccella, ma consapevole della colpa sua, cela la vergogna con le tenebre, e fugge la luce, ed ee cacciata da tutti gli uccelli per l'aria. Come 'l corbo disse al Sole lo peccato dell'amica sua; e come 'l Sole l'uccise, e poi se ne penteo, e odiavane sè e 'l corbo. Lo corbo disse alla cornacchia che dicea cotali parole: io priego che questi richiamamenti siano a te a male: noi dispregiamo ogne cosa vana. E non lascia la 'mpresa via; e narra al signore suo Febo come Coronis giacea con uno giovane di Tessalia. La corona dell'alloro gli cadde; e a un'otta lo volto e lo stormento e 'l colore gli caddoro. Udito ch'ebbe lo peccato della amica sua, e sì come l'animo si sboglientava della superba ira, prese l'arme usate, e tese l'arco piegato da' corni, e passoe quel petto, cotante volte congiunto col suo petto, con lancia non fuggita. Quella, percossa, pianse; e tratto il ferro della fedita, bagnò i candidi membri con rosso colore, e disse: o Febo, io avere' potuto sostenere le pene a tuo volere, e avere' prima partorito; ora morremo due in una. E poi sparse insieme la vita col sangue. Lo mortale freddo seguitoe lo corpo voto dell'anima. Tardi si penteo l'amante della crudele pena; ed hae in odio se, che lo udio, e che si riscaldoe così nell'ira. Hae in odio l'uccello per lo quale fue costretto di sapere lo peccato e la cagione del dolere; e hae in odio l'arco, e la mano, e le saette mandate mattamente. E abbraccia lei caduta, e sforzasi di vincere la morte col tardo aiuto; e indarno aopera le medichevoli arti. Come 'l Sole pianse per la morte dell'amica sua; e come tolse lo figliuolo che no era ancora nato, e diedelo a nutricare a Chirone centauro. Le quali cose poi ch'egli vide ch'egli avea tentate indarno, e che 'l fuoco era apparecchiato, e vide i membri che doveano ardere negli ultimi fuochi, allora mandò fuori i pianti tratti del profondo cuore (e non si conviene che' celestriali corpi siano tinti di lagrime); sì come piagne la giuvenca quando vede ammazzare lo vitello ch'ella hae lattato. Ma poi ch'egli ebbe sparti l'ingrati unguenti nel petto, ed ebbela abbracciata, ed ebbe compiuta la ingiusta soppoltura, non sostenne che 'l suo figliuolo fosse messo in quelli fuochi; ma trasselo dalle fiamme, e del ventre della madre, e portollo nella spilonca di Chirone centauro; e vietò che 'l corbo, che sperava avere guidardone della non falsa lingua, istesse tra gli uccelli bianchi. Come Ochirione, figliuola di Chirone, sapea le cose che sono a venire. Intanto lo centauro era lieto del figliuolo della schiatta di dio, e rallegravasi dello onore mescolato allo incarico. Ecco la figliuola del centauro viene cogli omeri coperti di biondi capelli, la quale la ninfa partorio nelle ripe del fiume Caico, e puosele nome Ochirione. Questa non fu contenta d'avere apparate l'arti del padre: ella diceva le cose segrete de' fati. Certe cose che Ochirione disse dinanzi. Adunqua poi ch'ella ebbe nella mente i furori da indovinare, e riscaldossi dello idio Febo, lo quale ella avea rinchiuso nel petto, ragguarda il fanciullo, e disse: o salutifero fanciullo a tutto 'l mondo, cresci: i mortali corpi spesse volte si dovranno a te, e saratti licito di rendere l'anime tolte. E una volta che tu ardirai di fare quello, disdegnandone gli diei, sara'ne vietato per la fiamma dell'avolo, e di dio sarai fatto corpo sanza sangue; e quello che dinanzi era corpo sarà fatto iddio; e rinnoverai due volte li tuoi fati. Simigliantemente o tu, caro padre, già non mortale, e creato per la legge del nascere acciò che tu basti per tutti li secoli, disiderrai di potere morire allora quando tu sarai tormentato, riceuto il sangue del crudele serpente per li fediti membri: e, eternale, ti faranno l'iddiei paziente di morte; e le tre idee risolveranno i tuoi fili. Come Ochirione fue mutata in cavalla. Alcuna cosa rimanea a dire a' fati. Ella sospira del profondo petto, e le nate lagrime discorrono per le gote, e disse: le mie disavventure così mi tramutano, e sono vietata di dire più cose, e l'uso della mia voce ee chiuso anzi tempo. L'arti che hanno fatto adirare iddio contra me no erano di tanto prezzo. Bene vorrei anzi no avere sapute le cose che debbono venire. Già pare che mi sia tolta la faccia umana; già mi piace l'erba per cibo; già hoe volontà di correre per gli ampi campi: io mi volgo in cavalla, e ne' petti parentevoli. Ma perchè mi volgo io tutta? Mio padre hae due forme, cioè mezzo uomo e mezzo cavallo. A colei che diceva cotali cose, l'ultima parte del lamento fue poco inteso: le parole furono confuse. Poscia non parevano parole, nè suono, ma di rappresentante cavalla. E in piccolo tempo mandò fuori certi anatriri, e mosse le braccia nell'erbe. Allora li diti si congiungono, e lega cinque unghie; la lieve unghia cresce con continuo corno: cresce lo spazio della bocca e del collo: grande parte del lungo vestire diventa coda: e come' capelli giaceano sparti per lo collo, così si partiro i diritti crini; e a un'otta ee rinnovata la voce e la faccia. Le meraviglie le diedoro nome. Come Chiron piangeva la figliuola. Chirone piagnea, e indarno, o Febo, domandava lo tuo aiuto, però che tu non potei torre via gli comandamenti del grande Giove; e se tu gli potessi ricidere, non eri allora quivi presente: tu abitavi in Elini, e ne' campi Messani. Quel tempo era nel quale la pelle del pastore copria te, e sette anni ti fue gravezza nella mano manca lo bastone dell'ulivo salvatico, e nella diritta la sampogna. E mentre che tu pensi d'amore, gli uomini dicono che le vacche non guardate andaro ne' campi pilii. Mercurio, nato della figliuola d'Atalante, vede queste, e colla sua arte le nascose nelle selve. Niuno uomo avea sentito questo furto, se non uno vecchio conosciuto in quella villa. La vicinanza lo chiamava Batto. Questi guardava i luoghi dell'erbose pasture dell'abondevole Nileo, e era guardiano delle gregge delle nobile cavalle. Mercurio temeo costui; e con lusinghevole mano lo trasse da una parte, e dissegli: o chiunque tu se', se alcuno raddomanda questi armenti, niega che tu gli abbia veduti: e acciò che di questo tu abbi alcuna grazia, togli per guidardone una bella vacca. Batto la ricevette, e rendègli queste voci: va sicuro, che questa pietra dirà li tuoi furti prima di me: e mostrògli la pietra. Lo figliuolo di Giove fa vista di partirsi; e incontanente ritorna: e avea mutata la voce e la figura, e disse: o villano, dimmi se tu hai vedute alcune vacche andare per questa via: dàmi aiuto, e non celare il furto; e io ti daroe uno toro e una vacca. E poi che 'l vecchio sentio la mercè raddoppiata, disse: elle erano dietro a quelli monti. E così erano com' elli disse. Mercurio rise: o sanza fede, tradisci tu me a me? E volse lo spergiurato petto in dura pietra, la quale aguale si chiama indice. E niuna cosa della vecchia infama ee nel meritevole sasso. Favola di Mercurio e de Erse. Mercurio di questo luogo si levò in alti con uguali ale: e volante, ragguardava i campi Meniochi, e la terra graziosa a Minerva, e li arbori dello cultivato monte Liceo. Per la ventura, in quel dì, secondo l'usanza, le caste fanciulle portavano alle feste di Pallas puri sagrifici ne' grandi panieri. Lo dio ragguarda loro tornanti quindi; e veloce si volse non per diritta via, ma fece uno giro, sì come fae l'affamatissimo nibbio, vedute le 'nteriore; e li spessi servi istanno a' sagrifici; temendo, lui si volge in giro, e non ardisce partirsi da lungi, e dintorno alla speranza sua vola disideroso colle mosse ale. Così lo veloce Mercurio china i corsi sopra le rocche d'Atenia, e attornea quegli venti. Come Mercurio discese del cielo, e adornossi per piacere ad Ers. Quanto la stella diana risprende più che l'altre stelle, e quanto la luna più che la stella diana; tanto era Erse più bella di tutte le vergini, e era onore della pompa e delle sue compagne. Lo figliuolo di Giove si meraviglioe della bellezza; e pendente nell'aria, no arse altrimenti che faccia la massa del piombo quando la rombola la getta: vola, e andando si riscalda; e' fuochi, ch'egli non avea, truova sotto le nebbie. Volge l'andamento, e lasciato il cielo, ne viene in terra, e non si mostra altro ch'egli sia; tanto ee la fidanza della sua bellezza. La quale, avvegna che sia giusta, con addornamento aiuta quella: acconciasi i capelli; alluoga lo mantello sì che gli penda acconciamente, acciò che si veggia il lembo e tutto l'oro; acciò che la ritonda verga sia nella mano diritta, colla quale mena i sonni e costringeli; e' calzamenti risprendino ne' netti piedi. Come Mercurio disse ad Aglauros la cagione perch'egli era venuto. La segreta parte della casa ebbe tre camere coperte di vivorio e d'osso di testuggine; delle quali tu, Pandrasa, possedei quella dal lato diritto; Aglauros quella dal manco; Erse possedeva quella del mezzo. Quella che tenne la manca, prima vidde Mercurio che venìa, e ardio di chiamare lo nome dello dio, e domandare la cagione perch'egli era venuto. Alla quale Mercurio così rispose: io sono colui che porto le parole, che mio padre comanda, per li venti. Giove ee a me padre. Io non ti mentirò le cagioni: ma fa che tu vogli essere fidata alla tua serocchia, essere detta zia del mio figliuolo. La cagione della mia via ee Erse. Priegoti che tu favoreggi l'amatore. Aglauros ragguarda costui con quelli medesimi occhi con gli quali avea veduto novellamente le segrete cose della bionda Minerva; e per lo servigio gli domanda oro di grande peso; e intanto gli comanda ch'esca della casa. Come la dea Pallas inanimata contra Aglauros, come ella andoe alla casa della Invidia. La dea Pallas volse verso costei la ritundità de' crudeli occhi, e con tanto movimento trasse i sospiri da entro, che parve ch'ella scotesse il petto e lo scudo posto nel forte petto. E raccordasi che costei scoperse con la maladetta mano le cose segrete, cioè allora quando ella vide lo figliuolo di Vulcano creato sanza madre, contra' patti che le furo dati: e ch'ella sarebbe ricca per l'oro ch'ella, avara, ave domandato. Incontanente se n'andoe alla casa della Invidia, oscura per nero veleno. La casa ee nelle valli di sotto dalla spilonca nascosa, sanza sole, non ricevente alcuno vento, trista, e piena di freddo, e ee sempre sanza caldo, e sempre abbonda di caliggine. Come Pallas vide la Invidia. Poi che l'ardita Pallas fue venuta quae, stette ferma dinanzi alle porti; però che non era a lei licito d'entrare nella casa; con l'ultima punta picchia le porti. Le percosse porti furono aperte. Allora vede dentro la Invidia manicante le carni della vipra, notricamenti de' suoi vizi: e veduta che l'ebbe, volse li occhi. Ma quella pigramente si levoe da terra, e lasciò i corpi de' serpenti mezzi manicati; e andoe con pighero passo. E poi ch'ella ebbe veduta la dia adornata di bellezza e d'armi, mosse lo ingegno e 'l volto della dia a' sospiri. Come la Invidia ee fatta; e come Pallas le comanda ch'ella vituperi Aglauros. Lo pallidore le siede nella faccia; la magrezza ee in tutto 'l corpo; in niuna parte hae diritto il vedere; i denti sono lividi per la ruggine; il petto ee pieno di fiele; la lingua di veleno: mai non ride, se non per dolore ch'ella vegga altrui: è desta dalle vegghievoli cure, e no usa di sonno: ma vede le prosperitadi degli uomeni; e vedendole, si distrugge dentro: piglia, ed ee presa a una otta; e ee tormento di se medesimo: la quale pognamo che Pallas avesse in odio, pur le parlò brievemente con cotali parole: vitupera con la tua bruttura una delle figliuole di Cicropis: così ee bisogno. Ella hae nome Aglauros. E non dicendo più parole, fuggio; e cacciò la terra, fermatavi l'asta. Quella, vedente con torto occhio la dia fuggente, diede piccoli mormori; e dolfesi della prosperità di Minerva; e prese la mazza, la quale era tutta attorneata di legame di spine. E coperta d'oscure nebbie, per qualunchi campi fioriti ella entra, sì gli guasta, e fa ardere l'erbe, e le sommitadi de' fiori; e col suo fiato brutta i popoli e le cittadi e le case: e finalemente ragguarda la città d'Atena, risprendente d'ingegni, di ricchezze, e di festareccia pace: e a pena tiene le lagrime, però che non vede alcuna cosa lagrimevole. Ma poi ch'ella entroe nella camera della figliuola di Cicropis, fae i comandamenti di Pallas, e toccale il petto colla mano tinta di ruggine, e empiele il cuore di ripiegate spine e di nocente veleno, e distrugge lo nero veleno per l'ossa, e spargelo per lo mezzo del polmone. E acciò che le cagioni del male non errino per troppo ampio spazio, pone dinanzi agli occhi suoi la serocchia, e l'avventurato matrimonio della serocchia, e lo dio Mercurio in bella immagine; e fae tutte le cose grandi. Per le quali Aglauros provocata ad ira, ee morsa con nascosto dolore: e angosciosa la notte, e angosciosa il dì, piange; e miserissima si disfà con lento veleno, sì come la ghiaccia fedita dallo incerto sole. E arde per li beni della avventurata Erse, non più leggierimente che 'l fuoco sottoposto a le spinose erbe, le quali non danno fiamme, ma ardono con agevole tepidore. Spesse volte volle morire, acciò che non vedesse alcuna cosa cotale: e spesse volte lo volle dire all'aspro padre, sì come peccato. Come Aglauros per la invidia diventò sasso. Finalmente ella sedea dalla contraria soglia per cacciare lo dio che venìa: il quale dicente lusinghe e preghieri e parole umilissime, ella disse: rimanti di favellare; ch'io non mi moverò quinci, s'io non t' avrò prima cacciato. Lo veloce Mercurio disse: stiamo con questo patto che tu hai detto. E aperse colla verga le celate porte. Ma a colei, che si forzava di levare, qualunque parti si piegano sedendo, non si possono muovere per pighera gravezza. Quella combatte per levarsi col diritto corpo: ma le giuntura delle sue ginocchia diventano aspre: lo freddo discorre per l'unghia, e le vene impallidiscono per lo perduto sangue. E sì come 'l granchio suole sotterrare ampiamente lo male da non medicare, e aggiungere le parti sane alle inferme, così lo mortale freddo a poco a poco le piglia il petto, e chiuse le vie che danno la vita, e quelle del fiato. E non si forza di parlare: e perch'ella si ne fosse sforzata, non averebbe auta via di voce. Lo sasso già tenea il collo: la faccia era indurata; e sedea segnale sanza sangue. E no era bianca pietra; però che la sua mente l'avea annerita. Favola di Giove e d'Europa figliuola d'Agenor. Poi che Mercurio l'ebbe date queste pene delle parole e della maladetta mente, lasciò le terre dette da Pallas, e entra per l'aria colle mosse penne. Ma 'l padre suo chiamò costui a se, e no gli confessò le cagioni dell'amore, e dissegli: o figliuolo, fedele messo de' miei comandamenti, caccia via lo indugio, e veloce discendi con subito corso in quella terra la quale riceve tua madre dalla parte manca (Quegli che v' abitano la chiamano Sidonia); e volgi a' liti l'armento del re, lo quale tu vedi che si pasce nell'erba della montagna. Ebbe detto: e' giuvenchi, già cacciati del monte, domandano i comandati liti, ove la figliuola del grande re soleva giucare con le vergini di Tiria. La maiestà e l'amore non si convegnono bene insieme, e non stanno bene in una sedia. Quel padre e rettore delli dei, lo quale hae la mano armata di saette, lo quale col cenno scommuove tutto 'l mondo, lasciata l'autorità della signoria, prese forma di toro, e mescolato tra' giuvenchi mugghia, e, bello, vae tralle tenere erbe. Lo suo colore ee di nieve no ancora scalpitata dal piede, e 'l vento con piova non l'hae dissoluta. Lo collo ee grasso: la grassa buccia gli pende sotto la gola: le corna sono piccole, ma fatte da potere essere prese con mano, più risprendenti che la chiara gemma. Neune minacce hae nella fronte: non hae occhi da temere: lo suo volto hae pace. La figliuola d'Agenor si meraviglia ch'egli sia così bello, e ch'egli no minacci alcune battallie. E pognamo ch'egli paia umile, da prima ella teme di toccarlo; ma poscia vae a lui, e porge i fiori alla bianca bocca. L'amatore si rallegra; e insino a tanto che vegna lo sperato diletto, dae i basi alle mani. A pena a pena indugia l'altre cose; e alcuna volta giuoca con lei, e salta nella verde erba: ora pone lo bianco lato nelle risprendevoli arene. E a poco a poco, lasciata la paura, dae lo petto da essere toccato dalla mano della vergine; poi le corna da essere impedite con nuove grillande. La vergine reale, non sappiente cui ella premesse, ardio di salire in sul dosso del toro. Allora lo dio, partentesi della terra e dal secco lito, a poco a poco pone le false orme de' piedi nelle prime acque: quindi va più oltre; e porta la preda per le pianure del mezzo mare. Questa teme; e, tolta, ragguarda lo lasciato lito, e con la mano diritta tiene lo corno, e l'altra hae posta in sul dosso del toro. Gli tremanti vestiri sono fatte vele per lo vento. Qui ee compiuto lo secondo libro dell'Ovidio. Qui cumincia lo terzo libro dell'Ovidio. Come Agenor comandò Cadmo suo figliuolo che cercasse per la figliuola. Già abbiente lo dio lasciata la imagine del falso toro, confessava quello ch'egli era, e teneva le ville di Creta. Quando lo ignorante padre comanda a Cadmo cercare per la figliuola, e per pena aggiunge lo sbandimento s'egli nolla troverà: per uno medesmo fatto fue pietoso e crudele. Po' che 'l figliuolo d'Agenor ebbe cercato il mondo (E chi potrebbe trovare i furti di Giove?), fuggevole schifa la patria, e l'ira del padre; e preghevole domanda consiglio alle risposte di Febo, qual terra egli debbia abitare. Febo disse: una giuvenca che no avrà sostenuto alcuno giogo, e no avrà menato l'arato, ti si farà incontro ne' campi del Sole. Piglia le vie a guida di costei; e fa che tu ordini mura nell' erba ov' ella si riposerà; e chiamera'la Boezia. Appena era Cadmo partito dalla spilonca Castalia, ch'egli vide lentamente andare una giovenca sanza guardia, la quale no avea sostenuto alcuno giugo. Egli la seguita, e guarda l'orme; e in fra se adora Febo fattore della via. Come Cadmo per le risposte di Febo dovea fare la città ove la vacca si riposò; e per fare quivi sacrifici avea mandati i compagni per l'acqua. Già avea Cadmo passato i guadi del fiume Cefeso e' campi Panopes: la vacca stette ferma, e, levando la grande fronte con l'alte corna al cielo, co' mugghi costrinse i venti: e così ragguardando i compagni che seguitavano gli suoi dossi, s'inginocchiò, e mise il lato nella tenera erba. Cadmo fece grazie; e ficca i basi nella pelegrina terra, e saluta gli non conosciuti monti e' non conosciuti campi. Dovea fare sagrifici a Giove: comanda che gli servi vadano e rechino acqua, da fare sacrifici, di vive fonti. Come i compagni di Cadmo, che andaro per l'acqua, trovaro uno serpente che gli uccise. Quivi era una vecchia selva mai non tagliata da alcuna scure. La spilonca ee nel mezzo, attorneata di verghe e di legame, faccente piccolo arco di congiungimento di pietre, abbondevole di molte acque: nella quale spilonca era lo serpente Marzio, lucente con le creste e con oro. Gli occhi risprendono di fuoco, e tutto il corpo è pieno di veleno: tre lingue si vedeano: i denti stanno con tre ordini. Lo quale bosco poi che coloro ch'erano venuti della gente Tiria toccaro con non grande passo, la mezzina messa nell' acqua diede suono: lo serpente trasse lo capo della profonda spilonca, e mandò fuori orribili sufili. L'acque caddoro delle mani; lo sangue lasciò il corpo; la subita paura occupoe gli spaventati membri. Quegli volge l'aspre ritonditadi con volgevoli nodi, e piegasi in archi con grande salto; e più che mezzo dirizzato ne' lievi venti, si vede di sotto tutto 'l bosco: ed ee così grande in tutto 'l corpo, quanto ee quello che divide le due stelle d'Artos, se tu 'l potessi vedere tutto. E sanza indugio: o che costoro apparecchiassoro le lance, o che s'apparecchiassoro di fuggire, o vero che per la paura non potessoro nè l'uno nè l'altro; una parte ne prese col morso, altri con abbracciamenti; altri uccide col fiato, altri con la mortale bruttura del veleno. Come Cadmo meravigliandosi che' compagni non tornavano, andò a cercare per loro, e trovògli morti; e com' egli uccise il serpente. L'altissimo sole già avea fatte piccole ombre: lo figliuolo d'Agenore si meraviglia della dimoranza de' compagni, e cerca per li uomini. La pelle tolta al leone era a lui scudo: la lancia con risprendente ferro e l'asta era a lui per dardo; e avea l'animo più forte ch'ogni lancia. Poi ch'egli fu entrato nel bosco, e ebbe veduti i corpi morti, e 'l nemico di grande corpo vincitore sopra loro, che leccava le triste fedite colla sanguinosa lingua, disse: o fedelissimi corpi, io saroe vendicatore o compagno della vostra morte. Ebbe detto; e colla mano diritta levò uno grande macigno con grande forza, e gittollo verso il serpente. Per la percossa di quello sarebbono mosse l'alte mura coll'alte torri: lo serpente stette sanza fedita; e difeso dal suo cuoio a modo di panziera, e per la durezza dell'aspra pelle, cacciò le forti percosse dalla cotenna. Ma per quella medesma durezza non vinse la lancia, la quale fue fitta nel mezzo del ripiegamento della lenta schiena; e tutto il ferro discese ne' fianchi. Quegli, feroce per lo dolore, ripiegò il capo contra 'l suo medesimo dosso, e ragguardò le fedite, e morse la fitta asta. E poi ch'egli con molta forza l'ebbe morsa in ogni parte, appena la trasse del dosso; ma pur lo ferro si fermò nell'ossa. Ma poi che la nuova cagione venne all'usate ire, la gola enfiò con pieni veleni, la bianca schiuma discorre dintorno alla mortale bocca; la terra, rasa dalle squame, suona; lo nero alito, ch'esce della bocca stigia, guasta l'avvelenate erbe. Egli alcuna volta con suoi ripiegamenti si cingea in grande cerchio: alcuna volta stava più disteso che una lunga trave. Ora andava con grande impeto, come 'l fiume mosso dalle grandi piove; e col petto turbava le contraposte selve. Lo figliuolo d'Agenore si trasse uno poco addietro, e collo scudo coperto della pelle del leone sostenne li assalimenti, e ritarda colla distesa punta la contastante bocca. Quegli impazza, e dae vane fedite al duro ferro, e ficca i denti nel taglio. Già cuminciava il sangue a uscire del nero palato, e avea tinte le verdi erbe con imbagnamento: ma era leggieri fedita; però ch'egli si ritraeva a dietro dalla percossa, e dava l'offeso collo a dietro, e, dando luogo, costringea la piaga sedere, e non la lasciava andare a dentro: insino a tanto che Cadmo ficcoe lo raccolto ferro nella gola, sempre seguitantelo insino a tanto che una quercia contastoe a lui andante a dietro, e insieme fu fitto il collo con la quercia. L'arbore si piegò per lo peso del serpente, e pianse d'essere battuta dalla parte dell'ultima coda. Come Cadmo udio una voce quando egli ragguardava lo serpente ch'egli avea morto. Mentre che 'l vincitore considera la grandezza del vinto nemico, subitamente fue udita una voce; e non si poteo conoscere onde; ma pur fue udita: o figliuolo d'Agenor, perchè ragguardi lo morto serpente, e tu sarai anco ragguardato serpente. Quegli, gran pezzo pauroso, perdeo a un'otta lo colore con la voce, e' capelli s'arricciarono per la gelata paura. Come Cadmo seminoe i denti del serpente per comandamento di Pallas; e come nacquoro uomeni armati, e uccisorsi tra loro. Ecco Pallas favoreggiatrice dell'uomo, discesa per li venti di sopra, ee presente; e comanda ch'egli semini nell'arata terra i denti del serpente, accrescimenti del popolo che dee essere. Cadmo ubidisce: e aperse il solco col fitto arato; e sparge in terra i denti del serpente, mortali semi. Quindi uscìo maggiore cosa che da credere. La prima schiera de' solchi apparve ad asta: poscia i cappelli dell'acciaio crollantisi con dipinto adornamento: poscia gli omeri e 'l petto e le braccia sono caricate di lance. La biada armata delli uomini cresce. Sì come le imagini si sogliono levare, poi che le cortine sono tese ne' festerecci palagi; e da prima mostrano i volti, l'altre membra a poco a poco; e tratte fuori con piacevole tenore, tutte si manifestano, e pongono li piedi nello spazio di sotto. Cadmo, spaventato per lo nuovo nemico, s'apparecchiava di pigliare l'armi. Uno del popolo che la terra avea creato grida: non pigliare, e non ti mescolare nelle cittadine battallie. E da presso fedisce con la rigida spada uno de' fratelli nati della terra. Quegli cade da lungi per una lancia: questi, ch'ell' avea dato alla morte, non vive più lungamente di lui, e caccia fuori la vita la quale pur aguale avea ricevuta: e tutta la turba perisce in uno medesimo modo. E subitamente i fratelli caggiono nella loro battallia per le avvicendevoli fedite. Come Cadmo fece Teba. Gli giovani ch'aveano acquistato spazio di brieve vita già picchiano la sanguinosa madre col tiepido corpo: cinque n'erano rimasi vivi; de' quali fu l'uno Etion. Questi gittò le sue armi in terra per l'ammonimento di Pallas, e domandò e diede fede della fraterna pace. Cadmo ebbe costoro per compagni dell'opera quando puose la città comandata per le risposte di Febo. Già era fatta Teba. O Cadmo, già potei parere avventurato per lo bando: tu avei per suoceri Marte e Venus: avevi tanti figliuoli di così grande moglie, e nepoti, cari figliuoli, già giovani. Ma l'uomo dee sempre l'ultimo dì: e niuno dee essere detto beato anzi la morte e l'ultima sepultura. Favola d'Atteon nepote di Cadmo. O Cadmo, la prima cagione di pianto intra tante cose prosperevoli fu a te lo nepote Atteon, e le corna d'altrui aggiunte alla sua fronte, e voi cani saziati del sangue del signore. Ma se tu vorrai bene cercare, peccato di fortuna fu in lui, e non crudeltà. E che cosa scelerata ae l'errore? Lo monte era bagnato di tagliamento di svariate fiere: e 'l mezzo dì avea raccolte l'ombre delle cose, e 'l sole per iguale parte era da lungi dall'uno e dall'altro termine, quando lo giovane tebano con piacevole bocca chiama i compagni dell'opera, vaganti per li sviati boschi. O compagni, le reti e' ferri sono bagnati del sangue delle fiere: questo dì ee stato assai avventurato: quando l'altra aurora portata sulle rosse ruote rimenerà la luce, raddomanderemo la nostra opera: ora lo sole per uno medesimo spazio ee di lungi dall'una e dall'altra terra, e fende i campi co' calori. Lasciate lo presente oficio, e raccogliete le nodose areti. Gli uomini fanno i comandamenti, e pigliano i riposi. Come era fatto il luogo ove Diana colle ninfe s' andava a riposare. La valle chiamata Gargafia era spessa d'arbori che fanno la pece, e dell'acuto arcipresso, sagrata alla sombalcolata Diana: nell'ultimo partimento della quale ee una ricordevole spilonca, non fatta per alcuna arte. La natura col suo ingegno dimostrava che fosse fatta per arte; però che di viva pomice e di lievi tofi avea tratto naturale arco. La chiara fonte con sottile acqua suona dalla parte diritta, attorneata d'aperti uscimenti per lo erboso spazio. La dea delle selve, lassa per lo cacciare, solea qui bagnare i suoi membri con la liquida acqua. Nel quale luogo poi ch'ella fue entrata, diede a una delle ninfe, che le portava l'arme, la lancia e 'l torcasso e' distesi archi: l'altra mise le braccia al sottoposto vestire: le due le cavano i calzari de' piedi. Crocale tebana, però ch'era più savia che l'altre, raccoglie in nodo i capelli sparti per lo collo; pognamo ch'ella avesse gli suoi sciolti. Le ninfe Iale, e Ronis, e Feras, e Fiale ricevono l'acqua, e verscialla a dosso a Diana con l'abbondevoli mezzine. Come Diana fece Atteon diventare cerbio, perch'egli la vide nuda. E mentre che Diana si lava quivi con l'usata acqua, ecco lo nepote di Cadmo, indugiata parte della fatica, errante per lo non conosciuto bosco, con incerti passi venne nel bosco: così menavano colui gli fati. Lo quale poi che fue entrato nelle spilonche bagnate di fonti, le ninfe, sì come erano ignude, veduto l'uomo, percossoro i lor petti, e riempiero tutto 'l bosco di subiti urlamenti, e sparte dintorno a Diana, la copersoro co' lor corpi. Ma pur quella dea ee più alta di loro, e allato al collo ee sopra tutte. Quel colore che suole essere nelle nebbie percosse dal contraposto sole, o vero chente suole essere all'aurora, fue nel volto di Diana veduta sanza vestire. La quale avvegna che fosse attorneata dalla turba delle sue compagne, pur ella stette per lato, e volse la faccia a drieto; e vorrebbe avere avute preste le saette ch'ella ebbe: e così com' ella era, prese l'acqua, e imbagnò lo volto dell'uomo, e spargente i capelli con le vendicatrici onde, aggiunse queste parole per messaggere della pistolenza che dee venire: aguale ee a te licito di dire che tu abbi veduta me sanza vestire, se tu lo potrai dire. E non minacciante più cose, dae allo sparto capo corna di vivo cerbio; dae spazio al collo; dirizza gli sommi orecchi; e le mani co' piedi, le braccia muta con le lunghe gambe; cuopre lo capo di macchioso vello; aggiunsegli la paura. Lo signore Atteon fugge, e maravigliasi d'essere così veloce in quel corso. Come Atteon in figura di cerbio si vide nell'acqua; e' nomi de' cani che l'uccisoro. Ma poi ch'egli vide lo volto e le corna nell' acqua, voleva dire: o me misero! niuna voce lo seguitò. Pianse sanza alcuna voce: le lagrime discesoro nella faccia non sua. Ma la mente di prima stette ferma: non sae quello ch'egli faccia, o s'egli torni alla casa e alla magione reale, o s'egli si nasconda per le selve. La paura impedisce questo; la vergogna impedisce quello. Dubbitando egli di vedere i cani, Melampo primaio, e Inobate sagace, con l'abbaiare diedoro segnali; Inobate da Creta, Melampo da Sparta. Poscia corrono gli altri più fortemente che 'l veloce vento, Pamfago e Dorceo e Orbas, tutti d'Arcadia; e Nebrofano valente, e 'l crudele Tetron con Lelafe e Felera, e Agre, utile co' piedi e con le nari; Ilenis feroce, novellamente percosso dal porco salvatico, e Nape ingenerata del lupo, e Pemenis che seguita le pecore, e Arpia accompagnata di due figliuoli; e Ladon di Siziona, portante i lunghi fianchi; e Dromas e Canaces e Tute, e Tigris e Alce, e Leucon co' bianchi velli, Aforo co' neri; e 'l valente Lacon, e Aello forte nel corso, e Too e Lucisse veloce, con Cipro suo fratello; e Arpalos c' hae mezza la fronte bianca, e Maganeo e Lamme col corpo velluto, e Labros, e Agriodos, e Ilattor con istridente voce, nati per padre d'Atena e per madre d'Arcadia: e altri, gli quali raccordare sarebbe troppo indugio. Questa turba, per desidèro della preda, lo seguitano per le pietre, per li scogli, per li sassi sanza entrata, e da quella parte ove la via ee malagevole, e da quella ove non ee via alcuna. Quegli fugge per quegli luoghi per gli quali egli avea spesso seguitato. Egli fugge i suoi fanti! piacevagli di gridare: io sono Atteon; conoscete lo signore vostro. Le parole mancano all'animo: l'aria rinsuona dell'abbaiare de' cani. Come Atteon fu morto da' cani suoi in figura di cerbio. Melancates fece le prime fedite nel dosso: le seconde Terridamas: Crescitore si fermò nell' omero. Questi usciro fuori più tardi, ma raccorciaro la via per li tragetti del monte. Ritenendo costoro lo signore, tutta la turba si raccoglie; cacciagli i denti nel corpo. Già mancano luoghi alle fedite: quegli piagne, e hae suono, avvegna che non di uomo, non potrebbe essere di cerbio; e riempie gli conosciuti gioghi di tristi lamenti; e con piegate ginocchia preghevole, e simigliante al pregante, volge dintorno lo volto come le sue braccia. Ma' compagni ignoranti aizzano i cani rabbiosi con gli usati abbaiamenti, e domandano Atteon con gli occhi, e quanto possono lo chiamano, come s'egli fosse da lungi. Quegli levoe lo capo udiendo chiamare Atteon. I compagni si lamentano ch'egli non è presente a ricevere la preda. Egli vorrebbe bene essere da lungi; ma egli pur ee presente: e vorrebbe vedere, e non sentire i crudeli fatti de' suoi cani. D' ogni parte gli sono dintorno; e tuffati gli ceffi nel corpo, sbranano lo signore sotto la imagine del falso cerbio. Favola di Semele figliuola di Cadmo. La novella ee in dubbio: ad alcuni parve che la dea fosse più crudele che non si convenia: altri la lodano, e chiamalla degna di crudele virginità. L'una parte e l'altra truovano le cagioni. Sola la moglie di Giove, o ch'elle la lodi, o ch'elle la biasmi, non parla tanto quanto ella si rallegra della pistolenza della casa d'Agenor: e hae in odio tutti coloro che sono discesi della sua generazione per la puttana Europa. Ecco la nuova cagione viene dirieto a quella di prima: ella si duole che Semele ee gravida del seme del grande Giove, e dissolve la lingua alle tencioni; e disse: che frutto hoe io tratto per avere tante volte garrito? Io voglio andare e trovare colei: e s'io sono dirittamente chiamata la grandissima Iunone, io ucciderò lei; se si conviene a me nella mia mano tenere due signorie; s' io sono reina, e serocchia e moglie di Giove; certo io sono serocchia; ma penso che tu dirai, per furto quella ee contenta: ricevo io piccola ingiuria. Ella hae ingenerato: questo ci manca: e porta gli manifesti peccati nel pieno ventre; e, quello che appena potei io essere ad uno, vuole essere fatta madre di Giove: tanta ee la fidanza della bellezza. Io farò che la ingannerà lui: e non sono figliuola di Saturno, s' io non foe ch'ella, morta dal suo Giove, passi all'acque dello 'nferno. Come Iuno, in forma di vecchia, informò Semele per farla morire. Dopo queste parole si leva della sedia, e riposta nella scura nebbia, vae alla casa di Semeles. Prima ch'ella rimovesse le nebbie, prese figura di vecchia; e nelle tempie si puose i capelli canuti, fecesi la buccia piena di crespe, e portò gli piegati membri con tremante passo, e fece voce di vecchia. Ella era Beroe Epidaria, balia di Semeles. Adunqua, poi ch'ebboro molto parlato insieme, vennero a ricordare lo nome di Giove. Iuno sospira, e dice: io disidero che Giove sia tuo: tuttavia io temo tutte le cose, però che molti uomini in maniera dell' idiei sono già entrati nelle caste camere. E non basta solo ch'egli sia Giove: dia pegno d'amore s'egli sia Giove. Preghera'lo ch'egli così grande e cotale t' abbracci, chente e quale egli ee ricevuto dalla gran Iunone; e riceva dinanzi i suoi segnali. Come Giove uccise Semele per la domanda che Iuno le fece fare. Iuno avea informata la figliuola di Cadmo di cotali detti. Quella domanda a Giove dono, non dicendo il nome. Alla quale lo dio disse: eleggi, che neuna cosa ti sarà disdetta: e acciò che tu 'l credi maggiormente, gl'iddiei del fiume stigio ne siano testimoni. Quello, iddio dell'idiei, ee da temere. Semeles, lieta del suo male, e troppo potente, e che dee morire per lo servigio dell'amante, disse: dammiti cotale chente la figliuola di Saturno ti suole abbracciare, quando voi fate l'opera della lussuria. Lo dio volle chiudere la bocca della parlante: la voce era già ita per li venti. Egli pianse, però che non puote essere che questa no abbia chiesto, nè quegli giurato. Addonqua tristissimo andoe nell'alto cielo, e trasse seco i nuvili che seguitavano il suo volto; a' quali aggiunse le piove e' baleni mescolati a' venti, e' tuoni e le saette che non si possono schifare. Tuttavia tenta di scemarsi le forze in quanto egli puote; e non s'armoe di quel fuoco col quale egli uccise lo forte Tifeo: troppo di crudeltà ee in quello. Un altro ee più lieve; al quale la mano de' Ciclopi puose meno di crudeltà, e meno di fiamma, e meno d'ira: gl'iddiei le chiamano le seconde saette. Prese quelle; e entra nella casa ove era Semele. Lo corpo mortale non sostenne i romori dell'aria, e arse per li doni dati da Giove. Lo fanciullo non compiuto fue levato dal ventre della madre, e tenero fue cuscito al pettignone del padre; (Degna cosa è questa d'essere creduta!) e compieo i tempi della madre. Furtivamente Ino sua zia allevò lui nella culla: poi levato quindi, le ninfe Niseide lo nascosoro nelle loro spilonche, e diedorgli notricamenti di latte. Come Iuno fece accecare Tirisia perchè gli diede sentenzia tra Giove e lei; che la lussuria delle femine era maggiore che quella degli uomini. E mentre che le sopradette cose sono portate per le terre per la legge de' fati, e' cuminciamenti di Bacco ingenerato due volte sono sicuri; gli uomini dicono che Giove, forse avvinazzato, lascioe le gravi cure, e prese trastullevoli giuochi con la oziosa Iunone, e ch'egli disse: per certo la vostra lussuria ee maggiore che quella che hanno gli uomini. Quella il niega. Piacque a l'uno e a l'altra di sapere quale fosse sopra ciò la sentenzia del savio Tirisia. Questi sapea l'una e l'altra lussuria, però ch'egli avea battuti due corpi di grandi serpenti con una percossa di mazza, i quali si congiungeano nella verde selva; e di uomo fatto femina, (Meravigliosa cosa a credere!) avea compiuti i sette autunni; e l'ottavo vide quegli medesmi, e disse: se la potenzia della vostra percossa ee così grande, ch'ella mi muti in contrario, io vi ripercoterò da capo. E percossi quegli medesmi serpenti, tornoe la forma di prima, e la imagine da ingenerare. Addonqua costui, ricevuto giudice della giocosa briga, afferma il detto di Giove. La figliuola di Saturno riceve la sentenzia di costui più grave che non si convenia; e non si dolfe secondo la materia; e condannoe gli occhi del suo giudice ad eternale cechitade. Come Giove diede a Tirisia lo 'ndovinare; e quelle che Tirisia predisse di Narcisso quando egli nacque. Ma l'onnipotente padre (però che ad alcuno iddio non è licito fare vani i fatti dell'altro iddio) per lo tolto lume gli concedeo di sapere le cose che sono a venire; e rallevògli la pena con l'onore. Quegli nominatissimo per la fama per le città di Grecia, dava ferme risposte al petente popolo. Liriope marina prima ricevette fede e' tentamenti della data risposta; la quale da quinci a drieto Cefeo impacciò nel torto fiume, e fece forza a lei rinchiusa nelle sue acque. La bellissima ninfa partorio col pieno ventre uno fanciullo, lo quale insino allora potrebbe essere amato; e chiamallo Narcisso. Del quale Tirisia, domandato s'egli dovesse vedere i lunghi tempi della matura vecchiezza, disse: s'egli non conoscerà se, vedrà i lunghi tempi. La voce dello 'ndovino lungo tempo parve vana: ma la fine e l'opera e la generazione della morte e la novità del furore appruova quella. Però che Narcisso, abbiente XXI anno, poteva parere fanciullo e giovane. Molti giovani e molte fanciulle disiderano lui: ma egli ebbe sì crudele superbia nella tenera bellezza, che niuno giovane e niuna fanciulla lo poteo toccare. Come e perchè Iuno tolse a Ecco lo cuminciare del parlare. La chiamevole ninfa ragguarda costui menante i cerbi nelle reti; la quale non sae tacere a colui che parla, e non apparò di parlare prima; cioè la risonevole Eco. Eco ancora era corpo, no era voce; e tuttavia garritrice, no avea altro uso di bocca ch'ella abbia ora. Iuno avea fatto questo, ch'ella potesse rendere le sezzaie parole di molte, però che, con ciò sia cosa ch'ella potesse spesse volte trovare le ninfe giacenti nel monte sotto 'l suo Giove, quella maliziosa tenea la dia con lungo parlare tanto, che le ninfe potessoro fuggire. Quando la figliuola di Saturno s' avvide di questa, disse: la potenzia di questa lingua, per la quale io sono ingannata, ti sarà data piccola, e saratti dato piccolissimo uso di voce. E con l'opera conferma le minacce: ma pur costei nella fine del parlare raddoppia le voci, e riporta l'udite parole. Come Ecco innamorò di Narcisso. Adunqua poi ch'ella vide Narcisso andare per le dipartite ville, e fue innamorata di lui, celatamente seguita l'orme sue; e quanto più lo seguita, tanto più arde per la più prossimana fiamma: no altrementi che' vivi zolfi, attorneati dalle somme fiaccole, pigliano l'aggiunte fiamme. O quante volte volle andare a lui con lusinghevoli parore, e aggiungere umili preghieri! ma la natura glile vieta, e non la lascia cuminciare: ma a quello che la lascia ella ee apparecchiata; cioè aspettare i suoni, a' quali ella rimanda le sue parole. Per la ventura lo fanciullo, partito dalla fidata schiera de' compagni, avea detto: e chi ee presente? e, Ee presente, avea risposto Eco. Questi si meraviglia, e manda gli occhi in ogni parte: egli grida con grande voce: vieni: e quella grida: vieni: e ragguarda lo chiamante. E un'altra volta, non veggente alcuno, disse: perchè mi fuggi? e ebbe tante risposte quante parole disse. Quegli sta fermo; e ingannato per la imagine della vicendevole voce, disse: congiungiamo qua. Eco, che non risponderà mai più volontieri ad alcuno suono, rispuose: congiungiamoci: e ella consentisce alle sue parole: e uscita della selva, andava per gittare le braccia allo sperato collo. Quegli fugge; e, fuggente: leva le mani dagli abbracciamenti, disse; io moro prima che tu abbi copia di noi. Quella non rispuose altro, se non: sia a te copia di noi. E dispregiata si nasconde nelle selve, e cuopre la vergognosa faccia con le frondi; e da quel tempo vive nelle sole spilonche. Ma pur l'amore sta fermo, e cresce per lo dolore del discacciamento; e le vegghievoli cure assottigliano lo misero corpo; e la magrezza mena la buccia all'ossa; ogni omore del corpo n'andoe in aria; la voce e l'ossa rimangono. La voce sta ferma: l'ossa si dice che presoro figura di pietra. Da quel tempo in qua si nasconde nelle selve, e non è veduta in alcuno monte: da tutti ee udita: lo suono ee quegli che vive in lei. Come Narcisso fue biasimato perch'egli non volle consentire altrui: e come era fatta la fonte ov' egli innamorò di se. Questi così avea schernita costei, e altre ninfe nate nell'acque e ne' monti; e così prima compagnie di uomini. E per quella cagione, uno, il quale egli avea dispregiato, levante le mani al cielo, disse: sia licito che questi ami così, e ch'egli non possa avere colui lo quale egli amerà. La fortuna consentio a' giusti preghieri. Una fonte era sanza bruttura, a modo d'ariento, con le chiare acque; la quale non aveano toccato gli pastori, nè le caprette pasciute nel monte, nè altro bestiame; la quale niuno uccello avea turbato, nè alcuna fiera, nè ramo caduto da arbore. L'erba era dintorno, la quale notricava lo prossimano omore: la selva non lasciava riscaldare il luogo per alcuno sole. Come Narcisso innamorò di se medesmo. Lo fanciullo, lasso per lo studio del cacciare e per lo caldo, si chinoe qui; e vogliendo torre via la sete, gli crebbe altra sete: e mentre ch'egli bee, preso per la immagine della veduta forma, ama la speranza sanza il corpo; e pensa che quel ch'è ombra sia corpo. Egli si meraviglia in se: e non mosso, in uno medesimo volto sta fermo, come 'l segno formato nel marmo d'Egitto. Posto in terra, ragguarda gli occhi come due stelle, e' diti degni dello dio Bacco, e' capelli degni di Febo, e le gote sanza barba, e la gola bianca a modo di vivorio, e la bellezza della bocca, e lo rossore mescolato nella bianchezza della nieve; tutte le cose ragguarda per le quali egli ee da ragguardare. Egli sciocco disidera se: egli che loda, ee lodato; e mentre ch'egli domanda, ee domandato: a un'otta incende e arde. O quante volte diede vani basci alla ingannevole fonte! O quante volte tuffoe le braccia nelle mezze acque per abbracciare lo veduto collo, e non si prese in quelle! Egli non sae cui egli veggia: ma egli arde per quello ch'egli vede: e quel medesmo errore che inganna gli occhi, gli muove. O sciocco, perchè pigli indarno la imagine fuggevole? quello che tu domandi ee in niuno luogo: volgiti, e quello che tu ami tu 'l perderai. L'ombra che tu vedi ee di quella ripercossa imagine; questa non hae alcuna cosa di se: ella vive teco e sta teco; teco si partirà, se tu ti potessi partire. Come Narcisso si lamenta; e come morio per l'amore. La cura del mangiare e quella del riposo non puote trarre colui quindi: ma disteso nella oscura erba, ragguarda la bugiarda forma con gli occhi che non si possono saziare, e per li suoi occhi perisce. E alquanto levato, distendente le sue braccia alle selve dintorno, disse: o selve, e chi amò mai più crudelmente di me? ditelo, che voi lo dovete sapere; però che per lo bisogno molti si sono nascosti in voi: e con ciò sia cosa che voi abbiate così grande tempo, di cui vi raccordate voi che sia così disfatto per l'amore? Egli mi piace, e veggolo: ma quello ch'io veggio, e che mi piace, io non lo truovo: sì grande errore tiene me amante. E acciò ch'io abbia maggiore cagione di dolermi, lo grande mare non è in mezzo tra noi, nè via ci diparte, nè monti, nè mura con le chiuse porti: ma siamo vietati per una piccola acqua. Egli disidera d'essere tenuto: però che quante volte io hoe porti li basci alle liquide acque, tante volte si sforza di venire verso me con riversciata faccia. Tu potresti pensare ch'io possa essere toccato: menima cosa ee quella che contastae a noi amanti. Chiunque tu se', esci fuor qua. O solo fanciullo, perchè inganni me? e tu, disiderato, perchè ti parti? Certo la mia bellezza nè la mia età non è che tu la debbi fuggire: certo le ninfe m' hanno amato. Io non soe che speranza tu mi prometti con amicevole volto: e quando io t' hoe porte le braccia, tu le porgi a me: e piagnendo io spesse volte, hoe vedute le tue lagrime: e con segnale mi rimandi i segnali: e quanto io hoe suspetto per lo movimento della bella bocca, tu rendi parole che non pervengono a' nostri orecchi. Io mi sono avveduto ch'io sono costui; e la imagine mia non m' inganna. Io ardo per amore di me: io muovo, e porto le fiamme. Che farò? sarò pregato, o pregherò? e che pregherò? io disidero quello ch'ee meco: l'abbondanza m' hae fatto povero. O volesse iddio che tu ti potessi partire dal nostro corpo! nuovo disiderio ee in me amante: io vorrei che quello ch'io amo si partisse. Già lo dolore mi toglie le forze, e' tempi della mia vita non sono lunghi; e sarò morto nella prima età: e la morte non è grave a me, che lascerò i dolori per la morte. Ma io vorrei che costui, ch'ee amato, vivesse più tempo. Ora due in concordia morremo in una vita. Ebbe detto: e sciocco ritorna a quella medesma fonte, e con le lagrime turba l'acque. La imagine diventò iscura nella mossa fonte; la quale quando egli vide partire, gridoe: ove fuggi? rimani, o crudele; non abbandonare me amante: siami licito di vedere quello ch'io non posso toccare; e dà notricamenti al misero furore. E mentre ch'egli si duole, aperse lo vestire della somma faccia, e percosse lo ignudo petto con le palme del marmo. Lo petto percosso trasse sottile rossore: non altrimenti che sogliono fare i pomi bianchi da una parte, e dall'altra rossi; o vero sì come l'uva non ancora matura, con isvariati racimoli suole menare rossore di porpora. Lo quale quando vide da capo nella liquida acqua, non sostenne più; ma sì come le bionde cere si sogliono disfare per li lieve fuochi, e le brinate della mattina per lo tiepido sole; così egli, assottigliato per l'amore, si distrugge, e a poco a poco ee consumato dal coperto fuoco. E non è più colore al rossore mescolato con la bianchezza, nè 'l vigore gli rimane, nè le forze, nè quelle cose che aguale vedute piacevano: e non gli rimane lo corpo, lo quale da quinci a drieto Ecco avea amato. Le quali cose poi ch'ella ebbe vedute, avvegna che adirata e ricordevole del discacciamento, si dolfe; e quante volte lo miserevole fanciullo disse: O me o me! questa con risonevoli voci ricominciava: o me o me! E quando quegli con le sue mani si picchiava, questa rendeva quel medesmo suono del pianto. Questa fue la sezzaia voce di lui che guardava ne l'acqua: o fanciullo indarno amato! e altrettanti voci ricevette il luogo. E abbiendo detto: a dio t' accomando; e Eco disse: a dio t' accomando. Quegli mise l'affaticato capo sotto la verde erba: la morte chiuse gli occhi che guatavano la bellezza del loro signore. E poi ch'egli fue ricevuto nella sedia dell'inferno, ragguarda se nell'acqua stigia. Le serocchie naiade piansoro, e puosoro li stracciati capelli addosso al fratello. Piansoro le driade. Eco rende suono a loro che piangono. Già apparecchiavano il fuoco, e le vane fiaccole, e 'l cataletto. Lo corpo non era in alcuno luogo: truovano uno giallo fiore in luogo del corpo; lo mezzo del quale era intorneato di bianche foglie. Come Tirisia ee nominato; e com' egli profetò di Penteo, che sarebbe morto dalla madre e dalle serocchie della madre, perch'egli non renderebbe onore allo dio Bacco. La conosciuta cosa avea data meritevole nominanza a Tirisia per le cittadi di Grecia, e lo nome dello 'ndovino era grande. Ma pur solo Penteo, vituperatore dell'iddiei, dispregia costui, e schernisce le provedute parole del vecchio, e rimproveragli la ciechità e la pistolenza del tolto vedere. Quegli, crollante le tempie biancicanti de' capelli canuti, disse: o Penteo, come tu saresti avventurato se tu fossi cieco come sono io, e non vedessi i sacrifici di Bacco! però che verrae die, lo quale io indovino che non ee da lungi, nel quale verrà qua Bacco figliuolo di Semele; lo quale se tu non degnerai dell'onore de' tempi, tu, lacerato, sarai sparto in mille luoghi, e brutterai le selve di sangue, e tua madre e le serocchie di tua madre. E verrà quel die: però che tu non degnerai lo dio dell' onore, e lamentera'ti ch'io hoe troppo veduto sotto queste tenebre. Favola di Penteo e di Bacco. Lo figliuolo d'Ecchion perturba colui che dicea cotali parole. La fede seguita i detti: le risposte dello 'ndovino si compiono. Bacco ee presente: gli campi risuonano de' festerecci canti: la turba ruina: le vecchie e le giovani mescolate con gli uomini, e 'l popolo e' baroni vanno a' non conosciuti sacrifici. Penteo disse: o tebani, figliuoli di battaglia, qual furore mena le vostri menti? Possono cotanto gli stormenti del rame percossi col fiato? e la cenamella col rauncinuto corno? e gl'inganni fatti per arte magica? che le voci delle femine, e la pazzia mossa dal vino, e l'ebbre compagnie, e' vani tamburi vincano coloro i quali non hanno spaventato la spada, e la tromba della battallia, nè le schiere con le strette lance? E meravigliomi che voi, vecchi, i quali, portati per li lunghi mari, avete posti in sedia gl'iddiei fuggiti da Tiria, ora gli lasciati essere presi sanza battallia. E o voi, giovani, che avete più aspra etade, e più prossimana alla mia, a' quali si conviene di tenere l'armi non i fiori, e d'essere coperti d'acciaio non di foglie, priegovi che vi raccordiate di quale schiatta voi siete creati, e abbiate gli animi di quel serpente, lo quale solo ne fece morire molti. Quegli morio per foglie e per acqua: ma voi vincete per la vostra nominanza. Quegli diede i forti alla morte: vincete voi i debili, e ricevete voi l'onore del padre. Se gl'iddiei non vogliono che Teba basti lungo tempo, volesse iddio che gli stormenti della battallia e gli uomini gagliardi disfacessoro le mura, e che 'l fuoco e 'l ferro risonassoro! allora noi saremmo miseri sanza biasmo: lamenteremmoci della forte, e non la celeremmo, e le lagrime nostre non averebbono vergogna. Ma aguale sarà presa Teba da uno fanciullo disarmato, lo quale non si diletta in battaglie nè in lance nè in numero di cavalli; ma d'avere i capelli bagnati di mirra, e le corone de' fiori, e 'l vestire della porpora, e l'oro tessuto ne' dipinti vestiri: lo quale per certo incontanente io farò confessare che Giove non è suo padre, e che' suoi sacrifici non sono veri. Or non è assai ardire ad Acrisio di spregiare lo vano iddio, e chiudere le porti a lui che venìa? Uno avveniticcio spaventerà Penteo con tutta Teba? E' comanda a' fanti: o fanti, andate tosto, andate e menate qua lo signore legato, sanza alcuno indugio. L'avolo suo Cadmo, e Atamas, e altra turba de' suoi gastigano costui con parore, e indarno s'affaticano di ritrallo. Quegli ee più aspro per gli ammonimenti di coloro, e per lo ritenimento ee commosso a maggiore ira, e crescegli la rabbia, e' gastigamenti gli noceano. Così hoe io veduto lo fiume corrente, da quella parte da la quale niuna cosa contastava a lui andante, correre più leggiermente e con piccolo romore: ma se d'alcuna parte gli erano contraposte travi o sassi, andava schiumoso e fervente, e più crudele per lo contraponimento. Come i fanti menaro Aceste a Penteo; e come Penteo lo minaccia, e domanda chi egli ee. Ecco i fanti di Penteo tornare insanguinati: e negarono al signore che domandava Bacco, d'avere veduto dove Bacco fosse: ma dissoro: noi abbiamo preso costui compagno e servo de' suoi sacrifici. E dannogli, con le mani legate dopo il dosso, colui che seguitava gli sacrifici di Bacco; cioè Aceste, nato della gente tirena. Penteo ragguarda costui cogli occhi, li quali l'ira avea fatti da temere; pognamo che appena s'attenesse d'ucciderlo; disse: o tu che dei perire per la tua morte, e per dare assemplo agli altri, dìmi lo tuo nome, e quello de' tuoi antichi, e la patria tua, e perchè tu spesseggi i sacrifici del nuovo costume. Come Aceste rispuose a Penteo. Quegli sanza paura disse: lo mio nome ee Aceste; Meonia ee mia patria; mio padre e mia madre furono di vile nazione: lo mio padre non mi lasciò buoi che arassoro, nè bestie con lane, nè alcuni armenti; egli medesmo fue povero, e con areti e con ami e con lenze pigliava i pesci: l'arte sua era a lui lo suo avere. Quando egli mi diede l'arte, disse: o succeditore e erede del mio studio, ricevi le ricchezze che io hoe. E moriendo, niun'altra cosa mi lasciò che l'acque. Questa sola cosa posso io appellare mio patrimonio. Poscia, acciò ch'io non stessi sempre in quelle medesme acque, apparai ad essere navigatore, ed a conoscere i segnali del cielo, e le case de' venti, e' porti acconci alle navi. Per la ventura, io navigante a Delon, arrivai alle contrade di Tizia, e fui menato a' porti con diritti remi, e diedi lievi salti, e entrai nella molle arena. Poi che la notte fue consumata, e l'aurora avea cuminciato ad arrossire, io mi levo, e comando a' compagni che rechino le fresche acque, e mostro loro la via che mena all'acque. E io ragguardo da uno alto scoglio quello che l'aura mi promette; e chiamo i compagni, e rientro nella nave. Ofeltes, primo de' compagni, disse: ecco, noi siamo presenti: e pensando d'avere acquistata preda nel diserto campo, mena per li liti uno fanciullo in forma di vergine. Quegli, grave per lo vino e per lo sonno, parea che dubitasse, e che appena potesse seguitare. Io ragguardo l'adornamento della faccia e 'l passo suo: io non vedeva quivi alcuna cosa la quale potesse essere creduta mortale. Sentìlo, e dissi a' compagni: io dubito che deità sia in questo corpo: ma per certo deità ee in questo corpo. O chiunche tu se', sii favorevole a noi, e sii presente alle nostre fatiche, e perdona a costoro che t' hanno preso. Dittis, del quale alcuno non era più presto a salire nelle somme antenne, nè di correre a dietro per la presa sagola, disse: non ti dare impaccio di pregare per noi. Libis loda questo detto, e Flavos, e Melampo difenditore della nave, e Alcimedon, lo quale dava riposo e modo con voce a' remi; e tutti gli altri lo lodano; sì erano ciechi per lo disiderio della preda! Tuttavia io dissi: io non sostorrò che questa nave sia violata col santo incarico: io hoe grande parte di ragione in questa; e contasto loro nella entrata. Licabas, arditissimo di tutto il numero, lo quale, cacciato dalla cittade di Toscana, sostenea pena per crudele micidio lo sbandimento, viene con grande furore. Questi, contradiando io a lui, mi percosse la gola col giovane pugno; e averebbe gittato me scosso nel mare; se non ch'io mi ritenni alla fune, avvegna ch'io fosse sbigottito. La crudele turba loda il fatto. Allora finalmente Bacco (in verità egli era Bacco), sì come desto per lo romore, e come si risentisse per lo vino, disse: che fate voi? che romore ee questo? o navigatori, ditemi, per quale aiuto venn'io qua? ove v' apparecchiate voi di portarmi? Proro disse: non avere paura, e die a qual porto tu vuogli essere portato: tu sarai posto nella terra che tu dirai. Allora disse Bacco: volgete i vostri corsi a Nasson: quivi ee la casa mia: quella sarà a voi terra che v' albergherà. Gli bugiardi navigatori giurano per lo mare e per tutte le deitadi, che lo farebboro; e comandano a me ch'io dea le vele alla dipinta nave. Nasson era dalla parte dritta: io rizzava le vele verso la parte diritta. Ofeltes disse: o pazzo, che fai tu? qual furore ti mena? Ciascuno teme per se: grande parte con segnali mi dicea ch'io andasse alla parte manca: alcuno mi dicea nell'orecchie quel che volea. Io mi meravigliai, e dissi: pigli altre a guidare la nave: e rimossimi dall'oficio della malizia e dell'arte. Io sono ripreso da tutti; e tutta la gente mormora. De' quali Atalion disse: certo, tutta la nostra salute ee posta in te solo? Egli prese l'oficio, e fece quello che dovea fare io: e domanda luoghi diversi dall'isola di Nasson. Come Aceste dice a Penteo, come Bacco mutò gli compagni suoi in pesci. Allora lo dio cianciante, sì come pur allotta si fosse avveduto dello inganno, ragguarda il mare dalla ripiegata nave, e simigliante a piagnente, disse: o navigatori, voi non mi prometteste questi porti: io non vi pregai che voi mi menaste a questa terra. Per qual fatto hoe io meritata pena? qual grolia ee la vostra, se voi, giovani e molti, ingannate me uno fanciullo? Io piagnea: la crudele schiera de' compagni si facea beffe delle mie lagrime, e costringea il mare co' frettolosi remi. O Penteo, io ti giuro aguale per quello iddio, del quale alcuno non ee ora migliore, ch'io ti dico così cose vere com' elle sono, maggiori che non si possono credere. La nave stette nel mare no altrementi che com' ella fosse in terra secca. Quegli meravigliantesi stanno fermi nel battere de' remi; e menano giuso le vele, e brigano di correre con doppio aiuto. L'ellere impediscono i remi, e con ripiegato nodo sottentrano, e distringono le vele con gravi frutti dell'ellere. E Bacco, abbiente attorneata la fronte delle racimolute uve, muove l'asta velata di pampanute frondi; dintorno al quale giacciono i tigri, e vane imagini di lupi cervieri, e crudeli corpi delle macchiate pantere. Gli navigatori saltaro fuori della nave, o per pazzia o per paura. Lo primo Medon incuminciò a diventare nero nel corpo; ma incumincia a ripiegarsi nel premuto ripiegamento della schiena. Licabas disse a costui: in che meraviglie se' tu volto? E le fattezze del volto diventaro lati a costui che parlava, e la nare ripiegata; e la indurata buccia traeva squama. Ma Libis, vogliendo menare i fermati remi, vide le sue mani tornare in piccolo spazio; e quelle già no essere mani, e potere chiamare ale di pesce. L'altro, vogliendo dare le braccia alle torti funi, non ebbe braccia; e ripiegato col tronco corpo, saltò nell'acque, e l'ultima coda ee divisa come sono i corni della mezza luna. Da ogne parte danno i salti; e con molto spargimento d'acqua imbagnano i loro corpi; e anche escono fuor dell'acque, e da capo rientrano sotto l'acque; e giuocano in maniera di compagnia, e gettano i gioiosi corpi, e mandano fuori lo riceuto mare per l'aperte nari. Io solo, pauroso e gialato col tremante corpo, rimanea aguale di venti compagni, però che cotanti ne portava quella nave: e appena lo dio mi rassicurò dicente: caccia la paura del cuore, tieni verso Sizia. Io essente arrivato in quella, andai a' sacrifici: e però sono studioso ne' sacrifici di Bacco. Come Penteo fece mettere Aceste in pregione per ucciderlo; e come Aceste meravigliosamente fuggio. Penteo disse: o Aceste, noi abbiamo dati gli orecchi alle tue lunghe favole, acciò che per lo indugio l'ira possa perdere forze. O fanti, incontenente pigliate costui, e mandate lo viziato corpo co' crudeli tormenti alla oscurità dello 'nferno. Aceste tireno incontanente fue rinchiuso in salda pregione: e mentre che' crudeli istrumenti della comandata morte, cioè ferro e fuochi, sono apparecchiati, per lor medesmo s'apersoro le porti; e dicesi che le catene gli caddoro dalle braccia, sanza essere sciolte da alcuno. Penteo sta fermo nella sua oppenione; e non comanda a' fanti che vadano, ma egli vae ove lo festereccio monte Citeron risuonava a fare i sacrifici per li canti e per la chiara voce di coloro che sacrificavano all'onore di Bacco. Sì come l'aspro cavallo anatrisce quando lo sonatore della trombetta col risonante stormento hae dati segnali e hae commossi gli animi al volere la battaglia; così l'aria, percossa per gli lunghi urlamenti, mosse Penteo; e riscaldossi nell'ira quando ebbe udito il grido. Come Penteo fue morto dalla madre e dalle zie in ispezie di porco salvatico. Poco meno che nel mezzo del monte ee una pianura di campo sanza alcuno arbore, attorneata da selve. In questo luogo la madre primaia vede lui guardare i sacrifici con maledetti occhi: ella primaia ee commossa con furioso corso: ella primaia, lasciati gli festarecci fiori, percosse lo suo Penteo, e grida: o due mie serocchie, siate qui presenti: quel grande porco salvatico ch'erra per li nostri campi, io lo voglio fedire. Tutta la turba con furore viene contra solo Penteo: tutti si raunano, e seguitano lui pauroso, già parlante meno crudeli parole, già riprendente se, già confessante ch'egli avea peccato. Ma pur tuttavia quegli fedito disse: o Autonoe mia zia, dàmi aiuto. L'ombre d'Atteon muovano l'animo tuo a pietade. Quella non sae chi Atteon si sia; e taglia la mano diritta di colui che la priega: e la manca fue lacerata da Ino. Lo sventurato non hae le troncate braccia, ch'egli possa mostrare alla madre: ma mostrante le fedite co' gittati membri, disse: o madre, ragguarda. Agave, veduti i membri, urloe, e gittò il collo qua e colà, e mosse lo peccato per l'aria: e abbracciante lo divelto capo con le insanguinate dita, grida: o compagni, egli è bisogno che noi sempre vinchiamo. Lo vento non tolle più tosto dall'alto arbore le frondi toccate dal freddo dell'autunno e male fermate, che' membri di Penteo fuoro tolti dalle crudeli mani. Le femine di Teba, ammonite per cotali essempli, spesseggiano i nuovi sacrifici, e danno gl'incensi, e onorano le sante altari. Qui ee finito il libro terzo. Qui cumincia il libro quarto. Come Bacco era onorato per la città di Teba, fuori che dalle figliuole del re Mineo. Ma Alcitoe, figliuola del re Mineo, non giudica che le feste di Bacco siano da guardare: ma ancora, pazza, niega ch'egli sia figliuolo di Giove; e hae per compagne a questa follìa le sue serocchie. Lo prete avea comandato che le fanti sanza ricevere prezzo, guardassoro la festa di Bacco, e che le donne coprissoro i loro corpi delli orrevoli vestiri, e che s'acconciassoro gl'intrecciatoi, e che portassoro le grillande in testa, e che pigliassoro i freschi fiori con le mani; e avea loro detto dinanzi, che l'ira dell'offeso iddio era crudele. Le donne e le nuore l'ubidiscono: ripongono le tele e' panieri, e le non isconocchiate rocche; e danno i sacrifici, e chiamano e Bromio, e Lieo, ingenerato nel fuoco, nato due volte, e solo di due madri. E a questi nomi ee aggiunto Niseo, e non tonduto, e Cioneo, e, con Leneo, componitore della geniale uva, e Nitteleo, e Eleo padre di Iaco, e Evan, e altri molti nomi, i quali tu Bacco hai tralle genti di Grecia, però che la tua giovenezza sempre basterà. Tu see fanciullo eternale; tu see veduto bellissimo dall'alto cielo: quando tu see sanza corni, tu hai capo di vergine. Oriente ee vinto da te insino a quella parte ove l'India col nero colore ee intorneata dall' ultimo fiume Gange. Tu, onorevole, uccidesti Penteo, e Ligurgo, adoratori degl'idoli; e' corpi de' navigatori di Tiria mandasti nel mare. Tu costringi i noboli colli delle pantere con dipinti freni; le monache bacche, e' satiri ti seguitano, e 'l vecchio Silleno, lo quale ebbro sostiene i tremanti membri col bastone, e non si appoggia fortemente al piegato asinello. Per qualunche luogo tu entri, suona lo grido de' giovani, e insiememente voci di femine, e suonano i tamburi picchiati colle palmi, e le cavate trombette, e la sampogna del busso con lungo foro. Tutte le femine di Teba ti priegano che tu sii presente, benigno e umile. Ma sole le figliuole di Mineo, turbanti le feste dentro nella casa con la dea Minerva, o vero ch'elle filano la lana, o volgono lo stame con le dita, o vero s'appoggiano alla tela, e tormentano le fanti con le fatiche. L'una delle quali, traente il filo con dilicato dito, cessandosi l'altre femine, e faccendo le nuove feste, disse: noi, le quali tiene Pallas migliore iddia, passiamo l'utile lavorio delle mani con diverse novelle, e avvicendevolemente rechiamo a' voti orecchi alcuna cosa, che non ci lasci parere i tempi lunghi. Le serocchie lodano il detto di costei, e comandano ch'ella dica la prima novella. Quella pensa di molte quale ella dica; però ch'ella ne sapea molte: e stae in dubbio, o ch'ella dica di te, Dirce di Babbilonia, la quale, le squame coprienti le sue membra, gli uomini credono che si mutasse nel fiume Palestino; o vero ch'ella dica come la sua figliuola, mutata in colomba, finio gli suoi anni nell'alti torri; o ch'ella dica della fanciulla che facea mutare tutt' i giovani che la vagheggiavano in pesci, insino a tanto ch'ella non sostenne quel medesimo; o ch'ella dica dell'arbore che avea i pomi bianchi, e poi per lo toccamento del sangue gli ebbe neri. Questa favola piace loro, però che non era ancora appalesata. Ella cuminciò a dire in questo modo, seguitando la lana i suoi fili. Favola di Pirramo e di Tisbe, la quale dice Altitoe. Pirramo e Tisbe, l'uno più bello de' giovani, l'altra avanzante le fanciulle d'oriente in bellezza, ebbero le case congiunte in quella parte ove si dice che la reina Semiramis attorneoe l'alta cittade con cotte mura. La vicinanza fece il conoscimento, e' primi andamenti; per lo tempo crescette l'amore; e per ragione di matrimonio sarebboro congiunti insieme: ma' padri lo vietaro. Amindue ardeano negli animi presi per iguale amore: la qual cosa non potero vietare i lor padri. Non essendo alcuno presente che di ciò s'avvedesse, con atti e con segni parlano insieme: e quanto il fuoco più si cuopre, tanto più si riscalda. Lo muro comune a l'una e all'altra casa era fesso per piccola fessura, la quale avea menata quando si fece. Quella fessura non fue veduta per lungo tempo da alcuno. Che cosa ee che l'amore non senta? Voi, amanti, primi vedeste la fessura, e di quella faceste via di voce; e sicuramente per quella passavano le lusinghe dell'amore con piccolo mormorio. Spesse volte stavano fermi quivi, Tisbe dall'una parte, e Pirramo dall'altra; e avvicendevolemente l'uno ricevea dall'altro l'alito della bocca, e diceano: o invidioso muro, perchè contrastai a noi amanti? O come era gran cosa, che tu ci lasciassi congiungere con tutto 'l corpo? e se questo fosse troppo; almeno fossi tu sì aperto che noi ci potessimo basciare! e non siamo sconoscenti della grazia che tu ci fai. Noi confessiamo d'esserti obligati per tanto, che per te possiamo mandare alli amicevoli orecchi le parole l'uno all'altra. Abbiendo dette così fatte parole indarno in diversa sedia, nell'avvenimento della notte insieme si dissoro: A dio t' accomando; e ciascuno diede i basci alla sua parte, non vegnenti incontro. L'aurora diposcia avea rimossi i lumi della notte, e 'l sole avea rasciutte co' razzuoli l'erbe piene di brinata. Raunaronsi all'usato luogo: e essendosi con piccolo mormorio prima lamentati di molte cose, ordinano nella vicina notte d'ingannare gli lor guardiani, e di tentare d'uscire delle porti; e quando saranno usciti fuor della casa, di lasciare la città: e acciò ch'eglino, andanti per l'ampio campo, non errino, ordinano di raunarsi alla sepultura del re Nino, e di nascondersi sotto l'ombra dell'arbore. L'arbore alto moro, abbondevole di bianchi pomi, era quivi allato a una gialata fonte. Gli patti piacquoro; e parea loro che 'l sole n'andasse tardi. Andonne sotto l'acque; e la notte si levoe dall'acque medesme. La scalterita Tisbe di notte, aperte l'uscia, uscìo fuor della casa, e ingannoe gli suoi; e abbiente velato il volto, venne alla sepultura, e sedette all'ordinato arboro. L'amore la faceva ardita. Ecco una leonessa che viene, abbiente lo schiumoso ceffo sanguinoso di ricente morte di buoi, per lasciare la sete nell'acque della vicina fonte. La quale Tisbe di Babbilonia vide da lungi a' razzuoli della luna, e col pauroso piede fuggio nella oscura spilonca: e fuggendo, lascioe lo velo caduto dal dosso. Poi che la leonessa ebbe costretta la sete con molta acqua, tornando nella selva, squarciò con la insanguinata bocca lo sottile velo trovato forse sanza lei. Pirramo, che uscìo fuori più tardi, vide nell'alta polvere certe orme di fiera, e impallidio per tutta la faccia. Ma poi ch'egli ebbe trovato lo velo tinto del sangue, disse: una notte ucciderà noi due amanti; de' quali quella fue dignissima di lunga vita! La mia anima ee nocente. O Tisbe d'averne misericordia, io sono colui che t' hoe morta; lo quale comandai che tu venissi ne' luoghi pieni di paura, e non venni qua prima di te. O qualunque leoni abitate in questo scoglio, squarciate il mio corpo, e consomate le scelerate budelle con crudele morso. Ma da pauroso procede disiderare la morte. Egli toglie lo velo di Tisbe, e portalo seco all'ombra dell'ordinato arbaro. E poi ch'ebbe date le lagrime e' basci al conosciuto velo, disse: ricevi aguale l'assaggiamento del mio sangue. E ficcossi per lo fianco la spada ch'egli avea cinta; e sanza indugio moriente, la trasse della fedita, e arriversciato giaceo in terra. Lo sangue uscìo fuori largamente; sì come lo cannone quando lo piombo ee rotto gette fuor l'acque, e con voci rompe l'aria. Gli frutti dell'arbore si volsoro in nera faccia per lo imbagnamento della morte; e la radice, bagnata del sangue, tinse le pendenti more di colore di porpora. Eccoti Tisbe, non ancora lasciata la paura, acciò ch'ella non inganni lo suo amante, ritorna, e cerca per lo giovane con gli occhi e con l'animo; e disidera di dirgli come grandi pericoli ella abbia schifati. E poi ch'ella cognobbe il luogo, e la forma volta nell'arbore, (così la fae incerta lo colore del pomo) dubita se questa sia essa. Dubitando lei, vede i tremanti membri percuotere la sanguinosa terra: trasse il piede a drieto; e abbiente la faccia più pallida che 'l busso, tremoe a similitudine del mare, lo quale ee costretto dal piccolo vento. Ma poi che fue stata alquanto, e ebbe conosciuto lo suo amante, percuote le non degne braccia con aperto picchiamento; e abbiente stracciati i capelli e abbracciato l'amato corpo, riempieo le fedite di lagrime, e mescoloe lo pianto al sangue; e ficcante i basci nel gialato volto, gridoe: o Pirramo, che caso ee quello che mi t' hae tolto? o Pirramo, rispondimi; la tua carissima Tisbe ti chiama: odimi perfettamente; e leva suso lo giacente volto. Pirramo, udiendo lo nome di Tisbe, aperse gli occhi già gravati della morte; e veduta, gli richiuse. Tisbe, poi ch'ebbe conosciuto lo suo velo, e vide la guaina del vivorio vota della spada, disse: o isventurato, la tua mano e 'l tuo amore t' hae morto; e la mano ee a me forte in simigliante opera, e l'amore mi darae forze nelle fedite. Io seguiterò te morto; e, miserissima, sarò detta cagione e compagna della tua morte: e tu il quale, oimè! potei essere partito da me per sola la morte, non ti potrai partire da me nella morte. Ma, o molti miseri miei e suoi padri, siate pregati di questo per gli preghieri di noi due, che voi non abbiate invidia che noi siamo riposti in uno medesimo avello, gli quali lo certo amore hae congiunti alla sezzaia ora della morte. Ma tu, o arbore, che cuopri aguale lo miserevole corpo d'uno co' rami, e incontenente coprirrai i corpi di due, tieni i segnali come noi ci siamo morti, e sempre abbi i frutti e' parti acconci a' pianti, ammonimenti del doppio sparto sangue. Ebbe detto: e acconciata la spada sotto il petto, si gittoe in sul ferro ancora tepido dell' altra morte. Ma pognamo ch'eglino avessoro la disavventura dell'uccidersi, pur i loro preghieri furono uditi dall'iddiei e da' loro padri; però che lo nero colore ee nel pomo quando ee bene maturo: e quello che soperchioe da' fuochi, si riposa in uno avello. Alcitoe ebbe detto: e 'l mezzo fue piccol tempo; e incumincioe a dire Leuconoe. Le serocchie tennero la voce. La favola che dice Leuconoe; come 'l Sole mostroe a Vulcano, come Mars giacea con Venus. Certo l'amore prese questo Sole, lo quale tempera tutte le cose con la chiara luce. Diciamo gl'innamoramenti del Sole. Questo primo iddio si dice che vide l'adulterio che fue tra Mars e Venus: questo iddio prima vede tutte le cose. Dolfesi di quel fatto; e mostrò a Vulcano, figliuolo di Iuno e marito di Venus, lo fallo che gli era fatto, e 'l luogo ove si facea. Allora cadde a lui la mente e l'opera ch'egli fabricava; e incontanente fabricoe sottili catene di rame, e reti, e lacciuoli, i quali non potessoro essere veduti: lo sottilissimo stame non averebbe vinta quella opera; nè lo ragnatelo che pende negli alti correnti: e sì fatti, che si possono portare, e muovere leggiermente: e acconciamente gli alluoga dinanzi al letto. Poi che la moglie e l'adòltero vennero in uno letto; per l'arte del marito, e per gli lacciuoli apparecchiati per nuova ragione, amindue stettero fermi, presi ne' mezzi abbracciamenti. Vulcano incontenente aperse le porti del vivorio, e ricevette gl'iddiei. Quegli giacettoro vituperosamente legati: e non fue alcuno degl'iddiei non tristi, che volesse essere così vituperato. Gl'iddiei se ne risoro: e lungo tempo fue questa apertissima favola per tutto 'l cielo. Come 'l Sole innamorò di Leucotoen figliuola d'Orcamo. La dea Venus domanda per lo dimostramento che fece il Sole pena ricordevole; e per vendetta offende con simigliante amore colui che offese gli coperti amori. O figliuolo di Giove, che ti giovano aguale la bellezza e 'l colore, e gli risprendenti lumi? In verità, tu che ardi tutte le terre con tuoi fuochi, see arso con nuovo fuoco; e tu che dei ragguardare tutte le cose, ragguardi sola Leucotoen, e fermi in una vergine gli occhi co' quali tu dei alluminare il mondo. Alcuna volta ti lievi da oriente più temperatamente che tu non suoli; e alcuna volta cadi più tardi nell'acque; e per la dimoranza che fai in guardare lei, ci dai l'ore del verno; e alcuna vieni meno: e 'l difetto passa ne' lumi della mente; e tu scuro spaventi i petti delli uomini. E non impallidisci perchè la immagine della luna, più prossimana di te alle terre, ti contastìa: l'amore ee che ti fae questo colore. Tu ami questa sola; e non ti tiene Climene, nè Rodon, nè la bellissima madre di Circes orientale, nè Clizien, la quale domandava di giacere teco, avvegna dio che tu la dispregiassi, e per questo portava grave fedita nel tempo. Leucotoen ti n'hae fatte dimenticare molte; la quale partorio Erimone, bellissima sopra tutte quelle della contrada ove nasce lo 'ncenso. Ma poi che la figliuola fue cresciuta, sì come la madre vinse tutte l'altre in bellezza, così la figliuola vinse la madre. Come il Sole ebbe a fare di Leucotoen; e come si trasmutò in arcipresso. Lo padre Orcamo resse le cittadi di Grecia, e fue settimo per nazione dell'antico Belo. Sotto il fermamento d'Esperia sono le pasture de' cavalli del Sole, i quali in luogo di gramigna hanno l'erba ambrosia, la quale notrica gli membri affaticati per gli servigi del dì, e rapparecchiali alle fatiche. E mentre che' cavalli pigliano quivi le celestiali pasture, e la notte fae la sua vicenda, lo dio entra nella disiderata camera, volto nella faccia della madre Erimone: e tra dodici fanti vide a' lumi Leucotoen traente gli sottili stami con torto fuso. Addonqua poi, sì come madre, ebbe dati i basci alla cara figliuola, disse: o fanciulle, la cosa ee segreta: partitevi, e non tollete alla madre l'arbitrio di parlare le segrete cose. Le fanti ubidiro: e lo dio, lasciato nella camera sanza testimonio, disse: io sono colui lo quale misuro lo lungo anno; io sono colui il quale veggio tutte le cose; io sono l'occhio del mondo, per lo quale la terra vede tutte le cose: credi a me; tu mi piaci. Quella teme; e per la paura la rocca e 'l fuso le caddoro della parte diritta. La paura le si convenia: ed egli, non partito da lungi, tornoe nella vera forma e nell'usato chiarore. Ma la vergine, avvegna che ispaventata col non pensato vedere, vinta per lo sprendore dello dio, lasciato il lamento, sostenne forza. Clizia n'ebbe invidia (però che l'amore del Sole non fue temperato in lei); e, stimulata per l'ira della puttana, appalesa l'avolterio, e mostralo a Orcamo padre di lei. Quegli, crudele e sanza umiltade, sotterra lei pregante e distendente le mani a' lumi del Sole, e dicente: quegli fece forza a me non volontarosa; e aggiunsele addosso lo monticello della grave arena. Lo figliuolo di Giove disfà questo co' razzuoli, o Leucotoen, e dae a te via, per la quale tu possi manifestare lo scoperto volto: nè tu, ninfa, già potei levare lo capo; ma 'l corpo giacea morto. Dicesi che lo temperatore de' veloci cavalli niuna cosa vide con maggiore dolore di questa, dopo la morte di Feton. Certo egli tenta colla forza de' razzuoli, s' egli potesse, di richiamare gli gialati membri nel vivo caldo. Ma però che la provedenza di Dio contasta a così grandi sforzamenti, egli riempieo lo corpo e 'l luogo di dolcezza piena di molto olore: e essendosi molto prima lamentato, disse: tu pur toccherai l'aria. Incontenente lo corpo, ripieno della dolcezza del cielo, uscìo fuori, e bagnoe la terra del suo olore; e la verga che fae lo 'ncenso, sparte a poco a poco le barbe per la terra, si levò, e ruppe la sepultura con la vetta. Come 'l Sole dispregiò Clizia; e com' ella si mutò in uno fiore che si chiama giralsole. Ma l'autore del die non andoe più a Clizia, avvegna che l'amore potea iscusare lo dolore, e 'l dolore lo dimostramento; e puose a se fine di lussuria in quella. E ella usata pazzamente dell'amore del Sole, si consumoe in quel tempo, e non sostenea di vedere le ninfe, e sedea all'aria la notte e 'l die ignuda in terra, arruffati gl'ignudi capelli; e stando nove dì sanza acqua e sanza cibo, pasceo lo suo digiuno con la pura rugiada e con le sue lagrime, e non si mosse dalla terra: ma solamente ragguardava la faccia dell'andante iddio, e volgea lo suo volto a lui. Dicesi che le membra si fermaro alla terra, e che lo nero pallidore convertio parte del colore nell'erbe sanza sangue. In parte ee rossore: simigliante a viola, lo fiore cuopre la bocca. Quella, avvegna che sia tenuta dalla barba, si volge al suo Sole; e, mutata in fiore, osserva l'amore di prima. Leuconoe ebbe detto: e 'l meraviglioso fatto prese gli orecchi delle serocchie. Parte di loro dicea che ciò non potea essere addivenuto; e parte dicea che gli volti iddiei possono tutte le cose: ma Bacco non è tra quegli. Alcitoe fue richiesta che dicesse la sua favola, poi che le serocchie furo racchetate. Questa, faccente gli stami della ferma tela, disse: La favola che disse Alcinoe, d'Ermofrodito e di Salmace. Io non voglio dire gli manifesti amori di Dafnido, pastore troiano, lo quale una ninfa, per ira d'un'altra alla quale consentio, fece convertire in sasso; sì ee grande dolore che arde gli amanti. E non dirò come di qui a drieto lo incerto Siton alcuna volta era uomo e alcuna volta era femina, rinnovata la ragione della natura. E trapasso aguale te, o Celmo, da qui a drieto fidatissimo al piccolo Giove; e' popoli Cureti, nati della larga piova. Ma io disterrò gli animi con dolce novitade. Apparate onde sia la nominanza; perchè nelle mal forti acque la fonte Salmace indebilisca, e rammorbidi gli toccati membri: la forza della fonte ee manifestissima. Le ninfe notricaro nelle spilonche troiane lo fanciullo nato di Mercurio e di Venus, la faccia del quale era tale che vi si potea conoscere lo padre e la madre; ed egli trasse lo nome da loro. Questi da prima, quando ebbe XV anni, abbandonoe gli monti della patria; e lasciata la selva Ida, nella quale egli era notricato, si rallegrava d'andare per li non conosciuti luoghi, e di vedere non conosciuti fiumi; e per la volontà menimava la fatica: e anche andoe alle cittadi di Lizia, e a Carras, prossimana a Lizia. Quivi vide uno stagno d'acqua rilucente infino al fondo: quivi non erano canne di pantano, nè la fangosa ulva, nè gli giunchi con l'auta punta. L'acqua dello stagno ee chiara; ma ee attorneata di vivo sasso, e d'erbe sempre verzicanti. Una ninfa viene spesso a questa acqua; ma non acconcia a cacciare, nè usata di tendere archi, nè di contendere nel correre; e questa sola delle ninfe no era conosciuta dalla veloce Diana. Dicesi che le sue serocchie più volte le dissoro: o Salmace, o tu piglia lo dardo, o tu piglia gli dipinti turcassi, e mescola gli tuoi riposi con le dure cacciagioni. Quella non pigliava dardo nè dipinti torcassi, e non mescolava gli suoi riposi con le dure cacciagioni; ma alcuna volta lava le belle membra nella sua fonte, e spesse volte ordinava gli capelli col pettine del busso, e domandava consiglio all'acque, nelle quali ella guardava, di quello che a lei si convenisse. Alcuna volta, abbiente intorneato lo corpo di rilucente vestire, o ella giacea tralle morbide foglie, o ella giacea tralle morbide erbe. Spesse volte cogliea fiori; e forse che gli cogliea allotta quando vide lo fanciullo, e, veduto che l'ebbe, lo disideroe d'avere. E per questo non andoe dinanzi a lui: e pognamo che s' affrettasse d'andargli innanzi; o quanto s'azzimoe! come ragguardò dintorno a' suoi vestiri, e lisciossi il volto, e meritoe di parere bella! E allora così cumincioe a parlare: o fanciullo dignissimo d'essere creduto che tu sii iddio, e puoti essere lo dio dell'amore; o che tu sii uomo, coloro che t' ingeneraro sono beati, e la madre tua ee avventurata; e se tu hai alcuna serocchia, quella ee avventurata, e la balia che ti diede le poppe. Ma molto ee più avventurata, e più beata di tutte, se alcuna ee che sia tua moglie: o se tu degnerai d'avere alcuna per moglie, fae ch'io sia quella: e se tu n'hai alcuna, fae che 'l mio diletto sia per furto, e entriamo in una medesima camera. Dopo queste parole la ninfa stette cheta: lo rossore prese la faccia del fanciullo: egli non sae che sia amore; ma a lui si convenia essere arrossito. Questo colore ee a' pomi che pendono al dilettevole arbore, o vero al tinto vivorio, o vero alla luna rossicante sotto la bianchezza, quando gli aiutanti stormenti indarno risuonano. Ermofrodito disse alla ninfa, che domandava almeno basci come serocchia sanza fine, e che abbracciava con le mani lo collo del vivorio: o tu ti rimani, o io mi fuggo e lascio teco queste cose. Salmace si vergognò, e disse: o oste, io ti doe questi luoghi liberi: e, rivolta a drieto, fece vista di partirsi. E ragguardante a dietro, e riposta tra' pruni, si nascose; e piegate le ginocchia, si puose a sedere. Allora quegli, sì come solo e non veduto nell'erbe, vae qua e di quinci colà, e nelle dilettevoli acque immolla l'estremitadi de' piedi insino a' talloni. E sanza indugio, preso per la temperanza delle lusinghevoli acque, ispogliò lo tenero corpo de' dilicati vestimenti: e allora Salmace si meravigliò, e arse per lo disiderio della ignuda forma. Gli occhi della ninfa rilucono non altrementi che 'l chiarissimo sole nel puro cerchio, quando ee ripercosso dalla contraposta immagine dello specchio: e appena si puote indugiare; e appena prolunga le sue allegrezze. Già disidera d'abbracciallo; già, pazza, male si puote rattenere. Quegli veloce dallo allegro corpo colle aperte braccia salta nell'acque; e menante l'avvicendevoli braccia, riluce nelle liquide acque; siccome se alcuno cuopra le insegne del vivorio o gli bianchi gigli col puro vetro. La ninfa grida: io hoe vinto! egli ee mio! E, gittato ogne vestire ch'ella avea in dosso, s'avventò nel mezzo dell'acque; e tiene lui combattente; e per forza piglia i basci; e mettegli sotto le mani, e tocca lo non volontaroso petto: ora ee dall'una parte del giovane, ora ee dall'altra. Finalmente ella impaccia lo rubellante, e che si forzava di fuggire da lei: sì come lo serpente, preso dall'aguglia e arrappato in alti, se la volge al capo e a' piedi, e colla coda impaccia le volanti ale; e siccome l'ellera suole legare gli lunghi pedali; e sì come lo pesce polipo tiene lo preso nemico sotto l'acque, lasciati i tormenti da ogne parte. Ermofrodito sta fermo, e nega alla ninfa le sperate allegrezze. Quella lo tiene fermo; e arrivesciata con tutto il corpo, così com' ella gli s'accostava, disse: o crudele, avvegna che tu combatti, tu pur non mi fuggerai: o iddiei, così comandate che neuno tempo diparta mai costui da me, nè me da costui. Gl'iddiei esaudiro gli preghieri, però che gli mescolati corpi di quegli due sono congiunti insieme, e hanno una faccia. Sì come se alcuno congiunga i rami nella corteccia, gli vede essere congiunti, e ugualmente crescere; così, poi che' membri furo congiunti con fermo abbracciamento, non sono due, ma ee doppia forma; e non puote essere detta femina, e non puote essere detto fanciullo; e non pare l'uno nè l'altra, e pare l'uno e l'altra. Adonqua, poi che l'uomo vide ch'egli era diventato mezzo maschio, colà ov' egli era disceso nelle liquide acque, e che' suoi membri erano rammorbidati in quelle; levante le mani, disse Ermofrodito, ma non con voce maschile: o padre e o madre, date doni al vostro figliuolo ch'hae il nome d'amendue; che qualunque uomo verrà in questa fonte, esca quinci mezzo uomo, e subitamente doventi morbido nelle toccate acque. Lo padre e la madre, mossi per li preghieri, fecero ferme le parole del figliuolo di due forme; e tinsoro la fonte con incerto medicamento. Come' vestiri e le tele delle figliuole del re Mineo si mutaro in lellere, e in tralci, e in viti, e in pampano; e elle si mutaro in vispistrelli. Ebboro fatto fine alle novelle; e ancora le figliuole di Mineo faceano il lavorio, e dispregiavano lo dio Bacco, e maladiceano la festa. Gli tamburi subitamente risonaro con non affiogati suoni, e la trombetta col rauncinuto corno, e' cembali risonanti suonano. La mirra e' fiori rendono olore. La cosa ee maggiore che da potere credere: le tele cuminciaro a verzicare, e 'l pendente vestire cuminciò a diventare fronzuto a modo d'ellera: parte ne diventò viti; e quelle che pur aguale erano fili, si mutano in tralci: dello stame esce il pampano: la porpora dae sprendore alle dipinte uve. Già era compiuto il die, e venìa l'ora la quale tu non puoti chiamare notte nè dì, ma confini tra 'l dì e la dubbiosa notte. Subitamente parve che 'l tetto si crollasse, e che le grasse lucerne ardessero, e che le case rilucano di risprendevoli fuochi, e che le false imagini delle crudeli fiere urlino. Le serocchie già si nascondono per gli fumosi tetti: e diverse in diversi luoghi fuggono gli fuochi e' lumi. E mentre ch'elle domandano le tenebre, la pelle a modo di carta si distende per li piccoli membri, e sottili penne racchiudoro le loro braccia; e le tenebre non lasciano loro sapere per quale ragione elle abbiano perduta la forma di prima. La piuma non levò coloro, ma sostennorsi con rilucenti ale: e sforzandosi di parlare, mandano fuori piccola voce, secondo il corpo; e fanno piccoli lamenti con istridore; e stanno per le case, e non per le selve; e abbienti in odio lo dì, volano la notte; e tengono il nome dal tardo vespro. Come Iuno si duole delle meraviglie di Bacco. Allora la deità dello dio Bacco era ricordevole per tutta Teba; e Ino, sua zia, dice in ogne parte le grandi forze dello nuovo iddio: ed ella sola di tante serocchie era sanza parte di dolore, fuor che di quello ch'ell'ebbe delle serocchie. Iuno vede costei abbiente gli occhi superbi per li figliuoli e per lo marito Atamante, e per la deità di Bacco; e non puote sofferire; e seco disse: Bacco; nato della puttana Semele, poteo mutare gli navigatori greci, e mettergli nel mare, e dare le budelle del suo figliuolo a lacerare alla madre, e coprire le tre figliuole di Mineo con le loro ale; e Iuno non hae potuto fare altro che sostenere molti dolori? Questo ee assai a me? questa ee sola la mia potenzia? egli m' ammaestra quello ch'io faccia: e a me ee licito d'essere ammaestrata dal mio nemico. Egli hae assai e troppo mostrato con la morte di Penteo quello che 'l furore possa. Perchè non fare' io che Ino fosse stimolata, e ch'ella vada alle sue serocchie per li parentevoli essempri? Come lo ninferno ee fatto. La via ee inchinevole, e piena di nebbie per lo mortale tasso; la quale mena altrui alle sedie dello 'nferno per gli mutoli silenzi. Lo fiume stigio manda fuori le nebbie: l'anime uscite del corpo nuovamente, discendono da quella parte: lo pallidore e 'l freddo tengono ampiamente gli spinosi luoghi: gli nuovi spiriti non sanno da qual parte sia la via che mena alla cittade stigia, nè ove sia la crudele magione regale del nero Plutone. Quella cittade hae mille entrate, e le porti sono aperte d'ogne parte. E sì come 'l mare riceve i fiumi di tutta la terra, così quel luogo riceve tutte l'anime; e non è piccolo ad alcuno popolo; e sente la turba che vi viene. L'ombre, sanza sangue e sanza corpo e sanza ossa, v' errano: parte ne guarda la piazza; parte stae nelle case del profundo tiranno; parte ne stae per altre rocche, seguitamento dell'antica vita. Come Iuno andoe al ninferno; e delle pene ch'ella vi trovoe; e come parlò alle furie del ninferno, per fare uccidere Atamanta e Ino sua moglie. Iuno, figliuola di Saturno, lasciata la sedia del cielo, sofferio d'andare colà: tanto credette a l'ira e alli odi! Nel quale luogo poi ch'ella fue entrata, e poi che la soglia calcata dal santo corpo tremoe, Cerbero trasse fuori tre capi, e a una volta mandoe fuori tre abbaiamenti. Quella chiamoe le tre serocchie generate di notte, grave deità, e da non potere essere raumiliata. Elle sedeano dinanzi alle porti della pregione chiusa con diamante, e pettinavano i scuri serpenti de' loro capelli. La quale poi che le dee ebbero conosciuta tralle oscure ombre, si levaro: la scelerata sedia le fue mostrata. Tizio dava le sue interiore ad essere squarciate, e era tratto in nove ventri. Tantalo non pigliava alcuna acqua, e' pomi ch'egli hae allato alla bocca lo fuggono. Sisifo o egli andava, o egli fuggia lo sasso che dee ruinare. Ission era volto, e seguita e fugge se medesmo. Le nepoti di Belo, che ardiro d'uccidere gli figliuoli del loro zio, continuamente raddomandano l'acque ch'elle perdono. Gli quali tutti poi che la figliuola di Saturno ebbe veduti, e ragguardante innanzi a tutti Ission, e poi Sisifo, disse: questi solo de' fratelli perchè sostiene perpetuali pene? La ricca magione regale tiene lo superbo Atamanta, lo quale colla moglie sua sempre dispregia me? E doppo questo, dice alle furie le cagioni dello odio e della via, e quello ch'ella voglia: e quello ch'ella volea era, che la casa di Cadmo non stesse ferma, e che' furori traessoro Atamanta nelle sciaure: e mostrandosi reina, mescola le cose promesse e' preghieri in una cosa; e solicita le die. Come Tesifone rispuose a Iuno, di fare ciò ch'ella comanda; e come ella uscìo del ninferno, e andoe alla casa d'Atamanta. Dette che Iuno ebbe queste parole, la turbata Tesifone mosse li canuti capelli, e levossi dinanzi dalla faccia gli contastanti serpenti, e così rispuose: o Iuno, e' non bisogna di dire molte parole: abbi per fatte tutte quelle cose che tu comandi: partiti quinci, e lascia l'odioso regno del ninferno, e riporta te a' venti del migliore cielo. Iuno ritorna lieta: la quale quando s' apparecchiò di rientrare in cielo, Iris lavoe di rugiadose acque. E sanza indugio la importuna Tesifone piglia una fiaccola bagnata di sangue, e mettesi uno vestire rossicante di discorrente sangue, e cingesi uno torto serpente, ed esce della casa dello 'nferno. Lo pianto accompagna lei andante, e la paura e 'l terrore e la pazzia col dubitoso volto. Stette ferma in su la soglia d'Atamante. Dicesi che gli usci della casa del figliuolo d'Eulo tremaro: lo pallidore fece diventare nere le porti dell'acero: lo sole fuggio quel luogo. Ino, moglie d'Atamanta, isbigottio per le maraviglie; Atamanta fue ispaventato, e apparecchiavasi d'uscire della casa: ma la disavventurata Tesifone contastoe loro. Erinis assediò l'entrata; e distendente le braccia, annodate di nodi di serpenti, iscosse la chioma: gli serpenti mossi risonaro; parte de' quali giace in su gli omeri, e parte distesa dintorno alle tempie danno sufili, e gettano fuori lo veleno, e le loro lingue rilucono. Quindi ruppe due serpenti de' mezzi crini, e mandògli con mortale mano. Quegli cercaro lo seno di Ino e di Atamanta; e tormentano le gravi anime, acciò che non diano alcuni tormenti a' membri: la mente ee quella che puote sentire le crudeli percosse. Tesifone avea recato seco meraviglie di nuovo veleno; ciò è le schiume della bocca del cerbero, e 'l veleno del serpente Echino, e' vaghi errori e gli dimenticamenti della cieca mente, e 'l male, e le lagrime, e la rabbia, e l'amore della morte: tutte queste cose mescolate insieme: le quali, tinte di ricente sangue, avea cotte in vasello di rame, mescolate con la verde cicuta. E mentre che coloro temono, volse lo furioso veleno nel petto di loro due, e mosse gli cuori dentro. Allora gittata via la sua fiaccola, spesse volte per uno medesimo cerchio seguita i fuochi mossi velocemente. Così vincitrice, e potente del comandamento, ritorna a' vani regni del grande Plutone; e discingesi lo serpente ch'ell'avea cinto. Come Atamanta impazzoe; e come Ino gittò se e 'l figliuolo in mare. Incontenente Atamanta, figliuolo d'Eulo, furibondo nel mezzo della casa grida: o compagni, tendete le reti in queste selve: io hoe veduto qui una leonessa con due figliuoli. E pazzo, seguita la fuggente moglie come fiera salvatica; e del seno della madre arrappa lo ridente Learco, e distendente le piccole braccia; e due e tre volte, a modo di rombola, lo volge per gli venti; e, feroce, percuote lo fanciullo nel rigido sasso. Allora la madre finalmente, o vero che 'l dolore fece questo, o la cagione dello sparto veleno, urla, e pazza fugge con gli sparti capelli; e portante lo piccolo Meliterta con ignude braccia, grida: o Bacco! Iuno, udendo chiamare Bacco, rise, e disse: cotesti versi ti dia Bacco, il quale tu allevasti. Uno scoglio ee sopra 'l mare: la parte di sotto ee cavata dall'onde, e difende le coperte onde dalle piove: la parte di sopra ee aspra, e distende la fronte nell'aperto mare. Ino piglia questo scoglio (la pazzia l'avea date forze); e non tardata per alcuna paura, gittò se e 'l suo figliuolo nel mare. La percossa onda biancicoe. Come per priego di Venus Nettunno fece iddiei del mare Ino e 'l figliuolo. Ma Venus ch'ebbe misericordia della nepote faticata indegnamente, così lusingoe lo suo zio: o Nettunno, iddio dell'acque, al quale ee data la segnoria prossimana a quella del cielo, certo io domando grandi cose; ma io ti priego che tu abbi misericordia de' miei, li quali tu vedi gittati nel grande mare Ionio; e aggiungigli al numero de' tuoi iddiei. E io hoe alcuna grazia nel mare; però ch'io fui creata di schiuma nel mezzo mare, e hoe piacevole nome da quella. Nettunno consentio alla pregante; e tolse a coloro quello che fue mortale, e impuose a loro la maestà da essere onorata; e a un'otta rinnovoe lo nome e la faccia; e chiamò lo dio Palemona colla madre Leucotoe. Come le donne di Sidonia piagneano Ino; e come Iuno le mutò in sassi. Le donne di Sidonia, che seguitaro in quanto potero la reina, viddoro gli sezzai segnali de' piedi nella prima parte del sasso: e per certo pensando che Ino fosse morta, piansero colle palme la casa di Cadmo, stracciandosi i capelli e' vestiri; e fecioro la invidia della dia poco giusta, e troppo crudele contra Semele e contra' suoi. Iuno non sostenne più gli disnori, e disse: io farò voi medesme grandissimi mutamenti della mia crudeltà. L'opera seguitoe il detto: però che quella, ch'era la più piatosa, disse: io seguiterò la reina entro il mare. E vogliendovi saltare entro, non si poteo muovere in alcuno luogo; e stette ferma appiccata allo scoglio: l'altra, vogliendosi picchiare il petto al modo usato, sentìsi inasprire le tentate braccia: quell'altra, siccome avea distese le mani nell'onde del mare, porse le mani fatte di sasso in quelle medesme acque. Subitamente averesti potuto vedere le dita di quest' altra indurate ne' capelli, così com' ella stracciava i crini dalla cottola. Ciascuna stette ferma nell'opera ch'ella fue trovata: parte ne sono fatte uccelle, le quali colle somme ali della gente di Mineo distringono il mare in quella medesma acqua. Come Cadmo e la moglie si mutaro in serpenti. Lo figliuolo d'Agenore non sae che la figliuola e 'l piccolo nepote sieno iddiei del mare: vinto per lo pianto, e per l'ordine de' mali, e per le molte meraviglie ch'egli avea vedute, componitore della sua città, esce della sua città, sì come la disavventura de' luoghi e non la sua l'offendesse: menato per lunghi errori, capitò colla fuggevole moglie ne' confini illirici. Già gravi per li mali e per li anni, mentre ch'egli dicono le prime disavventure della loro casa, e novellano delle loro fatiche, disse Cadmo: o era sagrato quel serpente che fue passato con la mia lancia, allora quando io, uscente di Sidonia, seminai per la terra gli denti del serpente, nuovi semi? Lo quale, se la cura degl'iddiei vendica con così certa ira, io priego ch'io mi dirizzi serpente in lungo ventre. Ebbe detto: e distendendosi come lungo serpente, sentio crescere le squame alla indurata cotenna; e sentio lo nero corpo essere svariato di gialle macchie; e inchinevole cade in sul petto; e le gambe mescolate in uno, a poco a poco si piegano con tonda sottigliezza. Già rimangono le braccia: egli distende le braccia che gli rimangono; e discorrendo le lagrime per la faccia ancora umana, disse: vieni a me, o moglie; vieni a me, o miserissima: e mentre che alcuna cosa soperchia di me, toccami; piglia la mano mentre ch'ell'è mano, e ch'io non sono fatto tutto serpente. Quegli vuole dire più cose: ma la lingua subitamente fue divisa in due parti: e a lui che volea, non bastaro le parole; e quante volte si vuole lamentare, tante volte sufila: e questa così fatta voce gli ha lasciata la natura. La moglie, percotente colle mani lo gnudo petto, grida: o Cadmo, aspettami; o disavventurato, spogliati di queste meraviglie: o Cadmo, ch'ee questo? ov' è 'l piè tuo, e 'l petto, e gli omeri, e la mano, e 'l colore, e la faccia? e mentre ch'io parlo teco queste cose, o iddiei, perchè non mutate voi me in quel medesmo serpente? Ed ebbe detto. Quegli leccava la bocca della sua moglie, e andava, sì come s'egli la conoscesse, ne' cari seni, e abbracciavala, e domandava l'usato collo. E chiunche v' era, temea: i compagni erano presenti. Ma quella lisciava lo discorrevole collo del crestuto serpente; e subitamente sono fatti due; e sottentrano con congiunto volgimento, insino a tanto che furo entrati nell'oscurità del contraposto bosco. E aguale non fuggono gli uomini, e non gli offendono co' morsi; e, piacevoli serpenti, si raccordano della forma ch'aveano prima. Ma lo nepote Bacco avea dato grandi solazzi ad amindue della volta forma; lo quale onorava la vinta India, e 'l quale Grecia avea in reverenza nelle composte altari. Come Perseo fece mutare col capo di Medusa nel monte Atalante lo ricchissimo re Atalante. Solo Acrisio nato di quella generazione era rimaso che non volea reverire Bacco, e portava l'arme contra lo dio, e non pensava ch'egli fosse della generazione di Giove: e anche non pensava che Perseo fosse figliuolo di Giove; lo quale Danae avea ingenerato quando egli le piovve in grembo in forma d'oro. Ma poi tanta fue la presenzia della verità, che Acrisio si penteo così d'avere fatto contra Bacco, come non avere conosciuto lo nepote Perseo. Già era l'uno e l'altro salito in cielo. Perseo, portante lo ricordevole capo di Medusa ch'avea gli serpenti per capelli, pigliava la tenera aria colle stridenti ale. E volando il vincitore sopra l'arene di Libia, le gocciole sanguinose caddoro del capo del Gorgone, le quali ricevute nella terra, fece diventare isvariati serpenti: onde quella terra ee abbondevole e corrotta di serpenti. Quindi menato da discordevoli venti per la grande aria, ora era menato qua e ora colà, sanza alcuno ordine, a modo di nuvili pieni d'acqua: e dall' alta aria guarda le terre che gli sono di sotto; e vola sopra tutto 'l mondo. Tre volte vide lo settentrione, e tre volte lo mezzodì: spesse volte fu in occidente, e spesse volte fu sopra l'oriente. Già cadente il die, e temendo volare di notte, stette fermo ne' regni d'Atalanta nella contrada d'Esperia, e priega Atalanta che gli conceda d'albergare nella sua magione per piccolo riposo, insino a tanto che la stella del dì chiami gli sprendori dell'aurora, e l'aurora i corsi del dì. Questo Atalanta, figliuolo di Iapeto, fue di grande corpo sopra tutti gli uomini: l'ultima terra e l'ultimo mare fue sotto questo re: lo quale mare sottopone le pianure agli affaticati cavalli del Sole, e riceve gli affaticati carri. Quegli avea mille greggi, e altrettanti armenti per l'erbe; e niuna vicinanza premea la sua terra: le frondi degli arbori, risprendenti di puro oro, sosteneano le foglie d'oro e' pomi d'oro. L'oste Perseo disse a colui: o che tu lo vogli fare per la grande generazione onde io sono nato, (Giove ee l'autore della mia generazione) o che ti meravigli per le cose nuove, tu ti meraviglierai per le nostre. Io ti domando albergo e riposo. Quegli raccordandosi dell'antica risposta di Temis, (Temis di Parnaso gli avea dato questa risposta: o Atalanta, tempo verrà nel quale lo tuo arbore sarà spogliato dell'oro, e questo titolo della preda avrà lo figliuolo di Giove.) Atalanta, temendo questo, avea racchiusi gli suoi giardini con saldi monti, e facea stare di fuori da' suoi confini tutti gli strani, e facevagli guardare a uno grande dragone. A costui disse: va di lungi da questo luogo: a te sia di lungi la gloria delle valentrie che tu mentisci c' hai fatte: a te sia di lungi Giove. E aggiunge forza alle minacce; e tenta di cacciare con le mani Perseo che stava fermo, e che mescolava la forza alle piacevoli parole. Egli era minore di forze: perocchè chi ee quegli che potesse essere pari alle forze d'Atalanta? Ma egli disse: però che tu hai a vile la gloria mia, ricevi questo dono. E rivolto a drieto, trasse fuori l'orribile capo di Medusa. Veduto che Atalanta ebbe lo capo, com' egli era grande, così fue fatto grande monte: la barba e' capelli diventaro selve; gli omeri e le mani sono fatti giughi; quello ch'era prima capo ee fatto la sommità nel sommo monte; l'ossa diventaro pietre. Allora, alto in ogne parte, crebbe sanza misura (così ordinaro gl'iddiei): e tutto lo cielo si riposò in su quello colle sue stelle. Come Perseo sciolse Andromada figliuola di Cefeo e di Caliope; e com' eglino promisoro di darglile per moglie; e come Perseo uccise la fiera marina. Eulo avea racchiusi i venti nell'eternale pregione; e la stella che fa fare gli lavorii era nata chiarissima nell'alto cielo. Perseo, riprese ch'ebbe le penne, si lega i piedi dall'una e dall'altra parte, e apparecchiasi d'uno arrotato coltello, e fende la liquida aria con le mosse penne: e lasciate genti sanza numero dattorno e di sotto, ragguarda gli popoli etiopi e' campi cefei. In quella parte lo non giusto Giove avea comandato che la indegna Andromada sostenesse le pene della lingua della madre. La quale poi che Perseo ebbe veduta, ch'avea legate le braccia alle dure pietre; se non che lo lieve vento le mosse i capelli, e che gli occhi abbondavano di lagrime; averebbe pensato ch'ella fosse essuta statua di marmo. Egli ignorante trae i fuochi dell'amore, e meravigliasi; e preso per la imagine della veduta bellezza, ebbe quasi che dimenticato di menare le sue penne per l'aria. Poi ch'egli fue stato, disse: o tu che non se' degna di queste catene, ma di quelle colle quali gli disiderosi amanti si congiungono, manifesta a me, che ti domando, lo nome della terra onde tu see, e 'l tuo, e perchè tu se' così legata. Quella da prima si meraviglia; e, vergine, non ardisce di dire alcuna cosa all'uomo; e con le mani averebbe celato lo casto volto, s'ella non fosse stata legata. Ma in quanto poteo riempieo gli occhi di lagrime: e acciò che non paresse ch'ella non volesse confessare lo suo peccato, manifesta a lui, che spesse volte la domandava, lo nome della terra, e 'l suo, e quanto la sua madre si confidoe nella sua bellezza. E non essendo ancora dette tutte le cose, l'acqua del mare risonoe, e la bestia avvegnente per lo grande mare, stava rilevata, e teneva l'ampio mare sotto 'l petto. La vergine gridoe: lo padre e la madre erano presenti, piagnenti l'uno e l'altra, miseri; ma quella più giustamente: e non recano con loro a lei aiuto, ma giusti pianti e picchiamenti per li tempi; e accostantesi al legato corpo. Perseo disse così: voi poterete piagnere lungo tempo: piccola ora sarà quella che darae a costei aiuto. Se io Perseo, figliuolo di Giove, domandasse costei; e nato di colei la quale Giove ingravidò con l'abbondevole oro; Perseo, vincitore di Medusa c' ha gli serpenti in luogo di capelli, e che ardisco con l'ale d'andare per li venti dell'aria; certo io dovrei essere avuto per genero innanzi a tutti gli altri; e ancora penso d'aggiungere merito a tante bontadi, pur che gl'idiei mi 'l consentano. Io foe patto con voi ch'ella sia mia, quando ella sarà liberata per la mia virtù. Fermano la legge: (E chi starebbe in dubbio di fermarla?) e 'l padre e la madre lo ne pregano, e anche gli promettono lo reame per dota. Ecco, così come la nave mossa dal vento divide l'acque, menata dalle sudanti braccia de' giovani; così la fiera, commosse l'onde per lo costringimento del petto, tanto era di lungi dalli scogli, quanto la rombola baleare puote mandare per lo mezzo dell'aria. Quando subitamente il giovane, percossa la terra da' piedi, alto n'andoe ne' nuvili; e nella sommità del mare fue veduta l'ombra dell'uomo. La fiera incrudelio contra la veduta ombra. E sì come l'aguiglia, quando hae veduto nel voto campo lo serpente che mostra lo livido dosso al sole, piglia la contradia parte, acciò ch'egli non ripieghi verso lei la crudele bocca, e ficca nel squamo capo gli disiderosi unghioni; così Perseo, mandato per l'aria dal veloce volamento, percosse nel dosso della fiera, e ficcoe lo ripiegato ferro nel diritto omero della stridente fiera. Quella, offesa per la grave fedita, ora si levava alta in aria, e ora entrava sotto l'acque; e ora si volge a modo di feroce porco salvatico, lo quale spaventa la turba de' cani che gli abbaiano d'intorno. Quegli fugge gli disiderosi morsi con le veloci ale; e alcuna volta fedisce col rauncinuto ferro in quella parte onde si puote vedere il dosso coperto dalle cave conche; alcuna volta fedisce le costi dallato; alcuna volta in quella parte ove la sottilissima coda finisce in pesce. La fiera manda fuori gialle acque mescolate con sangue. Le penne di Perseo gravi d'acque erano bagnate. Perseo, non ardito di credersi più alle penne bevitrici dell'acqua, vide uno scoglio lo quale con la sommità soprasta alle stanti acque, e ee coperto dal mosso mare. Fermossi in su quello; e tegnente gli primi giughi del manco scoglio, tre volte e quattro mise il ferro per gli raddomandati fianchi. Lo grido con l'allegrezza riempiero gli liti, e le case di sopra degl'iddiei. Caliope madre e Cefeo padre si rallegrano, e salutano il genero e l'aiuto della casa, e confessano ch'egli ee lo loro difenditore. La vergine, sciolta dalle catene, va prezzo e cagione della fatica. Perseo si lava le vincitrice mani con l'attinta acqua; e acciò ch'egli no offenda lo capo pieno di serpenti nella dura arena, ammorvida la terra con le foglie; e appiana le verghe nate nella pianura del mare, e ponvi suso il capo di Medusa figliuola di Forco. La ricente verga, e bevitrice, e già viva merolla, piglia la forza della meraviglia; e diventò dura per lo toccamento del capo; e ricevette nuova asprezza ne' rami e nelle foglie. Ma le ninfe del mare tentano lo maraviglioso fatto in più verghe, e rallegransi di quel mutamento; e gettano i semi di quelle per l'acque. E ora sono coralli; e quella medesma natura ee rimasa, ch'eglino ricevano la durezza dalla toccata aria; e quel ch'era verga nel mare, sopra 'l mare diventa sasso. Come Perseo fece sacrifici agl'iddiei; e come Perseo dice com' egli uccise Medusa. Quegli fece tre sacrifici a tre iddiei: quello dal lato manco fece a Mercurio; quello dal lato diritto a Pallas; quello di mezzo a Giove. La vacca fue morta a onore di Pallas; lo vitello a onore di Mercurio; lo toro a onore di Giove. Dopo questo, prese Andromada, guidardoni sanza dota di così grandi fatti: lo dio delle nozze e l'amore ricevono le fiaccole del matrimonio: gli fuochi si saziano di larghi olori; le grillande pendono a' tetti; e per ogne luogo risuonano le cetere e le trombe e le canzoni, avventurati argomenti de' lieti animi. Tutt' i palagi, pieni d'oro, si manifestano con le aperte porti; e' baroni de' Cefeni vanno a' conviti del re, ordinati con bello apparecchiamento. Poi ch'ebboro mangiato, e fuoro chiari per lo dono del nobile Bacco, Perseo domanda de' cultivamenti e de' modi della contrada. Lincide gli dice incontenente gli costumi e gli abiti degli uomini. Le quali cose poi ch'egli l'ebbe mostrate, disse: o fortissimo Perseo, io ti priego che dichi aguale con quanta vertù e con quali arte tu abbi tolto lo crinuto capo di serpenti del Gorgone. Quegli dice che sotto lo gialato monte Atalanta ee una valle sicura per la fortezza del monte, nell'entramento della quale narra che abitavano due serocchie, figliuole di Forco, le quali aveano l'uso d'un occhio solo; e com' egli con la sottoposta mano lo tolse quando l'una lo dava all'altra con vegghievole arte: e narra come per luoghi nascosti da lungi, e sparti per gli gioghi pieni di selve, capitoe alle case del Gorgone; e come per diverse parti vide imagini di uomini e di fiere convertite in pietre, perch'aveano veduta Medusa: e narra com' egli vide la forma della orribile Medusa nello scudo del cristallo, ch'egli avea nel braccio manco: e narra come, quando lo grave sonno tenea gli serpenti e lei, egli le taglioe lo capo dal collo; e come del suo sangue nacque colle penne lo fuggevole cavallo Pegaso, e la fonte nata del sangue della madre. E dice gli non falsi pericoli del lungo corso; cioè quali mari e che terre egli avesse vedute sotto se dall' alta aria, e quali stelle egli toccò colle volanti penne: e stette cheto prima che gli uditori lo pensassoro. Ma pur tuttavia uno de' baroni ricevette risposta, domandante perchè quella sola delle serocchie abbia gli serpenti mescolati tra' capelli. L'oste disse: però che tu domandi di cose degne d'avere risposta, ricevi la cagione di quel che tu domandi. Quella fue nominatissima per bellezza, e invidiosa speranza di molti vagheggiatori, e fue più bella ne' capelli che in alcuna altra parte del corpo. Io hoe trovato delli uomini che dicono che la viddoro. Dicesi che Nettunno corruppe costei nel tempio di Pallas. La figliuola di Giove si volse a drieto, e coperse lo casto volto con lo scudo suo: e acciò che questo non fosse sanza pena, mutò gli capelli di Medusa in sozzi serpenti: e aguale, acciò ch'ella spaventi gli suoi nemici, porta nello scudo suo gli serpenti ch'ella fece. Qui ee compiuto il quarto libro dell'Ovidio. Qui cumincia il quinto libro dell'Ovidio. Come Fineo fratello di Cefeo assalio Perseo per torgli Andromada; e come Cefeo lo ne riprendea. E mentre che lo signore figliuolo di Danae ricorda quelle cose nel mezzo della turba de' baroni Cefeni, gli palagi del re si riempiono del grido delle genti; e non è romore che canti le feste del matrimonio, ma che annunzia le crudeli armi: e potresti assimigliare gli conviti, volti in subiti romori, al mare; lo quale, riposevole, la crudele rabbia de' venti inasprisce con le mosse onde. Fineo primo intra questi, con furore incuminciatore della battallia, crollante una asta di frassino con la punta del ferro, disse: ecco, io sono presente lo vendicatore della moglie che m' è tolta. O Perseo, le penne, nè Giove volto nel falso oro, non mi ti torranno. E apriendosi per gittare la lancia, Cefeo grida verso lui: che fai, o fratello? che mente ee quella che ti trae a questo male? guidardoni tu la servata vita d'Andromada con questa dota? rendi tu questa grazia a così grandi meriti? Se tu vuoli cercare il vero, Perseo non ti l'hae tolta; ma la grave deità delle die marine, e Giove cornuto, e la bestia del mare che venìa per satollarsi della mia figliuola. Ella ti fue tolta in quel tempo ch'ella dovea perire: se no che tu, crudele, addomandi quel medesmo ch'ella perisca, e vuoliti rilevare per lo mio dolore. Certo, non è assai ch'ella fue sciolta a' tuoi occhi veggenti; e che tu, zio e marito, nolle desti alcuno aiuto: e ancora ti dorrai ch'ella sia diliberata da alcuno altro; e torra'gli i guidardoni? gli quali se ti paiono grandi, avessegli domandati da quegli scogli ove ella era legata. Ora lasciala avere a colui che la domandoe; per lo quale la mia vecchiezza non è cieca, e che la pattovio con meriti e con parole; e attendi diligentemente lui innanziposto non a te, ma alla certa morte. Come Fineo e Perseo cuminciaro a combattere, e 'l popolo s'accese nell'arme. Fineo non disse alcuna cosa incontro: ma guardante ora verso costui, e ora verso Perseo, non sae s'egli domandi costui o colui; e dimorato per piccolo spazio, mandò indarno verso Perseo l'asta lanciata con tante forze, quante l'ira gli dava. Quella si ficcò nella sedia. Allora finalmente Perseo si gittò fuor della sedia: e crudele averebbe trapassato lo petto del nemico con la rimandata lancia; se non che Fineo fuggio dirieto all'altare; e, indegnamente! l'altare giovoe allo scelerato. Tuttavia la non vana punta si ficcò nella fronte di Reto; lo quale poi che fu caduto, e 'l ferro fue divelto dell'osso, percuote la terra co' piedi, e bagna le poste mense col suo sangue. Allora lo popolo s'accende in grandissime ire; e a una otta gittano le lance; e sono alcuni che dicono che Cefeo ee degno di morire col genero. Ma Cefeo era uscito fuori in su la soglia della casa; e giurò per la ragione, e per la fede, e per gl'iddiei dell'albergo, che quelle cose eran mosse contra suo volere. Come Perseo uccise Atis e Licabas, compagni di Fineo. La dea Pallas ee presente, e collo scudo difende lo fratello, e dàgli ardire. Atis d'India era quivi, lo quale Lemiace, nata nella ripa del fiume Gange, si crede che partorio nelle chiare acque; nobile per bellezza, la quale egli accrescea col ricco adornamento, d'età di sedici anni; vestito d'uno mantello di Tiria, attorneato di lembo d'oro: gli adornamenti inorati ornavano il collo, e la mitra attorneava i capelli bagnati di mirra. Quegli per certo era ammaestrato di fedire nelle cose, avvegna che gli fossoro da lungi, con la lanciata lancia: ma più era ammaestrato di tendere gli archi. Perseo con uno stizzone, che fummava nella mezza altare, percosse costui tendente l'arco con la lenta mano, e ruppegli 'l volto nelle rotte ossa. Poi che Licabas d'Assiria, parente e compagno a colui, e non infingitore del vero amore, ebbe veduto costui volgente lo fedito volto nel sangue; poi ch'ebbe pianto Ati mandante fuori la vita per l'aspra percossa della fedita, prese l'arco ch'egli avea teso, e disse: o Perseo, a te conviene avere la battaglia meco: e non sarai lieto lungo tempo della morte del fanciullo, della quale tu hai più biasmo che loda. No avea ancora compiuto di dire, che la saetta uscìo fuor della corda, e schifata pendeo al vestire di Perseo. Perseo volse verso costui lo coltello bagnato della morte di Medusa, e ficcaglile nel petto. Ma quegli già moriente, con volgenti occhi nella oscurità della morte ragguardò dintorno a se Atin, e inchinossi a lui, e portò agl'iddiei dello 'nferno i solazzi della congiunta morte. Di diverse morti di diversi uomini. Ecco Forbas Suenito, nato da Metione, e Amfimedon di Libia, disiderosi del combattere con Perseo, discorsi, erano caduti nel sangue, del quale la terra largamente bagnata era tiepida. La spada fitta nel collo di Forbas contastoe alle costi d'Anfimedon che si levavano. Ma Perseo non percosse col coltello Erittio, figliuolo d'Atorio, lo quale in luogo di lancia avea la larga mannaia: ma levò alto con l'una e con l'altra mano uno grande vasello, iscolpito di molte dipinture, e di peso di molto oro e ariento, e percosselo a dosso a Erittio. Quegli gettò per la bocca lo rosso sangue; e arrivesciato percuote la terra co il moriente capo. Dopo costui abbatteo Polidemona, creato del sangue di Semiramis, e Abarin di Caucasia, e Liteo d'Aspertisia, e Elicen non tonduto, e Flegia, e Clito; e scalpita gli fatti monti di coloro che moriano. E Fineo, non ardito di correre presso al nemico, lanciò una lancia, la quale l'errore mandò in Ida, indarno non vogliente combattere, e non seguitante l'armi di Perseo, nè quelle di Fineo. Quegli, ragguardante co' crudeli occhi l'aspro Fineo, disse: ecco, io sono tratto nelle parti della battaglia. O Fineo, abbi per nemico il quale tu t' hai fatto nemico; e ricompensa questa fedita per la fedita che tu m' hai data. E vogliendo mandare la lancia tratta del suo corpo, cadde sopra' suoi membri voti del sangue. In questo luogo, con la spada di Climono, giace morto Ofeltes, primo de' Cefeni dopo re, nella battallia: Ipseo percuote Protenore; Lincide, Ipseo: Emacchion, di grande età, fue in quegli, amatore della dirittura, e temente gl'iddiei; lo quale, però che gli anni lo vietano del combattere, combatte parlando, e incolpa e biasma le maledette battaglie. Cromis taglia con la spada lo capo a costui che abbracciava l'altare con le tremanti palme; lo quale incontanente cadde dinanzi all'altare; e quivi, non ancora compiuto di morire, disse maledicenti parole, e mandò fuori l'anima nel mezzo de' fuochi. Dopo questi, due frategli Proteas e Amon da non potere essere legati, avvegna che le spade potessoro essere legate, caddoro per la mano di Fineo: e Amfico, prete della dea Ceres, abbiente coperti i capelli di bianca benda. E tu, Iapetide, che non dovei essere avuto a così fatti usi, ma che dovei muovere la cetera col canto, opera di pace; a te fu comandato che tu facessi festa col canto ne' mangiari: lo quale stante da lungi, e sonante la cetera da non combattere, Pettalo iscerniente disse: canta l'altre cose all'anime del ninferno: e ficcòli lo spuntone nella manca tempia. Quegli cadde nella morte, e co' morienti diti ritenta le corde della cetera; e nella morte cantò verso da avere misericordia. Lo feroce Licormas non lascia costui essere caduto sanza vendetta; e mise l'arrappata stanga dal diritto uscio nell'ossa del mezzo capo: ma quel Pettalo cadde in terra a modo dell'ammazzato bue. Pelates di Cinfia tentava di torre la stanga dell'uscio dalla parte manca: altrettante fue confitta la mano diritta con la lancia di Corito figliuolo di Mamorio; e appiccossi al legno: Abas foroe il lato a Pelate accostantesi: quegli non cadde; ma ritennelo la mano: pendeo appiccato all'uscio, moriente. E Menalo, che seguitava l'arme di Perseo, fue abbattuto: e Adorilas, ricchissimo della terra Nasamoniaca; del quale Doriale neuno possedea più campi, e niuno raccogliea più monti di biada di lui. Nella parte manca del pettignone di costui fue fitto 'l ferro: quel luogo ee mortale: lo quale poi che Balteo Alcioneo, fattore della fedita, vide mandante fuori l'anima, e stralunante gli occhi, gli disse: o Dorila, abbi questo che tu priemi col to corpo, di tanti campi di terra quanti tu avei: e lasciò lo corpo sanza sangue. Lo vendicatore Perseo lancia contra costui una lancia tratta di calda fedita; la quale ricevuta per lo mezzo delle nari, uscìo fuori del capo, e videsi dall'una e dall'altra parte. E mentre che la fortuna aiuta la mano, uccide con diverse fedite Clizio e Dano, nati d'una madre; però che la lancia crollata dal forte braccio fue fitta per amindue gli lati del pettignone di Clizio. Dano morse la lancia con la bocca. E Celedon Mindeseo muore: e muore Astreo, nato della madre Palestina, ma di dubbio padre: e Ettion, sagace di quinci a drieto di vedere le cose che doveano venire; ma allora fue ingannato per falso agurio: e Coate che portava l'arme di Fineo: e morio Agirtes, infamato per lo morto padre. Ma anco si n'uccidranno più che quegli che sono morti, però che tutti hanno uno animo d'uccidere Perseo; e le schiere congiurate combattono da ogne parte per la cagione cacciante lo merito e la fede. Per questa parte lo socero indarno pietoso, e la nuova moglie con la madre lo favoreggiano; e del pianto riempiono lo palagio. Ma 'l suono dell'armi e 'l pianto de' morienti ee maggiore: e la dia della battallia bagna le bruttate case con molto sangue, e mescola le rinnovate battallie. Fineo e mille che lo seguitavano attorneano solo Perseo: le lance volano più che la gragnuola d'Ibernia dall'uno e dall'altro lato, e allato agli occhi e allato agli orecchi. Perseo accosta gli omeri a' sassi d'una grande colonna; e abbiente sicuro il dosso, volto verso le contradie schiere, sostiene coloro che gli contrastanno. Molfeo di Caonia gli contrastava dalla parte manca; e Etemon di Nabattea dalla parte diritta. Sì come la tigre stimulata dalla fame, quando hae udito i mugghi di due armenti in diversa valle, non sae a qual prima si corra, e arde per lo disidero c' hae d'andare a l'uno e all'altro; così Perseo stae in dubbio d'andare verso la parte manca o verso la diritta. Ei mosse Molfeo con la fedita della passata gamba; e fue contento della fugga: però che Etemon no gli dava spazio, ma era furioso contra Perseo; e disiderante di dare le fedite nell'alto collo, e non ragguardate le forze dintorno, ruppe la spada tratta fuori; e percossa l'ultima parte della colonna, una parte della spada si partio, e ficcossi nella gola del signore: ma quella fedita non diede assai potenti cagioni alla morte. Ma Perseo forò con l'asta di Mercurio lui pauroso e distendente indarno le disarmate braccia. Come Perseo, non potendo risistere alla moltitudine de' suoi nemici con l'arme, trasse fuori lo capo del Gorgone, e fece diventare sassi coloro che 'l guataro. Ma poi che Perseo vide che la virtù della sua turba veniva meno, disse: però che voi mi costringete a ciò, io domanderò aiuto dal mio nemico: volgete a drieto i vosti volti, qualunque ee presente che sia amico. E trasse fuori lo capo del Gorgone. Tessolo disse: domanda un altro, al quale le tue meraviglie facciano paura. E sì come s'apparecchiava di lanciare lo mortale dardo, in questo atto stette fermo lo segno fatto di marmo. Amfis, prossimano a costui, assalisce col coltello il petto di Lincide, pienissimo di grande animo; e assaliendolo, la mano diritta indurò, e non si trasse più a drieto nè più innanzi. Ma Nileo, però che mentia ch'egli era nato del Nilo, che si divide in VII parti, e nello scudo avea scolpiti sette fiumi, parte de' quali in ariento, e parte in oro, disse: o Perseo ragguarda lo prencipio della nostra gente: tu porterai grandi sollazzi di morte all'ombre del ninferno; cioè, essere morto da così grande uomo. L'ultima parte della voce fue ristretta nel mezzo del suono; e puoti credere che la bocca costretta volle parlare, e non si poteo aprire alle parole. Eris riprende costoro, e disse: voi diventate duri per lo vizio dell' animo, non per le forze del Gorgone: o compagni, soccorrete meco, e abbattete lo giovane in terra movente l'armi magiche. Dopo queste parole dovea correre verso lui: la terra lo ritenne, e stette pietra non mossa, e armata imagine. Costoro per lo peccato sostennoro pena: ma Antonoco era uno cavaliere di Perseo; e combattendo per lui, vide lo capo del Gorgone, e diventò sasso. Lo quale Astigie, credendo che fosse vivo, percosse colla lunga spada. La spada rendeo suono come di percossa pietra. Astigie meravigliandosi, trasse quella medesma natura; e 'l volto del meravigliante si fermò in faccia di marmo. Lunga dimoranza sarebbe a dire gli nomi degli uomeni del mezzo popolo. Dugento corpi rimaneano alla battallia: dugento corpi diventaro sassi, veduto il capo del Gorgone. Come Fineo si penteo; e come chiese mercè a Perseo; e come Perseo lo fece diventare sasso. Allora finalmente Fineo si pentò della ingiusta battallia. Ma che puote fare? Egli vede le imagini di diverse figure, e conosce i suoi; e chiamando ciascuno per nome, domanda aiuto: e credendo poco a se, tocca gli prossimani corpi. I corpi erano marmo. Volsesi, e così preghevole, distendente le congiunte mani e le piegate braccia, disse: o Perseo, tu vinci: rimuovi le tue meraviglie: togli via lo capo, che muta altrui in sasso, della tua Medusa, qualunche ella ee. Tolo via; io te ne priego. L'odio nè 'l disiderio del regno non ci trassono alla battallia: noi movemo l'armi per la moglie. La tua cagione fue migliore per gli meriti; la mia per lo tempo: pentomi ch'io nolla ti lasciai. O fortissimo, non mi concedere altra cosa che quest' anima: tutte l'altre mie cose siano tue. Perseo disse a colui che dicea cotali parole, e che non ardia di ragguardare colui, cui egli pregava con voce: o paurosissimo Fineo, io posso dare a te vile quello che tu domandi; è grande dono. Lascia la paura: io ti prometto che tu no averai fedita di ferro. Ancora ti daroe ammaestramenti, che basteranno sempre; e sempre sarai ragguardato nella casa del nostro socero, acciò che la mia moglie si consoli della imagine del suo sposo. Ebbe detto: e portò lo capo di Medusa in quella parte verso la quale Fineo era volto col pauroso volto. Allora lo capo indurò a lui che volea volgere la sua faccia, e l'omore degli occhi indurò nel sasso. Ma tuttavia la bocca stette paurosa; lo volto preghevole nel marmo; le mani congiunte; la faccia inchinata. Lo vincitore Perseo entroe ne' porti della patria, con Andromada sua moglie; e vendicatore d'Acrisio, padre della sua madre, avvegna che non gli le avesse meritato; però che Preto possedea le castella d'Acrisio, abbiendolo cacciato per forza d'arme. Ma egli non vinse per l'aiuto dell'armi, nè per le castella ch'egli avea mal prese, lo crudele capo della serpentuta Medusa. Ma per tutto questo la vertù del giovane, ragguardata per tante fatiche, e' mali ch'egli avea sostenuti, non aveano raumiliato te, Polidette, rettore della piccola Serifa: ma tu, duro, gli porti odio da non pacificare; e non è fine nella crudele ira. Ancora scemi le sue lode, e biasmi la mentita morte di Medusa. Noi daremo a te pegni di verità; disse Perseo: e voi altri perdonate al vedere. E fece diventare lo capo del re Polidette pietra sanza sangue, col capo di Medusa. Come Pallas lasciò Perseo, e andoe al monte Pegaso; e come favellò colle nove Muse; e come elle le rispuosono, lodando Pallas l'essere loro, e elleno confessando quello che Pallas dicea, s'elle fossoro sicure: ma no erano sicure. E questo pruovano per essempro. Insino a qui la dea Pallas diede se per compagnia al suo fratello ingenerato d'oro: quindi, attorneata d'oscura nebbia, abbandona l'isola Serifa; dalla parte diritta lasciata l'isola di Cipri e di Giaro. E da quella parte, della quale la via ee cortissima, domanda Teba, e Elicona, monte delle vergini: al quale monte essendo giunta, stette ferma, e così parlò alle savie serocchie. La fama della nuova fonte venne a' nostri orecchi; la quale ruppe la dura unghia del veloce cavallo di Medusa. Questa ee stata a me la cagione della via. Io hoe voluto vedere lo meraviglioso fatto: io vidi quel cavallo Pegaso nascere del sangue della madre. Uranie rispuose: o iddea, qualunque cagione ee a te di vedere queste case, ee piacevolissima al nostro animo. La nominanza ee vera; e 'l cavallo Pegaso fue lo cuminciamento di questa fonte. E menoe Pallas alle sagrate acque. Quella, abbiendo molto ragguardato l'acque fatte colle percosse del piede, guatoe dintorno gli boschi dell' antiche selve, e le spilonche, e l'erbe ornate di fiori sanza numero; e chiama le Muse avventurate sì per lo studio e sì per lo luogo. Alla quale così parlò una delle serocchie: o Pallas, che verresti in parte della nostra compagnia, se la virtù non t' avesse menata a maggiori fatti, tu dì cose vere; e degnamente lodi lo studio e 'l luogo: e abbiamo piacevole ventura, pur che noi siamo sicure. Ma niuna cosa ee vietata agli uomini scelerati! e tutte le cose spaventano le menti delle vergini. Lo duro Pireneo viene dinanzi alle nostre facce; e io non sono ancora ritornata tutta nella mia mente. Quegli feroce avea prese le ville Daulie e le Focee co' cavalieri di Trazia, e tenea gli regni acquistati ingiustamente. Noi andavamo a' tempi del monte Parnaso: egli vide noi andanti, e onorò le nostre deitadi con fallace volto; e disse: o discese Muse da Memnona, (Egli ci conoscea) state ferme: io vi priego che voi non dubitiate: fuggite nella mia casa lo grave tempo e la piova (La piova era). Gl'iddiei spesse volte sono entrati in minori case. Noi, mosse per li detti e per lo tempo, consentimmo all'uomo, e entrammo nelle prime case. Le piove erano rimase; e 'l vento austro era vinto da' venti aquiloni: gli neri nuvili fuggiano nel ripercosso cielo: noi avemmo volontà di partirci. Pireneo chiuse le sue case, e apparecchiavasi di farci forza; la quale noi fuggimmo con le riceute ale. Quegli, simigliante a uno che ci dovesse seguitare, stette alto nella rocca, e disse: per qualunque via andrete voi, anderò io. E pazzo, della somma altezza della torre si gittoe, e cadde in su la sua faccia; e rotte l'ossa del volto, moriente percosse la terra tinta dello scelerato sangue. Come le nove figliuole di Pireo vennoro per cacciare le Muse dalla fonte Elicona. Mentre che una delle Muse parlava, penne risonaro per li venti, e voce delle salutanti venìa dagli alti rami. La figliuola di Giove ragguardò in su; e domanda onde suonino le lingue che dicono così certe parole; e pensa che quegli che parla sia uomo. Egli era uccello; e per numero nove gazze, che si lamentavano delle loro disavventure, erano in su' rami. La Musa cuminciò così a parlare alla dea Pallas, che si meravigliava: e queste, vinte in battallia, novellamente hanno accresciuta la turba degli uccelli. Pirreo, ricco ne' campi Pellei, ingenerò costoro: Anippe di Peonia fue loro madre: quella che dovea partorire nove volte, nove volte chiamò la potente Lucina, iddia del parto. La turba delle sciocche serocchie insuperbio per lo numero: e per tante cittadi di Tessaglia, e per tante cittadi di Grecia venne qua; e con così fatte parole incuminciaro le battallie con esso noi: o Muse, rimanetevi d'ingannare lo sciocco popolo con vana dolcezza: o iddee, discese da Tespia, combattete con noi, se voi avete alcuna fidanza in voi. Noi non saremo vinte nè per voce nè per arte: noi siamo altrettante quante voi: o voi vi partirete vinte dalla fonte di Medusa e dalla valle Iacintea Aganippa; o noi ci n'andremo dalle selve di Tessalia, insino a' monti d'Affrica. Non si convenia contendere con loro: ma più era sozza cosa dare loro luogo. Le ninfe elette giurano per li fiumi di volere dividere la nostra battallia; e puosorsi a sedere nelle sedie fatte del vivo sasso. Come una delle figliuole di Pireo dice alle Muse, come gl'iddiei si mutaro in diverse maniere per paura di Tifeo gigante. Allora la primaia, che sanza sorte confessò di volere combattere, dice le battallie dell'iddiei di sopra; e pone gli giganti in falso onore, e menima gli fatti de' grandi iddiei; e dice come Tifeo, uscito della sedia profonda della terra, fece paura agl'iddiei; e che tutti fuggiro, insino a tanto che la terra d'Egitto ricevè loro affaticati, e 'l Nilo diviso in sette porti: e narra come Tifeo andò laci; e come quivi gl'iddiei si celaro con isvariate figure: e disse come Giove si fece montone; e però ee Giove in Libia formato con le ritorte corna: Febo si mutoe in corvo: lo figliuolo di Semele, in capra: la serocchia di Febo, in cerbia: la figliuola di Saturno, in bianca vacca: Venus si nascose in pesce: Mercurio si coperse con l'alie della cicogna. Come una delle Muse, ch'avea nome Caliope, dice la favola della dea Ceres a Pallas. Insino a qui una di quelle avea parlato sonando la sua cetera. Ora siamo richieste noi Muse a rispondere. Ma forse, o Pallas, tu no hai spazio di riposarti, e non t' è licito di dare gli tuoi orecchi a' nostri canti. Pallas disse: non dubitare: dìe a me lo vostro peccato per ordine. E sedette riposata nella lieve ombra del bosco. La Musa dice: noi demmo la somma della battallia a una delle serocchie. Levasi Caliope; et abbiente raccolti gli lunghi capelli con l'edera, tenta con le dita le risonanti corde, e percotendo gli nerbi dice questi versi: La dea Ceres primaia mosse la ghiova col rauncinuto arato; e primaia diede le biade e' piacevoli notricamenti alle terre; primaia diede le leggi del cultivare le terre. Tutte le cose nascono per lo dono della dea Ceres. Io dirò di quella iddia: iddio voglia ch'io possa aguale dire versi che si convegnano a quella iddia! Certo la dia ee degna di versi. La cagione perchè Plutone uscìo dello 'nferno; e come l'Amore, per detto di Venus sua madre, lo fedio. Lo monte Trinacre è sopraposta grande isola a' membri di Tifeo gigante, e costringe con grandi monti lui sottoposto, c' ardio di ragguardare le sedie del cielo. Quegli si sforza spesse volte, e tenta di rilevarsi: ma la sua mano diritta ee sottoposta al monte Peloro d'Italia; la manca, al monte Pachino; le gambe, al monte Lilibeo: Mungibello gli aggrava lo capo; sotto 'l quale arrivesciato getta fuori l'arene, e vomica la fiamma per la crudele bocca. Spesse volte si sforza di rimuovere da se le gravezze della terra, e di rivolgere le castella e' grandi monti col corpo: onde la terra triema, e 'l re medesimo dell'anime teme ch'ella non perisca, e che la terra non si scuopra con ampio aprimento, e che 'l die mandato non spaventi le paurose anime. Pluto temè questa pistolenza: uscìo della tenebrosa sedia, e portato in sul carro degli oscuri cavalli, saviamente attorneava gli fondamenti della terra di Cicilia. Poi ch'egli ebbe trovato che alcuni luoghi non v' erano debili, e la paura fue lasciata; Venus, stante in sul monte suo, vide costui andare vagando; e, abbracciante lo suo veloce figliuolo, disse: o figliuolo Cupido, mia arme, e mie mani, e mia potenzia, togli quelle saette con le quali tu vinci gli uomini, e brigati di ficcarle nel petto di Plutone, al quale l'ultima fortuna de' tre reami fue conceduta. Tu domi gl'iddiei di sopra, e Giove medesmo; tu domi le deitadi del mare, e colui che regge i lumi della terra. Quegli del ninferno perchè si cessano? perchè non distendi la segnoria della madre e la tua sopra loro? perchè si cessa da noi la terza parte del mondo? E tanta ee la pazienzia nostra, che noi siamo già dispregiati nel cielo, e le forze dell'Amore sono menimate con esso meco. Or no vedi tu la dea Pallas, e Diana lanciatrice, essere partite da me? Certo, la figliuola di Ceres sarà vergine, se noi lo sofferemo; però ch'ella disidera quelle speranze. Ma se tu hai alcuna grazia per lo compagnevole nostro regno, fa che tu congiunghi Proserpina al zio. Venus ebbe detto. Quegli aperse lo turcasso, e a senno della madre scelse una saetta tra mille: ma neuna era più auta nè più certa di quella, nè che più tosto uscisse fuori dell'arco: e piegò l'arco col contraposto ginocchio, e percosse Plutone nel cuore con la piegata saetta. Come Pluto prese Proserpina figliuola della dea Ceres; e come Ciane glile volle fare lasciare. Non di lungi dal monte Etna ee uno profondo lago, chiamato Pergusa: lo fiume Caister no ode più canti de' ceceri di costui nelle discorrenti onde. La selva attornea l'acque, cignente ogne lato; e con le sue frondi rimuove i caldi del sole: gli rami danno freddo; l'umida terra, svariati fiori: sempre v' è primavera. Nel quale bosco mentre che Proserpina si trastulla, e coglie o vivole o bianchi gigli; e empiendo i panieri e 'l seno, a modo di fanciulla, e sforzandosi d'avanzare le compagne in cogliere; poco meno a un'otta ee veduta e amata e tolta da Plutone: tanto fue affrettato l'amore! La dea spaventata con trista voce chiama la madre e le compagne; ma più spesso chiama la madre: e poi ch'ella ebbe squarciato lo vestire insino dall' orlo di sopra, gli colti fiori caddoro dalla stracciata gonnella: e tanta simplicità fue negli anni della fanciulla, che 'l danno d'avere perduti gli fiori mosse lo dolore della vergine. L'arrappatore mena i carri; e chiamando i nomi di tutti, punge i cavalli; per gli colli de' quali e per gli crini scuote gli oscuri freni tinti di ruggine: e fue portato per gli profondi laghi, e per gli stagni putenti di zolfo, ferventi per la rotta terra: e da quella parte ove i popoli Bacchiadi, gente nata a Corinto, città attorneata di due mari, puosono le castella tra non uguali porti. Egli è uno braccio di mare in mezzo tra Ciane e Aretusa da Pisa, lo quale racchiuso si congiunge con istrette corna. Qui fue Ciane bellissima in tralle ninfe di Cicilia, dal nome della quale lo stagno ee chiamato: la quale, stante nel mezzo del fiume, stette alta insino al ventre, e conobbe Proserpina, e dissi: o Pluto, voi no andate più lungi: tu non puoti essere genero della non volontarosa Ceres: questa dovea essere pregata, e non rubata. E se a me ee licito di fare similitudine delle piccole cose alle grandi, Anafis amò me; e io pregata mi maritai a lui, e no ispaventata come costei. Ebbe detto: e distendente le braccia in diverse parti, si paroe dinanzi a colui. Lo figliuolo di Saturno non tenne più l'ira; e abbiendo confortati gli cavalli da temere, col forte braccio nascose la lanciata mazza reale nella profondità del fiume: la terra percossa fece via ad andare nel ninferno, e ricevette gl'inchinevoli carri nel mezzo del ninferno. Come Ciane per ira, che non poteo fare lasciare Proserpina, si mutoe in acqua. Ma Ciane, piagnente la tolta iddea e le dispregiate ragioni della sua fonte, porta nella cheta mente fedita da non potere racconsolare: e tutta si bagnava di lagrime; e la deità, ch'era grande in quelle acque, si consomoe in quelle. Tu averesti potuto vedere gli membri diventare molli; l'ossa essere ripiegate; l'unghie lasciare la loro durezza: tutte le cose primaie, e tutte le sezzaie di quella, tutte vengono meno; cioè gli gialli capelli, e le dita, e le gambe, e' piedi; però che agevole era lo mutamento a' sottili membri nelle gialate acque. Dopo questi gli omeri e 'l dosso e 'l lato e 'l petto si mutano in sottili rivi. Finalmente l'acqua sottentroe nelle vote vene, in luogo di vivo sangue; e niuna cosa rimane in lei, che tu potessi pigliare. Come Ceres cercoe per Proserpina sua figliuola per tutto il mondo. Intanto la figliuola indarno ee addomandata dalla paurosa madre per tutte le terre e per tutto 'l mare. L'aurora vegnente con gli umidi capelli non vide colei che si cessasse; non la prima stella che si vede la sera. Quella con amindue le mani accese le fiaccole al monte di Mongibello, e sanza riposarsi, le portò per le tenebre piene di brinata. E da capo, poi che 'l bianco die avea fatte oscurare le stelle, cercoe per la figliuola dall'oriente insino all'occidente. E, affannata, avea raccolta sete per la fatica: niuna fonte avea bagnata la sua bocca: quando ella vide una piccola casa coperta di strame, e picchioe lo piccolo uscio. Quindi uscìo una vecchia; e vede la dia: e diè a lei, che pregava che le fosse data dell'acqua, alcuna cosa dolce, ch'ella avea prima cotta in una pentola. Come la dea Ceres mutoe uno fanciullo, che le disse villania, in ramarro. Mentre che quella bee quello che la vecchia le diede, lo fanciullo di villana bocca, e adirato, stette dinanzi alla dea, e rise, e chiamolla ghiotta. La dea fue adirata; e non abbiendo compiuto ancora di bere, bagnoe lo fanciullo parlante con la farinata mescolata coll'acqua. La faccia s'empieo di macchie, e le braccia diventaro gambe; la coda fue aggiunta alle mutate membra, e fue recato in piccola forma, acciò [ch'egli no abbia grande forza di nuocere: la misura della lucertola è poco minore che la sua]-. [1] In nova fert animus mutatas dicere formas / corpora; di, coeptis (nam vos mutastis et illas) / adspirate meis primaque ab origine mundi / ad mea perpetuum deducite tempora carmen. / [5] Ante mare et terras et quod tegit omnia caelum / unus erat toto naturae vultus in orbe, / quem dixere chaos: rudis indigestaque moles / nec quicquam nisi pondus iners congestaque eodem / non bene iunctarum discordia semina rerum. / --- indigestaque] =indigesta quia= (ip. Marchesi). --- [10] nullus adhuc mundo praebebat lumina Titan, / nec nova crescendo reparabat cornua Phoebe, / nec circumfuso pendebat in aere tellus / ponderibus librata suis, nec bracchia longo / margine terrarum porrexerat Amphitrite; / [15] utque aer, tellus illic et pontus et aether. / Sic erat instabilis tellus, innabilis unda, / lucis egens aer: nulli sua forma manebat, / obstabatque aliis aliud, quia corpore in uno / frigida pugnabant calidis, umentia siccis, / mollia cum duris, sine pondere habentia pondus. / [21] Hanc deus et melior litem natura diremit. / Nam caelo terras et terris abscidit undas, / et liquidum spisso secrevit ab aere caelum. / [24] Quae postquam evolvit caecoque exemit acervo, / dissociata locis concordi pace ligavit. / [26] Ignea convexi vis et sine pondere caeli / emicuit summaque locum sibi fecit in arce: / [28] proximus est aer illi levitate locoque: / densior his tellus, elementaque grandia traxit / et pressa est gravitate sua: circumfluus umor / ultima possedit solidumque coercuit orbem. / [32] Sic ubi dispositam quisquis fuit ille deorum / congeriem secuit sectamque in membra redegit, / principio terram, ne non aequalis ab omni / parte foret, magni speciem glomeravit in orbis. / [36] Tum freta diffudit rapidisque tumescere ventis / iussit et ambitae circumdare litora terrae. / [38] Addidit et fontes et stagna inmensa lacusque / fluminaque obliquis cinxit declivia ripis, / quae, diversa locis, partim sorbentur ab ipsa, / in mare perveniunt partim campoque recepta / liberioris aquae pro ripis litora pulsant. / [43] Iussit et extendi campos, subsidere valles, / fronde tegi silvas, lapidosos surgere montes. / [45] Utque duae dextra caelum totidemque sinistra / parte secant zonae, quinta est ardentior illis, / sic onus inclusum numero distinxit eodem / cura dei, totidemque plagae tellure premuntur. / [49] Quarum quae media est, non est habitabilis aestu: / nix tegit alta duas: totidem inter utrumque locavit / temperiemque dedit mixta cum frigore flamma. / [52] Inminet his aer. Qui quanto est pondere terrae, / pondere aquae levior tanto est onerosior igni. / Illic et nebulas, illic consistere nubes / iussit et humanas motura tonitrua mentes / et cum fulminibus facientes fulgura ventos. / [57] His quoque non passim mundi fabricator habendum / aera permisit: vix nunc obsistitur illis, / cum sua quisque regant diverso flamina tractu, / quin lanient mundum: tanta est discordia fratrum. / [61] Eurus ad Auroram Nabataeaque regna recessit / Persidaque et radiis iuga subdita matutinis; / vesper et occiduo quae litora sole tepescunt, / proxima sunt Zephyro: Scythiam septemque triones / horrifer invasit Boreas: contraria tellus / nubibus adsiduis pluviaque madescit ab Austro. / [67] Haec super inposuit liquidum et gravitate carentem / aethera nec quicquam terrenae faecis habentem. / [69] Vix ita limitibus dissaepserat omnia certis, / cum, quae pressa diu massa latuere sub illa, / sidera coeperunt toto effervescere caelo. / [72] Neu regio foret ulla suis animalibus orba, / astra tenent caeleste solum formaeque deorum, / cesserunt nitidis habitandae piscibus undae, / terra feras cepit, volucres agitabilis aer. / [76] Sanctius his animal mentisque capacius altae / deerat adhuc et quod dominari in cetera posset. / [78] Natus homo est, sive hunc divino semine fecit / ille opifex rerum, mundi melioris origo, / sive recens tellus seductaque nuper ab alto / aethere cognati retinebat semina caeli; / [82] quam satus Iapeto mixtam pluvialibus undis / finxit in effigiem moderantum cuncta deorum. / [84] Pronaque cum spectent animalia cetera terram, / os homini sublime dedit, caelumque videre / iussit et erectos ad sidera tollere vultus. / [87] Sic, modo quae fuerat rudis et sine imagine, tellus / induit ignotas hominum conversa figuras. / [89] Aurea prima sata est aetas, quae vindice nullo, / sponte sua, sine lege fidem rectumque colebat. / [91] Poena metusque aberant, nec verba minantia fixo / aere legebantur, nec supplex turba timebat / iudicis ora sui, sed erant sine vindice tuti. / Nondum caesa suis, peregrinum ut viseret orbem, / montibus in liquidas pinus descenderat undas, / nullaque mortales praeter sua litora norant. / --- vv. 91-93 om. 'AEP'Nhes. --- [97] Nondum praecipites cingebant oppida fossae; / non tuba directi, non aeris cornua flexi, / non galeae, non ensis erat: sine militis usu / mollia securae peragebant otia gentes. / [101] ipsa quoque inmunis rastroque intacta nec ullis / saucia vomeribus per se dabat omnia tellus; / contentique cibis nullo cogente creatis / arbuteos fetus montanaque fraga legebant / cornaque et in duris haerentia mora rubetis / et quae deciderant patula Iovis arbore glandes. / [107] Ver erat aeternum, placidique tepentibus auris / mulcebant zephyri natos sine semine flores. / [109] Mox etiam fruges tellus inarata ferebat, / nec renovatus ager gravidis canebat aristis; / [111] flumina iam lactis, iam flumina nectaris ibant, / flavaque de viridi stillabant ilice mella. / [113] Postquam, Saturno tenebrosa in Tartara misso, / sub Iove mundus erat, subiit argentea proles, / auro deterior, fulvo pretiosior aere. / [116] Iuppiter antiqui contraxit tempora veris / perque hiemes aestusque et inaequalis autumnos / et breve ver spatiis exegit quattuor annum. / [119] Tum primum siccis aer fervoribus ustus / canduit, et ventis glacies adstricta pependit. / Tum primum subiere domus (domus antra fuerunt / et densi frutices et vinctae cortice virgae). / Semina tum primum longis Cerealia sulcis / obruta sunt, pressique iugo gemuere iuvenci. / [125] Tertia post illam successit aenea proles, / saevior ingeniis et ad horrida promptior arma, / [127] non scelerata tamen. De duro est ultima ferro. / Protinus inrupit venae peioris in aevum / omne nefas: fugere pudor verumque fidesque; / In quorum subiere locum fraudesque dolique / insidiaeque et vis et amor sceleratus habendi. / [132] Vela dabat ventis (nec adhuc bene noverat illos) / navita; quaeque diu steterant in montibus altis, / fluctibus ignotis insultavere carinae, / [135] communemque prius ceu lumina solis et auras / cautus humum longo signavit limite mensor. / [137] Nec tantum segetes alimentaque debita dives / poscebatur humus, sed itum est in viscera terrae: / quasque recondiderat Stygiisque admoverat umbris, / effodiuntur opes, inritamenta malorum. / [141] Iamque nocens ferrum ferroque nocentius aurum / prodierat: prodit bellum, quod pugnat utroque, / sanguineaque manu crepitantia concutit arma. / [144] Vivitur ex rapto: non hospes ab hospite tutus, / non socer a genero; fratrum quoque gratia rara est. / Inminet exitio vir coniugis, illa mariti; / lurida terribiles miscent aconita novercae; / filius ante diem patrios inquirit in annos. / [149] Victa iacet pietas, et virgo caede madentis, / ultima caelestum terras Astraea reliquit. / [151] Neve foret terris securior arduus aether, / adfectasse ferunt regnum caeleste Gigantas / altaque congestos struxisse ad sidera montes. / [154] Tum pater omnipotens misso perfregit Olympum / fulmine et excussit subiectae Pelion Ossae. / [156] Obruta mole sua cum corpora dira iacerent, / perfusam multo natorum sanguine Terram / inmaduisse ferunt calidumque animasse cruorem, / et, ne nulla suae stirpis monimenta manerent, / [160] in faciem vertisse hominum. Sed et illa propago / contemptrix superum saevaeque avidissima caedis / et violenta fuit: scires e sanguine natos. / [163] Quae pater ut summa vidit Saturnius arce, / ingemit et, facto nondum vulgata recenti, / foeda Lycaoniae referens convivia mensae, / ingentes animo et dignas Iove concipit iras, / conciliumque vocat: tenuit mora nulla vocatos. / [168] Est via sublimis, caelo manifesta sereno: / lactea nomen habet, candore notabilis ipso. / Hac iter est superis ad magni tecta Tonantis / [171] regalemque domum. Dextra laevaque deorum / atria nobilium valvis celebrantur apertis / (plebs habitat diversa locis): hac parte potentes / caelicolae clarique suos posuere penates. / [175] Hic locus est, quem, si verbis audacia detur, / haud timeam magni dixisse Palatia caeli. / [177] Ergo ubi marmoreo superi sedere recessu, / celsior ipse loco sceptroque innixus eburno / terrificam capitis concussit terque quaterque / caesariem, cum qua terram, mare, sidera movit. / [181] Talibus inde modis ora indignantia solvit: / "Non ego pro mundi regno magis anxius illa / tempestate fui, qua centum quisque parabat / inicere anguipedum captivo bracchia caelo. / [185] Nam quamquam ferus hostis erat, tamen illud ab uno / corpore et ex una pendebat origine bellum. / [187] Nunc mihi, qua totum Nereus circumsonat orbem, / perdendum est mortale genus: per flumina iuro / infera, sub terras Stygio labentia luco! / [190] cuncta prius temptata: sed inmedicabile corpus / ense recidendum est, ne pars sincera trahatur. / [192] Sunt mihi semidei, sunt rustica numina, nymphae / faunique satyrique et monticolae silvani: / quos quoniam caeli nondum dignamur honore, / quas dedimus certe terras habitare sinamus. / [196] An satis, o superi, tutos fore creditis illos, / cum mihi, qui fulmen, qui vos habeoque regoque, / struxerit insidias notus feritate Lycaon?" / [199] Confremuere omnes studiisque ardentibus ausum / talia deposcunt. Sic, cum manus inpia saevit / sanguine Caesareo Romanum exstinguere nomen, / attonitum tanto subitae terrore ruinae / humanum genus est totusque perhorruit orbis: / [204] nec tibi grata minus pietas, Auguste, tuorum est, / quam fuit illa Iovi. Qui postquam voce manuque / murmura conpressit, tenuere silentia cuncti. / [207] Substitit ut clamor pressus gravitate regentis, / Iuppiter hoc iterum sermone silentia rupit: / [209] "Ille quidem poenas, curam hanc dimittite, solvit. / Quod tamen admissum, quae sit vindicta, docebo. / [211] Contigerat nostras infamia temporis aures; / quam cupiens falsam summo delabor Olympo / et deus humana lustro sub imagine terras. / [214] Longa mora est, quantum noxae sit ubique repertum, / enumerare: minor fuit ipsa infamia vero. / [216] Maenala transieram latebris horrenda ferarum / et cum Cyllene gelidi pineta Lycaei: / [218] Arcadis hinc sedes et inhospita tecta tyranni / ingredior, traherent cum sera crepuscula noctem. / Signa dedi venisse deum, vulgusque precari / coeperat: inridet primo pia vota Lycaon, / [222] mox ait "experiar deus hic, discrimine aperto, / an sit mortalis. Nec erit dubitabile verum." / [224] Nocte gravem somno necopina perdere morte / me parat: haec illi placet experientia veri. / [226] Nec contentus eo est: missi de gente Molossa / obsidis unius iugulum mucrone resolvit, / atque ita semineces partim ferventibus artus / mollit aquis, partim subiecto torruit igni. / [230] Quod simul inposuit mensis, ego vindice flamma / in domino dignos everti tecta penates. / [232] Territus ipse fugit, nactusque silentia ruris / exululat frustraque loqui conatur: ab ipso / conligit os rabiem, solitaeque cupidine caedis / vertitur in pecudes et nunc quoque sanguine gaudet. / [236] In villos abeunt vestes, in crura lacerti: / fit lupus et veteris servat vestigia formae. / Canities eadem est, eadem violentia vultus, / idem oculi lucent, eadem feritatis imago est. / [240] Occidit una domus. Sed non domus una perire / digna fuit: qua terra patet, fera regnat Erinys. / [242] In facinus iurasse putes. Dent ocius omnes / quas meruere pati (sic stat sententia) poenas." / [244] Dicta Iovis pars voce probant stimulosque frementi / adiciunt, alii partes adsensibus inplent. / [246] Est tamen humani generis iactura dolori / omnibus, et, quae sit terrae mortalibus orbae / forma futura, rogant, quis sit laturus in aras / tura, ferisne paret populandas tradere terras. / [250] Talia quaerentes (sibi enim fore cetera curae) / rex superum trepidare vetat subolemque priori / dissimilem populo promittit origine mira. / [253] Iamque erat in totas sparsurus fulmina terras: / sed timuit, ne forte sacer tot ab ignibus aether / conciperet flammas longusque ardesceret axis: / esse quoque in fatis reminiscitur, adfore tempus, / quo mare, quo tellus correptaque regia caeli / ardeat et mundi moles obsessa laboret. / [259] Tela reponuntur manibus fabricata Cyclopum: / poena placet diversa, genus mortale sub undis / perdere et ex omni nimbos demittere caelo. / [262] Protinus Aeoliis Aquilonem claudit in antris / et quaecumque fugant inductas flamina nubes / emittitque Notum. Madidis Notus evolat alis, / terribilem picea tectus caligine vultum: / barba gravis nimbis, canis fluit unda capillis; / fronte sedent nebulae, rorant pennaeque sinusque. / [268] Utque manu late pendentia nubila pressit, / fit fragor: hinc densi funduntur ab aethere nimbi. / [270] Nuntia Iunonis varios induta colores / concipit Iris aquas alimentaque nubibus adfert. / Sternuntur segetes et deplorata coloni / vota iacent, longique perit labor inritus anni. / [274] Nec caelo contenta suo est Iovis ira, sed illum / caeruleus frater iuvat auxiliaribus undis. / [276] Convocat hic amnes. Qui postquam tecta tyranni / intravere sui, "non est hortamine longo / nunc" ait "utendum. Vires effundite vestras: / sic opus est! aperite domos ac mole remota / fluminibus vestris totas inmittite habenas!" / [281] Iusserat; hi redeunt ac fontibus ora relaxant / et defrenato volvuntur in aequora cursu. / [283] Ipse tridente suo terram percussit: at illa / intremuit motuque vias patefecit aquarum. / [285] Exspatiata ruunt per apertos flumina campos / cumque satis arbusta simul pecudesque virosque / tectaque cumque suis rapiunt penetralia sacris. / [288] Siqua domus mansit potuitque resistere tanto / indeiecta malo, culmen tamen altior huius / unda tegit, pressaeque latent sub gurgite turres. / [291] Iamque mare et tellus nullum discrimen habebant: / omnia pontus erant; deerant quoque litora ponto. / [293] Occupat hic collem, cumba sedet alter adunca / et ducit remos illic, ubi nuper ararat, / ille supra segetes aut mersae culmina villae / navigat, hic summa piscem deprendit in ulmo. / [297] Figitur in viridi, si fors tulit, ancora prato, / aut subiecta terunt curvae vineta carinae; / et, modo qua graciles gramen carpsere capellae, / nunc ibi deformes ponunt sua corpora phocae. / [301] Mirantur sub aqua lucos urbesque domosque / Nereides, silvasque tenent delphines et altis / incursant ramis agitataque robora pulsant. / [304] Nat lupus inter oves, fulvos vehit unda leones, / unda vehit tigres, nec vires fulminis apro, / crura nec ablato prosunt velocia cervo. / [307] Quaesitisque diu terris, ubi sistere possit, / in mare lassatis volucris vaga decidit alis. / [309] Obruerat tumulos inmensa licentia ponti, / pulsabantque novi montana cacumina fluctus. / Maxima pars unda rapitur; quibus unda pepercit, / illos longa domant inopi ieiunia victu. / [313] Separat Aonios Oetaeis Phocis ab arvis, / terra ferax, dum terra fuit, sed tempore in illo / pars maris et latus subitarum campus aquarum. / [316] Mons ibi verticibus petit arduus astra duobus, / nomine Parnasus, superantque cacumina nubes. / [318] Hic ubi Deucalion (nam cetera texerat aequor) / cum consorte tori parva rate vectus adhaesit, / Corycidas nymphas et numina montis adorant / fatidicamque Themin, quae tunc oracla tenebat. / [322] Non illo melior quisquam nec amantior aequi / vir fuit aut illa metuentior ulla deorum. / [324] Iuppiter ut liquidis stagnare paludibus orbem / et superesse virum de tot modo milibus unum, / et superesse videt de tot modo milibus unam, / innocuos ambo, cultores numinis ambo, / nubila disiecit nimbisque aquilone remotis / et caelo terras ostendit et aethera terris. / [330] Nec maris ira manet, positoque tricuspide telo / mulcet aquas rector pelagi supraque profundum / exstantem atque umeros innato murice tectum / caeruleum Tritona vocat conchaeque sonanti / inspirare iubet fluctusque et flumina signo / [335] iam revocare dato. Cava bucina sumitur illi, / tortilis, in latum quae turbine crescit ab imo, / bucina, quae medio concepit ubi aera ponto, / litora voce replet sub utroque iacentia Phoebo. / [339] Tunc quoque, ut ora dei madida rorantia barba / contigit et cecinit iussos inflata receptus, / omnibus audita est telluris et aequoris undis, / et quibus est undis audita, coercuit omnes. / [343] Iam mare litus habet, plenos capit alveus amnes, / flumina subsidunt collesque exire videntur, / surgit humus, crescunt loca decrescentibus undis, / postque diem longam nudata cacumina silvae / ostendunt limumque tenent in fronde relictum. / [348] Redditus orbis erat. Quem postquam vidit inanem / et desolatas agere alta silentia terras, / Deucalion lacrimis ita Pyrrham adfatur obortis: / [351] "O soror, o coniunx, o femina sola superstes, / quam commune mihi genus et patruelis origo, / deinde torus iunxit, nunc ipsa pericula iungunt, / terrarum, quascumque vident occasus et ortus, / nos duo turba sumus; possedit cetera pontus. / [356] Haec quoque adhuc vitae non est fiducia nostrae / certa satis; terrent etiam nunc nubila mentem. / [358] Quis tibi, si sine me fatis erepta fuisses, / nunc animus, miseranda, foret? quo sola timorem / ferre modo posses? quo consolante doleres? / [361] Namque ego (crede mihi) si te quoque pontus haberet, / te sequerer, coniunx, et me quoque pontus haberet. / O utinam possim populos reparare paternis / artibus atque animas formatae infundere terrae! / [365] Nunc genus in nobis restat mortale duobus / (sic visum superis) hominumque exempla manemus." / [367] Dixerat, et flebant. Placuit caeleste precari / numen et auxilium per sacras quaerere sortes. / [369] Nulla mora est: adeunt pariter Cephisidas undas, / ut nondum liquidas, sic iam vada nota secantes. / [371] Inde ubi libatos inroravere liquores / vestibus et capiti, flectunt vestigia sanctae / ad delubra deae, quorum fastigia turpi / pallebant musco stabantque sine ignibus arae. / [375] Ut templi tetigere gradus, procumbit uterque / pronus humi gelidoque pavens dedit oscula saxo / atque ita "si precibus" dixerunt "numina iustis / victa remollescunt, si flectitur ira deorum, / dic, Themi, qua generis damnum reparabile nostri / arte sit, et mersis fer opem, mitissima, rebus." / [381] Mota dea est sortemque dedit: "Discedite templo / et velate caput cinctasque resolvite vestes / ossaque post tergum magnae iactate parentis." / [384] Obstipuere diu, rumpitque silentia voce / Pyrrha prior iussisque deae parere recusat, / detque sibi veniam pavido rogat ore, pavetque / laedere iactatis maternas ossibus umbras. / [388] Interea repetunt caecis obscura latebris / verba datae sortis secum inter seque volutant. / [390] Inde Promethides placidis Epimethida dictis / mulcet et "aut fallax" ait "est sollertia nobis, / aut pia sunt nullumque nefas oracula suadent. / Magna parens terra est, lapides in corpore terrae / ossa reor dici; iacere hos post terga iubemur." / [395] Coniugis augurio quamquam Titania mota est, / spes tamen in dubio est: adeo caelestibus ambo / diffidunt monitis. Sed quid temptare nocebit? / [398] Discedunt velantque caput tunicasque recingunt / et iussos lapides sua post vestigia mittunt. / [400] Saxa (quis hoc credat, nisi sit pro teste vetustas?) / ponere duritiem coepere suumque rigorem / mollirique mora mollitaque ducere formam. / [403] Mox ubi creverunt naturaque mitior illis / contigit, ut quaedam, sic non manifesta, videri / forma potest hominis, sed, uti de marmore coepta, / non exacta satis rudibusque simillima signis. / [407] Quae tamen ex illis aliquo pars umida suco / et terrena fuit, versa est in corporis usum; / quod solidum est flectique nequit, mutatur in ossa; / quae modo vena fuit, sub eodem nomine mansit; / [411] inque brevi spatio superorum numine saxa / missa viri manibus faciem traxere virorum, / et de femineo reparata est femina iactu. / [414] Inde genus durum sumus experiensque laborum / et documenta damus qua simus origine nati. / [416] Cetera diversis tellus animalia formis / sponte sua peperit, postquam vetus umor ab igne / percaluit solis, caenumque udaeque paludes / intumuere aestu, fecundaque semina rerum / vivaci nutrita solo ceu matris in alvo / creverunt faciemque aliquam cepere morando. / [422] Sic ubi deseruit madidos septemfluus agros / Nilus et antiquo sua flumina reddidit alveo / aetherioque recens exarsit sidere limus, / plurima cultores versis animalia glaebis / [426] inveniunt, et in his quaedam modo coepta per ipsum / nascendi spatium, quaedam inperfecta suisque / trunca vident numeris; et eodem in corpore saepe / altera pars vivit, rudis est pars altera tellus. / [430] Quippe ubi temperiem sumpsere umorque calorque, / concipiunt, et ab his oriuntur cuncta duobus; / cumque sit ignis aquae pugnax, vapor umidus omnes / res creat, et discors concordia fetibus apta est. / [434] Ergo ubi diluvio tellus lutulenta recenti / solibus aetheriis altoque recanduit aestu, / edidit innumeras species, partimque figuras / rettulit antiquas, partim nova monstra creavit. / [438] Illa quidem nollet, sed te quoque, maxime Python, / tum genuit, populisque novis, incognite serpens, / terror eras: tantum spatii de monte tenebas. / [441] Hunc deus arquitenens, et numquam talibus armis / ante nisi in dammis capreisque fugacibus usus, / mille gravem telis exhausta paene pharetra / perdidit effuso per vulnera nigra veneno. / [445] Neve operis famam posset delere vetustas, / instituit sacros celebri certamine ludos, / Pythia perdomitae serpentis nomine dictos. / [448] Hic iuvenum quicumque manu pedibusve rotave / vicerat, aesculeae capiebat frondis honorem: / nondum laurus erat, longoque decentia crine / tempora cingebat de qualibet arbore Phoebus. / [452] Primus amor Phoebi Daphne Peneia, quem non / fors ignara dedit, sed saeva Cupidinis ira. / Delius hunc, nuper victa serpente superbus, / viderat adducto flectentem cornua nervo / [455] "quid" que "tibi, lascive puer, cum fortibus armis?" / dixerat, "ista decent umeros gestamina nostros, / qui dare certa ferae, dare vulnera possumus hosti, / qui modo pestifero tot iugera ventre prementem / stravimus innumeris tumidum Pythona sagittis. / [461] Tu face nescio quos esto contentus amores / inritare tua, nec laudes adsere nostras." / [463] Filius huic Veneris "figat tuus omnia, Phoebe, / te meus arcus:" ait "quantoque animalia cedunt / cuncta deo tanto minor est tua gloria nostra." / [466] Dixit et eliso percussis aere pennis / inpiger umbrosa Parnasi constitit arce / eque sagittifera prompsit duo tela pharetra / diversorum operum: fugat hoc, facit illud amorem. / [470] Quod facit, auratum est et cuspide fulget acuta; / quod fugat, obtusum est et habet sub harundine plumbum. / Hoc deus in nympha Peneide fixit, at illo / laesit Apollineas traiecta per ossa medullas. / [474] Protinus alter amat, fugit altera nomen amantis / silvarum tenebris captivarumque ferarum / exuviis gaudens innuptaeque aemula Phoebes. / [477] Vitta coercebat positos sine lege capillos. / Multi illam petiere, illa aversata petentes / inpatiens expersque viri nemora avia lustrat, / nec quid Hymen, quid Amor, quid sint conubia curat. / [481] Saepe pater dixit "generum mihi, filia, debes," / saepe pater dixit "debes mihi nata, nepotes:" / [483] illa, velut crimen taedas exosa iugales, / pulchra verecundo suffunditur ora rubore, / inque patris blandis haerens cervice lacertis / "da mihi perpetua, genitor carissime," dixit / "virginitate frui: dedit hoc pater ante Dianae." / [488] Ille quidem obsequitur, sed te decor iste quod optas / esse vetat. Votoque tuo tua forma repugnat: / [490] Phoebus amat visaeque cupit conubia Daphnes, / quodque cupit, sperat, suaque illum oracula fallunt. / [492] Utque leves stipulae demptis adolentur aristis, / ut facibus saepes ardent, quas forte viator / vel nimis admovit vel iam sub luce reliquit, / sic deus in flammas abiit, sic pectore toto / uritur et sterilem sperando nutrit amorem. / [497] Spectat inornatos collo pendere capillos / et "quid, si comantur?" ait. Videt igne micantes / sideribus similes oculos, videt oscula, quae non / est vidisse satis; laudat digitosque manusque / bracchiaque et nudos media plus parte lacertos. / [502] Siqua latent, meliora putat. Fugit ocior aura / illa levi neque ad haec revocantis verba resistit: / [504] "Nympha, precor, Penei, mane! Non insequor hostis: / nympha, mane! sic agna lupum, sic cerva leonem, / sic aquilam penna fugiunt trepidante columbae, / hostes quaeque suos: amor est mihi causa sequendi. / [508] Me miserum! ne prona cadas indignave laedi / crura notent sentes et sim tibi causa doloris. / [510] Aspera, qua properas, loca sunt. Moderatius, oro, / curre fugamque inhibe; moderatius insequar ipse. / [512] Cui placeas, inquire tamen. Non incola montis, / non ego sum pastor, non hic armenta gregesque / horridus observo. Nescis, temeraria, nescis / quem fugias, ideoque fugis. Mihi Delphica tellus / et Claros et Tenedos Patareaque regia servit, / Iuppiter est genitor; per me quod eritque fuitque / estque patet; per me concordant carmina nervis. / [519] Certa quidem nostra est, nostra tamen una sagitta / certior, in vacuo quae vulnera pectore fecit. / [521] Inventum medicina meum est, opiferque per orbem / dicor, et herbarum subiecta potentia nobis: / ei mihi, quod nullis amor est sanabilis herbis / nec prosunt domino, quae prosunt omnibus, artes." / [525] Plura locuturum timido Peneia cursu / fugit cumque ipso verba inperfecta reliquit, / tum quoque visa decens. Nudabant corpora venti, / obviaque adversas vibrabant flamina vestes, / et levis inpulsos retro dabat aura capillos, / [530] auctaque forma fuga est. Sed enim non sustinet ultra / perdere blanditias iuvenis deus, utque monebat / ipse Amor, admisso sequitur vestigia passu. / [533] Ut canis in vacuo leporem cum Gallicus arvo / vidit, et hic praedam pedibus petit, ille salutem: / alter inhaesuro similis iam iamque tenere / sperat et extento stringit vestigia rostro, / alter in ambiguo est, an sit conprensus, et ipsis / morsibus eripitur tangentiaque ora relinquit: / sic deus et virgo est hic spe celer, illa timore. / [540] Qui tamen insequitur pennis adiutus Amoris, / ocior est requiemque negat tergoque fugacis / inminet et crinem sparsum cervicibus adflat. / [543] Viribus absumptis expalluit illa citaeque / victa labore fugae spectans Peneidas undas / "fer pater" inquit "opem si flumina numen habetis. / Qua nimium placui, mutando perde figuram!" / [547] Vix prece finita torpor gravis occupat artus: / mollia cinguntur tenui praecordia libro, / in frondem crines, in ramos bracchia crescunt, / pes modo tam velox pigris radicibus haeret, / ora cacumen habet; remanet nitor unus in illa. / [552] Hanc quoque Phoebus amat, positaque in stipite dextra / sentit adhuc trepidare novo sub cortice pectus / conplexusque suis ramos, ut membra, lacertis / oscula dat ligno: refugit tamen oscula lignum. / [556] Cui deus "at quoniam coniunx mea non potes esse, / arbor eris certe" dixit "mea. Semper habebunt / te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae: / tu ducibus Latiis aderis, cum laeta triumphum / vox canet et visent longas Capitolia pompas: / --- Latiis] laetis codd. --- [561] postibus Augustis eadem fidissima custos / ante fores stabis mediamque tuebere quercum, / utque meum intonsis caput est iuvenale capillis, / tu quoque perpetuos semper gere frondis honores." / [565] Finierat Paean: factis modo laurea ramis / adnuit utque caput visa est agitasse cacumen. / [567] Est nemus Haemoniae, praerupta quod undique claudit / silva: vocant Tempe. Per quae Peneus ab imo / effusus Pindo spumosis volvitur undis, / deiectuque gravi tenues agitantia fumos / nubila conducit summisque adspergine silvis / inpluit et sonitu plus quam vicina fatigat. / [573] Haec domus, haec sedes, haec sunt penetralia magni / amnis; in his residens facto de cautibus antro, / undis iura dabat nymphisque colentibus undas. / [576] Conveniunt illuc popularia flumina primum, / nescia, gratentur consolenturne parentem, / populifer Sperchios et inrequietus Enipeus / Apidanusque senex lenisque Amphrysos et Aeas, / moxque amnes alii, qui, qua tulit impetus illos, / in mare deducunt fessas erroribus undas. / [582] Inachus unus abest imoque reconditus antro / fletibus auget aquas natamque miserrimus Io / luget ut amissam. Nescit, vitane fruatur, / an sit apud manes; sed quam non invenit usquam. / esse putat nusquam atque animo peiora veretur. / [587] Viderat a patrio redeuntem Iuppiter illam / flumine et "o virgo Iove digna tuoque beatum / nescio quem factura toro, pete" dixerat "umbras / altorum nemorum" (et nemorum monstraverat umbras), / "dum calet et medio sol est altissimus orbe. / [592] Quodsi sola times latebras intrare ferarum, / praeside tuta deo nemorum secreta subibis, / nec de plebe deo, sed qui caelestia magna / sceptra manu teneo, sed qui vaga fulmina mitto. / [596] Ne fuge me!"- fugiebat enim. Iam pascua Lernae / consitaque arboribus Lyrcea reliquerat arva, / cum deus inducta latas caligine terras / occuluit tenuitque fugam rapuitque pudorem. / [600] Interea medios Iuno despexit in agros / et noctis faciem nebulas fecisse volucres / sub nitido mirata die, non fluminis illas / esse, nec umenti sensit tellure remitti; / [604] atque suus coniunx ubi sit circumspicit, ut quae / deprensi totiens iam nosset furta mariti. / [606] Quem postquam caelo non repperit, "aut ego fallor, / aut ego laedor" ait, delapsaque ab aethere summo / constitit in terris nebulasque recedere iussit. / [609] Coniugis adventum praesenserat inque nitentem / Inachidos vultus mutaverat ille iuvencam. / [611] Bos quoque formosa est. Speciem Saturnia vaccae, / quamquam invita, probat, nec non et cuius et unde / quove sit armento, veri quasi nescia quaerit. / [614] Iuppiter e terra genitam mentitur, ut auctor / desinat inquiri. Petit hanc Saturnia munus. / [616] Quid faciat? crudele suos addicere amores, / non dare suspectum est. Pudor est qui suadeat illinc, / hinc dissuadet amor. Victus pudor esset amore; / sed leve si munus sociae generisque torique / vacca negaretur, poterat non vacca videri. / [621] Paelice donata non protinus exuit omnem / diva metum timuitque Iovem et fuit anxia furti, / donec Arestoridae servandam tradidit Argo. / [624] Centum luminibus cinctum caput Argus habebat: / inde suis vicibus capiebant bina quietem, / cetera servabant atque in statione manebant. / [627] Constiterat quocumque modo, spectabat ad Io: / ante oculos Io, quamvis aversus, habebat. / [629] Luce sinit pasci; cum sol tellure sub alta est, / claudit et indigno circumdat vincula collo. / [631] frondibus arboreis et amara pascitur herba, / proque toro terrae non semper gramen habenti / incubat infelix limosaque flumina potat. / [634] Illa etiam supplex Argo cum bracchia vellet / tendere, non habuit, quae bracchia tenderet Argo, / et conata queri mugitus edidit ore / pertimuitque sonos propriaque exterrita voce est. / [638] Venit et ad ripas, ubi ludere saepe solebat, / Inachidas ripas; novaque ut conspexit in unda / cornua, pertimuit seque exsternata refugit. / [641] Naides ignorant, ignorat et Inachus ipse, / quae sit; at illa patrem sequitur sequiturque sorores / et patitur tangi seque admirantibus offert. / [644] Decerptas senior porrexerat Inachus herbas: / illa manus lambit patriisque dat oscula palmis / nec retinet lacrimas et, si modo verba sequantur, / oret opem nomenque suum casusque loquatur. / [648] Littera pro verbis, quam pes in pulvere duxit, / corporis indicium mutati triste peregit. / [650] "Me miserum!" exclamat pater Inachus inque gementis / cornibus et niveae pendens cervice iuvencae / "me miserum!" ingeminat, "tune es quaesita per omnes / nata, mihi terras? tu non inventa reperta / [654] luctus eras levior. Retices nec mutua nostris / dicta refers, alto tantum suspiria ducis / pectore, quodque unum potes, ad mea verba remugis. / [657] At tibi ego ignarus thalamos taedasque parabam, / spesque fuit generi mihi prima, secunda nepotum. / [659] De grege nunc tibi vir, nunc de grege natus habendus. / Nec finire licet tantos mihi morte dolores, / sed nocet esse deum, praeclusaque ianua leti / aeternum nostros luctus extendit in aevum?" / [663] Talia maerentem stellatus submovet Argus / ereptamque patri diversa in pascua natam / abstrahit. Ipse procul montis sublime cacumen / occupat, unde sedens partes speculatur in omnes. / [667] Nec superum rector mala tanta Phoronidos ultra / ferre potest natumque vocat, quem lucida partu / Pleias enixa est, letoque det imperat Argum. / [670] Parva mora est alas pedibus virgamque potenti / somniferam sumpsisse manu tegimenque capillis. / [672] Haec ubi disposuit, patria Iove natus ab arce / desilit in terras. Illic tegimenque removit / et posuit pennas, tantummodo virga retenta est. / [675] Hac agit, ut pastor, per devia rura capellas, / dum venit, adductas et structis cantat avenis. / [677] Voce nova captus custos Iunonius "at tu, / quisquis es, hoc poteras mecum considere saxo," / Argus ait, "neque enim pecori fecundior ullo / herba loco est, aptamque vides pastoribus umbram." / [681] Sedit Atlantiades et euntem multa loquendo / detinuit sermone diem iunctisque canendo / vincere harundinibus servantia lumina temptat. / [684] Ille tamen pugnat molles evincere somnos / et, quamvis sopor est oculorum parte receptus, / parte tamen vigilat. Quaerit quoque (namque reperta / fistula nuper erat), qua sit ratione reperta. / [688] Tum deus "Arcadiae gelidis in montibus" inquit / "inter hamadryadas celeberrima Nonacrinas / naias una fuit; nymphae Syringa vocabant. / [691] Non semel et satyros eluserat illa sequentes / et quoscumque deos umbrosaque silva feraxque / rus habet. Ortygiam studiis ipsaque colebat / virginitate deam. Ritu quoque cincta Dianae / falleret et posset credi Latonia, si non / corneus huic arcus, si non foret aureus illi. / [697] Sic quoque fallebat. Redeuntem colle Lycaeo / Pan videt hanc pinuque caput praecinctus acuta / [699] talia verba refert" - restabat verba referre / et precibus spretis fugisse per avia nympham, / donec harenosi placidum Ladonis ad amnem / venerit. Hic illam cursum inpedientibus undis, / ut se mutarent liquidas orasse sorores, / Panaque, cum prensam sibi iam Syringa putaret, / corpore pro nymphae calamos tenuisse palustres. / [706] Dumque ibi suspirat, motos in harundine ventos / effecisse sonum tenuem similemque querenti. / Arte nova vocisque deum dulcedine captum / "hoc mihi concilium tecum" dixisse "manebit!" / atque ita disparibus calamis conpagine cerae / inter se iunctis nomen tenuisse puellae. / [712] Talia dicturus vidit Cyllenius omnes / succubuisse oculos adopertaque lumina somno. / Supprimit extemplo vocem firmatque soporem / languida permulcens medicata lumina virga. / [716] Nec mora, falcato nutantem vulnerat ense / qua collo est confine caput, saxoque cruentum / deicit et maculat praeruptam sanguine rupem. / [719] Arge, iaces, quodque in tot lumina lumen habebas, / exstinctum est, centumque oculos nox occupat una. / [721] Excipit hos volucrisque suae Saturnia pennis / collocat et gemmis caudam stellantibus inplet. / [723] Protinus exarsit nec tempora distulit irae / horriferamque oculis animoque obiecit Erinyn / paelicis Argolicae stimulosque in pectore caecos / condidit et profugam per totum terruit orbem. / [727] Ultimus inmenso restabas, Nile, labori. / Quem simul ac tetigit, positis in margine ripae / procubuit genibus resupinoque ardua collo, / quos potuit solos, tollens ad sidera vultus / et gemitu et lacrimis et luctisono mugitu / cum Iove visa queri finemque orare malorum. / [733] Coniugis ille suae conplexus colla lacertis, / finiat ut poenas tandem, rogat "in" que "futurum / pone metus" inquit; "numquam tibi causa doloris / haec erit:" et Stygias iubet hoc audire paludes. / [737] Ut lenita dea est, vultus capit illa priores / fitque quod ante fuit: fugiunt e corpore saetae, / cornua decrescunt, fit luminis artior orbis, / contrahitur rictus, redeunt umerique manusque, / ungulaque in quinos dilapsa absumitur ungues: / de bove nil superest formae nisi candor in illa. / [743] Officioque pedum nymphe contenta duorum / erigitur metuitque loqui, ne more iuvencae / mugiat, et timide verba intermissa retemptat. / [746] Nunc dea linigera colitur celeberrima turba, / [747] nunc Epaphus magni genitus de semine tandem / creditur esse Iovis, perque urbes iuncta parenti / templa tenet. Fuit huic animis aequalis et annis / [750] Sole satus Phaethon. Quem quondam magna loquentem / nec sibi cedentem Phoeboque parente superbum / non tulit Inachides, "matri" que ait "omnia demens / credis et es tumidus genitoris imagine falsi." / [754] Erubuit Phaethon iramque pudore repressit / et tulit ad Clymenen Epaphi convicia matrem; / [756] "quo" que "magis doleas genetrix," ait "ille ego liber, / ille ferox tacui. Pudet haec opprobria nobis / et dici potuisse et non potuisse refelli. / At tu, si modo sum caelesti stirpe creatus, / ede notam tanti generis meque adsere caelo." / [761] Dixit et inplicuit materno bracchia collo / perque suum Meropisque caput taedasque sororum / traderet oravit veri sibi signa parentis. / [764] Ambiguum, Clymene, precibus Phaethontis an ira / mota magis dicti sibi criminis utraque caelo / [766] bracchia porrexit spectansque ad lumina solis / "per iubar hoc" inquit "radiis insigne coruscis, / nate, tibi iuro, quod nos auditque videtque, / hoc te, quem spectas, hoc te, qui temperat orbem, / [770] Sole satum. Si ficta loquor, neget ipse videndum / se mihi, sitque oculis lux ista novissima nostris. / Nec longus patrios labor est tibi nosse penates: / unde oritur, domus est terrae contermina nostrae. / Si modo fert animus, gradere et scitabere ab ipso." / [775] Emicat extemplo laetus post talia matris / dicta suae Phaethon et concipit aethera mente, / Aethiopasque suos positosque sub ignibus Indos / sidereis transit patriosque adit inpiger ortus. / [1] Regia Solis erat sublimibus alta columnis, / clara micante auro flammasque imitante pyropo: / cuius ebur nitidum fastigia summa tegebat, / argenti bifores radiabant lumine valvae. / [5] Materiam superabat opus: nam Mulciber illic / aequora caelarat medias cingentia terras, / terrarumque orbem, caelumque quod inminet orbi. / [8] Caeruleos habet unda deos, Tritona canorum / Proteaque ambiguum, balaenarumque prementem / Aegaeona suis inmania terga lacertis, / Doridaque et natas, quarum pars nare videtur, / pars in mole sedens virides siccare capillos, / [13] pisce vehi quaedam: facies non omnibus una, / non diversa tamen, qualem decet esse sororum. / [15] Terra viros urbesque gerit silvasque ferasque / fluminaque et nymphas et cetera numina ruris. / [17] Haec super imposita est caeli fulgentis imago / signaque sex foribus dextris totidemque sinistris. / [19] Quo simul acclivi Clymeneia limite proles / venit et intravit dubitati tecta parentis, / protinus ad patrios sua fert vestigia vultus / consistitque procul: neque enim propiora ferebat / [23] lumina. Purpurea velatus veste sedebat / in solio Phoebus claris lucente smaragdis. / [25] A dextra laevaque Dies et Mensis et Annus / Saeculaque et positae spatiis aequalibus Horae / Verque novum stabat cinctum florente corona, / stabat nuda Aestas et spicea serta gerebat, / stabat et Autumnus, calcatis sordidus uvis, / et glacialis Hiems, canos hirsuta capillos. / [31] Inde loco medius rerum novitate paventem / Sol oculis iuvenem, quibus adspicit omnia, vidit / "quae" que "viae tibi causa? quid hac" ait "arce petisti, / progenies, Phaethon, haud infitianda parenti?" / --- arce] =arte= (ip. Basi e Guasti). --- [35] Ille refert "o lux inmensi publica mundi, / Phoebe pater, si das usum mihi nominis huius / nec falsa Clymene culpam sub imagine celat, / pignera da, genitor, per quae tua vera propago / credar, et hunc animis errorem detrahe nostris." / [40] Dixerat: at genitor circum caput omne micantes / deposuit radios propiusque accedere iussit; / amplexuque dato "nec tu meus esse negari / dignus es, et Clymene veros" ait "edidit ortus. / [44] Quoque minus dubites, quodvis pete munus, ut illud / me tribuente feras. Promissis testis adesto / dis iuranda palus, oculis incognita nostris." / [47] Vix bene desierat, currus rogat ille paternos / inque diem alipedum ius et moderamen equorum. / [49] Paenituit iurasse patrem. Qui terque quaterque / concutiens inlustre caput "temeraria" dixit / vox mea facta tua est. Utinam promissa liceret / [52] non dare! confiteor, solum hoc tibi, nate, negarem. / Dissuadere licet. Non est tua tuta voluntas. / Magna petis, Phaethon, et quae nec viribus istis / munera conveniant nec tam puerilibus annis. / [56] Sors tua mortalis, non est mortale quod optas. / Plus etiam, quam quod superis contingere possit, / nescius adfectas. Placeat sibi quisque licebit, / non tamen ignifero quisquam consistere in axe / [60] me valet excepto. Vasti quoque rector Olympi, / qui fera terribili iaculatur fulmina dextra, / non agat hos currus: et quid Iove maius habemus? / [63] Ardua prima via est et qua vix mane recentes / enitantur equi: medio est altissima caelo, / unde mare et terras ipsi mihi saepe videre / fit timor, et pavida trepidat formidine pectus. / [67] Ultima prona via est et eget moderamine certo: / tunc etiam quae me subiectis excipit undis, / ne ferar in praeceps, Tethys solet ipsa vereri. / [70] Adde quod adsidua rapitur vertigine caelum / sideraque alta trahit celerique volumine torquet. / Nitor in adversum, nec me, qui cetera, vincit / impetus, et rapido contrarius evehor orbi. / [74] Finge datos currus: quid ages? poterisne rotatis / obvius ire polis, ne te citus auferat axis? / [76] Forsitan et lucos illic urbesque deorum / concipias animo delubraque ditia donis / esse? per insidias iter est formasque ferarum. / [79] Utque viam teneas nulloque errore traharis, / per tamen adversi gradieris cornua tauri / Haemoniosque arcus violentique ora leonis / saevaque circuitu curvantem bracchia longo / scorpion atque aliter curvantem bracchia cancrum. / [84] Nec tibi quadrupedes animosos ignibus illis, / quos in pectore habent, quos ore et naribus efflant, / in promptu regere est: vix me patiuntur, ubi acres / incaluere animi, cervixque repugnat habenis. / [88] At tu, funesti ne sim tibi muneris auctor, / nate, cave, dum resque sinit, tua corrige vota. / [90] Scilicet ut nostro genitum te sanguine credas, / pignera certa petis? do pignera certa timendo / [92] et patrio pater esse metu probor. Adspice vultus / ecce meos; utinamque oculos in pectora posses / inserere et patrias intus deprendere curas! / [95] Denique quidquid habet dives, circumspice, mundus, / eque tot ac tantis caeli terraeque marisque / posce bonis aliquid: nullam patiere repulsam. / [98] Deprecor hoc unum, quod vero nomine poena, / non honor est: poenam, Phaethon, pro munere poscis. / Quid mea colla tenes blandis, ignare, lacertis? / ne dubita, dabitur (Stygias iuravimus undas) / quodcumque optaris: sed tu sapientius opta." / [103] Finierat monitus: dictis tamen ille repugnat / propositumque premit flagratque cupidine currus. / [105] Ergo qua licuit genitor cunctatus ad altos / deducit iuvenem, Vulcania munera, currus. / [107] Aureus axis erat, temo aureus, aurea summae / curvatura rotae, radiorum argenteus ordo; / per iuga chrysolithi positaeque ex ordine gemmae / clara repercusso reddebant lumina Phoebo. / [111] Dumque ea magnanimus Phaethon miratur opusque / perspicit, ecce vigil nitido patefecit ab ortu / purpureas Aurora fores et plena rosarum / [114] atria. Diffugiunt stellae, quarum agmina cogit / Lucifer et caeli statione novissimus exit. / [116] Quem petere ut terras mundumque rubescere vidit / cornuaque extremae velut evanescere lunae, / iungere equos Titan velocibus imperat Horis. / --- Quem petere] quem pater 'E'Moh, quam pater 'P'Fg, cum pater m, tum pater Nlp, at pater sH. --- [119] Iussa deae celeres peragunt, ignemque vomentes, / ambrosiae suco saturos, praesepibus altis / quadrupedes ducunt adduntque sonantia frena. / [122] Tum pater ora sui sacro medicamine nati / contigit et rapidae fecit patientia flammae / imposuitque comae radios, praesagaque luctus / pectore sollicito repetens suspiria dixit: / [126] "Si potes his saltem monitis parere parentis, / parce, puer, stimulis et fortius utere loris: / sponte sua properant; labor est inhibere volentes. / [129] Nec tibi directos placeat via quinque per arcus: / sectus in obliquum est lato curvamine limes, / zonarumque trium contentus fine polumque / effugit australem iunctamque aquilonibus arcton. / [133] Hac sit iter: manifesta rotae vestigia cernes. / Utque ferant aequos et caelum et terra calores, / nec preme nec summum molire per aethera currum. / [136] Altius egressus caelestia tecta cremabis, / inferius terras: medio tutissimus ibis. / [138] Neu te dexterior tortum declinet ad anguem, / neve sinisterior pressam rota ducat ad aram: / inter utrumque tene. Fortunae cetera mando, / quae iuvet et melius quam tu tibi, consulat opto. / [142] Dum loquor, Hesperio positas in litore metas / umida nox tetigit. Non est mora libera nobis: / poscimur: effulget tenebris aurora fugatis. / [145] Corripe lora manu, vel, si mutabile pectus / est tibi, consiliis, non curribus utere nostris, / dum potes et solidis etiamnunc sedibus adstas / dumque male optatos nondum premis inscius axes. / Quae tutus spectes, sine me dare lumina terris!" / [150] Occupat ille levem iuvenali corpore currum, / statque super manibusque datas contingere habenas / gaudet et invito grates agit inde parenti. / [153] Interea volucres Pyrois et Eous et Aethon, / Solis equi, quartusque Phlegon, hinnitibus auras / flammiferis implent pedibusque repagula pulsant. / [156] Quae postquam Tethys, fatorum ignara nepotis / reppulit, et facta est inmensi copia caeli, / corripuere viam pedibusque per aera motis / obstantes scindunt nebulas pennisque levati / praetereunt ortos isdem de partibus Euros. / [161] Sed leve pondus erat, nec quod cognoscere possent / Solis equi, solitaque iugum gravitate carebat; / [163] utque labant curvae iusto sine pondere naves / perque mare instabiles nimia levitate feruntur, / sic onere adsueto vacuus dat in aera saltus / succutiturque alte similisque est currus inani. / [167] Quod simulac sensere, ruunt tritumque relinquunt / quadriiugi spatium, nec quo prius ordine currunt. / [169] Ipse pavet nec qua commissas flectat habenas, / nec scit, qua sit iter; nec, si sciat, imperet illis. / [171] Tum primum radiis gelidi caluere triones / et vetito frustra temptarunt aequore tingi, / quaeque polo posita est glaciali proxima serpens, / frigore pigra prius nec formidabilis ulli, / incaluit sumpsitque novas fervoribus iras. / [176] Te quoque turbatum memorant fugisse, Boote, / quamvis tardus eras et te tua plaustra tenebant. / [178] Ut vero summo despexit ab aethere terras / infelix Phaethon penitus penitusque iacentes, / palluit et subito genua intremuere timore, / suntque oculis tenebrae per tantum lumen obortae. / [182] Et iam mallet equos numquam tetigisse paternos, / iam cognosse genus piget et valuisse rogando, / iam Meropis dici cupiens ita fertur, ut acta / praecipiti pinus borea, cui victa remisit / frena suus rector, quam dis votisque reliquit. / [187] Quid faciat? multum caeli post terga relictum, / ante oculos plus est! animo metitur utrumque, / et modo quos illi fatum contingere non est, / prospicit occasus, interdum respicit ortus: / [191] quidque agat ignarus stupet et nec frena remittit / nec retinere valet nec nomina novit equorum. / Sparsa quoque in vario passim miracula caelo / vastarumque videt trepidus simulacra ferarum. / [195] Est locus, in geminos ubi bracchia concavat arcus / scorpius et cauda flexisque utrimque lacertis / porrigit in spatium signorum membra duorum. / [198] Hunc puer ut nigri madidum sudore veneni / vulnera curvata minitantem cuspide vidit, / mentis inops gelida formidine lora remisit. / [201] Quae postquam summum tetigere iacentia tergum, / exspatiantur equi, nulloque inhibente per auras / ignotae regionis eunt, quaque impetus egit, / hac sine lege ruunt altoque sub aethere fixis / incursant stellis rapiuntque per avia currum. / [206] Et modo summa petunt, modo per declive viasque / praecipites spatio terrae propiore feruntur. / [208] Inferiusque suis fraternos currere Luna / admiratur equos, ambustaque nubila fumant; / [210] corripitur flammis ut quaeque altissima, tellus / fissaque agit rimas et sucis aret ademptis. / [212] Pabula canescunt, cum frondibus uritur arbor, / materiamque suo praebet seges arida damno. / [214] Parva queror: magnae pereunt cum moenibus urbes, / cumque suis totas populis incendia gentes / in cinerem vertunt. Silvae cum montibus ardent, / [217] ardet Athos Taurusque Cilix et Tmolus et Oete / et tum sicca, prius creberrima fontibus, Ide, / virgineusque Helicon et nondum Oeagrius Haemus; / [220] ardet in inmensum geminatis ignibus Aetna / Parnasusque biceps et Eryx et Cynthus et Othrys, / et tandem nivibus Rhodope caritura, Mimasque / Dindymaque et Mycale natusque ad sacra Cithaeron. / [224] Nec prosunt Scythiae sua frigora: Caucasus ardet / Ossaque cum Pindo maiorque ambobus Olympus / aeriaeque Alpes et nubifer Appenninus. / [227] Tum vero Phaethon cunctis e partibus orbem / adspicit accensum nec tantos sustinet aestus, / ferventesque auras velut e fornace profunda / ore trahit currusque suos candescere sentit; / [231] et neque iam cineres eiectatamque favillam / ferre potest calidoque involvitur undique fumo, / quoque eat, aut ubi sit, picea caligine tectus / nescit et arbitrio volucrum raptatur equorum. / [235] Sanguine tum credunt in corpora summa vocato / Aethiopum populos nigrum traxisse colorem. / [237] Tum facta est Libye raptis umoribus aestu / arida, tum nymphae passis fontesque lacusque / deflevere comis: quaerit Boeotia Dircen, / Argos Amymonen, Ephyre Pirenidas undas. / [241] Nec sortita loco distantes flumina ripas / tuta manent: mediis Tanais fumavit in undis / Peneusque senex Teuthranteusque Caicus / et celer Ismenos cum Phegiaco Erymantho / arsurusque iterum Xanthus flavusque Lycormas, / quique recurvatis ludit Maeandrus in undis. / Mygdoniusque Melas et Taenarius Eurotas. / Arsit et Euphrates Babylonius, arsit Orontes / Thermodonque citus Gangesque et Phasis et Hister. / [250] Aestuat Alpheus, ripae Spercheides ardent, / quodque suo Tagus amne vehit, fluit ignibus aurum, / et quae Maeonias celebrabant carmine ripas / flumineae volucres, medio caluere Caystro. / [254] Nilus in extremum fugit perterritus orbem / occuluitque caput, quod adhuc latet: ostia septem / pulverulenta vacant, septem sine flumine valles. / [257] Fors eadem Ismarios Hebrum cum Strymone siccat / Hesperiosque amnes Rhenum Rhodanumque Padumque, / cuique fuit rerum promissa potentia, Thybrin. / [260] Dissilit omne solum, penetratque in Tartara rimis / lumen et infernum terret cum coniuge regem. / [262] Et mare contrahitur, siccaeque est campus harenae / quod modo pontus erat: quosque altum texerat aequor, / exsistunt montes et sparsas Cycladas augent. / [265] Ima petunt pisces, nec se super aequora curvi / tollere consuetas audent delphines in auras; / corpora phocarum summo resupina profundo / exanimata natant. Ipsum quoque Nerea fama est / Doridaque et natas tepidis latuisse sub antris. / [270] Ter Neptunus aquis cum torvo bracchia vultu / exserere ausus erat, ter non tulit aeris ignes. / [272] Alma tamen Tellus, ut erat circumdata ponto, / inter aquas pelagi contractosque undique fontes, / qui se condiderant in opacae viscera matris, / sustulit oppressos collo tenus arida vultus / opposuitque manum fronti magnoque tremore / omnia concutiens paulum subsedit et infra / quam solet esse fuit, siccaque ita voce locuta est: / [279] "Si placet hoc, meruique, quid o tua fulmina cessant, / summe deum? liceat periturae viribus ignis / igne perire tuo clademque auctore levare. / [282] Vix equidem fauces haec ipsa in verba resolvo" / (presserat ora vapor): "tostos en adspice crines / inque oculis tantum, tantum super ora favillae. / [285] Hosne mihi fructus, hunc fertilitatis honorem / officiique refers, quod adunci vulnera aratri / rastrorumque fero totoque exerceor anno, / quod pecori frondes, alimentaque mitia, fruges, / humano generi, vobis quoque tura ministro? / [290] Sed tamen exitium fac me meruisse: quid undae, / quid meruit frater? cur illi tradita sorte / aequora decrescunt et ab aethere longius absunt? / [293] Quodsi nec fratris nec te mea gratia tangit, / at caeli miserere tui. Circumspice utrumque, / fumat uterque polus. Quos si vitiaverit ignis, / atria vestra ruent. Atlas en ipse laborat / vixque suis umeris candentem sustinet axem. / [298] Si freta, si terrae pereunt, si regia caeli, / in chaos antiquum confundimur. Eripe flammis, / siquid adhuc superest, et rerum consule summae." / [301] Dixerat haec Tellus: neque enim tolerare vaporem / ulterius potuit nec dicere plura: suumque / rettulit os in se propioraque manibus antra. / [304] At pater omnipotens, superos testatus et ipsum, / qui dederat currus, nisi opem ferat, omnia fato / interitura gravi, summam petit arduus arcem, / unde solet nubes latis inducere terris, / unde movet tonitrus vibrataque fulmina iactat. / [309] Sed neque quas posset terris inducere nubes / tunc habuit, nec quos caelo demitteret imbres. / [311] Intonat et dextra libratum fulmen ab aure / misit in aurigam pariterque animaque rotisque / expulit et saevis compescuit ignibus ignes. / [314] Consternantur equi et saltu in contraria facto / colla iugo eripiunt abruptaque lora relinquunt. / [316] Illic frena iacent, illic temone revulsus / axis, in hac radii fractarum parte rotarum, / sparsaque sunt late laceri vestigia currus. / [319] At Phaethon rutilos flamma populante capillos, / volvitur in praeceps longoque per aera tractu / fertur, ut interdum de caelo stella sereno / etsi non cecidit, potuit cecidisse videri. / [323] Quem procul a patria diverso maximus orbe / excipit Eridanus fumantiaque abluit ora. / [325] Naides Hesperiae trifida fumantia flamma / corpora dant tumulo, signant quoque carmine saxum: / [327] HIC SITUS EST PHAETHON, CURRUS AURIGA PATERNI: / QUEM SI NON TENUIT, MAGNIS TAMEN EXCIDIT AUSIS. / --- tenuit] =timuit= (ip. Basi e Guasti). --- [329] Nam pater obductos, luctu miserabilis aegro / condiderat vultus: et, si modo credimus, unum / isse diem sine sole ferunt: incendia lumen / praebebant aliquisque malo fuit usus in illo. / [333] At Clymene postquam dixit quaecumque fuerunt / in tantis dicenda malis, lugubris et amens / et laniata sinus totum percensuit orbem, / [336] exanimesque artus primo, mox ossa requirens / repperit (ossa tamen peregrina condita ripa!), / incubuitque loco nomenque in marmore lectum / perfudit lacrimis et aperto pectore fovit. / [340] Nec minus Heliades lugent et inania morti / munera dant lacrimas, et caesae pectora palmis / non auditurum miseras Phaethonta querellas / nocte dieque vocant adsternunturque sepulcro. / [344] Luna quater iunctis implerat cornibus orbem: / illae more suo (nam morem fecerat usus) / [346] plangorem dederant. E quis Phaethusa, sororum / maxima, cum vellet terra procumbere, questa est / deriguisse pedes. Ad quam conata venire / candida Lampetie subita radice retenta est. / [350] Tertia cum crinem manibus laniare pararet, / avellit frondes; haec stipite crura teneri, / illa dolet fieri longos sua bracchia ramos. / [353] Dumque ea mirantur, complectitur inguina cortex, / perque gradus uterum pectusque umerosque manusque / ambit et exstabant tantum ora vocantia matrem. / [356] Quid faciat mater, nisi, quo trahat impetus illam, / huc eat atque illuc, et, dum licet, oscula iungat? / [358] Non satis est; truncis avellere corpora temptat, / et teneros manibus ramos abrumpit; at inde / sanguineae manant, tamquam de vulnere, guttae. / [361] "Parce, precor, mater", quaecumque est saucia, clamat, / "parce, precor: nostrum laceratur in arbore corpus. / iamque vale" - cortex in verba novissima venit. / [364] Inde fluunt lacrimae, stillataque sole rigescunt / de ramis electra novis, quae lucidus amnis / excipit et nuribus mittit gestanda Latinis. / [367] Adfuit huic monstro proles Stheneleia Cycnus, / qui tibi materno quamvis a sanguine iunctus, / [369] mente tamen, Phaethon, propior fuit. Ille relicto / (nam Ligurum populos et magnas rexerat urbes) / imperio ripas virides amnemque querellis / Eridanum implerat silvamque sororibus auctam, / [373] cum vox est tenuata viro, canaeque capillos / dissimulant plumae, collumque a pectore longe / porrigitur, digitosque ligat iunctura rubentes, / penna latus velat, tenet os sine acumine rostrum. / --- cum] =cui= (ip. DiVo). --- [377] Fit nova Cycnus avis, nec se caeloque Iovique / credit, ut iniuste missi memor ignis ab illo: / stagna petit patulosque lacus, ignemque perosus / quae colat elegit contraria flumina flammis. / [381] Squalidus interea genitor Phaethontis et expers / ipse sui decoris, qualis, cum deficit orbem, / esse solet, lucemque odit seque ipse diemque, / datque animum in luctus; et luctibus adicit iram / [385] officiumque negat mundo. "Satis" inquit "ab aevi / sors mea principiis fuit inrequieta, pigetque / actorum sine fine mihi, sine honore, laborum. / [388] Quilibet alter agat portantes lumina currus! / Si nemo est omnesque dei non posse fatentur, / ipse agat ut saltem, dum nostras temptat habenas, / orbatura patres aliquando fulmina ponat. / [392] Tum sciet, ignipedum vires expertus equorum, / non meruisse necem, qui non bene rexerit illos." / [394] Talia dicentem circumstant omnia Solem / numina, neve velit tenebras inducere rebus, / supplice voce rogant: missos quoque Iuppiter ignes / excusat precibusque minas regaliter addit. / [398] Conligit amentes et adhuc terrore paventes / Phoebus equos stimuloque dolens et verbere saevit: / saevit enim, natumque obiectat et imputat illis. / [401] At pater omnipotens ingentia moenia caeli / circuit et ne quid labefactum viribus ignis / corruat explorat. Quae postquam firma suique / roboris esse videt terras hominumque labores / [405] perspicit. Arcadiae tamen est impensior illi / cura suae: fontes et nondum audentia labi / flumina restituit dat terrae gramina, frondes / arboribus, laesasque iubet revirescere silvas. / [409] Dum redit itque frequens, In virgine Nonacrina / haesit et accepti caluere sub ossibus ignes. / [411] Non erat huius opus lanam mollire trahendo / nec positu variare comas; ubi fibula vestem, / vitta coercuerat neglectos alba capillos, / et modo leve manu iaculum, modo sumpserat arcum, / [415] miles erat Phoebes: nec Maenalon attigit ulla / gratior hac Triviae. Sed nulla potentia longa est. / Ulterius medio spatium sol altus habebat, / cum subit illa nemus, quod nulla ceciderat aetas. / [419] Exuit hic umero pharetram lentosque retendit / arcus, inque solo, quod texerat herba, iacebat / et pictam posita pharetram cervice premebat. / [422] Iuppiter ut vidit fessam et custode vacantem, / "hoc certe furtum coniunx mea nesciet" inquit, / "aut si rescierit sunt o sunt iurgia tanti." / [425] Protinus induitur faciem cultumque Dianae / atque ait: "O comitum, virgo, pars una mearum, / in quibus es venata iugis?" De caespite virgo / se levat et "salve numen, me indice", dixit / [429] "audiat ipse licet maius Iove." Ridet et audit, / et sibi praeferri se gaudet et oscula iungit / nec moderata satis nec sic a virgine danda. / Qua venata foret silva, narrare parantem / impedit amplexu, nec se sine crimine prodit. / [434] Illa quidem contra, quantum modo femina possit / (adspiceres utinam, Saturnia: mitior esses !), / illa quidem pugnat: sed quem superare puella, / [437] quisve Iovem poterat? - Superum petit aethera victor / Iuppiter: huic odio nemus est et conscia silva. / Unde pedem referens paene est oblita pharetram / tollere cum telis et quem suspenderat arcum. / [441] Ecce, suo comitata choro Dictynna per altum / Maenalon ingrediens et caede superba ferarum / adspicit hanc visamque vocat: clamata refugit, / et timuit primo, ne Iuppiter esset in illa. / [445] Sed postquam pariter nymphas incedere vidit, / sensit abesse dolos numerumque accessit ad harum. / Heu quam difficile est crimen non prodere vultu! / [448] Vix oculos attollit humo, nec, ut ante solebat, / iuncta deae lateri, nec toto est agmine prima, / sed silet et laesi dat signa rubore pudoris; / [451] et nisi quod virgo est poterat sentire Diana / mille notis culpam; nymphae sensisse feruntur. / [453] Orbe resurgebant lunaria cornua nono, / cum dea venatu, fraternis languida flammis, / nacta nemus gelidum, de quo cum murmure labens / ibat et attritas versabat rivus harenas. / [457] Ut loca laudavit, summas pede contigit undas: / his quoque laudatis "procul est" ait "arbiter omnis; / nuda superfusis tingamus corpora lymphis." / [460] Parrhasis erubuit. Cunctae velamina ponunt: / una moras quaerit. Dubitanti vestis adempta est; / qua posita nudo patuit cum corpore crimen. / [463] Attonitae manibusque uterum celare volenti / "i procul hinc" dixit "nec sacros pollue fontes" / Cynthia; deque suo iussit secedere coetu. / [466] Senserat hoc olim magni matrona Tonantis / distuleratque graves in idonea tempora poenas. / Causa morae nulla est, et iam puer Arcas (id ipsum / indoluit Iuno) fuerat de paelice natus. / [470] Quo simul obvertit saevam cum lumine mentem, / "scilicet hoc etiam restabat, adultera" dixit, / "ut fecunda fores, fieretque iniuria partu / nota, Iovisque mei testatum dedecus esset. / [474] Haud impune feres: adimam tibi nempe figuram, / qua tibi, quaque places nostro, importuna, marito." / [476] Dixit et adversa prensis a fronte capillis / stravit humi pronam. Tendebat bracchia supplex: / [478] bracchia coeperunt nigris horrescere villis / curvarique manus et aduncos crescere in ungues / officioque pedum fungi, laudataque quondam / ora Iovi lato fieri deformia rictu. / [482] Neve preces animos et verba precantia flectant / posse loqui eripitur; vox iracunda minaxque / plenaque terroris rauco de gutture fertur. / [485] Mens antiqua tamen facta quoque mansit in ursa, / adsiduoque suos gemitu testata dolores / qualescumque manus ad caelum et sidera tollit / ingratumque Iovem, nequeat cum dicere, sentit. / [489] A quotiens, sola non ausa quiescere silva, / ante domum quondamque suis erravit in agris! / A quotiens per saxa canum latratibus acta est / venatrixque metu venantum territa fugit! / [493] Saepe feris latuit visis, oblita quid esset, / ursaque conspectos in montibus horruit ursos / pertimuitque lupos, quamvis pater esset in illis. / [496] Ecce, Lycaoniae proles, ignara parentis, / Arcas adest, ter quinque fere natalibus actis: / dumque feras sequitur, dum saltus eligit aptos / nexilibusque plagis silvas Erymanthidas ambit, / incidit in matrem; quae restitit Arcade viso / [501] et cognoscenti similis fuit. Ille refugit / inmotosque oculos in se sine fine tenentem / nescius extimuit propiusque accedere aventi / vulnifico fuerat fixurus pectora telo. / [505] Arcuit omnipotens pariterque ipsosque nefasque / sustulit, et celeri raptos per inania vento / imposuit caelo vicinaque sidera fecit. / [508] Intumuit Iuno, postquam inter sidera paelex / fulsit et ad canam descendit in aequora Tethyn / Oceanumque senem, quorum reverentia movit / saepe deos, causamque viae scitantibus infit: / [512] "Quaeritis, aetheriis quare regina deorum / sedibus huc adsim? pro me tenet altera caelum. / [514] Mentiar, obscurum nisi nox cum fecerit orbem, / nuper honoratas summo, mea vulnera, caelo / videritis stellas illic, ubi circulus axem / ultimus extremum spatioque brevissimus ambit. / [518] Est vero, cur quis Iunonem laedere nolit / offensamque tremat, quae prosum sola nocendo? / [520] O ego quantum egi! quam vasta potentia nostra est! / Esse hominem vetui: facta est dea. Sic ego poenas / sontibus impono, sic est mea magna potestas. / [523] Vindicet antiquam faciem vultusque ferinos / detrahat, Argolica quod in ante Phoronide fecit. / Cur non et pulsa ducit Iunone meoque / collocat in thalamo socerumque Lycaona sumit? / [527] At vos si laesae tangit contemptus alumnae, / gurgite caeruleo septem prohibete triones / sideraque in caelo, stupri mercede, recepta / pellite, ne puro tingatur in aequore paelex." / [531] Di maris adnuerant: habili Saturnia curru / ingreditur liquidum pavonibus aethera pictis, / tam nuper pictis caeso pavonibus Argo, / quam tu nuper eras, cum candidus ante fuisses, / corve loquax, subito nigrantes versus in alas. / [536] Nam fuit haec quondam niveis argentea pennis / ales ut aequaret totas sine labe columbas / nec servaturis vigili Capitolia voce / cederet anseribus nec amanti flumina cycno. / [540] Lingua fuit damno; lingua faciente loquaci / qui color albus erat, nunc est contrarius albo. / [542] Pulchrior in tota, quam Larisaea Coronis, / non fuit Haemonia: placuit tibi, Delphice, certe, / [544] dum vel casta fuit vel inobservata. Sed ales / sensit adulterium Phoebeius, utque latentem / detegeret culpam, non exorabilis index, / [547] ad dominum tendebat iter. Quem garrula motis / consequitur pennis, scitetur ut omnia, cornix, / auditaque viae causa "non utile carpis" / inquit "iter: ne sperne meae praesagia linguae. / [551] Quid fuerim quid simque vide, meritumque require: / invenies nocuisse fidem. Nam tempore quodam / Pallas Erichthonium, prolem sine matre creatam, / clauserat Actaeo texta de vimine cista / virginibusque tribus gemino de Cecrope natis / et legem dederat, sua ne secreta viderent. / [557] Abdita fronde levi densa speculabar ab ulmo, / quid facerent. Commissa duae sine fraude tuentur, / Pandrosos atque Herse; timidas vocat una sorores / Aglauros nodosque manu diducit, et intus / infantemque vident adporrectumque draconem. / [562] Acta deae refero. Pro quo mihi gratia talis / redditur, ut dicar tutela pulsa Minervae / [564] et ponar post noctis avem. Mea poena volucres / admonuisse potest ne voce pericula quaerant. / At, puto, non ultro nec quicquam tale rogantem / [567] me petiit? ipsa licet hoc a Pallade quaeras: / quamvis irata est, non hoc irata negabit. / Nam me Phocaica clarus tellure Coroneus / (nota loquor) genuit fueramque ego regia virgo / divitibusque procis (ne me contemne) petebar. / [572] Forma mihi nocuit. Nam cum per litora lentis / passibus, ut soleo, summa spatiarer harena, / [574] vidit et incaluit pelagi deus; utque precando / tempora cum blandis absumpsit inania verbis, / vim parat et sequitur. Fugio densumque relinquo / litus et in molli nequiquam lassor harena. / [578] Inde deos hominesque voco; nec contigit ullum / vox mea mortalem: mota est pro virgine virgo / auxiliumque tulit. Tendebam bracchia caelo: / bracchia coeperunt levibus nigrescere pennis. / [582] Reicere ex umeris vestem molibar: at illa / pluma erat inque cutem radices egerat imas. / Plangere nuda meis conabar pectora palmis: / sed neque iam palmas nec pectora nuda gerebam. / [586] Currebam: nec, ut ante, pedes retinebat harena, / sed summa tollebar humo. Mox alta per auras / evehor et data sum comes inculpata Minervae. / [589] Quid tamen hoc prodest, si diro facta volucris / crimine Nyctimene nostro successit honori? / [591] An quae per totam res est notissima Lesbon, / non audita tibi est, patrium temerasse cubile / Nyctimenen? avis illa quidem, sed conscia culpae / conspectum lucemque fugit tenebrisque pudorem / celat et a cunctis expellitur aethere toto." / [596] Talia dicenti "tibi" ait "revocamina" corvus / "sint precor ista malo: nos vanum spernimus omen." / --- omen] =omne= (ip. Basi e Guasti). --- [598] Nec coeptum dimittit iter, dominoque iacentem / cum iuvene Haemonio vidisse Coronida narrat. / [600] Laurea delapsa est audito crimine amanti, / et pariter vultusque deo plectrumque colorque / excidit. Utque animus tumida fervebat ab ira, / arma adsueta rapit flexumque a cornibus arcum / tendit et illa suo totiens cum pectore iuncta / indevitato traiecit pectora telo. / [606] Icta dedit gemitum, tractoque a corpore ferro / candida puniceo perfudit membra cruore, / et dixit: "Potui poenas tibi, Phoebe, dedisse, / sed peperisse prius: duo nunc moriemur in una." / [610] Hactenus, et pariter vitam cum sanguine fudit. / Corpus inane animae frigus letale secutum est. / Paenitet heu sero poenae crudelis amantem, / seque, quod audierit, quod sic exarserit, odit; / [614] odit avem, per quam crimen causamque dolendi / scire coactus erat, nec non arcumque manumque / odit, cumque manu temeraria tela sagittas / conlapsamque fovet seraque ope vincere fata / nititur et medicas exercet inaniter artes. / [619] Quae postquam frustra temptata, rogumque parari / vidit et arsuros supremis ignibus artus, / tum vero gemitus (neque enim caelestia tingi / ora licet lacrimis) alto de corde petitos / edidit, haud aliter quam cum spectante iuvenca / lactentis vituli, dextra libratus ab aure / tempora discussit claro cava malleus ictu. / [626] Ut tamen ingratos in pectora fudit odores / et dedit amplexus iniustaque iusta peregit, / non tulit in cineres labi sua Phoebus eosdem / [629] semina, sed natum flammis uteroque parentis / eripuit geminique tulit Chironis in antrum; / sperantemque sibi non falsae praemia linguae / inter aves albas vetuit consistere corvum. / [633] Semifer interea divinae stirpis alumno / laetus erat mixtoque oneri gaudebat honore. / [635] Ecce venit rutilis umeros protecta capillis / filia Centauri, quam quondam nympha Chariclo / fluminis in rapidi ripis enixa vocavit / Ocyroen. Non haec artes contenta paternas / edidicisse fuit: fatorum arcana canebat. / [640] Ergo ubi vaticinos concepit mente furores / incaluitque deo, quem clausum pectore habebat, / adspicit infantem "toto" que "salutifer orbi / cresce puer" dixit: "tibi se mortalia saepe / corpora debebunt; animas tibi reddere ademptas / [645] fas erit; idque semel dis indignantibus ausus / posse dare hoc iterum flamma prohibebere avita / eque deo corpus fies exsangue, deusque, / qui modo corpus eras, et bis tua fata novabis. / [649] Tu quoque, care pater, nunc inmortalis et aevis / omnibus ut maneas nascendi lege creatus, / posse mori cupies, tum cum cruciabere dirae / sanguine serpentis per saucia membra recepto; / [653] teque ex aeterno patientem numina mortis / efficient, triplicesque deae tua fila resolvent." / [655] Restabat fatis aliquid. Suspirat ab imis / pectoribus, lacrimaeque genis labuntur obortae, / atque ita "praevertunt" inquit "me fata, vetorque / plura loqui, vocisque meae praecluditur usus. / [659] Non fuerant artes tanti, quae numinis iram / contraxere mihi; mallem nescisse futura. / [661] Iam mihi subduci facies humana videtur, / iam cibus herba placet, iam latis currere campis / impetus est: in equam cognataque corpora vertor. / [664] Tota tamen quare? pater est mihi nempe biformis." / Talia dicenti pars est extrema querellae / intellecta parum, confusaque verba fuerunt. / [667] Mox nec verba quidem nec equae sonus ille videtur, / sed simulantis equam, parvoque in tempore certos / edidit hinnitus et bracchia movit in herbas. / [670] Tum digiti coeunt et quinos adligat ungues / perpetuo cornu levis ungula, crescit et oris / et colli spatium, longae pars maxima pallae / [673] cauda fit, utque vagi crines per colla iacebant, / in dextras abiere iubas: pariterque novata est / et vox et facies nomen quoque monstra dedere. / [676] Flebat opemque tuam frustra Philyreius heros, / Delphice, poscebat. Nam nec rescindere magni / iussa Iovis poteras, nec, si rescindere posses, / tunc aderas: Elin Messeniaque arva colebas. / [680] Illud erat tempus, quo te pastoria pellis / texit onusque fuit baculum silvestre sinistrae, / alterius dispar septenis fistula cannis. / [683] Dumque amor est curae, dum te tua fistula mulcet, / incustoditae Pylios memorantur in agros / [685] processisse boves. Videt has Atlantide Maia / natus et arte sua silvis occultat abactas. / [687] Senserat hoc furtum nemo nisi notus in illo / rure senex; Battum vicinia tota vocabant. / Divitis hic saltus herbosaque pascua Nelei / nobiliumque greges custos servabat equarum. / [691] Hunc timuit blandaque manu seduxit et illi / "quisquis es, hospes" ait, "si forte armenta requiret / haec aliquis, vidisse nega; neu gratia facto / nulla rependatur, nitidam cape praemia vaccam" - / [695] et dedit. Accepta voces has reddidit hospes: / "Tutus eas: lapis iste prius tua furta loquetur", / et lapidem ostendit. Simulat Iove natus abire, / mox redit, et versa pariter cum voce figura / [699] "rustice, vidisti siquas hoc limite" dixit / "ire boves, fer opem furtoque silentia deme: / iuncta suo pariter dabitur ubi femina tauro." / [702] At senior, postquam est merces geminata, "sub illis / montibus" inquit "erunt": et erant sub montibus illis. / [704] Risit Atlantiades et "me mihi, perfide, prodis? / me mihi prodis?" ait, periuraque pectora vertit / in durum silicem, qui nunc quoque dicitur index, / inque nihil merito vetus est infamia saxo. / [708] Hinc se sustulerat paribus caducifer alis, / Munychiosque volans agros gratamque Minervae / despectabat humum cultique arbusta Lycei. / [711] Illa forte die castae de more puellae / vertice supposito festas in Palladis arces / pura coronatis portabant sacra canistris. / [714] Inde revertentes deus adspicit ales iterque / non agit in rectum, sed in orbem curvat eundem. / [716] Ut volucris visis rapidissima miluus extis, / dum timet et densi circumstant sacra ministri, / flectitur in gyrum nec longius audet abire / spemque suam motis avidus circumvolat alis, / [720] sic super Actaeas agilis Cyllenius arces / inclinat cursus et easdem circinat auras. / [722] Quanto splendidior quam cetera sidera fulget / Lucifer, et quanto quam Lucifer aurea Phoebe, / tanto virginibus praestantior omnibus Herse / ibat, eratque decus pompae comitumque suarum. / [726] Obstipuit forma Iove natus, et aethere pendens / non secus exarsit, quam cum Balearica plumbum / funda iacit: volat illud et incandescit eundo / et quos non habuit, sub nubibus invenit ignes. / [730] Vertit iter caeloque petit terrena relicto / nec se dissimulat: tanta est fiducia formae. / [732] Quae quamquam iusta est, cura tamen adiuvat illam / permulcetque comas chlamydemque, ut pendeat apte, / collocat, ut limbus totumque appareat aurum, / ut teres in dextra, qua somnos ducit et arcet, / virga sit, ut tersis niteant talaria plantis. / [737] Pars secreta domus ebore et testudine cultos / tres habuit thalamos: quorum tu, Pandrose, dextrum, / Aglauros laevum, medium possederat Herse. / [740] Quae tenuit laevum, venientem prima notavit / Mercurium nomenque dei scitarier ausa est / [742] et causam adventus. Cui sic respondit Atlantis / Pleionesque nepos: "Ego sum, qui iussa per auras / verba patris porto: pater est mihi Iuppiter ipse. / [745] Nec fingam causas; tu tantum fida sorori / esse velis prolisque meae matertera dici. / Herse causa viae. Faveas oramus amanti." / [748] Adspicit hunc oculis isdem, quibus abdita nuper / viderat Aglauros flavae secreta Minervae, / proque ministerio magni sibi ponderis aurum / postulat: interea tectis excedere cogit. / [752] Vertit ad hanc torvi dea bellica luminis orbem / et tanto penitus traxit suspiria motu, / ut pariter pectus positamque in pectore forti / [755] aegida concuteret. Subit, hanc arcana profana / detexisse manu tum cum sine matre creatam / Lemnicolae stirpem contra data foedera vidit, / et gratamque deo fore iam gratamque sorori / et ditem sumpto, quod avara poposcerat, auro. / [760] Protinus Invidiae nigro squalentia tabo / tecta petit. Domus est imis in vallibus huius / abdita, sole carens, non ulli pervia vento, / tristis et ignavi plenissima frigoris, et quae / igne vacet semper, caligine semper abundet. / [765] Huc ubi pervenit belli metuenda virago, / constitit ante domum (neque enim succedere tectis / fas habet) et postes extrema cuspide pulsat. / [768] Concussae patuere fores. Videt intus edentem / vipereas carnes, vitiorum alimenta suorum, / [770] Invidiam, visaque oculos avertit. At illa / surgit humo pigre semesarumque relinquit / corpora serpentum passuque incedit inerti; / [773] utque deam vidit formaque armisque decoram, / ingemuit vultumque ima ad suspiria duxit. / [775] Pallor in ore sedet, macies in corpore toto, / nusquam recta acies, livent rubigine dentes, / [777] pectora felle virent, lingua est suffusa veneno. / Risus abest, nisi quem visi movere dolores. / [779] Nec fruitur somno, vigilacibus excita curis, / sed videt ingratos intabescitque videndo / successus hominum, carpitque et carpitur una, / [782] suppliciumque suum est. Quamvis tamen oderat illam, / talibus adfata est breviter Tritonia dictis: / "Infice tabe tua natarum Cecropis unam. / [785] Sic opus est. Aglauros ea est." Haud plura locuta / fugit et impressa tellurem reppulit hasta. / [787] Illa deam obliquo fugientem lumine cernens / murmura parva dedit, successurumque Minervae / indoluit, baculumque capit, quod spinea totum / [790] vincula cingebant, adopertaque nubibus atris, / quacumque ingreditur, florentia proterit arva / exuritque herbas et summa cacumina carpit, / adflatuque suo populos urbesque domosque / [794] polluit. Et tandem Tritonida conspicit arcem / ingeniis opibusque et festa pace virentem, / vixque tenet lacrimas, quia nil lacrimabile cernit. / [797] Sed postquam thalamos intravit Cecrope natae, / iussa facit pectusque manu ferrugine tincta / tangit et hamatis praecordia sentibus implet, / inspiratque nocens virus, piceumque per ossa / dissipat et medio spargit pulmone venenum. / [802] Neve mali causae spatium per latius errent, / germanam ante oculos fortunatumque sororis / coniugium pulchraque deum sub imagine ponit, / [805] cunctaque magna facit. Quibus inritata dolore / Cecropis occulto mordetur et anxia nocte, / anxia luce gemit, lentaque miserrima tabe / liquitur ut glacies incerto saucia sole. / [809] Felicisque bonis non lenius uritur Herses, / quam cum spinosis ignis supponitur herbis, / quae neque dant flammas lenique tepore cremantur. / [812] Saepe mori voluit, ne quicquam tale videret, / saepe velut crimen rigido narrare parenti; / [814] denique in adverso venientem limine sedit / exclusura deum. Cui blandimenta precesque / verbaque iactanti mitissima "desine" dixit: / "hinc ego me non sum nisi te motura repulso." / [818] "Stemus" ait "pacto" velox Cyllenius "isto": / caelestique fores virga patefecit. At illi / surgere conanti partes, quascumque sedendo / flectimus, ignava nequeunt gravitate moveri. / [822] Illa quidem pugnat recto se attollere trunco, / sed genuum iunctura riget, frigusque per inguen / labitur, et callent amisso sanguine venae. / [825] Utque malum late solet inmedicabile cancer / serpere et inlaesas vitiatis addere partes, / sic letalis hiems paulatim in pectora venit / vitalesque vias et respiramina clausit. / [829] Nec conata loqui est, nec, si conata fuisset, / vocis habebat iter: saxum iam colla tenebat, / oraque duruerant, signumque exsangue sedebat. / [832] Nec lapis albus erat: sua mens infecerat illam. / [833] Has ubi verborum poenas mentisque profanae / cepit Atlantiades, dictas a Pallade terras / linquit et ingreditur iactatis aethera pennis. / [836] Sevocat hunc genitor. Nec causam fassus amoris / "fide minister" ait "iussorum, nate, meorum, / pelle moram solitoque celer delabere cursu, / quaeque tuam matrem tellus a parte sinistra / suspicit (indigenae Sidonida nomine dicunt), / hanc pete, quodque procul montano gramine pasci / armentum regale vides, ad litora verte." / [843] Dixit, et expulsi iamdudum monte iuvenci / litora iussa petunt, ubi magni filia regis / ludere virginibus Tyriis comitata solebat. / [846] Non bene conveniunt nec in una sede morantur / maiestas et amor: sceptri gravitate relicta / [848] ille pater rectorque deum, cui dextra trisulcis / ignibus armata est, qui nutu concutit orbem, / induitur faciem tauri mixtusque iuvencis / mugit et in teneris formosus obambulat herbis. / [852] Quippe color nivis est, quam nec vestigia duri / calcavere pedis nec solvit aquaticus auster. / [854] Colla toris exstant, armis palearia pendent, / cornua parva quidem, sed quae contendere possis / facta manu, puraque magis perlucida gemma. / [857] Nullae in fronte minae, nec formidabile lumen; / pacem vultus habet. Miratur Agenore nata, / quod tam formosus, quod proelia nulla minetur. / [860] Sed quamvis mitem metuit contingere primo: / mox adit et flores ad candida porrigit ora. / [862] Gaudet amans et, dum veniat sperata voluptas, / oscula dat manibus; vix iam, vix cetera differt. / Et nunc adludit viridique exsultat in herba, / nunc latus in fulvis niveum deponit harenis; / [866] paulatimque metu dempto modo pectora praebet / virginea plaudenda manu, modo cornua sertis / [868] impedienda novis. Ausa est quoque regia virgo / nescia quem premeret, tergo considere tauri, / cum deus a terra siccoque a litore sensim / falsa pedum primis vestigia ponit in undis: / inde abit ulterius mediique per aequora ponti / [873] fert praedam. Pavet haec litusque ablata relictum / respicit, et dextra cornum tenet, altera dorso / imposita est; tremulae sinuantur flamine vestes. / [1] Iamque deus posita fallacis imagine tauri / se confessus erat Dictaeaque rura tenebat, / [3] cum pater ignarus Cadmo perquirere raptam / imperat et poenam, si non invenerit, addit / exilium, facto pius et sceleratus eodem. / [6] Orbe pererrato (quis enim deprendere possit / furta Iovis?) profugus patriamque iramque parentis / vitat Agenorides Phoebique oracula supplex / consulit et, quae sit tellus habitanda, requirit. / [10] "Bos tibi" Phoebus ait "solis occurret in arvis, / nullum passa iugum curvique inmunis aratri. / Hac duce carpe vias et qua requieverit herba / moenia fac condas, Boeotiaque ma vocato." / [14] Vix bene Castalio Cadmus descenderat antro, / incustoditam lente videt ire iuvencam / nullum servitii signum cervice gerentem. / [17] Subsequitur pressoque legit vestigia gressu, / auctoremque viae Phoebum taciturnus adorat. / [19] Iam vada Cephisi Panopesque evaserat arva: / bos stetit et tollens speciosam cornibus altis / ad caelum frontem mugitibus impulit auras, / [22] atque ita, respiciens comites sua terga sequentes, / procubuit teneraque latus submisit in herba. / Cadmus agit grates peregrinaeque oscula terrae / figit et ignotos montes agrosque salutat. / [26] Sacra Iovi facturus erat. Iubet ire ministros / et petere e vivis libandas fontibus undas. / [28] Silva vetus stabat, nulla violata securi, / et specus in medio, virgis ac vimine densus, / efficiens humilem lapidum compagibus arcum, / uberibus fecundus aquis, ubi conditus antro / Martius anguis erat, cristis praesignis et auro; / [33] igne micant oculi, corpus tumet omne venenis, / tres vibrant linguae, triplici stant ordine dentes. / [35] Quem postquam Tyria lucum de gente profecti / infausto tetigere gradu, demissaque in undas / urna dedit sonitum, longo caput extulit antro / caeruleus serpens horrendaque sibila misit. / [39] Effluxere urnae manibus sanguisque reliquit / corpus, et attonitos subitus tremor occupat artus. / [41] Ille volubilibus squamosos nexibus orbes / torquet et inmensos saltu sinuatur in arcus, / ac media plus parte leves erectus in auras / despicit omne nemus, tantoque est corpore, quanto / si totum spectes, geminas qui separat arctos. / [46] Nec mora, Phoenicas, sive illi tela parabant, / sive fugam, sive ipse timor prohibebat utrumque, / occupat: hos morsu, longis complexibus illos, / hos necat adfiatu funesti tabe veneni. / [50] Fecerat exiguas iam sol altissimus umbras: / quae mora sit sociis, miratur Agenore natus, / [52] vestigatque viros. Tegimen derepta leoni / pellis erat, telum splendenti lancea ferro / et iaculum, teloque animus praestantior omni. / [55] Ut nemus intravit letataque corpora vidit / victoremque supra spatiosi corporis hostem / tristia sanguinea lambentem vulnera lingua, / "aut ultor vestrae, fidissima corpora, mortis, / [59] aut comes" inquit "ero." Dixit, dextraque molarem / sustulit et magnum magno conamine misit. / [61] Illius impulsu cum turribus ardua celsis / moenia mota forent: serpens sine vulnere mansit / loricaeque modo squamis defensus et atrae / duritia pellis validos cute reppulit ictus. / [65] At non duritia iaculum quoque vicit eadem: / quod medio lentae spinae curvamine fixum / constitit et totum descendit in ilia ferrum. / [68] Ille dolore ferox caput in sua terga retorsit / vulneraque adspexit fixumque hastile momordit / idque, ubi vi multa partem labefecit in omnem, / vix tergo eripuit; ferrum tamen ossibus haesit. / [72] Tum vero, postquam solitas accessit ad iras / causa recens, plenis tumuerunt guttura venis, / spumaque pestiferos circumfluit albida rictus, / terraque rasa sonat squamis, quique halitus exit / ore niger Stygio, vitiatas inficit auras. / [77] Ipse modo inmensum spiris facientibus orbem / cingitur, interdum longa trabe rectior adstat / impete nunc vasto ceu concitus imbribus amnis / fertur et obstantes proturbat pectore silvas. / [81] Cedit Agenorides paulum spolioque leonis / sustinet incursus instantiaque ora retardat / [83] cuspide praetenta. Furit ille et inania duro / vulnera dat ferro figitque in acumine dentes. / Iamque venenifero sanguis manare palato / coeperat et virides adspergine tinxerat herbas: / [87] sed leve vulnus erat, quia se retrahebat ab ictu / laesaque colla dabat retro plagamque sedere / cedendo arcebat nec longius ire sinebat, / [90] donec Agenorides coniectum in guttura ferrum / usque sequens pressit, dum retro quercus eunti / obstitit, et fixa est pariter cum robore cervix. / [93] Pondere serpentis curvata est arbor et ima / parte flagellari gemuit sua robora caudae. / [95] Dum spatium victor victi considerat hostis, / vox subito audita est; neque erat cognoscere promptum / [97] unde, sed audita est: "Quid, Agenore nate, peremptum / serpentem spectas? et tu spectabere serpens." / Ille diu pavidus pariter cum mente colorem / perdiderat, gelidoque comae terrore rigebant. / [101] Ecce viri fautrix, superas delapsa per auras, / Pallas adest motaeque iubet supponere terrae / vipereos dentes, populi incrementa futuri. / [104] Paret et, ut presso sulcum patefecit aratro, / spargit humi iussos, mortalia semina, dentes. / [106] Inde (fide maius) glaebae coepere moveri, / primaque de sulcis acies apparuit hastae, / tegmina mox capitum picto nutantia cono, / mox umeri pectusque onerataque bracchia telis / exsistunt, crescitque seges clipeata virorum. / [111] Sic ubi tolluntur festis aulaea theatris, / surgere signa solent primumque ostendere vultus, / cetera paulatim, placidoque educta tenore / tota patent imoque pedes in margine ponunt. / [115] Territus hoste novo Cadmus capere arma parabat: / "ne cape", de populo, quem terra creaverat, unus / exclamat "nec te civilibus insere bellis." / [118] Atque ita terrigenis rigido de fratribus unum / comminus ense ferit; iaculo cadit eminus ipse. / Hunc quoque qui leto dederat, non longius illo / vivit et exspirat modo quas acceperat auras; / exemploque pari furit omnis turba, suoque / Marte cadunt subiti per mutua vulnera fratres. / [124] Iamque brevis vitae spatium sortita iuventus / sanguineam tepido plangebat pectore matrem, / quinque superstitibus, quorum fuit unus Echion. / [127] Is sua iecit humo monitu Tritonidis arma / fraternaeque fidem pacis petiitque deditque. / [129] Hos operis comites habuit Sidonius hospes, / cum posuit iussam Phoebeis sortibus urbem. / Iam stabant Thebae: poteras iam, Cadme, videri / [132] exsilio felix. Soceri tibi Marsque Venusque / contigerant: huc adde genus de coniuge tanta, / tot natos natasque et pignera cara nepotes, / [135] hos quoque iam iuvenes. Sed scilicet ultima semper / exspectanda dies homini est, dicique beatus / ante obitum nemo supremaque funera debet. / [138] Prima nepos inter tot res tibi, Cadme, secundas / causa fuit luctus, alienaque cornua fronti / addita, vosque canes satiatae sanguine erili. / [141] At bene si quaeras, fortunae crimen in illo, / non scelus invenies: quod enim scelus error habebat? / [143] Mons erat infectus variarum caede ferarum; / iamque dies medius rerum contraxerat umbras / et sol ex aequo meta distabat utraque, / cum iuvenis placido per devia lustra vagantes / participes operum compellat Hyantius ore: / [148] "Lina madent, comites, ferrumque cruore ferarum, / fortunamque dies habuit satis. Altera lucem / cum croceis invecta rotis Aurora reducet, / [151] propositum repetemus opus; nunc Phoebus utraque / distat idem terra finditque vaporibus arva. / Sistite opus praesens nodosaque tollite lina." / Iussa viri faciunt intermittuntque laborem. / [155] Vallis erat piceis et acuta densa cupressu, / nomine Gargaphie, succinctae sacra Dianae. / [157] Cuius in extremo est antrum nemorale recessu, / arte laboratum nulla: simulaverat artem / ingenio natura suo; nam pumice vivo / et levibus tofis nativum duxerat arcum. / [161] Fons sonat a dextra, tenui perlucidus unda, / margine gramineo patulos succinctus hiatus. / [163] Hic dea silvarum venatu fessa solebat / virgineos artus liquido perfundere rore. / [165] Quo postquam subiit, nympharum tradidit uni / armigerae iaculum pharetramque arcusque retentos; / altera depositae subiecit bracchia pallae, / [168] vincla duae pedibus demunt; nam doctior illis / Ismenis Crocale sparsos per colla capillos / conligit in nodum, quamvis erat ipsa solutis. / [171] Excipiunt laticem Nepheleque Hyaleque Rhanisque / et Psecas et Phiale funduntque capacibus urnis. / [173] Dumque ibi perluitur solita Titania lympha, / ecce nepos Cadmi dilata parte laborum / per nemus ignotum non certis passibus errans / pervenit in lucum: sic illum fata ferebant. / [177] Qui simul intravit rorantia fontibus antra, / sicut erant, viso nudae sua pectora nymphae / percussere viro, subitisque ululatibus omne / implevere nemus circumfusaeque Dianam / corporibus texere suis; tamen altior illis / ipsa dea est colloque tenus supereminet omnes. / [183] Qui color infectis adversi solis ab ictu / nubibus esse solet aut purpureae aurorae, / is fuit in vultu visae sine veste Dianae. / [186] Quae quamquam comitum turba est stipata suarum, / in latus obliquum tamen adstitit oraque retro / flexit, et ut vellet promptas habuisse sagittas, / quas habuit sic hausit aquas vultumque virilem / [190] perfudit, spargensque comas ultricibus undis / addidit haec cladis praenuntia verba futurae: / "Nunc tibi me posito visam velamine narres, / [193] si poteris narrare, licet." Nec plura minata / dat sparso capiti vivacis cornua cervi, / dat spatium collo summasque cacuminat aures, / cum pedibusque manus, cum longis bracchia mutat / cruribus et velat maculoso vellere corpus. / [198] Additus et pavor est. Fugit Autonoeius heros / et se tam celerem cursu miratur in ipso. / [200] Ut vero vultus et cornua vidit in unda, / "me miserum!" dicturus erat: vox nulla secuta est. / Ingemuit: vox illa fuit, lacrimaeque per ora / non sua fluxerunt; mens tantum pristina mansit. / [204] Quid faciat? repetatne domum et regalia tecta / an lateat silvis? pudor hoc, timor impedit illud. / [206] Dum dubitat, videre canes. Primumque Melampus / Ichnobatesque sagax latratu signa dedere, / Gnosius Ichnobates, Spartana gente Melampus. / [209] Inde ruunt alii rapida velocius aura, / Pamphagus et Dorceus et Oribasus, Arcades omnes, / Nebrophonusque valens et trux cum Laelape Theron / et pedibus Pterelas et naribus utilis Agre, / [213] Hylaeusque ferox, nuper percussus ab apro, / deque lupo concepta Nape, pecudesque secuta / Poemenis et natis comitata Harpyia duobus, / et substricta gerens Sicyonius ilia Ladon, / [217] et Dromas et Canache Sticteque et Tigris et Alce / et niveis Leucon et villis Asbolus atris / praevalidusque Lacon et cursu fortis Aello / et Thous et Cyprio velox cum fratre Lycisce, / et nigram medio frontem distinctus ab albo / [222] Harpalos, et Melaneus hirsutaque corpore Lachne, / et patre Dictaeo, sed matre Laconide nati / Labros et Argiodus, et acutae vocis Hylactor, / [225] quosque referre mora est. Ea turba cupidine praedae / per rupes scopulosque adituque carentia saxa, / quaque est difficilis quaque est via nulla, sequuntur. / [228] Ille fugit per quae fuerat loca saepe secutus, / heu famulos fugit ipse suos. Clamare libebat / "Actaeon ego sum, dominum cognoscite vestrum!" / Verba animo desunt: resonat latratibus aether. / [232] Prima Melanchaetes in tergo vulnera fecit, / proxima Therodamas, Oresitrophus haesit in armo: / tardius exierant, sed per compendia montis / [235] anticipata via est. Dominum retinentibus illis, / cetera turba coit confertque in corpore dentes. / Iam loca vulneribus desunt. Gemit ille sonumque, / etsi non hominis, quem non tamen edere possit / cervus habet, maestisque replet iuga nota querellis. / [240] Et genibus pronis supplex similisque roganti / circumfert tacitos tamquam sua bracchia vultus. / [242] At comites rapidum solitis hortatibus agmen / ignari instigant oculisque Actaeona quaerunt / et velut absentem certatim Actaeona clamant / (ad nomen caput ille refert), et abesse queruntur / nec capere oblatae segnem spectacula praedae. / [247] Vellet abesse quidem, sed adest; velletque videre, / non etiam sentire canum fera facta suorum. / [249] Undique circumstant mersisque in corpore rostris / dilacerant falsi dominum sub imagine cervi. / [251] Rumor in ambiguo est: aliis violentior aequo / visa dea est, alii laudant dignamque severa / virginitate vocant; pars invenit utraque causas. / [254] Sola Iovis coniunx non tam culpetne probetne / eloquitur, quam clade domus ab Agenore ductae / gaudet et a Tyria conlectum paelice transfert / [257] in generis socios odium. Subit ecce priori / causa recens, gravidamque dolet de semine magni / esse Iovis Semelen. Dum linguam ad iurgia solvit, / [260] "profeci quid enim totiens per iurgia?" dixit: / "ipsa petenda mihi est, ipsam, si maxima Iuno / rite vocor, perdam, si me gemmantia dextra / sceptra tenere decet, si sum regina Iovisque / et soror et coniunx, certe soror. At, puto, furto est / contenta, et thalami brevis est iniuria nostri: / [266] concipit, id deerat! manifestaque crimina pleno / fert utero, et mater, quod vix mihi contigit uno / de Iove vult fieri: tanta est fiducia formae. / Fallat eam faxo; nec sum Saturnia, si non / ab Iove mersa suo Stygias penetrabit in undas." / [271] Surgit ab his solio fulvaque recondita nube / limen adit Semeles. Nec nubes ante removit, / quam simulavit anum posuitque ad tempora canos / sulcavitque cutem rugis et curva trementi / membra tulit passu; vocem quoque fecit anilem, / ipsaque erat Beroe, Semeles Epidauria nutrix. / [277] Ergo ubi captato sermone diuque loquendo / ad nomen venere Iovis, suspirat et "opto, / Iuppiter ut sit" ait: "metuo tamen omnia: multi / nomine divorum thalamos iniere pudicos. / [281] Nec tamen esse Iovem satis est: det pignus amoris, / si modo verus is est, quantusque et qualis ab alta / Iunone excipitur, tantus talisque, rogato, / det tibi complexus suaque ante insignia sumat." / [285] Talibus ignaram Iuno Cadmeida dictis / formarat. Rogat illa Iovem sine nomine munus. / [287] Cui deus "elige" ait: "nullam patiere repulsam. / Quoque magis credas, Stygii quoque conscia sunto / numina torrentis: timor et deus ille deorum est". / [290] Laeta malo nimiumque potens perituraque amantis / obsequio Semele "qualem Saturnia" dixit / "te solet amplecti, Veneris cum foedus initis, / [293] da mihi te talem." Voluit deus ora loquentis / opprimere: exierat iam vox properata sub auras. / Ingemuit; neque enim non haec optasse, neque ille / [296] non iurasse potest. Ergo maestissimus altum / aethera conscendit vultuque sequentia traxit / nubila, quis nimbos inmixtaque fulgura ventis / addidit et tonitrus et inevitabile fulmen. / [300] Qua tamen usque potest, vires sibi demere temptat; / nec, quo centimanum deiecerat igne Typhoea, / nunc armatur eo: nimium feritatis in illo est. / [303] Est aliud levius fulmen, cui dextra Cyclopum / saevitiae flammaeque minus, minus addidit irae; / tela secunda vocant superi. Capit illa, domumque / [306] intrat Agenoream. Corpus mortale tumultus / non tulit aetherios donisque iugalibus arsit. / Imperfectus adhuc infans genetricis ab alvo / eripitur, patrioque tener (si credere dignum est) / insuitur femori maternaque tempora complet. / [311] Furtim illum primis Ino matertera cuuis / educat: inde datum nymphae Nyseides antris / occuluere suis lactisque alimenta dedere. / [314] Dumque ea per terras fatali lege geruntur / tutaque bis geniti sunt incunabula Bacchi, / forte Iovem memorant, diffusum nectare, curas / seposuisse graves vacuumque agitasse remissos / cum Iunone iocos et "maior vestra profecto est, / quam quae contingit maribus" dixisse "voluptas." / [320] Illa negat. Placuit quae sit sententia docti / quaerere Tiresiae: venus huic erat utraque nota. / Nam duo magnorum viridi coeuntia silva / corpora serpentum baculi violaverat ictu; / deque viro factus (mirabile) femina septem / [325] egerat autumnos. Octavo rursus eosdem / vidit, et "est vestrae si tanta potentia plagae" / dixit "ut auctoris sortem in contraria mutet, / [328] nunc quoque vos feriam." Percussis anguibus isdem / forma prior rediit genetivaque venit imago. / Arbiter hic igitur sumptus de lite iocosa / [331] dicta Iovis firmat. Gravius Saturnia iusto / nec pro materia fertur doluisse, suique / iudicis aeterna damnavit lumina nocte. / [334] At pater omnipotens (neque enim licet inrita cuiquam / facta dei fecisse deo) pro lumine adempto / scire futura dedit, poenamque levavit honore. / [337] Ille per Aonias fama celeberrimus urbes / inreprehensa dabat populo responsa petenti. / Prima fide vocisque ratae temptamina sumpsit / caerula Liriope. Quam quondam flumine curvo / implicuit clausaeque suis Cephisus in undis / [342] vim tulit. Enixa est utero pulcherrima pleno / infantem, nymphis iam tunc qui posset amari, / [344] Narcissumque vocat. De quo consultus, an esset / tempora maturae visurus longa senectae, / fatidicus vates "si se non noverit" inquit. / [347] Vana diu visa est vox auguris: exitus illam / resque probat letique genus novitasque furoris. / [349] Namque ter ad quinos unum Cephisius annum / addiderat poteratque puer iuvenisque videri: / multi illum iuvenes, multae cupiere puellae. / Sed fuit in tenera tam dura superbia forma: / nulli illum iuvenes, nullae tetigere puellae. / [354] Adspicit hunc trepidos agitantem in retia cervos / vocalis nymphe, quae nec reticere loquenti, / nec prior ipsa loqui didicit, resonabilis Echo. / [357] Corpus adhuc Echo, non vox erat; et tamen usum / garrula non alium, quam nunc habet, oris habebat, / reddere de multis ut verba novissima posset. / Fecerat hoc Iuno, quia, cum deprendere posset / cum Iove saepe suo nymphas in monte iacentes, / illa deam longo prudens sermone tenebat, / [363] dum fugerent nymphae. Postquam Saturnia sensit / "huius" ait "linguae, qua sum delusa, potestas / parva tibi dabitur vocisque brevissimus usus": / [366] reque minas firmat. Tamen haec in fine loquendi / ingeminat voces auditaque verba reportat. / [368] Ergo ubi Narcissum per devia rura vagantem / vidit et incaluit, sequitur vestigia furtim, / [370] quoque magis sequitur, flamma propiore calescit, / non aliter, quam cum summis circumlita taedis / admotas rapiunt vivacia sulphura flammas. / [373] O quotiens voluit blandis accedere dictis / et molles adhibere preces: natura repugnat / nec sinit incipiat. Sed, quod sinit, illa parata est / exspectare sonos, ad quos sua verba remittat. / [377] Forte puer comitum seductus ab agmine fido, / dixerat "ecquis adest?" et "adest!" responderat Echo. / [379] Hic stupet, utque aciem partes dimittit in omnes, / voce "veni!" magna clamat: vocat illa vocantem. / Respicit et rursus nullo veniente "quid" inquit / "me fugis?" et totidem, quot dixit, verba recepit. / [383] Perstat et, alternae deceptus imagine vocis, / "huc coeamus!" ait: nullique libentius umquam / responsura sono "coeamus" rettulit Echo, / et verbis favet ipsa suis egressaque silva / ibat, ut iniceret sperato bracchia collo. / [388] Ille fugit fugiensque "manus complexibus aufer: / ante" ait "emoriar, quam sit tibi copia nostri." / [390] Rettulit illa nihil nisi "sit tibi copia nostri." / Spreta latet silvis pudibundaque frondibus ora / protegit et solis ex illo vivit in antris. / [393] Sed tamen haeret amor crescitque dolore repulsae. / Extenuant vigiles corpus miserabile curae, / adducitque cutem macies et in aera sucus / corporis omnis abit. Vox tantum atque ossa supersunt: / [397] vox manet; ossa ferunt lapidis traxisse figuram. / inde latet silvis nulloque in monte videtur; / omnibus auditur: sonus est, qui vivit in illa. / [400] Sic hanc, sic alias undis aut montibus ortas / luserat hic nymphas, sic coetus ante viriles. / [402] Inde manus aliquis despectus ad aethera tollens / "sic amet ipse licet sic non potiatur amato!" / dixerat. Adsensit precibus Rhamnusia iustis. / [405] Fons erat inlimis, nitidis argenteus undis, / quem neque pastores neque pastae monte capellae / contigerant aliudve pecus, quem nulla volucris / nec fera turbarat nec lapsus ab arbore ramus. / [409] Gramen erat circa, quod proximus umor alebat, / silvaque sole locum passura tepescere nullo. / [411] Hic puer, et studio venandi lassus et aestu, / procubuit faciemque loci fontemque secutus. / dumque sitim sedare cupit, sitis altera crevit. / [414] Dumque bibit, visae correptus imagine formae / spem sine corpore amat: corpus putat esse, quod unda est / adstupet ipse sibi, vultuque inmotus eodem / haeret, ut e Pario formatum marmore signum. / [418] Spectat humi positus geminum, sua lumina, sidus / et dignos Baccho, dignos et Apolline crines / impubesque genas et eburnea colla decusque / oris et in niveo mixtum candore ruborem, / cunctaque miratur, quibus est mirabilis ipse. / [423] Se cupit imprudens et qui probat, ipse probatur, / dumque petit, petitur, pariterque accendit et ardet. / [425] Inrita fallaci quotiens dedit oscula fonti! / In mediis quotiens visum captantia collum / bracchia mersit aquis, nec se deprendit in illis! / [428] Quid videat, nescit: sed quod videt, uritur illo, / atque oculos idem, qui decipit, incitat error. / [430] Credule, quid frusta simulacra fugacia captas? / quod petis, est nusquam; quod amas, avertere, perdes. / Ista repercussae, quam cernis, imaginis umbra est: / nil habet ista sui; tecum venitque manetque, / tecum discedet, si tu discedere possis. / [435] Non illum Cereris, non illum cura quietis / abstrahere inde potest, sed opaca fusus in herba / spectat inexpleto mendacem lumine formam, / [438] perque oculos perit ipse suos; paulumque levatus / ad circumstantes tendens sua bracchia silvas / "ecquis, io silvae, crudelius" inquit "amavit? / Scitis enim, et multis latebra opportuna fuistis. / [442] Ecquem, cum vestrae tot agantur saecula vitae, / qui sic tabuerit, longo meministis in aevo? / Et placet et video; sed quod videoque placetque, / non tamen invenio: tantus tenet error amantem. / [446] Quoque magis doleam, nec nos mare separat ingens, / nec via nec montes nec clausis moenia portis: / [448] exigua prohibemur aqua. Cupit ipse teneri: / nam quotiens liquidis porreximus oscula lymphis, / hic totiens ad me resupino nititur ore. / [451] Posse putes tangi: minimum est, quod amantibus obstat. / Quisquis es, huc exi! quid me, puer unice, fallis, / [453] quove petitus abis? certe nec forma nec aetas / est mea quam fugias, et amarunt me quoque nymphae. / [455] Spem mihi nescio quam vultu promittis amico, / cumque ego porrexi tibi bracchia, porrigis ultro: / cum risi, adrides; lacrimas quoque saepe notavi / me lacrimante tuas, nutu quoque signa remittis, / et quantum motu formosi suspicor oris, / verba refers aures non pervenientia nostras. / [461] Iste ego sum: sensi, nec me mea fallit imago. / Uror amore mei, flammas moveoque feroque. / [463] Quid faciam? roger, anne rogem? quid deinde rogabo? / quod cupio mecum est: inopem me copia fecit. / O utinam a nostro secedere corpore possem! / Votum in amante novum: vellem quod amamus abesset! - / [467] Iamque dolor vires adimit, nec tempora vitae / longa meae superant, primoque exstinguor in aevo. / Nec mihi mors gravis est posituro morte dolores: / hic, qui diligitur, vellem diuturnior esset. / Nunc duo concordes anima moriemur in una." / [472] Dixit et ad faciem rediit male sanus eandem / et lacrimis turbavit aquas, obscuraque moto / reddita forma lacu est. Quam cum vidisset abire, / [475] "quo refugis? remane, nec me, crudelis, amantem / desere!" clamavit: "liceat, quod tangere non est, / adspicere et misero praebere alimenta furori." / [478] Dumque dolet, summa vestem deduxit ab ora / nudaque marmoreis percussit pectora palmis. / [480] Pectora traxerunt tenuem percussa ruborem, / non aliter quam poma solent, quae candida parte, / parte rubent, aut ut variis solet uva racemis / ducere purpureum nondum matura colorem. / [484] Quae simul adspexit liquefacta rursus in unda, / non tulit ulterius, sed ut intabescere flavae / igne levi cerae matutinaeque pruinae / sole tepente solent, sic attenuatus amore / liquitur et tecto paulatim carpitur igni. / [489] Et neque iam color est mixto candore rubori, / nec vigor et vires et quae modo visa placebant, / nec corpus remanet, quondam quod amaverat Echo. / [492] Quae tamen ut vidit, quamvis irata memorque, / indoluit, quotiensque puer miserabilis "eheu" / dixerat, haec resonis iterabat vocibus "eheu"; / [495] cumque suos manibus percusserat ille lacertos, / haec quoque reddebat sonitum plangoris eundem. / [497] Ultima vox solitam fuit haec spectantis in undam, / "heu frustra dilecte puer!" totidemque remisit / verba locus, dictoque vale "vale!" inquit et Echo. / [500] Ille caput viridi fessum submisit in herba; / lumina mors clausit domini mirantia formam. / [502] Tunc quoque se, postquam est inferna sede receptus, / in Stygia spectabat aqua. Planxere sorores / naides et sectos fratri posuere capillos, / planxerunt dryades: plangentibus adsonat Echo. / [506] Iamque rogum quassasque faces feretrumque parabant: / nusquam corpus erat; croceum pro corpore florem / inveniunt, foliis medium cingentibus albis. / [509] Cognita res meritam vati per Achaidas urbes / attulerat famam, nomenque erat auguris ingens. / [511] Spernit Echionides tamen hunc ex omnibus unus, / contemptor superum, Pentheus, praesagaque ridet / verba senis tenebrasque et cladem lucis ademptae / [514] obicit. Ille movens albentia tempora canis / "quam felix esses, si tu quoque luminis huius / orbus" ait "fieres, ne Bacchica sacra videres! / [517] Namque dies aderit, quam non procul auguror esse, / qua novus huc veniat, proles Semeleia, Liber; / quem nisi templorum fueris dignatus honore, / mille lacer spargere locis et sanguine silvas / foedabis matremque tuam matrisque sorores. / [522] Evenient; neque enim dignabere numen honore, / meque sub his tenebris nimium vidisse quereris." / [524] Talia dicentem proturbat Echione natus. / Dicta fides sequitur, responsaque vatis aguntur: / [526] Liber adest, festisque fremunt ululatibus agri; / turba ruit, mixtaeque viris matresque nurusque / vulgusque proceresque ignota ad sacra feruntur. / [529] "Quis furor, anguigenae, proles Mavortia, vestras / attonuit mentes?" Pentheus ait: "aerane tantum / aere repulsa valent et adunco tibia cornu / et magicae fraudes, ut, quos non bellicus ensis, / non tuba terruerit, non strictis agmina telis, / femineae voces et mota insania vino / obscenique greges et inania tympana vincant? / [536] Vosne, senes, mirer, qui longa per aequora vecti / hac Tyron, hac profugos posuistis sede penates, / [538] nunc sinitis sine Marte capi? vosne, acrior aetas, / o iuvenes, propiorque meae, quos arma tenere, / non thyrsos, galeaque tegi, non fronde, decebat? / Este, precor, memores, qua sitis stirpe creati, / illiusque animos, qui multos perdidit unus, / [543] sumite serpentis! Pro fontibus ille lacuque / interiit: at vos pro fama vincite vestra! / Ille dedit leto fortes, vos pellite molles / [546] et patrium retinete decus. Si fata vetabant / stare diu Thebas, utinam tormenta virique / moenia diruerent, ferrumque ignisque sonarent! / [549] Essemus miseri sine crimine, sorsque querenda, / non celanda foret, lacrimaeque pudore carerent. / [551] At nunc a puero Thebae capientur inermi, / quem neque bella iuvant nec tela nec usus equorum, / sed madidi murra crines mollesque coronae / purpuraque et pictis intextum vestibus aurum. / [555] Quem quidem ego actutum (modo vos absistite) cogam / adsumptumque patrem commentaque sacra fateri. / [557] An satis Acrisio est animi contemnere vanum / numen et Argolicas venienti claudere portas, / Penthea terrebit cum totis advena Thebis? / [560] Ite citi" (famulis hoc imperat), "ite ducemque / attrahite huc vinctum! iussis mora segnis abesto." / [562] Hunc avus, hunc Athamas, hunc cetera turba suorum / corripiunt dictis frustraque inhibere laborant. / [564] Acrior admonitu est, inritaturque retenta / et crescit rabies, remoraminaque ipsa nocebant. / [566] Sic ego torrentem, qua nil obstabat eunti, / lenius et modico strepitu decurrere vidi: / at quacumque trabes obstructaque saxa tenebant, / spumeus et fervens et ab obice saevior ibat. / [570] Ecce cruentati redeunt et, Bacchus ubi esset, / quaerenti domino Bacchum vidisse negarunt; / "hunc" dixere "tamen comitem famulumque sacrorum / cepimus"; et tradunt manibus post terga ligatis / sacra dei quondam Tyrrhena gente secutum. / [575] Adspicit hunc Pentheus oculis, quos ira tremendos / fecerat, et quamquam poenae vix tempora differt, / [577] "o periture tuaque aliis documenta dature / morte" ait, "ede tuum nomen nomenque parentum / et patriam, morisque novi cur sacra frequentes." / [580] Ille metu vacuus "nomen mihi" dixit "Acoetes, / patria Maeonia est, humili de plebe parentes. / Non mihi quae duri colerent pater arva iuvenci, / lanigerosve greges, non ulla armenta reliquit; / pauper et ipse fuit, linoque solebat et hamis / decipere et calamo salientes ducere pisces. / [586] Ars illi sua census erat. Cum traderet artem, / "accipe quas habeo, studii successor et heres," / dixit "opes." Moriensque mihi nil ille reliquit / praeter aquas: unum hoc possum appellare paternum. / [590] Mox ego, ne scopulis haererem semper in isdem, / addidici regimen dextra moderante carinae / flectere et Oleniae sidus pluviale capellae / Taygetenque hyadasque oculis arctonque notavi / ventorumque domos et portus puppibus aptos. / [595] Forte petens Delum Chiae telluris ad oras / applicor et dextris adducor litora remis, / doque leves saltus udaeque inmittor harenae. / [598] Nox ubi consumpta est (aurora rubescere prima / coeperat), exsurgo, laticesque inferre recentes / admoneo monstroque viam, quae ducat ad undas. / [601] Ipse, quid aura mihi tumulo promittat ab alto / prospicio comitesque voco repetoque carinam. / [603] "Adsumus en!" inquit sociorum primus Opheltes, / utque putat, praedam deserto nactus in agro, / virginea puerum ducit per litora forma. / [606] Ille mero somnoque gravis titubare videtur / vixque sequi. Specto cultum faciemque gradumque: / nil ibi quod credi posset mortale videbam. / [609] Et sensi et dixi sociis: "Quod numen in isto / corpore sit, dubito; sed corpore numen in isto est. / Quisquis es, o faveas nostrisque laboribus adsis. / [612] His quoque des veniam." - "Pro nobis mitte precari" / Dictys ait, quo non alius conscendere summas / ocior antemnas prensoque rudente relabi. / [615] Hoc Libys, hoc flavus, prorae tutela, Melanthus, / hoc probat Alcimedon, et qui requiemque modumque / voce dabat remis, animorum hortator Epopeus, / hoc omnes alii: praedae tam caeca cupido est. / [619] "Non tamen hanc sacro violari pondere pinum / perpetiar" dixi: "pars hic mihi maxima iuris"; / [621] inque aditu obsisto. Furit audacissimus omni / de numero Lycabas, qui Tusca pulsus ab urbe / exsilium dira poenam pro caede luebat. / [624] Is mihi, dum resto, iuvenali guttura pugno / rupit et excussum misisset in aequora, si non / haesissem, quamvis amens, in fune retentus. / [627] Impia turba probat factum. Tum denique Bacchus / (Bacchus enim fuerat), veluti clamore solutus / sit sopor aque mero redeant in pectora sensus, / "quid facitis? quis clamor?" ait "qua, dicite, nautae, / huc ope perveni? quo me deferre paratis?" / [632] "Pone metum", Proreus "et quos contingere portus / ede velis" dixit: "terra sistere petita." - / [634] "Naxon" ait Liber "cursus advertite vestros. / Illa mihi domus est, vobis erit hospita tellus." / [636] Per mare fallaces perque omnia numina iurant / sic fore, meque iubent pictae dare vela carinae. / [638] Dextera Naxos erat. Dextra mihi lintea danti / "quid facis, o demens? quis te furor - ?" inquit Opheltes. / Pro se quisque timet: "laevam pete" maxima nutu / pars mihi significat, pars quid velit aure susurrat. / [642] Obstipui "capiat" que "aliquis moderamina" dixi / meque ministerio scelerisque artisque removi. / Increpor a cunctis, totumque inmurmurat agmen. / [645] E quibus Aethalion "te scilicet omnis in uno / nostra salus posita est" ait, et subit ipse meumque / explet opus, Naxoque petit diversa relicta. / [648] Tum deus inludens, tamquam modo denique fraudem / senserit, e puppi pontum prospectat adunca / et flenti similis "non haec mihi litora, nautae, / promisistis" ait, "non haec mihi terra rogata est. / Quo merui poenam facto? quae gloria vestra est, / si puerum iuvenes, si multi fallitis unum?" / [654] Iamdudum flebam: lacrimas manus impia nostras / ridet et impellit properantibus aequora remis. / [656] Per tibi nunc ipsum (nec enim praesentior illo / est deus) adiuro, tam me tibi vera referre, / quam veri maiora fide: stetit aequore puppis / haud aliter quam si siccum navale teneret. / [660] Illi admirantes remorum in verbere perstant / velaque deducunt geminaque ope currere temptant. / [662] Impediunt hederae remos nexuque recurvo / serpunt et gravidis distinguunt vela corymbis. / [664] Ipse racemiferis frontem circumdatus uvis / pampineis agitat velatam frondibus hastam. / [666] Quem circa tigres simulacraque inania lyncum / pictarumque iacent fera corpora pantherarum. / [668] Exsiluere viri, sive hoc insania fecit, / sive timor, primusque Medon nigrescere coepit / corpore et expresso spinae curvamine flecti. / [671] Incipit huic Lycabas: "In quae miracula" dixit / "verteris?" et lati rictus et panda loquenti / naris erat, squamamque cutis durata trahebat. / [674] At Libys obstantes dum vult obvertere remos, / in spatium resilire manus breve vidit et illas / iam non esse manus, iam pinnas posse vocari. / [677] Alter, ad intortos cupiens dare bracchia funes, / bracchia non habuit, truncoque repandus in undas / corpore desiluit: falcata novissima cauda est, / qualia dimidiae sinuantur cornua lunae. / [681] Undique dant saltus multaque adspergine rorant / emerguntque iterum redeuntque sub aequora rursus / inque chori ludunt speciem lascivaque iactant / corpora et acceptum patulis mare naribus efflant. / [685] De modo viginti (tot enim ratis illa ferebat) / restabam solus. Pavidum gelidumque trementi / corpore vixque meum firmat deus "excute" dicens / "corde metum Diamque tene." Delatus in illam / accessi sacris Baccheaque sacra frequento." / [690] "Praebuimus longis" Pentheus "ambagibus aures" / inquit "ut ira mora vires absumere posset. / [692] Praecipitem famuli rapite hunc cruciataque diris / corpora tormentis Stygiae demittite nocti." / [694] Protinus abstractus solidis Tyrrhenus Acoetes / clauditur in tectis; et dum crudelia iussae / instrumenta necis ferrumque ignesque parantur, / sponte sua patuisse fores lapsasque lacertis / sponte sua fama est nullo solvente catenas. / [699] Perstat Echionides. Nec iam iubet ire, sed ipse / vadit, ubi electus facienda ad sacra Cithaeron / cantibus et clara bacchantum voce sonabat. / [702] Ut fremit acer equus, cum bellicus aere canoro / signa dedit tubicen, pugnaeque adsumit amorem, / Penthea sic ictus longis ululatibus aether / movit, et audito clamore recanduit ira. / [706] Monte fere medio est, cingentibus ultima silvis, / purus ab arboribus, spectabilis undique campus. / [708] Hic oculis illum cernentem sacra profanis / prima videt, prima est insano concita cursu, / prima suum misso violavit Penthea thyrso / [711] mater. "Io, geminae" clamavit "adeste sorores! / ille aper, in nostris errat qui maximus agris, / [713] ille mihi feriendus aper." Ruit omnis in unum / turba furens; cunctae coeunt trepidumque sequuntur, / iam trepidum, iam verba minus violenta loquentem, / iam se damnantem, iam se peccasse fatentem. / [717] Saucius ille tamen "fer opem, matertera" dixit / "Autonoe! moveant animos Actaeonis umbrae." / Illa, quis Actaeon, nescit dextramque precantis / abstulit: Inoo lacerata est altera raptu. / [721] Non habet infelix quae matri bracchia tendat, / trunca sed ostendens deiectis vulnera membris / [723] "adspice, mater!" ait. Visis ululavit Agaue / collaque iactavit movitque per aera crinem / avulsumque caput digitis complexa cruentis / clamat "io comites, opus haec victoria nostrum est!" / --- crinem] =crimen= (ip. Basi e Guasti). --- [727] Non citius frondes autumni frigore tactas / iamque male haerentes alta rapit arbore ventus, / quam sunt membra viri manibus direpta nefandis. / [730] Talibus exemplis monitae nova sacra frequentant / turaque dant sanctasque colunt Ismenides aras. / [1] At non Alcithoe Minyeias orgia censet / accipienda dei, sed adhuc temeraria Bacchum / progeniem negat esse Iovis, sociasque sorores / [4] inpietatis habet. Festum celebrare sacerdos / inmunesque operum famulas dominasque suorum / pectora pelle tegi, crinales solvere vittas, / serta coma, manibus frondentes sumere thyrsos / iusserat, et saevam laesi fore numinis iram / [4] vaticinatus erat. Parent matresque nurusque / telasque calathosque infectaque pensa reponunt, / turaque dant Bacchumque vocant Bromiumque Lyaeumque / ignigenamque satumque iterum solumque bimatrem: / [13] additur his Nyseus indetonsusque Thyoneus, / et cum Lenaeo genialis consitor uvae, / Nycteliusque Eleleusque parens et Iacchus et Euhan, / et quae praeterea per Graias plurima gentes / [17] nomina, Liber, habes. Tibi enim inconsumpta iuventa est, / tu puer aeternus, tu formosissimus alto / conspiceris caelo, tibi, cum sine cornibus adstas, / [20] virgineum caput est. Oriens tibi victus, adusque / decolor extremo qua tingitur India Gange: / [22] Penthea tu, venerande, bipenniferumque Lycurgum / sacrilegos mactas, Tyrrhenaque mittis in aequor / corpora, tu biiugum pictis insignia frenis / [25] colla premis lyncum; bacchae satyrique sequuntur, / quique senex ferula titubantes ebrius artus / sustinet et pando non fortiter haeret asello. / [28] Quacumque ingrederis, clamor iuvenalis et una / femineae voces inpulsaque tympana palmis / concavaque aera sonant longoque foramine buxus. / [31] "Placatus mitisque" rogant Ismenides "adsis," / [32] iussaque sacra colunt. Solae Minyeides intus / intempestiva turbantes festa Minerva / aut ducunt lanas, aut stamina pollice versant, / aut haerent telae famulasque laboribus urgent. / [36] E quibus una levi deducens pollice filum / "dum cessant aliae commentaque sacra frequentant, / nos quoque, quas Pallas, melior dea, detinet" inquit, / "utile opus manuum vario sermone levemus: / perque vices aliquid, quod tempora longa videri / non sinat, in medium vacuas referamus ad aures." / [42] Dicta probant primamque iubent narrare sorores. / Illa, quid e multis referat (nam plurima norat), / [44] cogitat et dubia est, de te, Babylonia, narret, / Derceti, quam versa squamis velantibus artus / stagna Palaestini credunt motasse figura; / an magis, ut sumptis illius filia pennis / extremos albis in turribus egerit annos; / [49] nais an ut cantu nimiumque potentibus herbis / verterit in tacitos iuvenalia corpora pisces, / donec idem passa est; an, quae poma alba ferebat, / ut nunc nigra ferat contactu sanguinis arbor. / [53] Hoc placet, hanc, quoniam vulgaris fabula non est, / talibus orsa modis, lana sua fila sequente: / [55] "Pyramus et Thisbe, iuvenum pulcherrimus alter, / altera, quas oriens habuit, praelata puellis, / contiguas tenuere domos, ubi dicitur altam / coctilibus muris cinxisse Semiramis urbem. / [59] Notitiam primosque gradus vicinia fecit: / tempore crevit amor. Taedae quoque iure coissent: / sed vetuere patres. Quod non potuere vetare, / ex aequo captis ardebant mentibus ambo. / [63] Conscius omnis abest: nutu signisque loquuntur, / quoque magis tegitur, tectus magis aestuat ignis. / [65] Fissus erat tenui rima, quam duxerat olim, / cum fieret paries domui communis utrique. / [67] Id vitium nulli per saecula longa notatum / (quid non sentit amor?) primi vidistis amantes, / et vocis fecistis iter; tutaeque per illud / murmure blanditiae minimo transire solebant. / [71] Saepe, ubi constiterant hinc Thisbe, Pyramus illinc, / inque vices fuerat captatus anhelitus oris, / "invide" dicebant "paries, quid amantibus obstas? / quantum erat, ut sineres toto nos corpore iungi, / aut hoc si nimium est, vel ad oscula danda pateres? / [76] Nec sumus ingrati: tibi nos debere fatemur, / quod datus est verbis ad amicas transitus aures." / [78] Talia diversa nequiquam sede locuti / sub noctem dixere "vale" partique dedere / oscula quisque suae non pervenientia contra. / [81] Postera nocturnos aurora removerat ignes, / solque pruinosas radiis siccaverat herbas: / ad solitum coiere locum. Tum murmure parvo / multa prius questi, statuunt, ut nocte silenti / fallere custodes foribusque excedere temptent, / cumque domo exierint, urbis quoque tecta relinquant; / [87] neve sit errandum lato spatiantibus arvo, / conveniant ad busta Nini lateantque sub umbra / arboris. Arbor ibi, niveis uberrima pomis / ardua morus, erat, gelido contermina fonti. / [91] Pacta placent. Et lux, tarde discedere visa, / praecipitatur aquis, et aquis nox exit ab isdem. / [93] Callida per tenebras versato cardine Thisbe / egreditur fallitque suos, adopertaque vultum / pervenit ad tumulum, dictaque sub arbore sedit. / [96] Audacem faciebat amor. Venit ecce recenti / caede leaena boum spumantes oblita rictus, / depositura sitim vicini fontis in unda. / [99] Quam procul ad lunae radios Babylonia Thisbe / vidit et obscurum timido pede fugit in antrum, / dumque fugit, tergo velamina lapsa reliquit. / [102] Ut lea saeva sitim multa conpescuit unda, / dum redit in silvas, inventos forte sine ipsa / ore cruentato tenues laniavit amictus. / [105] Serius egressus vestigia vidit in alto / pulvere certa ferae totoque expalluit ore / [107] Pyramus: ut vero vestem quoque sanguine tinctam / repperit, "una duos" inquit "nox perdet amantes. / E quibus illa fuit longa dignissima vita, / nostra nocens anima est: ego te, miseranda, peremi, / in loca plena metus qui iussi nocte venires, / [112] nec prior huc veni. Nostrum divellite corpus, / et scelerata fero consumite viscera morsu, / o quicumque sub hac habitatis rupe, leones. / [115] Sed timidi est optare necem." Velamina Thisbes / tollit et ad pactae secum fert arboris umbram; / utque dedit notae lacrimas, dedit oscula vesti, / "accipe nunc" inquit "nostri quoque sanguinis haustus!" / [119] quoque erat accinctus, demisit in ilia ferrum, / nec mora, ferventi moriens e vulnere traxit. / --- Ut] et MN. --- [121] Ut iacuit resupinus humo: cruor emicat alte, / non aliter quam cum vitiato fistula plumbo / scinditur et tenui stridente foramine longas / eiaculatur aquas atque ictibus aera rumpit. / [125] Arborei fetus adspergine caedis in atram / vertuntur faciem, madefactaque sanguine radix / purpureo tingit pendentia mora colore. / [128] Ecce metu nondum posito, ne fallat amantem, / illa redit iuvenemque oculis animoque requirit, / quantaque vitarit narrare pericula gestit. / [131] Utque locum et visa cognoscit in arbore formam, / sic facit incertam pomi color: haeret, an haec sit. / [133] Dum dubitat, tremebunda videt pulsare cruentum / membra solum, retroque pedem tulit, oraque buxo / pallidiora gerens exhorruit aequoris instar, / quod tremit, exigua cum summum stringitur aura. / [137] Sed postquam remorata suos cognovit amores, / percutit indignos claro plangore lacertos, / et laniata comas amplexaque corpus amatum / vulnera supplevit lacrimis fletumque cruori / miscuit et gelidis in vultibus oscula figens / [142] "Pyrame" clamavit "quis te mihi casus ademit? / Pyrame, responde: tua te carissima Thisbe / nominat: exaudi vultusque attolle iacentes!" / [145] Ad nomen Thisbes oculos iam morte gravatos / Pyramus erexit, visaque recondidit illa. / [147] Quae postquam vestemque suam cognovit et ense / vidit ebur vacuum, "tua te manus" inquit "amorque / perdidit, infelix. Est et mihi fortis in unum / hoc manus, est et amor: dabit hic in vulnera vires. / [151] Persequar exstinctum letique miserrima dicar / causa comesque tui; quique a me morte revelli / heu sola poteras, poteris nec morte revelli. / [154] Hoc tamen amborum verbis estote rogati, / o multum miseri meus illiusque parentes, / ut quos certus amor, quos hora novissima iunxit, / conponi tumulo non invideatis eodem. / [158] At tu quae ramis arbor miserabile corpus / nunc tegis unius, mox es tectura duorum, / signa tene caedis pullosque et luctibus aptos / semper habe fetus, gemini monimenta cruoris." / [162] Dixit, et aptato pectus mucrone sub imum / incubuit ferro, quod adhuc a caede tepebat. / Vota tamen tetigere deos, tetigere parentes: / [165] nam color in pomo est, ubi permaturuit, ater, / quodque rogis superest, una requiescit in urna." / [167] Desierat, mediumque fuit breve tempus, et orsa est / dicere Leuconoe: vocem tenuere sorores. / [169] "Hunc quoque, siderea qui temperat omnia luce, / cepit amor Solem: Solis referemus amores. / [171] Primus adulterium Veneris cum Marte putatur / hic vidisse deus: videt hic deus omnia primus. / Indoluit facto, Iunonigenaeque marito / [174] furta tori furtique locum monstravit. At illi / et mens et quod opus fabrilis dextra tenebat / excidit. Extemplo graciles ex aere catenas / retiaque et laqueos, quae lumina fallere possent, / elimat (non illud opus tenuissima vincant / stamina, non summo quae pendet aranea tigno), / utque leves tactus momentaque parva sequantur / efficit et lecto circumdata collocat arte. / [182] Ut venere torum coniunx et adulter in unum, / arte viri vinclisque nova ratione paratis / in mediis ambo deprensi amplexibus haerent. / [185] Lemnius extemplo valvas patefecit eburnas / admisitque deos: illi iacuere ligati / turpiter; atque aliquis de dis non tristibus optat / sic fieri turpis: superi risere, diuque / haec fuit in toto notissima fabula caelo. / [190] Exigit indicii memorem Cythereia poenam, / inque vices illum, tectos qui laesit amores, / [192] laedit amore pari. Quid nunc, Hyperione nate, / forma colorque tibi radiataque lumina prosunt? / Nempe tuis omnes qui terras ignibus uris, / ureris igne novo; quique omnia cernere debes, / Leucothoen spectas, et virgine figis in una, / [197] quos mundo debes oculos. Modo surgis Eoo / temperius caelo, modo serius incidis undis, / spectandique mora brumales porrigis horas, / deficis interdum, vitiumque in lumina mentis / transit et obscurus mortalia pectora terres. / [202] Nec, tibi quod lunae terris propioris imago / obstiterit, palles: facit hunc amor iste colorem. / [204] Diligis hanc unam; nec te Clymeneque Rhodosque / nec tenet Aeaeae genetrix pulcherrima Circes, / quaeque tuos Clytie quamvis despecta petebat / concubitus ipsoque illo grave vulnus habebat / [208] tempore: Leucothoe multarum oblivia fecit, / gentis odoriferae quam formosissima partu / edidit Eurynome. Sed postquam filia crevit, / quam mater cunctas, tam matrem filia vicit. / [212] Rexit Achaemenias urbes pater Orchamus, isque / septimus a prisco numeratur origine Belo. / [214] Axe sub Hesperio sunt pascua Solis equorum. / Ambrosiam pro gramine habent: ea fessa diurnis / membra ministeriis nutrit reparatque labori. / [217] Dumque ibi quadrupedes caelestia pabula carpunt, / noxque vicem peragit, thalamos deus intrat amatos, / versus in Eurynomes faciem genetricis, et inter / bis sex Leucothoen famulas ad lumina cernit / levia versato ducentem stamina fuso. / [222] Ergo ubi ceu mater carae dedit oscula natae, / "res" ait "arcana est. Famulae, discedite neve / eripite arbitrium matri secreta loquendi." / [225] Paruerant: thalamoque deus sine teste relicto / "ille ego sum" dixit, "qui longum metior annum, / omnia qui video, per quem videt omnia tellus, / [228] mundi oculus. Mihi, crede, places." Pavet illa, metuque / et colus et fusus digitis cecidere remissis. / Ipse timor decuit. Nec longius ille moratus / in veram rediit speciem solitumque nitorem: / [232] at virgo, quamvis inopino territa visu, / victa nitore dei posita vim passa querella est. / [234] Invidit Clytie (neque enim moderatus in illa / Solis amor fuerat), stimulataque paelicis ira / vulgat adulterium diffamatumque parenti / [237] indicat. Ille ferox inmansuetusque precantem / tendentemque manus ad lumina Solis et "ille / vim tulit invitae" dicentem defodit alta / crudus humo, tumulumque super gravis addit harenae. / [241] Dissipat hunc radiis Hyperione natus iterque / dat tibi, qua possis defossos promere vultus. / Nec tu iam poteras enectum pondere terrae / tollere, nympha, caput corpusque exsangue iacebas. / [245] Nil illo fertur volucrum moderator equorum / post Phaethonteos vidisse dolentius ignes. / [247] Ille quidem gelidos radiorum viribus artus / si queat in vivum temptat revocare calorem: / sed quoniam tantis fatum conatibus obstat, / nectare odorato sparsit corpusque locumque, / multaque praequestus "tanges tamen aethera" dixit. / [252] Protinus inbutum caelesti nectare corpus / dilicuit terramque suo madefecit odore: / virgaque per glaebas sensim radicibus actis / turea surrexit tumulumque cacumine rupit. / [256] At Clytien, quamvis amor excusare dolorem, / indiciumque dolor poterat, non amplius auctor / lucis adit venerisque modum sibi fecit in illa. / [259] Tabuit ex illo dementer amoribus usa / nympha larum inpatiens, et sub Iove nocte dieque / sedit humo nuda, nudis incompta capillis, / [262] perque novem luces expers undaeque cibique / rore mero lacrimisque suis ieiunia pavit / nec se movit humo: tantum spectabat euntis / ora dei vultusque suos flectebat ad illum. / [266] Membra ferunt haesisse solo, partemque coloris / luridus exsangues pallor convertit in herbas; / est in parte rubor, violaeque simillimus ora / [269] flos tegit. Illa suum, quamvis radice tenetur, / vertitur ad Solem, mutataque servat amorem." / [271] Dixerat, et factum mirabile ceperat aures. / Pars fieri potuisse negant, pars omnia veros / posse deos memorant: sed non et Bacchus in illis. / [274] Poscitur Alcithoe, postquam siluere sorores. / Quae radio stantis percurrens stamina telae / [276] "vulgatos taceo" dixit "pastoris amores / Daphnidis Idaei, quem nymphe paelicis ira / contulit in saxum (tantus dolor urit amantes). / [279] Nec loquor, ut quondam naturae iure novato / ambiguus fuerit modo vir, modo femina Sithon. / Te quoque, nunc adamas, quondam fidissime parvo, / Celmi, Iovi, largoque satos Curetas ab imbri / et Crocon in parvos versum cum Smilace flores / praetereo, dulcique animos novitate tenebo. / [285] Unde sit infamis, quare male fortibus undis / Salmacis enervet tactosque remolliat artus, / discite. Causa latet, vis est notissima fontis. / [288] Mercurio puerum diva Cythereide natum / naides Idaeis enutrivere sub antris; / cuius erat facies, in qua materque paterque / cognosci possent; nomen quoque traxit ab illis. / [292] Is tria cum primum fecit quinquennia, montes / deseruit patrios, Idaque altrice relicta / ignotis errare locis, ignota videre / flumina gaudebat, studio minuente laborem. / [296] Ille etiam Lycias urbes Lyciaeque propinquos / Caras adit. Videt hic stagnum lucentis ad imum / usque solum lymphae. Non illic canna palustris / nec steriles ulvae nec acuta cuspide iunci: / [300] perspicuus liquor est; stagni tamen ultima vivo / caespite cinguntur semperque virentibus herbis. / [302] Nympha colit, sed nec venatibus apta, nec arcus / flectere quae soleat nec quae contendere cursu, / solaque naiadum celeri non nota Dianae. / [305] Saepe suas illi fama est dixisse sorores: / "Salmaci, vel iaculum vel pictas sume pharetras, / et tua cum duris venatibus otia misce." / [308] Nec iaculum sumit nec pictas illa pharetras, / nec sua cum duris venatibus otia miscet, / sed modo fonte suo formosos perluit artus, / saepe Cytoriaco deducit pectine crines / et, quid se deceat, spectatas consulit undas; / [313] nunc perlucenti circumdata corpus amictu / mollibus aut foliis aut mollibus incubat herbis; / [315] saepe legit flores. Et tunc quoque forte legebat, / cum puerum vidit visumque optavit habere. / Nec tamen ante adiit, etsi properabat adire, / quam se conposuit, quam circumspexit amictus, / et finxit vultum et meruit formosa videri. / [320] Tum sic orsa loqui: "Puer o dignissime credi / esse deus, seu tu deus es, potes esse Cupido, / sive es mortalis, qui te genuere, beati, / et frater felix, et fortunata profecto, / siqua tibi soror est, et quae dedit ubera nutrix: / [325] sed longe cunctis longeque beatior illa, / siqua tibi sponsa est, siquam dignabere taeda. / [327] Haec tibi sive aliqua est, mea sit furtiva voluptas, / seu nulla est, ego sim, thalamumque ineamus eundem." / [329] Nais ab his tacuit. Pueri rubor ora notavit / (nescit enim, quid amor), sed et erubuisse decebat. / [331] Hic color aprica pendentibus arbore pomis / aut ebori tincto est, aut sub candore rubenti, / cum frustra resonant aera auxiliaria, lunae. / [334] Poscenti nymphae sine fine sororia saltem / oscula iamque manus ad eburnea colla ferenti / "desinis? aut fugio, tecumque" ait "ista relinquo." / [337] Salmacis extimuit "loca" que "haec tibi libera trado, / hospes" ait, simulatque gradu discedere verso, / tunc quoque respiciens, fruticumque recondita silva / [340] delituit, flexuque genu submisit. At ille, / scilicet ut vacuis et inobservatus in herbis, / huc it et hinc illuc, et in adludentibus undis / summa pedum taloque tenus vestigia tingit; / [344] nec mora, temperie blandarum captus aquarum / mollia de tenero velamina corpore ponit. / Tum vero placuit, nudaeque cupidine formae / [347] Salmacis exarsit: flagrant quoque lumina nymphae, / non aliter quam cum puro nitidissimus orbe / opposita speculi referitur imagine Phoebus. / Vixque moram patitur, vix iam sua gaudia differt, / [351] iam cupit amplecti, iam se male continet amens. / Ille cavis velox adplauso corpore palmis / desilit in latices, alternaque bracchia ducens / in liquidis translucet aquis, ut eburnea siquis / signa tegat claro vel candida lilia vitro. / [356] "Vicimus et meus est!" exclamat nais et omni / veste procul iacta mediis inmittitur undis, / pugnantemque tenet luctantiaque oscula carpit, / subiectatque manus invitaque pectora tangit, / et nunc hac iuveni, nunc circumfunditur illac; / [361] denique nitentem contra elabique volentem / inplicat, ut serpens, quam regia sustinet ales / sublimemque rapit: pendens caput illa pedesque / adligat et cauda spatiantes inplicat alas: / [365] utve solent hederae longos intexere truncos, / utque sub aequoribus deprensum polypus hostem / continet, ex omni dimissis parte flagellis. / [368] Perstat Atlantiades, sperataque gaudia nymphae / denegat. Illa premit, commissaque corpore toto / sicut inhaerebat, "pugnes licet, inprobe" dixit, / "non tamen effugies. Ita di iubeatis! et istum / nulla dies a me nec me diducat ab isto." / [373] Vota suos habuere deos: nam mixta duorum / corpora iunguntur, faciesque inducitur illis / [375] una, velut, siquis conducat cortice ramos, / crescendo iungi pariterque adolescere cernit. / Sic ubi conplexu coierunt membra tenaci, / nec duo sunt et forma duplex, nec femina dici / nec puer ut possit: neutrumque et utrumque videntur. / [380] Ergo ubi se liquidas, quo vir descenderat, undas / semimarem fecisse videt, mollitaque in illis / membra, manus tendens, sed non iam voce virili, / [383] Hermaphroditus ait: "Nato date munera vestro, / et pater et genetrix, amborum nomen habenti: / quisquis in hos fontes vir venerit, exeat inde / semivir et tactis subito mollescat in undis." / [387] Motus uterque parens nati rata verba biformis / fecit et incesto fontem medicamine tinxit." / [389] Finis erat dictis. Sed adhuc Minyeia proles / urget opus spernitque deum festumque profanat, / tympana cum subito non adparentia raucis / obstrepuere sonis, et adunco tibia cornu / [393] tinnulaque aera sonant; redolent murraeque crocique, / resque fide maior, coepere virescere telae / inque hederae faciem pendens frondescere vestis. / [396] Pars abit in vites, et quae modo fila fuerunt, / palmite mutantur; de stamine pampinus exit; / purpura fulgorem pictis adcommodat uvis. / [399] Iamque dies exactus erat, tempusque subibat, / quod tu nec tenebras nec possis dicere lucem, / sed cum luce tamen dubiae confinia noctis: / [402] tecta repente quati pinguesque ardere videntur / lampades et rutilis conlucere ignibus aedes / falsaque saevarum simulacra ululare ferarum. / [405] Fumida iamdudum latitant per tecta sorores, / diversaeque locis ignes ac lumina vitant; / [407] dumque petunt tenebras, parvos membrana per artus / porrigitur tenuique includit bracchia pinna. / Nec qua perdiderint veterem ratione figuram / [410] scire sinunt tenebrae. Non illas pluma levavit, / sustinuere tamen se perlucentibus alis; / conataeque loqui minimam et pro corpore vocem / emittunt, peraguntque leves stridore querellas. / [414] Tectaque, non silvas celebrant lucemque perosae / nocte volant, seroque tenent a vespere nomen. / [416] Tum vero totis Bacchi memorabile Thebis / numen erat, magnasque novi matertera vires / narrat ubique dei, de totque sororibus expers / una doloris erat, nisi quem fecere sorores. / [420] Adspicit hanc natis thalamoque Athamantis habentem / sublimes animos et alumno numine Iuno, / [422] nec tulit, et secum "potuit de paelice natus / vertere Maeonios pelagoque inmergere nautas / et laceranda suae nati dare viscera matri / et triplices operire novis Minyeidas alis: / nil poterit Iuno nisi inultos flere dolores? / [427] idque mihi satis est? haec una potentia nostra est? / ipse docet, quid agam (fas est et ab hoste doceri), / quidque furor valeat, Penthea caede satisque / ac super ostendit: cur non stimuletur eatque / per cognata suis exempla furoribus Ino?" / [432] Est via declivis funesta nubila taxo, / ducit ad infernas per muta silentia sedes. / [434] Styx nebulas exhalat iners, umbraeque recentes / descendunt illac simulacraque functa sepulcris. / [436] Pallor hiemsque tenent late loca senta, novique, / qua sit iter, manes, Stygiam qua ducat ad urbem, / ignorant, ubi sit nigri fera regia Ditis. / [439] Mille capax aditus et apertas undique portas / urbs habet, utque fretum de tota flumina terra, / sic omnes animas locus accipit ille, nec ulli / exiguus populo est, turbamve accedere sentit. / [443] Errant exsangues sine corpore et ossibus umbrae, / parsque forum celebrant, pars imi tecta tyranni, / pars aliquas artes, antiquae imitamina vitae, / exercent, aliam partem sua poena coercet. / --- artes] =arces= (ip. Basi e Guasti). --- [447] Sustinet ire illuc caelesti sede relicta / (tantum odiis iraeque dabat) Saturnia Iuno. / [449] Quo simul intravit sacroque a corpore pressum / ingemuit limen, tria Cerberus extulit ora / [451] et tres latratus semel edidit. Illa sorores / Nocte vocat genitas, grave et inplacabile numen. / [453] Carceris ante fores clausas adamante sedebant / deque suis atros pectebant crinibus angues. / [455] Quam simul agnorunt inter caliginis umbras, / surrexere deae. Sedes scelerata vocatur: / viscera praebebat Tityos lanianda novemque / iugeribus distentus erat; tibi, Tantale, nullae / deprenduntur aquae, quaeque inminet, effugit arbor; / [460] aut petis aut urges rediturum, Sisyphe, saxum; / volvitur Ixion et se sequiturque fugitque; / molirique suis letum patruelibus ausae / adsiduae repetunt, quas perdant, Belides undas. / [464] Quos omnes acie postquam Saturnia torva / vidit et ante omnes Ixiona, rursus ab illo / Sisyphon adspiciens "cur hic e fratribus" inquit / "perpetuas patitur poenas, Athamanta superbum / regia dives habet, qui me cum coniuge semper / [469] sprevit?" et exponit causas odiique viaeque, / quidque velit. Quod vellet, erat, ne regia Cadmi / staret, et in facinus traherent Athamanta sorores. / Imperium, promissa, preces confundit in unum / [473] sollicitatque deas. Sic haec Iunone locuta, / Tisiphone, canos ut erat turbata capillos, / movit et obstantes reiecit ab ore colubras / [476] atque ita "non longis opus est ambagibus" inquit: / "facta puta, quaecumque iubes. Inamabile regnum / desere teque refer caeli melioris ad auras." / [479] Laeta redit Iuno, quam caelum intrare parantem / roratis lustravit aquis Thaumantias Iris. / [481] Nec mora, Tisiphone madefactam sanguine sumit / inportuna facem, fluidoque cruore rubentem / induitur pallam tortoque incingitur angue / [484] egrediturque domo. Luctus comitatur euntem / et Pavor et Terror trepidoque Insania vultu. / [486] Limine constiterat: postes tremuisse feruntur / Aeolii pallorque fores infecit acernas, / solque locum fugit. Monstris exterrita coniunx, / territus est Athamas. Tectoque exire parabant: / [490] obstitit infelix aditumque obsedit Erinys, / nexaque vipereis distendens bracchia nodis / [492] caesariem excussit. Motae sonuere colubrae, / parsque iacent umeris, pars circum pectora lapsae / sibila dant saniemque vomunt linguisque coruscant. / [495] Inde duos mediis abrumpit crinibus angues / pestiferaque manu raptos inmisit. At illi / Inoosque sinus Athamanteosque pererrant / inspirantque graves animas. Nec vulnera membris / ulla ferunt: mens est, quae diros sentiat ictus. / [500] Attulerat secum liquidi quoque monstra veneni, / oris Cerberei spumas et virus Echidnae / erroresque vagos caecaeque oblivia mentis / et scelus et lacrimas rabiemque et caedis amorem, / [504] omnia trita simul; quae sanguine mixta recenti / coxerat aere cavo viridi versata cicuta. / [506] Dumque pavent illi, vergit furiale venenum / pectus in amborum praecordiaque intima movit. / [508] Tum face iactata per eundem saepius orbem / consequitur motis velociter ignibus ignes. / [510] Sic victrix iussique potens ad inania magni / regna redit Ditis sumptumque recingitur anguem. / [512] Protinus Aeolides media furibundus in aula / clamat "io, comites, his retia tendite silvis! / hic modo cum gemina visa est mihi prole leaena:" / [515] utque ferae sequitur vestigia coniugis amens / deque sinu matris ridentem et parva Learchum / bracchia tendentem rapit et bis terque per auras / more rotat fundae rigidoque infantia saxo / [519] discutit ora ferox. Tum denique concita mater, / seu dolor hoc fecit seu sparsi causa veneni, / exululat passisque fugit male sana capillis / teque ferens parvum nudis, Melicerta, lacertis / [523] "euhoe Bacche" sonat. Bacchi sub nomine Iuno / risit et "hos usus praestet tibi" dixit "alumnus." / [525] Inminet aequoribus scopulus: pars ima cavatur / fluctibus et tectas defendit ab imbribus undas, / summa riget frontemque in apertum porrigit aequor. / [528] Occupat hunc (vires insania fecerat) Ino, / seque super pontum nullo tardata timore / mittit onusque suum; percussa recanduit unda. / [531] At Venus, inmeritae neptis miserata labores, / sic patruo blandita suo est: "O numen aquarum, / proxima cui caelo cessit, Neptune, potestas, / [534] magna quidem posco, sed tu miserere meorum, / iactari quos cernis in Ionio inmenso, / et dis adde tuis. Aliqua et mihi gratia ponto est, / si tamen in medio quondam concreta profundo / spuma fui Graiumque manet mihi nomen ab illa." / [539] Adnuit oranti Neptunus et abstulit illis, / quod mortale fuit, maiestatemque verendam / inposuit nomenque simul faciemque novavit / Leucothoeque deum cum matre Palaemona dixit. / [543] Sidoniae comites, quantum valuere secutae / signa pedum, primo videre novissima saxo; / [545] nec dubium de morte ratae Cadmeida palmis / deplanxere domum, scissae cum veste capillos, / utque parum iustae nimiumque in paelice saevae / [548] invidiam fecere deae. Convicia Iuno / non tulit et "faciam vos ipsas maxima" dixit / [550] "saevitiae monimenta meae." Res dicta secuta est. / Nam quae praecipue fuerat pia, "persequar" inquit / [552] "in freta reginam" saltumque datura moveri / haud usquam potuit scopuloque adfixa cohaesit. / --- monimenta] =mutamenta= (ip. Basi e Guasti). --- [554] Altera, dum solito temptat plangore ferire / pectora, temptatos sensit riguisse lacertos; / [556] illa, manus ut forte tetenderat in maris undas, / saxea facta manus in easdem porrigit undas; / [558] huius, ut arreptum laniabat vertice crinem, / duratos subito digitos in crine videres: / [560] quo quaeque in gestu deprensa est, haesit in illo. / Pars volucres factae; quae nunc quoque gurgite in illo / aequora destringunt summis Ismenides alis. / [563] Nescit Agenorides natam parvumque nepotem / aequoris esse deos: luctu serieque malorum / victus et ostentis, quae plurima viderat, exit / conditor urbe sua, tamquam fortuna locorum, / [567] non sua se premeret; longisque erroribus actus / contigit Illyricos profuga cum coniuge fines. / [569] Iamque malis annisque graves, dum prima retractant / fata domus releguntque suos sermone labores, / [571] "num sacer ille mea traiectus cuspide serpens" / Cadmus ait "fuerat, tum, cum Sidone profectus / vipereos sparsi per humum, nova semina, dentes? / [574] Quem si cura deum tam certa vindicat ira, / ipse precor serpens in longam porrigar alvum." / [576] Dixit, et ut serpens in longam tenditur alvum / durataeque cuti squamas increscere sentit / nigraque caeruleis variari corpora guttis. / In pectusque cadit pronus. Commissaque in unum / paulatim tereti tenuantur acumine crura. / [581] Bracchia iam restant: quae restant bracchia tendit / et lacrimis per adhuc humana fluentibus ora / "accede, o coniunx, accede, miserrima," dixit / "dumque aliquid superest de me, me tange manumque / accipe, dum manus est, dum non totum occupat anguis!" / [586] Ille quidem vult plura loqui, sed lingua repente / in partes est fissa duas: nec verba volenti / sufficiunt, quotiensque aliquos parat edere questus, / sibilat: hanc illi vocem natura reliquit. / [590] Nuda manu feriens exclamat pectora coniunx / "Cadme, mane, teque, infelix, his exue monstris! / Cadme, quid hoc? ubi pes, ubi sunt umerique manusque / et color et facies et, dum loquor, omnia? cur non / me quoque, caelestes, in eandem vertitis anguem?" / [595] Dixerat: ille suae lambebat coniugis ora / inque sinus caros, veluti cognosceret, ibat / et dabat amplexus adsuetaque colla petebat. / [598] Quisquis adest (aderant comites), terretur: at illa / lubrica permulcet cristati colla draconis. / [600] Et subito duo sunt iunctoque volumine serpunt, / donec in adpositi nemoris subiere latebras. / [602] Nunc quoque nec fugiunt hominem nec vulnere laedunt / quidque prius fuerint, placidi meminere dracones. / [604] Sed tamen ambobus versae solacia formae / magna nepos dederat, quem debellata colebat / India, quem positis celebrabat Achaia templis. / [607] Solus Abantiades ab origine cretus eadem / Acrisius superest, qui moenibus arceat urbis / Argolicae contraque deum ferat arma genusque / non putet esse Iovis; neque enim Iovis esse putabat / Persea, quem pluvio Danae conceperat auro. / [612] Mox tamen Acrisium (tanta est praesentia veri) / tam violasse deum quam non agnosse nepotem / [614] paenitet: inpositus iam caelo est alter, at alter / viperei referens spolium memorabile monstri / aera carpebat tenerum stridentibus alis. / [617] Cumque super Libycas victor penderet harenas, / Gorgonei capitis guttae cecidere cruentae. / Quas humus exceptas varios animavit in angues: / unde frequens illa est infestaque terra colubris. / [621] Inde per inmensum ventis discordibus actus / nunc huc, nunc illuc exemplo nubis aquosae / fertur et ex alto seductas aethere longe / despectat terras totumque supervolat orbem. / [625] Ter gelidas Arctos, ter Cancri bracchia vidit: / saepe sub occasus, saepe est ablatus in ortus. / [627] Iamque cadente die, veritus se credere nocti, / constitit Hesperio, regnis Atlantis, in orbe, / exiguamque petit requiem, dum Lucifer ignes / evocet Aurorae, currus Aurora diurnos. / --- currus] =cursus= (ip. Basi e Guasti). --- [631] Hic hominum cunctis ingenti corpore praestans / Iapetionides Atlas fuit. Ultima tellus / rege sub hoc et pontus erat, qui Solis anhelis / aequora subdit equis et fessos excipit axes. / [635] Mille greges illi totidemque armenta per herbas / errabant, et humum vicinia nulla premebant. / Arboreae frondes auro radiante nitentes / ex auro ramos, ex auro poma tegebant. / [639] "Hospes," ait Perseus illi, "seu gloria tangit / te generis magni, generis mihi Iuppiter auctor; / sive es mirator rerum, mirabere nostras. / [642] Hospitium requiemque peto." Memor ille vetustae / sortis erat: Themis hanc dederat Parnasia sortem: / "Tempus, Atla, veniet, tua quo spoliabitur auro / arbor, et hunc praedae titulum Iove natus habebit." / [646] Id metuens solidis pomaria clauserat Atlas / moenibus et vasto dederat servanda draconi / arcebatque suis externos finibus omnes. / [649] Huic quoque "vade procul, ne longe gloria rerum, / quam mentiris" ait, "longe tibi Iuppiter absit!" / [651] vimque minis addit manibusque expellere temptat / cunctantem et placidis miscentem fortia dictis. / [653] Viribus inferior (quis enim par esset Atlantis / viribus?) "at quoniam parvi tibi gratia nostra est, / accipe munus!" ait, laevaque a parte Medusae / ipse retro versus squalentia protulit ora. / [657] Quantus erat, mons factus Atlas: nam barba comaeque / in silvas abeunt, iuga sunt umerique manusque, / quod caput ante fuit, summo est in monte cacumen, / [660] ossa lapis fiunt: tum partes auctus in omnes / crevit in inmensum (sic, di, statuistis) et omne / cum tot sideribus caelum requievit in illo. / --- auctus] =altus= (ip. Basi e Guasti). --- [663] Clauserat Hippotades aeterno carcere ventos, / admonitorque operum caelo clarissimus alto / [665] Lucifer ortus erat. Pennis ligat ille resumptis / parte ab utraque pedes teloque accingitur unco / et liquidum motis talaribus aera findit. / [668] Gentibus innumeris circumque infraque relictis / Aethiopum populos Cepheaque conspicit arva. / [670] Illic inmeritam maternae pendere linguae / Andromedan poenas iniustus iusserat Ammon. / [672] Quam simul ad duras religatam bracchia cautes / vidit Abantiades (nisi quod levis aura capillos / moverat et tepido manabant lumina fletu, / marmoreum ratus esset opus), trahit inscius ignes / et stupet et visae correptus imagine formae / paene suas quatere est oblitus in aere pennas. / [678] Ut stetit, "o" dixit "non istis digna catenis, / sed quibus inter se cupidi iunguntur amantes, / pande requirenti nomen terraeque tuumque, / [681] et cur vincla geras." Primo silet illa, nec audet / adpellare virum virgo; manibusque modestos / celasset vultus, si non religata fuisset: / --- silet] =stupet= (ip. Basi e Guasti). --- [684] lumina, quod potuit, lacrimis inplevit obortis. / Saepius instanti, sua ne delicta fateri / nolle videretur, nomen terraeque suumque, / quantaque maternae fuerit fiducia formae, / [688] indicat. Et nondum memoratis omnibus unda / insonuit, veniensque inmenso belua ponto / inminet et latum sub pectore possidet aequor. / [691] Conclamat virgo: genitor lugubris et una / mater adest, ambo miseri, sed iustius illa. / [693] Nec secum auxilium, sed dignos tempore fletus / plangoremque ferunt vinctoque in corpore adhaerent, / [695] cum sic hospes ait: "Lacrimarum longa manere / tempora vos poterunt: ad opem brevis hora ferendam est. / [697] Hanc ego si peterem Perseus Iove natus et illa, / quam clausam inplevit fecundo Iuppiter auro, / Gorgonis anguicomae Perseus superator et alis / aerias ausus iactatis ire per auras, / [701] praeferrer cunctis certe gener. Addere tantis / dotibus et meritum, faveant modo numina, tempto: / ut mea sit servata mea virtute, paciscor." / [704] Accipiunt legem (quis enim dubitaret?) et orant / promittuntque super regnum dotale parentes. / [706] Ecce velut navis praefixo concita rostro / sulcat aquas, iuvenum sudantibus acta lacertis, / sic fera dimotis inpulsu pectoris undis / tantum aberat scopulis, quantum Balearica torto / funda potest plumbo medii transmittere caeli: / [711] cum subito iuvenis pedibus tellure repulsa / arduus in nubes abiit. Ut in aequore summo / umbra viri visa est, visa fera saevit in umbra. / [714] Utque Iovis praepes, vacuo cum vidit in arvo / praebentem Phoebo liventia terga draconem, / occupat aversum, neu saeva retorqueat ora, / squamigeris avidos figit cervicibus ungues, / sic celeri missus praeceps per inane volatu / terga ferae pressit dextroque frementis in armo / Inachides ferrum curvo tenus abdidit hamo. / [721] Vulnere laesa gravi modo se sublimis in auras / attollit, modo subdit aquis, modo more ferocis / versat apri, quem turba canum circumsona terret. / [724] Ille avidos morsus velocibus effugit alis / quaque patet, nunc terga cavis super obsita conchis, / nunc laterum costas, nunc qua tenuissima cauda / desinit in piscem, falcato vulnerat ense. / [728] Belua puniceo mixtos cum sanguine fluctus / ore vomit: maduere graves adspergine pennae. / [730] Nec bibulis ultra Perseus talaribus ausus / credere, conspexit scopulum, qui vertice summo / stantibus exstat aquis, operitur ab aequore moto. / [733] Nixus eo rupisque tenens iuga prima sinistra / ter quater exegit repetita per ilia ferrum. / [735] Litora cum plausu clamor superasque deorum / inplevere domos: gaudent generumque salutant / auxiliumque domus servatoremque fatentur / Cassiope Cepheusque pater. Resoluta catenis / incedit virgo, pretiumque et causa laboris. / [740] Ipse manus hausta victrices abluit unda, / anguiferumque caput dura ne laedat harena, / mollit humum foliis natasque sub aequore virgas / sternit et inponit Phorcynidos ora Medusae. / [744] Virga recens bibulaque etiamnum viva medulla / vim rapuit monstri tactuque induruit huius / percepitque novum ramis et fronde rigorem. / [747] At pelagi nymphae factum mirabile temptant / pluribus in virgis et idem contingere gaudent / seminaque ex illis iterant iactata per undas. / [750] Nunc quoque curaliis eadem natura remansit, / duritiam tacto capiant ut ab aere, quodque / vimen in aequore erat, fiat super aequora saxum. / [753] Dis tribus ille focos totidem de caespite ponit, / laevum Mercurio, dextrum tibi, bellica virgo, / ara Iovis media est. Mactatur vacca Minervae, / alipedi vitulus, taurus tibi, summe deorum. / [757] protinus Andromedan et tanti praemia facti / indotata rapit: taedas Hymenaeus Amorque / praecutiunt, largis satiantur odoribus ignes, / sertaque dependent tectis et ubique lyraeque / tibiaque et cantus, animi felicia laeti / [762] argumenta, sonant. Reseratis aurea valvis / atria tota patent, pulchroque instructa paratu / Cepheni proceres ineunt convivia regis. / [765] Postquam epulis functi generosi munere Bacchi / diffudere animos, cultusque genusque locorum / quaerit Lyncides moresque animumque virorum. / quaerit Abantiades: quaerenti protinus unus / narrat Lyncides moresque animumque virorum. / [770] Qui simul edocuit, "nunc, o fortissime," dixit / "fare, precor, Perseu, quanta virtute quibusque / artibus abstuleris crinita draconibus ora." / [773] Narrat Agenorides gelido sub Atlante iacentem / esse locum solidae tutum munimine molis; / cuius in introitu geminas habitasse sorores / Phorcidas, unius partitas luminis usum. / [777] Id se sollerti furtim, dum traditur, astu / supposita cepisse manu perque abdita longe / deviaque et silvis horrentia saxa fragosis / Gorgoneas tetigisse domos, passimque per agros / perque vias vidisse hominum simulacra ferarumque / in silicem ex ipsis visa conversa Medusa. / [783] Se tamen horrendae clipei, quem laeva gerebat, / aere repercusso formam adspexisse Medusae, / [785] dumque gravis somnus colubrasque ipsamque tenebat, / eripuisse caput collo; pennisque fugacem / Pegason et fratrem matris de sanguine natos / --- fratrem] fontem ns. --- [788] addidit et longi non falsa pericula cursus, / quae freta, quas terras sub se vidisset ab alto / et quae iactatis tetigisset sidera pennis. / [791] Ante exspectatum tacuit tamen. Excipit unus / ex numero procerum quaerens, cur sola sororum / gesserit alternis inmixtos crinibus angues. / [794] Hospes ait: "Quoniam scitaris digna relatu, / accipe quaesiti causam. Clarissima forma / multorumque fuit spes invidiosa procorum / illa: neque in tota conspectior ulla capillis / [798] pars fuit. Inveni, qui se vidisse referret. / Hanc pelagi rector templo vitiasse Minervae / [800] dicitur. Aversa est et castos aegide vultus / nata Iovis texit; neve hoc inpune fuisset, / Gorgoneum crinem turpes mutavit in hydros. / [803] Nunc quoque, ut attonitos formidine terreat hostes, / pectore in adverso, quos fecit, sustinet angues." / [1] Dumque ea Cephenum medio Danaeius heros / agmine commemorat, fremida regalia turba / atria complentur: nec coniugialia festa / qui canat est clamor, sed qui fera nuntiet arma. / [5] Inque repentinos convivia versa tumultus / adsimilare freto possis, quod saeva quietum / ventorum rabies motis exasperat undis. / [8] Primus in his Phineus, belli temerarius auctor, / fraxineam quatiens aeratae cuspidis hastam, / "en" ait, "en adsum praereptae coniugis ultor, / nec mihi te pennae, nec falsum versus in aurum / [12] Iuppiter eripiet." Conanti mittere Cepheus / "quid facis?" exclamat, "quae te, germane, furentem / mens agit in facinus? meritisne haec gratia tantis / redditur? hac vitam servatae dote rependis? / [16] Quam tibi non Perseus, verum si quaeris, ademit, / sed grave Nereidum numen, sed corniger Ammon, / sed quae visceribus veniebat belua ponti / [19] exsaturanda meis. Illo tibi tempore rapta est, / quo peritura fuit: nisi si crudelis id ipsum / exigis, ut pereat, luctuque levabere nostro. / [22] Scilicet haud satis est, quod te spectante revincta est / et nullam quod opem patruus sponsusve tulisti: / [24] insuper, a quoquam quod sit servata, dolebis / praemiaque eripies? Quae si tibi magna videntur, / ex illis scopulis, ubi erant adfixa, petisses. / [27] Nunc sine, qui petiit, per quem haec non orba senectus, / ferre quod et meritis et voce est pactus, eumque / non tibi, sed certae praelatum intellege morti!" / [30] Ille nihil contra: sed et hunc et Persea vultu / alterno spectans petat hunc ignorat, an illum, / cunctatusque brevi contortam viribus hastam, / quantas ira dabat, nequiquam in Persea misit. / [34] Ut stetit illa toro, stratis tunc denique Perseus / exsiluit; teloque ferox inimica remisso / pectora rupisset, nisi post altaria Phineus / isset: et (indignum!) scelerato profuit ara. / [38] Fronte tamen Rhoeti non inrita cuspis adhaesit. / Qui postquam cecidit ferrumque ex osse revulsum est, / calcitrat et positas adspergit sanguine mensas. / [41] Tum vero indomitas ardescit vulgus in iras, / telaque coniciunt, et sunt, qui Cephea dicunt / [43] cum genero debere mori. Sed limine tecti / exierat Cepheus, testatus iusque fidemque / hospitiique deos, ea se prohibente moveri. / [46] Bellica Pallas adest et protegit aegide fratrem / datque animos. Erat Indus Athis, quem flumine Gange / edita Limnaee vitreis peperisse sub undis / creditur, egregius forma, quam divite cultu / augebat, bis adhuc octonis integer annis, / indutus chlamydem Tyriam, quam limbus obibat / [52] aureus; ornabant aurata monilia collum / et madidos murra curvum crinale capillos. / [54] Ille quidem iaculo quamvis distantia misso / figere doctus erat, sed tendere doctior arcus. / [56] Tunc quoque lenta manu flectentem cornua Perseus / stipite, qui media positus fumabat in ara, / perculit et fractis confudit in ossibus ora. / [59] Hunc ubi laudatos iactantem in sanguine vultus / Assyrius vidit Lycabas, iunctissimus illi / et comes et veri non dissimulator amoris, / postquam exhalantem sub acerbo vulnere vitam / deploravit Athin, quos ille tetenderat arcus / [64] arripit et "mecum tibi sint certamina" dixit: / "nec longum pueri fato laetabere, quo plus / [66] invidiae, quam laudis habes." Haec omnia nondum / dixerat, emicuit nervo penetrabile telum / vitatumque tamen sinuosa veste pependit. / [69] Vertit in hunc harpen spectatam caede Medusae / [70] Acrisioniades adigitque in pectus: at ille / iam moriens, oculis sub nocte natantibus atra / circumspexit Athin seque acclinavit ad illum / et tulit ad manes iunctae solacia mortis. / [74] Ecce Syenites, genitus Metione, Phorbas / et Libys Amphimedon, avidi committere pugnam, / sanguine, quo late tellus madefacta tepebat, / [77] conciderant lapsi: surgentibus obstitit ensis, / alterius costis, iugulo Phorbantis adactus. / [79] At non Actoriden Erytum, cui lata bipennis / telum erat, hamato Perseus petit ense, sed altis / exstantem signis multaeque in pondere massae / ingentem manibus tollit cratera duabus / [83] infligitque viro; rutilum vomit ille cruorem / et resupinus humum moribundo vertice pulsat. / [85] Inde Semiramio Polydegmona sanguine cretum / Caucasiumque Abarin Sperchionidenque Lycetum / intonsumque comas Helicen Phlegyanque Clytumque / sternit et exstructos morientum calcat acervos. / [89] Nec Phineus ausus concurrere comminus hosti, / intorquet iaculum: quod detulit error in Idan, / expertem frustra belli et neutra arma secutum. / [92] Ille tuens oculis inmitem Phinea torvis / "quandoquidem in partes" ait "abstrahor, accipe, Phineu, / quem fecisti hostem pensaque hoc vulnere vulnus"; / [95] iamque remissurus tractum de vulnere telum / sanguine defectos cecidit conlapsus in artus. / [97] Hic quoque Cephenum post regem primus Hodites / ense iacet Clymeni; Prothoenora percutit Hypseus, / [99] Hypsea Lyncides. Fuit et grandaevus in illis / Emathion, aequi cultor timidusque deorum; / qui, quoniam prohibent anni bellare, loquendo / pugnat et incessit scelerataque devovet arma. / [103] Huic Chromis amplexo tremulis altaria palmis / decutit ense caput; quod protinus incidit arae / [105] atque ibi semianimi verba exsecrantia lingua / edidit, et medios animam exspiravit in ignes. / [107] Hinc gemini fratres Broteasque et caestibus Ammon / invicti, vinci si possent caestibus enses, / Phinea cecidere manu, Cererisque sacerdos / Ampycus, albenti velatus tempora vitta. / [111] Tu quoque, Lampetide, non hos adhibendus ad usus, / sed qui, pacis opus, citharam cum voce moveres, / iussus eras celebrare dapes festumque canendo. / [114] Quem procul adstantem plectrumque imbelle tenentem / Pettalus inridens "Stygiis cane cetera" dixit / "manibus" et laevo mucronem tempore fixit. / [117] Concidit et digitis morientibus ille retemptat / fila lyrae, casuque fuit miserabile carmen. / [119] Nec sinit hunc impune ferox cecidisse Lycormas / raptaque de dextro robusta repagula posti / ossibus inlisit mediae cervicis: at ille / procubuit terrae mactati more iuvenci. / [123] Demere temptabat laevi quoque robora postis / Cinyphius Pelates: temptanti dextera fixa est / cuspide Marmaridae Corythi lignoque cohaesit. / [126] Haerenti latus hausit Abas: nec corruit ille, / sed retinente manum moriens e poste pependit. / [128] Sternitur et Menaleus, Perseia castra secutus, / et Nasamoniaci Dorylas ditissimus agri, / dives agri Dorylas, quo non possederat alter / latius aut totidem tollebat turis acervos. / [132] Huius in obliquo missum stetit inguine ferrum: / letifer ille locus. Quem postquam vulneris auctor / singultantem animam et versantem lumina vidit / Bactrius Halcyoneus "hoc, quod premis" inquit, "habeto / de tot agris terrae" corpusque exsangue reliquit. / [137] Torquet in hunc hastam calido de vulnere raptam / ultor Abantiades; media quae nare recepta / cervice exacta est in partesque eminet ambas. / [140] Dumque manum Fortuna iuvat, Clytiumque Claninque, / matre satos una, diverso vulnere fudit: / nam Clytii per utrumque gravis librata lacerto / fraxinus acta femur, iaculum Clanis ore momordit. / [144] Occidit et Celadon Mendesius, occidit Astreus, / matre Palaestina, dubio genitore creatus, / Aethionque sagax quondam ventura videre / (tunc ave deceptus falsa), regisque Thoactes / armiger et caeso genitore infamis Agyrtes. / [149] Plus tamen exhausto superest: namque omnibus unum / opprimere est animus, coniurata undique pugnant / agmina pro causa meritum impugnante fidemque: / [152] hac pro parte socer frustra pius et nova coniunx / cum genetrice favent ululatuque atria complent. / [154] Sed sonus armorum superat gemitusque cadentum, / pollutosque semel multo Bellona penates / sanguine perfundit renovataque proelia miscet. / [157] Circueunt unum Phineus et mille secuti / Phinea: tela volant hiberna grandine plura / praeter utrumque latus praeterque et lumen et aures. / [160] Applicat hic umeros ad magnae saxa columnae, / tutaque terga gerens adversaque in agmina versus / sustinet instantes. Instabat parte sinistra / Chaonius Molpeus, dextra Nabataeus Echemmon. / [164] Tigris ut auditis diversa valle duorum / exstimulata fame mugitibus armentorum / nescit, utro potius ruat, et ruere ardet utroque, / sic dubius Perseus, dextra laevane feratur, / [168] Molpea traiecti submovit vulnere cruris, / contentusque fuga est: neque enim dat tempus Echemmon, / sed furit et, cupiens saltu dare vulnera collo, / non circumspectis exactum viribus ensem / [172] fregit, et extrema percussae parte columnae / lammina dissiluit dominique in gutture fixa est. / [174] Non tamen ad letum causas satis illa valentes / plaga dedit: trepidum Perseus et inermia frustra / bracchia tendentem Cyllenide confodit harpe. / [177] Verum ubi virtutem turbae succumbere vidit, / "auxilium" Perseus "quoniam sic cogitis ipsi" / dixit "ab hoste petam. Vultus avertite vestros, / siquis amicus adest!" et Gorgonis extulit ora. / [181] "Quaere alium, tua quem moveant miracula" dixit / Thescelus; utque manu iaculum fatale parabat / mittere, in hoc haesit signum de marmore gestu. / [184] Proximus huic Ampyx animi plenissima magni / pectora Lyncidae gladio petit; inque petendo / dextera deriguit nec citra mota nec ultra est. / [187] At Nileus, qui se genitum septemplice Nilo / ementitus erat, clipeo quoque flumina septem / argento partim, partim caelaverat auro, / "adspice" ait, "Perseu, nostrae primordia gentis: / magna feres tacitas solacia mortis ad umbras, / [192] a tanto cecidisse viro": pars ultima vocis / in medio suppressa sono est, adapertaque velle / ora loqui credas, nec sunt ea pervia verbis. / [195] Increpat hos "vitio" que "animi, non viribus" inquit / "Gorgoneis torpetis" Eryx: "incurrite mecum / et prosternite humi iuvenem magica arma moventem!" / [198] Incursurus erat: tenuit vestigia tellus, / inmotusque silex armataque mansit imago. / [200] Hi tamen ex merito poenas subiere; sed unus / miles erat Persei, pro quo dum pugnat, Aconteus, / Gorgone conspecta saxo concrevit oborto. / [203] Quem ratus Astyages etiamnum vivere, longo / ense ferit: sonuit tinnitibus ensis acutis. / [205] Dum stupet Astyages, naturam traxit eandem, / marmoreoque manet vultus mirantis in ore. / [207] Nomina longa mora est media de plebe virorum / dicere: bis centum restabant corpora pugnae, / Gorgone bis centum riguerunt corpora visa. / [210] Paenitet iniusti tunc denique Phinea belli. / Sed quid agat? simulacra videt diversa figuris / agnoscitque suos et nomine quemque vocatum / poscit opem, credensque parum sibi proxima tangit / [214] corpora: marmor erant. Avertitur, atque ita supplex / confessasque manus obliquaque bracchia tendens, / "vincis" ait, "Perseu. Remove tua monstra tuaeque / saxificos vultus, quaecumque ea, tolle Medusae, / tolle, precor. Non nos odium regnique cupido / compulit ad bellum: pro coniuge movimus arma. / [220] Causa fuit meritis melior tua, tempore nostra. / Non cessisse piget. Nihil, o fortissime, praeter / hanc animam concede mihi: tua cetera sunto." / [223] Talia dicenti neque eum, quem voce rogabat / respicere audenti "quod" ait, "timidissime Phineu, / et possum tribuisse et magnum est munus inerti, / (pone metum) tribuam: nullo violabere ferro. / [227] Quin etiam mansura dabo monimenta per aevum, / inque domo soceri semper spectabere nostri, / ut mea se sponsi soletur imagine coniunx?" / [230] Dixit et in partem Phorcynida transtulit illam, / ad quam se trepido Phineus obverterat ore. / [232] Tunc quoque conanti sua vertere lumina cervix / deriguit, saxoque oculorum induruit umor. / [234] Sed tamen os timidum vultusque in marmore supplex / submissaeque manus faciesque obnoxia mansit. / [236] Victor Abantiades patrios cum coniuge muros / intrat et inmeriti vindex ultorque parentis / adgreditur Proetum: nam fratre per arma fugato / Acrisioneas Proetus possederat arces. / [240] Sed nec ope armorum, nec, quam male ceperat, arce / torva colubriferi superavit lumina monstri. / [242] Te tamen, o parvae rector, Polydecta, Seriphi, / nec iuvenis virtus per tot spectata labores / nec mala mollierant, sed inexorabile durus / exerces odium, nec iniqua finis in ira est. / [246] Detrectas etiam laudem fictamque Medusae / arguis esse necem. "Dabimus tibi pignera veri. / Parcite luminibus!" Perseus ait oraque regis / ore Medusaeo silicem sine sanguine fecit. / [250] Hactenus aurigenae comitem Tritonia fratri / se dedit: inde cava circumdata nube Seriphon / deserit, a dextra Cythno Gyaroque relictis, / quaque super pontum via visa brevissima, Thebas / [254] virgineumque Helicona petit. Quo monte potita / constitit et doctas sic est adfata sorores: / "Fama novi fontis nostras pervenit ad aures, / dura Medusaei quem praepetis ungula rupit. / [258] Is mihi causa viae. Volui mirabile factum / cernere: vidi ipsum materno sanguine nasci." / [260] Excipit Uranie: "Quaecumque est causa videndi / has tibi, diva, domos, animo gratissima nostro es. / [262] Vera tamen fama est, et Pegasus huius origo / fontis", et ad latices deduxit Pallada sacros. / [264] Quae mirata diu factas pedis ictibus undas, / silvarum lucos circumspicit antiquarum / antraque et innumeris distinctas floribus herbas / felicesque vocat pariter studioque locoque / [268] Mnemonidas. Quam sic adfata est una sororum: / "O, nisi te virtus opera ad maiora tulisset, / in partem ventura chori Tritonia nostri, / vera refers meritoque probas artesque locumque, / et gratam sortem, tutae modo simus, habemus. / [273] Sed (vetitum est adeo sceleri nihil) omnia terrent / virgineas mentes, dirusque ante ora Pyreneus / vertitur, et nondum tota me mente recepi. / --- dirusque] =durusque= (ip. Basi e Guasti). --- [276] Daulida Threicio Phoceaque milite rura / ceperat ille ferox iniustaque regna tenebat. / [278] Templa petebamus Parnasia: vidit euntes, / nostraque fallaci veneratus numina vultu / [280] "Mnemonides" (cognorat enim), "consistite" dixit, / "nec dubitate, precor, tecto grave sidus et imbrem" / (imber erat) "vitare meo: subiere minores / saepe casas superi." Dictis et tempore motae / adnuimusque viro primasque intravimus aedes. / [285] Desierant imbres, victoque aquilonibus austro / fusca repurgato fugiebant nubila caelo. / [287] Impetus ire fuit: claudit sua tecta Pyreneus / vimque parat. Quam nos sumptis effugimus alis. / [289] Ipse secuturo similis stetit arduus arce / "qua" que "via est vobis, erit et mihi" dixit "eadem", / [291] seque iacit vecors e summae culmine turris / et cadit in vultus, discussisque ossibus oris / tundit humum moriens scelerato sanguine tinctam." / [294] Musa loquebatur: pennae sonuere per auras, / voxque salutantum ramis veniebat ab altis. / [296] Suspicit et linguae quaerit tam certa loquentes / unde sonent hominemque putat Iove nata locutum: / [298] Ales erat, numeroque novem, sua fata querentes, / institerant ramis imitantes omnia picae. / [300] Miranti sic orsa deae dea: "Nuper et istae / auxerunt volucrum victae certamine turbam. / [302] Pieros has genuit Pellaeis dives in arvis, / Paeonis Euippe mater fuit. Illa potentem / Lucinam noviens, noviens paritura, vocavit. / [305] Intumuit numero stolidarum turba sororum, / perque tot Haemonias et per tot Achaidas urbes / huc venit et tali committit proelia voce: / [308] "Desinite indoctum vana dulcedine vulgus / fallere: nobiscum, siqua est fiducia vobis, / Thespiades certate deae. Nec voce nec arte / [311] vincemur, totidemque sumus. Vel cedite victae / fonte Medusaeo et Hyantea Aganippe, / vel nos Emathiis ad Paeonas usque nivosos / cedamus campis. Dirimant certamina nymphae." / [315] Turpe quidem contendere erat, sed cedere visum / turpius. Electae iurant per flumina nymphae / factaque de vivo pressere sedilia saxo. / [318] Tum sine sorte prior quae se certare professa est, / bella canit superum, falsoque in honore Gigantas / ponit et extenuat magnorum facta deorum; / [321] emissumque ima de sede Typhoea terrae / caelitibus fecisse metum cunctosque dedisse / terga fugae, donec fessos Aegyptia tellus / ceperit et septem discretus in ostia Nilus. / [325] Huc quoque terrigenam venisse Typhoea narrat / et se mentitis superos celasse figuris; / [327] "duxque gregis" dixit "fit Iuppiter; unde recurvis / nunc quoque formatus Libys est cum cornibus Ammon. / Delius in corvo, proles Semeleia capro, / fele soror Phoebi, nivea Saturnia vacca, / pisce Venus latuit, Cyllenius ibidis alis." / [332] Hactenus ad citharam vocalia moverat ora: / poscimur Aonides. Sed forsitan otia non sint, / nec nostris praebere vacet tibi cantibus aures." / [335] "Ne dubita, vestrumque mihi refer ordine carmen" / Pallas ait nemorisque levi consedit in umbra. / --- carmen] =crimen= (ip. Basi e Guasti). --- [337] Musa refert: "Dedimus summam certaminis uni. / Surgit et inmissos hedera conlecta capillos / Calliope querulas praetemptat pollice chordas, / atque haec percussis subiungit carmina nervis: / [341] "Prima Ceres unco glaebam dimovit aratro, / prima dedit fruges alimentaque mitia terris, / prima dedit leges: Cereris sunt omnia munus. / [344] Illa canenda mihi est. Utinam modo dicere possem / carmina digna dea: certe dea carmine digna est. / [346] Vasta giganteis ingesta est insula membris / Trinacris et magnis subiectum molibus urget / aetherias ausum sperare Typhoea sedes. / --- sperare] =spectare= (ip. Basi e Guasti). --- [349] Nititur ille quidem pugnatque resurgere saepe, / dextra sed Ausonio manus est subiecta Peloro, / laeva, Pachyne, tibi, Lilybaeo crura premuntur, / degravat Aetna caput: sub qua resupinus harenas / eiectat flammamque ferox vomit ore Typhoeus. / [354] Saepe remoliri luctatur pondera terrae / oppidaque et magnos devolvere corpore montes. / [356] Inde tremit tellus, et rex pavet ipse silentum, / ne pateat latoque solum retegatur hiatu / inmissusque dies trepidantes terreat umbras. / [359] Hanc metuens cladem tenebrosa sede tyrannus / exierat, curruque atrorum vectus equorum / ambibat Siculae cautus fundamina terrae. / [362] Postquam exploratum satis est loca nulla labare, / depositoque metu, videt hunc Erycina vagantem / [364] monte suo residens, natumque amplexa volucrem / "arma manusque meae, mea, nate, potentia", dixit, / "illa, quibus superas omnes, cape tela, Cupido, / inque dei pectus celeres molire sagittas, / cui triplicis cessit fortuna novissima regni. / --- omnes] =homines= (ip. Basi e Guasti). --- [369] Tu superos ipsumque Iovem tu numina ponti / victa domas ipsumque, regit qui numina ponti. / [371] Tartara quid cessant? cur non matrisque tuumque / imperium profers? agitur pars tertia mundi. / [373] Et tamen in caelo, quae iam patientia nostra est, / spernimur, ac mecum vires minuuntur Amoris. / [375] Pallada nonne vides iaculatricemque Dianam / abscessisse mihi? Cereris quoque filia virgo, / si patiemur, erit: nam spes adfectat easdem. / [378] At tu, pro socio, siqua est ea gratia, regno / [379] iunge deam patruo." Dixit Venus. Ille pharetram / solvit et arbitrio matris de mille sagittis / unam seposuit, sed qua nec acutior ulla / nec minus incerta est nec quae magis audiat arcus, / oppositoque genu curvavit flexile cornum / inque cor hamata percussit harundine Ditem. / [385] Haud procul Hennaeis lacus est a moenibus altae, / nomine Pergus, aquae. Non illo plura Caystros / carmina cycnorum labentibus audit in undis. / [388] Silva coronat aquas cingens latus omne, suisque / frondibus ut velo Phoebeos submovet ictus. / Frigora dant rami, tyrios humus umida flores: / [391] perpetuum ver est. Quo dum Proserpina luco / ludit et aut violas aut candida lilia carpit, / dumque puellari studio calathosque sinumque / implet et aequales certat superare legendo, / paene simul visa est dilectaque raptaque Diti: / [396] usque adeo est properatus amor. Dea territa maesto / et matrem et comites, sed matrem saepius, ore / clamat; et, ut summa vestem laniarat ab ora, / conlecti flores tunicis cecidere remissis. / [400] Tantaque simplicitas puerilibus adfuit annis, / haec quoque virgineum movit iactura dolorem. / [402] Raptor agit currus et nomine quemque vocando / exhortatur equos, quorum per colla iubasque / excutit obscura tinctas ferrugine habenas, / [405] perque lacus altos et olentia sulphure fertur / stagna Palicorum, rupta fervenu terra, / et qua Bacchiadae, bimari gens orta Corintho, / inter inaequales posuerunt moenia portus. / [409] Est medium Cyanes et Pisaeae Arethusae, / quod coit angustis inclusum cornibus aequor. / [411] Hic fuit, a cuius stagnum quoque nomine dictum est, / inter Sicelidas Cyane celeberrima nymphas. / [413] Gurgite quae medio summa tenus exstitit alvo / agnovitque deam. "Nec longius ibitis!" inquit, / "non potes invitae Cereris gener esse: roganda, / [416] non rapienda fuit. Quodsi componere magnis / parva mihi fas est, et me dilexit Anapis: / exorata tamen, nec, ut haec, exterrita nupsi." / [419] Dixit et in partes diversas bracchia tendens / obstitit. Haud ultra tenuit Saturnius iram, / terribilesque hortatus equos in gurgitis ima / contortum valido sceptrum regale lacerto / [423] condidit. Icta viam tellus in Tartara fecit / et pronos currus medio cratere recepit. / [425] At Cyane, raptamque deam contemptaque fontis / iura sui maerens, inconsolabile vulnus / mente gerit tacita lacrimisque absumitur omnis, / et quarum fuerat magnum modo numen, in illas / [429] extenuatur aquas. Molliri membra videres, / ossa pati flexus, ungues posuisse rigorem; / primaque de tota tenuissima quaeque liquescunt, / caerulei crines digitique et crura pedesque: / [433] nam brevis in gelidas membris exilibus undas / transitus est: post haec umeri tergusque latusque / pectoraque in tenues abeunt evanida rivos. / [436] Denique pro vivo vitiatas sanguine venas / lympha subit, restatque nihil, quod prendere possis. / --- vitiatas] =vacuas= (ip. DiVo). --- [438] Interea pavidae nequiquam filia matri / omnibus est terris, omni quaesita profundo. / [440] Illam non udis veniens Aurora capillis / cessantem vidit, non Hesperus. Illa duabus / flammiferas pinus manibus succendit ab Aetna / perque pruinosas tulit inrequieta tenebras. / [444] Rursus ubi alma dies hebetarat sidera, natam / solis ab occasu solis quaerebat ad ortus. / [446] Fessa labore sitim conlegerat oraque nulli / colluerant fontes; cum tectam stramine vidit / forte casam parvasque fores pulsavit: at inde / prodit anus divamque videt, lymphamque roganti / dulce dedit, tosta quod texerat ante polenta. / [451] Dum bibit illa datum, duri puer oris et audax / constitit ante deam risitque avidamque vocavit. / Offensa est neque adhuc epota parte loquentem / cum liquido mixta perfudit diva polenta. / [455] Combibit os maculas, et quae modo bracchia gessit, / crura gerit; cauda est mutatis addita membris; / inque brevem formam, ne sit vis magna nocendi, / contrahitur, parvaque minor mensura lacerta est. /