Teseida delle nozze d'EmiliaBoccaccio, GiovanniConsiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto Opera del Vocabolario ItalianoGiovanni Boccaccio, Teseida delle nozze d'Emilia, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di Vittore Branca, vol. II, Milano, Mondadori, 1964, pp. 253-664 [a cura di Alberto Limentani].Teseida delle nozze d'EmiliaBoccaccio, Giovanni13411339BN-00050tosc.fior.narr.versi 1339-1341
DedicaA Fiammetta. Come che a memoria tornandomi le felicità trapassate, nella miseria vedendomi dov' io sono, mi sieno di grave dolore manifesta cagione, non m' è per tanto discaro il riducere spesso nella faticata mente, o crudel donna, la piacevole imagine della vostra intera bellezza. La quale, più possente che il mio proponimento, di sé e d' amore, giovane d' anni e di senno, mi fece suggetto. E quella, quante volte vi viene, con intero animo contemplando, più tosto celestiale che umana figura esser con meco dilibero; e che essa quello che io considero sia, il suo effetto ne porge argomento chiarissimo, però che ella, con gli occhi della mia mente mirata, nel mezzo delle mie pene ingannando non so con che ascosa soavità l' aflitto core, li fa quasi le sue continue amaritudini obliare, e in quello di se medesima genera un pensiero umilissimo, il qual mi dice: «Questa è quella Fiammetta, la luce de' cui belli occhi prima i nostri accese, e già fece contenti con gli atti suoi gran parte de' nostri ferventi disii». Oh, quanto allora, me a me togliendo di mente, parendomi essere ne' primi tempi, li quali io non immerito ora conosco essere stati felici, sento consolazione! E certo, se non fossero le pronte sollecitudini delle quali la nemica fortuna m' ha circundato, che non una volta ma mille in ogni picciolo momento di tempo con punture non mai provate mi spronano, io credo che così contemplando, quasi gli ultimi termini della mia beatitudine abracciando, morre'mi. Tirato adunque da quello a che, quantunque sia stato lungo lo spazio, appena essere stato mi pare, quale io rimanga, Amore, che i miei sospiri conosce, il può vedere. Il quale, ancora che voi ingiustamente di piacevole sdegnosa siate tornata, però non m' abandona. Né possono né potranno le cose avverse, né il vostro turbato aspetto, spegnere nell' anima quella fiamma la quale mediante la vostra bellezza esso v' accese; anzi essa, più fervente che mai, con isperanza verdissima vi nutrica: sono adunque del numero de' suoi sogetti, com' io solea. Vero è che dove bene avventurato già fui, ora infelicissimo mi ritruovo, sì come voi volete, di tanto solamente appagato che torre non mi potete ch' io non mi tenga pur vostro e ch' io non v' ami, posto che voi per vostro mi rifiutate, e il mio amarvi forse più gravezza che piacere riputiate. E tanto m' hanno oltre a questo le cose traverse di conoscimento lasciato, che io sento che per umiltà ben servendo ogni durezza si vince e merita uom guiderdone. La qual cosa non so se a me s' averrà, ma come che seguir me ne debba, né da sé mi vedrà diviso umiltade,fedel servire stanco giammai. E acciò che l' opera sia verissimo testimonio alle parole, ricordandomi che già ne' dì più felici che lunghi io vi sentii vaga d' udire e tal volta di leggere una e altra istoria, e massimamente l' amorose, sì come quella che tutta ardavate nel fuoco nel quale io ardo - e questo forse faciavate acciò che i tediosi tempi con ozio non fossero cagione di pensier più nocevole - , come volonteroso servidore, il quale non solamente il comandamento aspetta dal suo maggiore, ma quello, operando quelle cose che crede che piacciano, previene, trovata una antichissima istoria e alle più delle genti non manifesta, bella sì per la materia della quale parla, che è d' amore, e sì per coloro de' quali dice, che nobili giovani furono e di real sangue discesi, in latino volgare e per rima, acciò che più dilettasse, e massimamente a voi che già con sommo titolo le mie esaltaste, con quella sollecitudine che conceduta mi fu da l' altre più gravi, disiderando di piacervi, ho ridotta. E che ella da me per voi sia compilata, due cose fra l' altre il manifestano. L' una si è che ciò che sotto il nome dell' uno de' due amanti e della giovane amata si conta essere stato, ricordandovi bene, e io a voi di me e voi a me di voi, se non mentiste, potreste conoscere essere stato detto e fatto in parte: quale de' due si sia non discuopro, ché so che ve ne avvedrete. Se forse alcune cose soperchie vi fossero, il volere bene coprire ciò che non è onesto manifestare da noi due infuori e il volere la storia seguire ne son cagioni; e oltre a ciò dovete sapere che solo il bomere aiutato da molti ingegni fende la terra. Potrete adunque e qual fosse innanzi e quale sia stata poi la vita mia che più non mi voleste per vostro, discernere. L' altra si è il non avere cessata storia né favola né chiuso parlare in altra guisa, con ciò sia cosa che le donne sì come poco intelligenti ne sogliano essere schife, ma però che per intelletto e notizia delle cose predette voi dalla turba dell' altre separata conosco, libero mi concessi il porle a mio piacere. E acciò che l' opera, la quale alquanto par lunga, non sia prima rincresciuta che letta, disiderando di disporre con afezione la vostra mente a vederla, se le già dette cose non l' avessero disposta, sotto brevità sommariamente qui appresso di tutta l' opera vi pongo la contenenza. Dico adunque che dovendo narrare di due giovani nobilissimi tebani, Arcita e Palemone, come, innamorati d' Emilia amazona, per lei combattessero, primamente posta la invocazione poetica, mi parve da dimostrare e donde la donna fosse e come ad Attene venisse, e chi fossero essi e come quivi venissero similemente; laonde sì come premessioni alla loro istoria due se ne pongono. E primamente dopo la invocazione predetta, disegnato il tempo nel quale le seguenti cose furono, la battaglia fatta da Teseo con Ipolita, reina dell' Amazzone, e la cagione d' essa e la vittoria seguitata discrivo; procedendo oltre, come Teseo, presa Ipolita per isposa, con lei insieme Emilia sua sorella triunfando ne menò ad Attene; quinci, acciò che onde e come i due amanti venissero sia aperto, un' altra battaglia, e la felice vittoria di quella seguita, fatta da Teseo co' Tebani, premessa la cagione, si disegna; e, come appare, i due giovani, presi in quella parte del triunfo di Teseo, vennero in Attene. Dove come da lui imprigionati fossero e come e in che tempo d' Emilia s' innamorassono, procedendo si legge; pervenendo poi da questo alla diliberazione fatta d' Arcita a' prieghi di Peritoo e al pellegrinaggio suo in Egina e alla sua vita e alla tornata d' esso sconosciuto ad Attene e al suo dimorar con Teseo; quindi scrivendo qual Palemone rimanesse, come a lui la tornata d' Arcita sotto cambiato nome si discoprisse e come per lo ingegno di Panfilo suo famigliare elli uscisse de la prigione, e la battaglia con lui fatta nel bosco; mostrando apresso come da Emilia prima combattendo veduti, e poi da Teseo, e riconosciuti, manifestandosi essi medesimi, fossero, e quello che Teseo con loro componesse, e la loro tornata in Attene; dichiarando poi qual fosse la vita loro, e l' avenimento di molti prencipi ad una battaglia futura, e i sacrificii fatti e da loro e da Emilia, e poi la loro battaglia e chi vincesse; e dopo a tutte queste cose lo infortunio d' Arcita, il suo triunfo, la liberazione di Palemone, la sponsalizia d' Emilia e la morte d' Arcita si pongono interamente; giungendosi ad esse l' onore publico fattoli da Teseo e dagli altri greci prencipi al sepellire, e il mirabile tempio nel quale le sue ceneri furon poste. E ultimamente come Emilia conceduta fosse a Palemone, e le sue nozze, e de' prencipi la partita finendo si truova. Le quali cose se tutte insieme e ciascuna per sé, o nobilissima donna, da voi con sana mente saranno pensate, potrete quello che di sopra dissi conoscere, e quindi la mia affezione discernendo, potrete il preso orgoglio lasciare, e, lasciatolo, potrete la mia miseria in disiderata felicità ritornare. Ma se pure gravi vi fossero le dette cose e vincesse la vostra altierezza la mia umilità, in questa una sola cosa per suppremo dono addomando, che, dando ad essa luogo, il presente picciolo libretto, poco presento alla vostra grandezza ma grande alla mia picciolezza, tegnate. Questo se 'l fate, alcuna volta ne' miei affanni sarà di rifrigerio cagione, pensando che in quelle dilicate mani nelle quali io più non oso venire, una delle mie cose alcuna volta pervenga. Io procederei a molti più prieghi, se quella grazia la quale io ebbi già in voi non se ne fosse andata; ma però che io del niego dubito con ragione, non volendo che a quello uno che di sopra ho fatto, e che io spero d' ottenere sì come giusto, gli altri nocessono, e sanza essermene niuno conceduto mi rimanessi, mi taccio, ultimamente pregando colui che mi vi diede, allora che io primieramente vi vidi, che se in lui quelle forze sono che già furono, raccendendo in voi la spenta fiamma, a me vi renda, la quale, non so per che cagione, inimica fortuna m' ha tolta.
son. iniz. rubr.Sonetto nel quale si contiene uno argomento generale a tutto il libro.
son. iniz.Nel primo vince Teseo l' Amazone, nel secondo Creon certanamente; nel terzo amore Arcita e Palemone occupa, e 'l quarto mostra la dolente vita d' Arcita uscito di prigione; il quinto la battaglia virilmente da Penteo fatta col suo compagnone, e 'l sesto poi convoca molta gente alla battaglia; il settimo li afrena, l' ottavo l' un di lor fa vincitore, il nono mostra il triunfo e la pena d' Arcita, e l' altro il suo mortal dolore; e l' undecimo Arcita al rogo mena; l' ultimo Emilia dona all' amadore.
L. 1 son. iniz. rubr.Sonetto nel quale si contiene uno argomento particulare del primo libro.
L. 1 son. iniz.La prima parte di questo libretto a chi 'l riguarda mostra apertamente la cagion che Teseo fece fervente dell' Amazone a vengiare il difetto; e come el fosse in Scizia provetto col suo navilio e con l' armata gente, e come il suo scender primamente dall' Amazone gli fosse interdetto; mostrando appresso come discendesse per viva forza, e come combattendo con quelle donne poscia le vincesse, l' assedio poi alla città ponendo; e come a patti Ipolita si desse, con pace lui per marito prendendo.
L. 1 ott. 1 rubr.Incomincia il primo libro del Teseida delle nozze d' Emilia. E prima la invocazione dell' autore.
L. 1 ott. 1O sorelle castalie, che nel monte Elicona contente dimorate, dintorno al sacro gorgoneo fonte, sottesso l' ombra delle frondi amate da Febo, delle quali ancor la fronte spero d' ornarmi, sol che 'l concediate: le sante orecchi a' miei prieghi porgete e quelli udite come voi dovete.
L. 1 ott. 2E' m' è venuto in voglia con pietosa rima di scrivere una istoria antica, tanto negli anni riposta e nascosa che latino autor non par ne dica, per quel ch' io senta, in libro alcuna cosa; dunque sì fate che la mia fatica sia graziosa a chi ne fia lettore o in altra maniera ascoltatore.
L. 1 ott. 3Siate presenti, o Marte rubicondo, nelle tue armi rigido e feroce, e tu, madre d' Amor, col tuo giocondo e lieto aspetto, e 'l tuo figliuol veloce co' dardi suoi possenti in ogni mondo; e sostenete e la mano e la voce di me che 'ntendo i vostri effetti dire con poco bene e pien d' assai martire.
L. 1 ott. 4E voi, nel cui conspetto il dir presente forse verrà com' io spero, ancora quant' io più posso priego umilemente, per quel signor che' gentili innamora, che attendiate con intera mente; voi udirete come elli scolora ne' casi avversi ciascun suo seguace e come dopo affanno e' doni pace.
L. 1, ott. 5E questo con assai chiara ragione comprenderete, udendo raccontare d' Arcita i fatti e del buon Palemone, di real sangue nati, come appare, e amendun tebani, e a quistione, parenti essendo, per soverchio amare Emilia bella, vennero, amazona; donde l' un d' essi perdeo la persona.
L. 1, ott. 6 rubr.Seguita il tempo e la cagione nel quale e per che Teseo, duca d' Attene, andò adosso alla reina delle donne amazone.
L. 1, ott. 6Al tempo che Egeo re d' Attene era, fur donne in Scizia crude e dispietate, alle qua' forse parea cosa fiera esser da' maschi lor signoreggiate; per che, adunate, con sentenzia altiera diliberar non esser soggiogate, ma di voler per lor la signoria; e trovar modo a fornir lor follia.
L. 1, ott. 7E come fer le nepoti di Belo nel tempo cheto alli novelli sposi, così costor, ciascuna col suo telo de' maschi suoi li spirti sanguinosi cacciò, lasciando lor di mortal gielo tututti freddi, in modi dispettosi; e 'n cotal guisa libere si fero, ben che poi mantenersi non potero.
L. 1, ott. 8Recato adunque co' ferri ad effetto lor malvoler, voller maestra e duce che correggesse ciascun lor difetto e a ben viver desse forma e luce; né a tal voglia dier lungo rispetto, ma delle donne che 'l luogo produce elesser per reina en la lor terra Ipolita gentil, mastra di guerra.
L. 1, ott. 9La quale, ancora che femina fosse e di bellezze piena oltre misura, prese la signoria, e sì rimosse da sé ciascuna feminil paura, e in tal guisa ordinò le sue posse, che 'l regno suo e sé fece sicura; né di vicine genti avea dottanza, sì si fidava nella sua possanza.
L. 1, ott. 10Regnando adunque animosa costei, alle sue donne fé comandamento che Greci, Trazii, Egizii o Sabei, né uomini altri alcun nel tenimento entrar lasciasser, se esse avean di lei la grazia cara; ma ciascuno spento di vita fosse che vi s' appressasse, se subito il terren non isgombrasse.
L. 1, ott. 11Se per ventura lì fosser venute femine, di qual parte si volesse, da lor benignamente ricevute comandò fossero e, se lor piacesse d' esser con loro insieme, ritenute dovessono esser, sì che si riempiesse il luogo di color che lì morieno di quelle che d' altronde lì venieno.
L. 1, ott. 12Sotto tal legge più anni quel regno istette, e' porti furon ben guardati, sicché non vi venia nave né legno, o da fortuna o da altro menati che fosser lì, che non lasciasser pegno oltre al parer loro; e malmenati li conveniva del luogo fuggire, se non volevan miseri morire.
L. 1, ott. 13A questo scotto i Greci assai sovente incappavan per lor disaventura; per che a Teseo, allor signor possente, duca d' Attene, spesso con rancura eran posti richiami di tal gente e di lor crudeltate a dismisura; ond' elli, in sé di ciò forte crucciato, propose di purgar cotal peccato.
L. 1, ott. 14Marte tornava allora sanguinoso dal bosco dentro al qual guidati avea, con tristo agurio del re furioso di Tebe, l' aspra schiera, e si tenea lo scudo di Tideo, il qual pomposo della vittoria, sì come potea, ad una quercia l' aveva appiccato cotal qual era, a Marte consecrato.
L. 1, ott. 15E 'n cotal guisa, in Trazia ritornando, si fé sentire al crucciato Teseo, in lui di sé un fier caldo lasciando; e col suo carro avanti procedeo, dovunque giva lo cielo infiammando; poi nelle valli del monte Rifeo, ne' templi suoi posando, si raffisse, sperando ben che ciò che fu seguisse.
L. 1, ott. 16Quinci Teseo magnanimo chiamare li baron greci fé, e lor propose ch' elli intendeva voler vendicare la crudeltà e l' opere noiose delle donne amazone; e a ciò fare richiese lor, nelle cui virtuose opere si fidava; e ciascun tosto rispose sé al suo piacer disposto.
L. 1, ott. 17Commossi adunque i popoli dintorno, qual per dovere e qual per amistate, tutti ad Attene in un nomato giorno si ragunar, con quella quantitate ch' ognun poteva; e, sanza far sogiorno, sopra le navi già apparecchiate cavalli e arme ciascun caricava con ciò che a fare oste bisognava.
L. 1, ott. 18 rubr.Come Teseo co' suoi entrò in mare e andò sopra le donne amazone.
L. 1, ott. 18E quando parve tempo al buon Teseo di navigar vedendol chiaro e bello, tutta la gente sua raccoglier feo con debito dover, sì come quello che altra volta il buon partito e 'l reo avea provato del mar piano e fello; e nel mar col suo stuol tutto si trasse, vento aspettando ch' al gir gli aiutasse.
L. 1, ott. 19Essendo a tal partito sopra l' onde la greca gente bene apparecchiata, la notte che le cose ci nasconde aveva l' aer tututta occuppata; onde alcun dorme, e tal guarda e risponde, e così infino alla stella levata; la qual sì tosto com' ella appario, l' amiraglio dell' oste si sentio;
L. 1, ott. 20e a guardare il ciel col viso alzato tutto si diè, e quindi fé chiamare li marinar, dicendo: - Egli è levato prospero vento, onde mi par d' andare a nostra via, e però sia spiegato ciaschedun vel sanza più dimorare. - E e' fu fatto il suo comandamento, e quindi si partir con util vento.
L. 1, ott. 21 rubr.Come ad Ipolita reina pervenne che Teseo s' apparecchiava d' andarle adosso.
L. 1, ott. 21Ma la corrente fama, che transporta, con più veloce corso ch' altra cosa, qualunque opera fatta, dritta o torta, sanza mai dare alli suoi passi posa, cotal novella tosto la rapporta ad Ipolita bella e graziosa, e in pensier la pon di sua difesa, di mal talento e di furore accesa.
L. 1, ott. 22Ma poi che l' ira alquanto fu affreddata, con utile consiglio immantanente di volersi difendere avvisata, fece chiamar ciascuna, di presente, donna che nel suo regno era pregiata, e tutte a sé venirle tostamente; alle qua' poi in publico consiglio a parlar cominciò con cotal piglio:
L. 1, ott. 23 rubr.Diceria d' Ipolita alle donne sue.
L. 1, ott. 23- Perciò che voi in questo vostro regno coronata m' avete, e' s' appartiene a me di porre e la forza e lo 'ngegno per la salute vostra u' si convene, sanza passar di mio dovere il segno nel prestar guiderdoni o porger pene; ond' io, a ciò sollecita, chiamate v' ho, perché voi e me con voi atiate.
L. 1, ott. 24Non vede il sol, che sanza dimorare dintorno sempre ci si gira, in terra donne quanto voi sete da pregiare; le qua', se 'n ciò il mio parer non erra, per voler virile animo mostrare, contro a Cupido avete presa guerra, e quel ch' a l' altre più piace fuggite, uomini fatti, non femine ardite.
L. 1, ott. 25E che questo sia vero, assai aperto non ha gran tempo ancora il dimostraste, allor ch' amor, né paura, né merto non vi ritenne che voi non mandaste a compimento il vostro pensier certo, quando da servitù vi dilibraste; nell' arme sempre esercitate poi, cacciando ogni atto feminil da voi.
L. 1, ott. 26Ma se mai virile animo teneste, ora bisogno fa, per quel ch' io senta; perciò che voi, sì com' io, intendeste che 'l gran Teseo di venir s' argomenta sopra di noi, avendoci moleste perché nostro piacer non si contenta di quel che l' altre, ciò è suggiacere a gli uomini, faccendo il lor volere.
L. 1, ott. 27Al suo inimicarci altra cagione veder non so, né voi credo veggiate, perciò che mai alcuna offensione ver lui non commettemmo, onde assaltate dovessomo essere; e questa ragione assai è vota di degna onestate, perciò che non fa mal que' che s' aiuta per raver libertà, se l' ha perduta.
L. 1, ott. 28Ma qual che sia la cagion che il mova, a noi il difender resta solamente, sì che non vinca per forza la pruova; laond' io vi richeggio umilemente e priego, se in tal vita vi giova di viver qual noi tegniamo al presente, che l' animo, lo 'ngegno e ogni possa mettiate contro a chi guerra v' ha mossa.
L. 1, ott. 29Né vi metta paura conscienza d' aver peccato negli uomini vostri, ché morte lor la loro isconoscenza lecita impetrò nelli cor nostri, che non stimavan che d' equal semenza con lor nascessim, ma come da mostri, da quercie, over da grotte partorite, eravam poco qui da lor gradite.
L. 1, ott. 30E' si tenevan l' altezze e gli onori sanza participarle a noi giammai, le quali eravam degne di maggiori ch' alcun di loro, a dir lo vero, assai; per che di ciò gl' iddii superiori rison che noi facemmo, e sempre mai n' avranno per miglior, l' altre schernendo che per viltà si van sottomettendo.
L. 1, ott. 31Né vi spaventi il nome di costoro, perch' e' sien Greci; ché non son guarniti di forza divisata da coloro che nel passato fur vostri mariti; se fiere vi mostrate verso loro, e' non saranno inver di voi arditi, ché niun può più ch' un uom, chi ch' el sia; però da voi cacciate codardia.
L. 1, ott. 32Non risparmiate qui, donne, il valore; non risparmiate l' armi, non l' ardire; non risparmiate il morire ad onore; considerate ciò che può seguire dell' esser vigorose o con timore; voi non avrete aguale a far morire padri o figliuo' che vi faccian pietose, ma inimiche genti a voi odiose.
L. 1, ott. 33Ritorni in voi agual quella fierezza che quella notte fu, quando ciascuna mai non usata usò crudele asprezza ne' padri e ne' figliuo'; né sia nessuna che qui, se dell' iddii la forza prezza, istea, per aver nosco equal fortuna; usi pietà altrove, ché qui morta la comando io in ogni donna accorta.
L. 1, ott. 34Ben che forse l' iddii non ne saranno contrarii per la nostra gran ragione; anzi, se giusti son, n' aiuteranno, dimenticando quel, se fu offensione; e se atarci forse non vorranno, il danno suppliran nostre persone contra colui che si move a gran torto per navigare inverso il nostro porto.
L. 1, ott. 35E acciò ch' io non ponga in più parole il tempo, il qual ne bisogna al presente, a ciascheduna che libertà vole ricordo e priego ch' ella sia valente; e a qual morte per libertà dole, dipartasi da noi immantanente; noi varrem molto me' sanza di lei. - E così detto si tacque colei.
L. 1, ott. 36Grande fu tra le donne il favellare, quasi pendendo tutte in tal sentenza: del dover pure a Teseo dimostrare quanta e qual fosse la lor gran potenza, se e' si ardisse a' lor porti appressare; per che, sanza alcun' altra resistenza, sé offerse ciascuna infino a morte alla reina vigorosa e forte.
L. 1, ott. 37 rubr.Come Ipolita, fatta la diceria, guarnì le terre sue.
L. 1, ott. 37Ipolita, poi le proferte intese, sanza dimoro i porti fé guarnire, e le miglior del regno alle difese sanza nessuno indugio fece gire; e in tal guisa armò il suo paese, ch' assai sicura poteva dormire, se soverchio di gente oltre pensata non fosse, come fu, su quello entrata.
L. 1, ott. 38altramenti il cinghiar c' ha sentiti nel bosco i can fremire e' cacciatori, i denti batte e rugghia e gli spediti sentieri a sua salute cerca e, pe' romori ch' egli ha in qua in là in giù e 'n su uditi, non sa qua' vie per lui si sien migliori, ma ora in giù e ora in su correndo, fino al bisogno, incerto, va fuggendo:
L. 1, ott. 39che facesse colei per lo suo regno, in dubbio da qual parte quivi vegna Teseo, o con che arte overo ingegno; onde a gire in ciascuna non disdegna, né di pregar che ciascheduna al segno di quel c' ha imposto ben ferma si tegna; però che, s' a tal punto son vincenti, più non cal lor curar mai d' altre genti.
L. 1, ott. 40 rubr.Come Teseo navigando pervenne nel regno dell' Amazone.
L. 1, ott. 40L' alto duca Teseo, con tempo eletto a suo viaggio, lieto navigava; passando pria Macron sanza interdetto, ad Andro le sue prode dirizzava; il qual lasciato, con sommo diletto pervenne a Tenedòs e quel passava, entrando poi nel mar ch' a l' abideo Leandro fu soave e poscia reo.
L. 1, ott. 41E oltre quel cammin che Frisso tenne allor che la sorella cadde in mare, servò, finch' a Bisanzio pervenne. Quivi fatta sua gente rinfrescare, per picciola stagion vi si ritenne; e come nel mar Tanao ad intrare incominciò, così delle donzelle le terre vide graziose e belle.
L. 1, ott. 42E come leoncel cui fame punge, il qual più fier diventa e più ardito come la preda conosce da lunge, vibrando i crin, con ardente appetito e l' unghie e' denti aguzza infin l' agiunge; cotal Teseo, rimirando espedito il regno di color, divenne fiero, volonteroso a fare il suo pensiero.
L. 1, ott. 43Esso mandò solenni avvisatori a discerner la più leggiera scesa; li qua', mirate dintorno e di fori le rive tutte con la mente intesa, tornarono, avvisati de' migliori dove discender con minore offesa potessero, e al duca il raccontaro; e 'n quella parte lo stuol dirizzaro.
L. 1, ott. 44 rubr.Come Teseo mandò ambasciadori alla reina, e la risposta.
L. 1, ott. 44Quindi Teseo, per due de' suoi baroni, significare ad Ipolita feo la sua venuta e ancor le cagioni; e oltre a questo, sì le concedeo termine a poter fare eccezioni ne' patti fatti a lei, se per men reo consiglio forse le fosse piaciuta la pace, pria che fosse scombattuta.
L. 1, ott. 45Ma di que' patti che e' domandava da lei niun non ne fu accettato; anzi di lui assai si ramarcava pur di quel tanto ch' aveva operato, riprendendol di ciò, che s' impacciava, fuor del suo regno, dell' altrui stato; ma che, s' ella potesse, ancor pentere nel faria tosto; e ciò l' era in calere.
L. 1, ott. 46Tornaron que' con sì fatta risposta qual fu lor data, sanza star niente, e a Teseo davanti l' han proposta; il qual l' udì mal pazientemente, dicendo: - Poco a questa donna costa così risponder; ma certanamente io la trarrò d' error, se 'l cuor non erra. - Quinci gridò: - Signori, ogni uomo a terra! -
L. 1, ott. 47 rubr.Come Teseo, volendo scendere in terra, fosse dalle donne impedito.
L. 1, ott. 47A questa voce i legni fur tirati quasi in sul lito; e voleano smontare, e già le scale ponean, quando, alzati gli occhi, d' un bel castel vicino al mare sopra una montagnetta, onde calati i ponti, genti vidono avvallare bene a cavallo armati, e 'n su la rena in prima fur che 'l vedessero appena,
L. 1, ott. 48e quasi presi d' ogni parte i passi, con gli archi in mano, or qua or là correndo, traendo le saette de' turcassi, con viva forza givan difendendo tagliate avanti fatte, e di gran sassi i balzi a grosse schiere provedendo; Arpalice era questa che 'l facea, a cui commesso Ipolita l' avea.
L. 1, ott. 49Il gran Teseo, magnifico barone, poi che co' suoi alle terre pervenne, vedendole guarnite per ragione, per savie donne en l' animo le tenne; e alquanto mutato d' oppinione, fra mare il suo stuol fermo ritenne; poi fé ciascun de' suoi apparecchiare, pur dilivrando di volervi entrare.
L. 1, ott. 50Poi che ciascun fu bene apparecchiato, inverso il porto si tiraro i legni; e per iscender nel luogo avvisato si fero avanti li baron più degni; e in quel modo ch' avean divisato gittaro in terra scale e altri ingegni; ma troppo fu più forte lor la scesa che non fu divisar cotale impresa!
L. 1, ott. 51Egli eran quasi con le poppe in terra delli lor legni i Greci tutti quanti, e con ogni artificio utile a guerra arditamente si traeno avanti; ma bene era risposto, se non erra la mente mia, a lor da tutti i canti, però che quelle donne saettando forte gli gieno ognora dammeggiando.
L. 1, ott. 52Esse gittavan fuoco spessamente sovra l' armate navi, il quale acceso molto offendeva i Greci; e similmente, con artifici, pietre di gran peso, che rompevan le navi di presente dove giugnean, se non era difeso; e oltre a questo, pece, olio e sapone sopra lo stuol gittavano a fusone.
L. 1, ott. 53Battaglia manual nulla non v' era, perciò ch' ancora non avean potuto prender li Greci di quella rivera parte nessuna; e 'l conforto e l' aiuto del buon Teseo per niente gli era; anzi pareva ciaschedun perduto, di quelle donne mirando le schiere crescere ognora e diventar più fiere.
L. 1, ott. 54Di dardi, di saette e di quadrella non fo menzion, che 'l ciel n' era coverto e occupata tutta l' aere bella, gittando l' uno a l' altro; e per lo certo battaglia non fu mai sì dura e fella, né in alcuna mai tanto sofferto; molti ve ne fedien le donne accorte, ben che di loro alcune fosser morte.
L. 1, ott. 55Grandi eran quivi le grida e 'l romore che le donne faceano e' marinari, tal che Nettunno o Glauco mai maggiore sentito non l' aveano; e' duoli amari, ch' a' marinar feriti gieno al cuore, eran cagion di molto, perché rari ve n' eran che nel capo o nel costato o in altra parte non fosse piagato.
L. 1, ott. 56E 'l sangue lor vedevan sopra l' onde con trista schiuma molto rosseggiare; e male a' Greci l' aviso risponde, poi che così si veggon malmenare; e qual più cuore aveva or si nasconde, temendo delle donne il saettare, perciò ch' ell' eran di cotal mestiere, più ch' altre, somme e vigorose e fiere.
L. 1, ott. 57 rubr.Come Teseo, vedendo a' suoi fare falsa pruova, prima verso Marte e poi a' suoi cavalieri turbato parlò, gittandosi poi solo sopra il lito.
L. 1, ott. 57Teseo che d' alta parte riguardava la falsa punta della greca gente, di rabbia tutto in sé si consumava, maladicendo il duro convenente, e d' ultima vergogna dubitava, e quasi uscia per doglia della mente; per che sdegnoso al cielo il viso tolto, così parlò alto gridando molto:
L. 1, ott. 58- O fiero Marte, o dispettoso iddio, nemico alle nostre armi, io mi vergogno d' aprirti con parole il mio disio; e certo priego per cotal bisogno non averai, né sacrificio pio; ma sanza te la vittoria ch' agogno farò d' avere, o l' alma sanguinosa ad Acheronta n' andrà dolorosa.
L. 1, ott. 59Opera omai in male i tuoi rossori, e contro a me le femine fa forti con l' arte che in Flegra i successori d' Anteo vincesti; e fa che le conforti quanto tu sai, e piovi i tuoi vapori sopra li miei, ch' or fossero e' già morti; però che sol mi credo me' valere che io non fo con tutto lor potere.
L. 1, ott. 60E tu, Minerva, che il sommo loco tra l' iddii tien nella nostra cittade, non aspettar da me altar né foco, né ch' io ti liti bestie in quantitade, né che per te io ordini alcun gioco in onor fatto di tua maestade; aiuta pure a queste le qua' sono teco d' un sesso, e me lascia in bandono. -
L. 1, ott. 61Poi si rivolse a' suoi con vista viva, con piggior piglio, e cominciò a dire: - Ahi, vitupero della gente achiva, ov' è fuggito il vostro grande ardire? È la forza di voi tanto cattiva che molli donne vi faccian fuggire? Tornate adunque nelle vostre case, e qua le donne vengan, là rimase.
L. 1, ott. 62Il chiaro Appollo e 'l cielo e 'l salso mare fien testimoni etterni e immortali del vostro vile e tristo adoperare; e porterà la fama i vostri mali con perpetuo nome, e voi mostrare farà a dito a genti disiguali, dicendo: «Vedi i cavalier dolenti, che vinti fur dall' amazone genti».
L. 1, ott. 63Fuggitevi di qui, vituperati, poi Marte, più che voi, donne sovene; e delli vostri arnesi dispogliati, li lasciate vestire a chi convene; or non v' era e' miglior che onorati di morte aveste sostenute pene, che con vergogna indietro rinculare e a donzelle lasciarvi avanzare?
L. 1, ott. 64Entri nell' armi adunque chi n' è degno (l' altro le lasci che non vole onore) morte pigliando per fuggire sdegno; e a cui piace più con disinore vita che pregio, non segua il mio segno; vivasi quanto vuol sanza valore, ch' io sarò troppo più, solo, onorato ch' essendo da cotali accompagnato.
L. 1, ott. 65Or che avreste voi fatto se avversi vi fosser forse i Centauri usciti o i Lapiti, popoli diversi, turba dolente, o uomini scherniti? Credo nel mar vi sareste sommersi, poiché per donne vi sete fuggiti. Or vi tornate e fate novo duca, e Marte me, sì come vuol, conduca. -
L. 1, ott. 66E questo detto, sotto l' arme chiuso, tirar fe' la sua nave inver lo lito, e sanza scala por ne saltò giuso, né si curò perché fosse ferito da molte parti; ma, come duca uso di tal mestier, più si mostrava ardito,riparando e di sopra e dintorno; e fuor dell' acqua uscì sanza sogiorno.
L. 1, ott. 67Non altramente si gittano in mare li marinari il cui legno già rotto per la fortuna sentono affondare, e chi più può, sanza a gli altri far motto, briga, notando, di voler campare, che' Greci si gittar tutti di botto dietro a Teseo nell' acqua lui vedendo,ben né male al suo dir rispondendo.
L. 1, ott. 68E sì gli aveva vergogna spronati con le parole del fiero Teseo, ch' egli eran presti e arditi tornati; per che ciascun com più tosto poteo, così com' eran tututti bagnati e ta' feriti, al suo duca si feo vicino; e fero in sul lito una schiera subitamente assai possente e fiera.
L. 1, ott. 69 rubr.Come Teseo per battaglia ottenne il lito.
L. 1, ott. 69Fatta la schiera tal quale e' poteano, nel marin lito ov' essi eran discesi, perciò che bene i luoghi non sapeano, né seco avevan tutti i loro arnesi, a lor poter le donne sosteneano, d' alto vigor ne' loro animi accesi, disposti a far gran cose in poca d' ora, pur che le donne lì faccian dimora.
L. 1, ott. 70Le donne in su' cava' forti e isnelli givano armate in abiti dispari (e que' correan come volano uccelli), faccendo spesso li lor colpi amari sentire a' Greci, che ne' campi belli eran discesi a piè non avea guari, or qua or là correndo e ritornando, spesso e rado i Greci molestando.
L. 1, ott. 71Così pugnavano a la morte loro, poi che potuto non avean la scesa con le lor forze vietare a coloro; li qua', sentendo ognor crescer l' offesa, chieser di poter gir, sanza dimoro, dal duca lor, ver quelle in lor difesa; e poi a piè entr' alle donne entraro e a combatter fieri incominciaro.
L. 1, ott. 72E' ferirono a loro arditamente, sì come que' che ben lo sapean fare; e a' lor colpi non valea neente di quelle donne a' colpi riparare; e se non fosse ch' eran poca gente a rispetto del lor multiplicare, tosto l' avrebber del campo cacciate, o morte tutte, over prese e legate.
L. 1, ott. 73Ma il numero di lor, ch' era infinito, ogni ora la battaglia rinfrescava; questo contra Teseo fiero e ardito il campo lungamente sostentava; esso sanza riposo e ispedito ferendo, or qua or là correndo andava, e ammirar di sé ciascun facea che 'n quello stormo mirar lo potea.
L. 1, ott. 74Né altramente infra le pecorelle si ficca il lupo per fame rabbioso, col morso strangolando or queste or quelle, fin c' ha saziato il suo disio guloso, che faceva Teseo tra le donzelle a piè con la sua spada furioso, coperto dello scudo, ognor ferendo, or questa or quella misera uccidendo.
L. 1, ott. 75Così Teseo fieramente andando co' suoi compagni infra le donne ardite, molte ne gian per terra scavallando, e morte quelle e quelle altre ferite lasciando per lo campo, indi montando sopr' a' cava' ch' a redine sbandite, le lor donne lasciate, si fuggieno or qua or là sì come e' potieno.
L. 1, ott. 76E già di lor gran parte eran montati per tal procaccio sopra i buon destrieri, e tutti in sé di ciò riconfortati, contra color ferivan volontieri; e esse, lor vedendo inanimati più ch' al principio non erano e fieri, temendo cominciarono a voltare, e 'l campo a' Greci del tutto lasciare.
L. 1, ott. 77Fuggiensi adunque in quel castel tututte, e dietro ad esse la duchessa loro; e sopra l' alte mura fur ridutte, armate, sanza fare alcun dimoro, fra lor dicendo: - Noi sarem distrutte se a le man pervegnàn di costoro. - E la sconfitta lor quasi non suta, a ben guardar si dier la lor tenuta.
L. 1, ott. 78Era la terra forte, e ben murata da ogni parte, e dentro ben guarnita per sostener assedio ogni fiata, lunga stagion, ch' ella fosse assalita; però ciascuna dentro bene armata non temeva né morte né ferita; chiuse le porti al riparo intendeano e quasi i Greci niente temeano.
L. 1, ott. 79 rubr.Come Teseo, sconfitte le donne e preso il lito, s' acampò.
L. 1, ott. 79Come Teseo le vide fuggire, in un raccolse tutta la sua gente, e comandò che le lasciasser gire; poi fé cercare il campo prestamente, e fece i corpi morti sepellire; e le ferite assai benignamente lasciò andar, sanza ingiuria nessuna, dove piacque di gire a ciascuna.
L. 1, ott. 80E 'n cotal guisa avendo preso il lito con la sua gente, malgrado di quelle, in su un picciol poggio fu salito, dirimpetto al castel delle donzelle; e comandò che quel fosse guarnito, sì che resister si potesse ad elle senza battaglia, infin che scaricate sien le galee e le genti posate.
L. 1, ott. 81Li Greci prestamente scaricaro tutte le navi delli arnesi loro, e altri in brieve il poggetto afforzaro quanto poteron sanza alcun dimoro; dì né notte mai non riposaro, infin ch' ebber fornito lor lavoro; ben fer le donne loro ingombro assai, che d' assalirli non calavan mai.
L. 1, ott. 82Poscia che' Greci furono afforzati sì, che le donne neente temeano, e' legni loro in mar furon tirati per corseggiar dintorno ove poteano, e i feriti furon medicati, e quelli ancor che 'l mar temuto aveano posati fur, parve a Teseo che stare quivi poria più nuocer che giovare.
L. 1, ott. 83Esso, ch' ognor con sollecita cura al suo più presto spaccio più pensava, imaginò che, se 'ntorno alle mura di quella terra il suo campo fermava, e' potrebbe avvenir per l' avventura che sanza utile il tempo trapassava; però che quando pure elli avvenisse, poco avea fatto perché lor vincesse.
L. 1, ott. 84E tornandoli a mente come Alcide a l' Idra, che de' suoi danni crescea, avea la vita tolta, seco vide che là dov' era Ipolita volea sua pruova far; perché, se lei conquide, più contasto nessun non vi sapea; e per cotal pensiero il campo mosse per colà gir dove Ipolita fosse.
L. 1, ott. 85 rubr.Come Ipolita, sentendo la venuta di Teseo, aspettò sicura l' asedio.
L. 1, ott. 85Corse la fama per tutto il paese della sconfitta stata tostamente, per che ciascuna sé alle difese si metteva di sé velocemente; ma quella cui tal cosa più offese Ipolita è da creder certamente; la qual, poi che così la cosa andare vide, propose di volersi atare.
L. 1, ott. 86Né fu stordita per quella sciagura, ma le sue donne a sé chiamò dicendo: - Or ciascuna convene esser sicura, non dico in campo Teseo combattendo, ma in difender ben le nostre mura, le quali ad assalir vien, com' io intendo; perciò che non potrà lunga stagione dimorar qui, per nulla condizione.
L. 1, ott. 87Noi siam di ciò ch' al vivere ha mestiere fornite bene, e la terra è sì forte, che non è sì ardito cavaliere, se al guardar vorremo essere accorte, ch' appressar ci si possa, che pentere non nel facciam forse con trista morte: quando ci fieno stati e vederanno il nostro ardir, per vinti se ne andranno.
L. 1, ott. 88Dunque, se mai amaste libertate, se vi fu caro mai il mio onore, ora mostrate vostra probitate, ora si scopra l' ardire e 'l valore ver chi s' appressa alla vostra cittate per voler noi di quella trarre fore. Etterna fama ora acquistar potete, se ben contra Teseo vi difendete. -
L. 1, ott. 89E questo detto, niente interpose, ma ciò che seco aveva divisato fece, dando ordine a tutte le cose; per le mura ponendo in ogni lato, a guardia, donne savie e valorose, faccendo ancor ciascuno altro apparato ch' a tal cosa bisogna, sempre andando or queste or quelle tutte confortando.
L. 1, ott. 90E per salute ancor delle sue genti gran doni a' templi poi fece portare, l' iddii pregando che negli emergenti casi dovesser lor pietosi atare; quinci, operando tutti altri argomenti ch' a sua difesa potevan giovare, e guarnita così come poteo, con le sue donne aspettò poi Teseo.
L. 1, ott. 91 rubr.Come Teseo assediò Ipolita.
L. 1, ott. 91Poi che Teseo si fu di quel loco partito onde le donne avea cacciate, a la città sen venne in tempo poco, dove Ipolita e molte erano armate; e giurò per Vulcan, dio del foco, di non partirsi mai, se conquistate da lui non fosser per forza o per patti: prima elli e' suoi vi sarebber disfatti.
L. 1, ott. 92E' fé tender trabacche e padiglioni, e afforzar suo campo di steccati, a' cavalier dicendo e a' pedoni che si facesser e tende e frascati; e che niun di lor mai non ragioni di ritornare a' suoi liti lasciati, se Ipolita pria non si vincea, così come con lor proposto avea.
L. 1, ott. 93E' fé drizzar trabocchi e manganelle e torri per combattere a le mura, e fé far gatti, e a le mura belle spesso faceva con essi paura, e con battaglia spesso le donzelle assaliva con sua gente sicura; ma di tal cuor guarnite le trovava, che poco assalto o altro li giovava.
L. 1, ott. 94Elli stette più mesi a tal berzaglio e poco v' acquistò, anzi niente, fuor che paura e onta con travaglio; perché le donne dentro assai sovente di morte si metteano a ripentaglio, predando sopra loro arditamente: cotanto s' eran già assicurate per lo non potere esser soperchiate!
L. 1, ott. 95Di ciò era Teseo assai crucciato, e nel pensiero sempre gia cercando come potesse abbatter loro stato. Un dì avvenne che e' cavalcando a la terra dintorno, fu avvisato ch' ella s' avrebbe sotterra cavando; per che, avendo mastri di tali arti, cavar la fé da una delle parti.
L. 1, ott. 96 rubr.Come Ipolita scrisse a Teseo.
L. 1, ott. 96Quando la donna del cavare intese, dubbiò, e tosto di mura novelle un cerchio dentro più stretto comprese, il qual fer tosto e donne e damigelle; appresso inchiostro e carta tosto prese e con le mani dilicate e belle una pìstola scrisse; e trovar feo due savie donne, e mandolla a Teseo.
L. 1, ott. 97Eran le donne belle e di gran core, con compagnia leggiadra disarmate, vestite in drappi di molto valore; le qua', giunte nel campo, fur menate da' maggior Greci davanti al signore, al quale, assai da lui prima onorate, le lettere lor diero, e la risposta addomandaron graziosa e tosta.
L. 1, ott. 98Teseo le prese assai benignamente, e innanzi a sé chiamati i suoi baroni insieme con molta altra buona gente, disse: - Signori, le donne amazzoni queste lettere mandan veramente; però l' udite, e con belle ragioni lor si risponda. - E poi le fé aprire, e legger sì ch' ognun poteva udire.
L. 1, ott. 99 rubr.Il tenore della lettera mandata da Ipolita a Teseo.
L. 1, ott. 99La lettera era di cotal tenore: «A te, Teseo, alto duca d' Attene, Ipolita, reina di valore, salute, se a te dir si convene, e crescimento sempre di tuo onore, sanza mancar di quel che m' appartiene; e pace con ciascuno, e ancor meco che ho ragion d' aver guerra con teco.
L. 1, ott. 100Io ho veduta la tua gente forte ne' porti miei con isforzata mano, tal ch' essi avrebber paura di morte data a qualunque popol più sovrano, fuor ch' alle donne mie, di guerra scorte più ch' altra gente che al mondo siano; le qua' di que' cacciasti assai superbo, delle qua' meco una parte ne serbo.
L. 1, ott. 101E poi venuto se' ad assediarmi, come nemica d' ogni tuo piacere, e hai più volte provate tue armi a le mie mura, e ancora potere da quelle non avesti di cacciarmi; per che, per adempier lo reo volere c' hai contro a me, la terra fai cavare, per poi potermi sanza arme pigliare.
L. 1, ott. 102Certo di ciò la cagion non conosco, ch' io non ti offesi mai, né son Medea che per invidia ti voglia dar tosco; anzi la tua virtute mi piacea quando si ragionava talor nosco, e di vederti gran disio avea, e ancor disiava tua contezza, tanto gradiva tua somma prodezza.
L. 1, ott. 103Ma di ciò veggo contrario l' effetto, considerando la tua nuova impresa, pensando ch' io non abbia il difetto commesso, e sia subitamente offesa, sanza di te avere alcun sospetto; di che nel core non poco mi pesa, e non men forse per la tua virtute che faccia per la mia propia salute.
L. 1, ott. 104Tu non hai fatto come cavaliere che contro a par piglia debita guerra; ma come disleale uom barattiere subitamente assalisti mia terra, e come vile e cattivo guerriere mai non pensasti, se 'l mio cor non erra, che 'l guerregiar con donne e aver vittoria del vincitore è più biasmo che gloria.
L. 1, ott. 105Ben ti dovresti di ciò vergognare, se figliuol se', com dì, del buono Egeo; né ti dovresti con arme appressare a le mie mura; e già se ne penteo chi ha volute mie forze provare, però che mal sembiante mai non feo nessuna ancora delle mie donzelle, ma tutte sono ardite, prodi e snelle.
L. 1, ott. 106Ma poscia c' hai le tue forze provate, e 'l tuo pensiero hai ritrovato vano, diverse vie hai sotterra trovate per avermi in prigione a salva mano; ma non sarà così in veritate, ché già c' è preso rimedio sovrano; e di combattere in oscura parte non è di buon guerrier mestier né arte.
L. 1, ott. 107Dunque mi lascia in pace per tuo onore, sanza voler più tua fama guastare, ch' io ti perdono ciascun disinore che fatto m' hai o mi volessi fare; e se nol fai, per forza e con dolore io ti farò la mia terra sgombrare; né qui mi troverai qual festi al lito, perch' io ti giucherò d' altro partito».
L. 1, ott. 108 rubr.Come Teseo rispose ad Ipolita, e mostrò alle messaggiere le cave.
L. 1, ott. 108Quando Teseo la lettera ebbe udita, a' suoi baroni e' disse sorridendo: - Beato me, che campata ho la vita mercé di questa donna, ch' amonendo mi manda acciò che mia fama fiorita tra le genti dimori, me vivendo! - Poi si rivolse a quelle donne e disse: - Risposto tosto fia a chi ne scrisse. -
L. 1, ott. 109 rubr.Il tenore della risposta di Teseo.
L. 1, ott. 109E 'n cotal guisa fé scrivere allora: «Ipolita, reina alta e possente, la quale il popol feminile onora, Teseo, duca d' Attene, e la sua gente, salute, quale ella ti bisogna ora, cioè la grazia mia veracemente: una tua lettera e messi vedemmo; per questa ad essa così rispondemo:
L. 1, ott. 110chi 'l nostro popol uccide e discaccia dalle sue terre, a noi fa villania; però s' adoperiam le nostre braccia in far vendetta, grande onor ne fia;viltà nulla i nostri cori impaccia, se sottoterra cerchiam di far via, per tuo orgoglio volere abbassare; ma facciam quel che buon guerrier suol fare,
L. 1, ott. 111cioè prender vantaggio, acciò che' suoi più salvi sieno, e vincasi il nemico; e tosto ci vedrai ne' cerchi tuoi della città, non miga come amico, se non t' arrendi tostamente a noi, uccidendo e tagliando; ond' io ti dico che 'l mio comando facci, e avrai pace, ché in altra maniera non mi piace».
L. 1, ott. 112E poi che l' ebbe scritte e suggellate, le lettere donò alle donzelle, le quali avanti avea molto onorate; e a cavallo poi salì con quelle, e tutte le sue forze ha lor mostrate; e similmente en le cave con elle entrò, e fece lor chiaro vedere le mura puntellate per cadere.
L. 1, ott. 113Poi disse loro: - O messaggiere care, a la reina vostra tornerete, e 'n verità potrete raccontare ciò che apertamente ora vedete; sì che le piaccia di non farmi fare asprezza contro a quantunque voi sete, e contro a lei, la qual mi par valente; ch' io ne sarei poi più di voi dolente. -
L. 1, ott. 114 rubr.Come le damigelle, partendosi da Teseo, tornarono ad Ipolita.
L. 1, ott. 114Le damigelle allor preson commiato, dicendo: - Signor nostro, volentieri. - E nella terra per occulto lato si ritornar, non pe' mastri sentieri; e a la donna lor tutto han contato, ciò c' han veduto infra li lor guerrieri; e poi le lettere hanno presentate, le qua' fur tosto lette e ascoltate.
L. 1, ott. 115Poi che di quelle Ipolita il tenore ebbe compreso, e 'l dir delle donzelle, nel cor sentì gravissimo dolore, e simile sentiron tutte quelle ch' eran presenti, ch' avesser valore, pensose assai e nello aspetto felle; ma dopo alquanto Ipolita, chiedendo con mano udirsi, incominciò dicendo:
L. 1, ott. 116 rubr.Diceria d' Ipolita a le donne sue.
L. 1, ott. 116- Chiaro vedete, donne, a qual partito ci abbian gl' iddii recate, e non a torto. Se di ciascuna qui fosse il marito, fratel, figliuolo o padre che fu morto da tutte noi, non saria stato ardito Teseo mai d' appressarsi al nostro porto; ma perché non ci son, ci ha assaltate, come vedete, e ancora assediate.
L. 1, ott. 117Venere, giustamente a noi crucciata, col suo amico Marte il favoreggia; e tanta forza a lui hanno donata, che contro a nostro grado signoreggia dintorno a noi la città assediata, e come vuole ognora ne dammeggia; e perciò che vie più che noi è forte, se noi non ci rendiam, minaccia morte.
L. 1, ott. 118Però a noi bisogna di pigliare de' due partiti l' un subitamente: o contra lui ancora riprovare le forze nostre in campo virilmente, o a lui, poi ci vuol, ci vogliàn dare, perciò che qui più tenerci niente noi non possiam, ché, come voi udite, le mura tosto in terra vederite.
L. 1, ott. 119E 'l dir che noi con esso combattiamo mi par che sia assai folle pensiero, perciò che tutte quante conosciamo la gente sua e lui ardito e fiero; e se ancora ben ci ricordiamo e con noi stesse vogliam dir lo vero, noi il provammo non ha molto ancora; di che noi ci pentemmo in poca d' ora.
L. 1, ott. 120E oltre a questo, egli ha seco l' aiuto degli alti iddii, che noi han per nemiche; e noi l' avemo assai chiaro veduto, ché orazion, vigilie, né fatiche, forza di corpo o atto proveduto, campar non ci han potuto che mendiche della sua grazia esser non ci convegna, se noi vogliam che 'n vita ci sostegna.
L. 1, ott. 121Però terrei consiglio assai migliore renderci a lui, che del valor mondano, per quel ch' io senta, ha il pregio e l' onore, e è, a chi s' umilia, umile e piano; e già non ci sarà e' desinore se vinte siam da uom così sovrano, perciò ch' ogn' uom per femine ci tiene, come noi siamo, e lui duca d' Attene. -
L. 1, ott. 122Tacquesi qui; ma un gran mormorio infra le donne surse, lei udita, ch' una reputa buono e altra rio cotal consiglio; ma nessuna ardita è di dir contra o d' aprir suo disio; per che cotal sentenzia diffinita per le più sagge fu, che si mandasse chi con Teseo per lor patti trattasse.
L. 1, ott. 123 rubr.Come Ipolita trattò patti con Teseo e poi li si arrendé.
L. 1, ott. 123Poi che cotal sentenzia fu fermata, Ipolita due donne fé venire, Polisto e Dinastora, e informata ebbe ciascuna di ciò c' hanno a dire; e poi che lor libertà ebbe data quanta ne bisognava a ciò fornire, disse: - Omai, donne, a vostra posta andate, ma sanza pace qui non ritornate. -
L. 1, ott. 124Fur costoro a Teseo, e e' con esse; e dopo lungo d' una e d' altra cosa parlar, fermarsi che esso prendesse Ipolita per sua etterna sposa, e che la terra per lui si tenesse, sotto le leggi della valorosa Ipolita reina, e accordarsi con molti altri più patti e ritornarsi.
L. 1, ott. 125Ipolita era a maraviglia bella e di valore accesa nel coraggio; ella sembiava matutina stella o fresca rosa del mese di maggio; giovine assai e ancora pulcella, ricca d' avere, e di real legnaggio, savia e ben costumata, e per natura nell' armi ardita e fiera oltre misura.
L. 1, ott. 126A cui le donne, da Teseo venute, e a molte altre i patti raccontaro, recando a tutte da Teseo salute; il che fu alle più grazioso e caro. E poi che fur le parole compiute, le donne l' arme di botto lasciaro, e ella comandò, per suo amore, ch' a Teseo e a' suoi sia fatto onore.
L. 1, ott. 127 rubr.Come Teseo, fermati i patti, entrò nella città, e ricevuto onorevolemente da Ipolita, la sposò, e i suoi cavalieri sposaro dell' altre.
L. 1, ott. 127Poscia che furono i patti fermati, Teseo co' suoi montati in su' destrieri, i più di loro essendo disarmati, a picciol passo e lieti i cavalieri, sanza contasto en la città menati, nella qual ricevuti volontieri, umili d' essa preser possessione, sanza fare ad alcuna offensione.
L. 1, ott. 128Incontro venne, sopra un bel destriere, al suo Teseo Ipolita reina, e più bella che rosa di verziere con lei veniva una chiara fantina, Emilia chiamata, al mio parere, d' Ipolita sorella picciolina; e dopo lor molte altre ne venieno, ornate e belle quanto più poteno.
L. 1, ott. 129E 'n cotal guisa con solenne onore ricevetter Teseo e la sua gente; né fu guari di lì lontano Amore, ma co' suoi dardi molte prestamente e molti ancora ne ferì nel core. E' se ne andaron tutti lietamente fino al palagio, e quivi dismontaro, e in su quel Teseo accompagnaro.
L. 1, ott. 130Egli era bello e d' ogni parte ornato di drappi ad oro e d' altri cari arnesi, per ogni cosa ricco e bene agiato; ma Teseo gli occhi non teneva attesi a ciò guardar, ma il viso dilicato d' Ipolita mirando, con accesi sospir dicea: « Costei trapassa Elena, cui io furtai, d' ogni bellezza piena».
L. 1, ott. 131Elli avea già nel cor quella saetta la qual Cupido suole aver più cara; e seco nella mente si diletta d' aver per cotal donna tanta amara fatica sostenuta; e lieto aspetta d' avere in braccio quella stella chiara, parendoli colei assai più degno acquisto che tututto l' altro regno.
L. 1, ott. 132Le donne avevan cambiati sembianti, ponendo in terra l' arme rugginose, e tornate eran quali eran davanti, belle, leggiadre, fresche e graziose; e ora in lieti motti e dolci canti mutate avean le voci rigogliose, e' passi avevan piccioli tornati, che pria nell' armi grandi erano stati.
L. 1, ott. 133E la vergogna, la qual discacciata avean la notte orribile, uccidendo li lor mariti, loro era tornata ne' freschi visi, gli uomini vedendo; e sì era del tutto transmutata la real corte, a quel che prima, essendo sanza uomini le femine, parea, ch' appena alcuna di loro il credea.
L. 1, ott. 134Ripresi adunque i lasciati ornamenti, di Citerea il tempio fero aprire, serrato ne' lor primi mutamenti; lì fé Teseo Ipolita venire; e dati sacrifici reverenti a Venere, sposò con gran disire Ipolita, l' aiuto d' Imeneo chiamando quivi i baron di Teseo.
L. 1, ott. 135Molte altre donne a greci cavalieri si sposarono allora lietamente, e per signor li preser volontieri, com' avean gli altri avuti primamente; con iuramenti santissimi e veri lor promettendo che, al lor vivente, nella prima follia non tornerieno e che lor cari sempre mai avrieno.
L. 1, ott. 136Tra l' altre belle vedove e donzelle che fossero in quel loco, una ve n' era che di bellezze passava le belle, come la rosa i fior di primavera; la qual Teseo, vedendola tra quelle, fé prestamente domandar chi era. Detto li fu: - Sorella alla reina, Emilia nominata è la fantina. -
L. 1, ott. 137Piacque a Teseo la bella donzelletta non men che alcuna altra che vi fosse, ancor che li paresse giovinetta; e nella mente sua seco proposse che ad Acate, sua cosa distretta, per moglie la darà; quindi si mosse, e al palagio real ritornaro, dove pien di letizia ogn' uom trovaro.
L. 1, ott. 138Le nozze furon grandi e liete molto, e più tempo durò il festeggiare, e ciascun dalla sua fu ben raccolto, e a tutti pareva bene stare, perché fortuna avea cambiato volto; e le donne sapeano or che si fare, sé ristorando del tempo perduto mentre nel regno non era uomo issuto.
L. 1, explicitQui finisce il libro primo.
L. 2, son. iniz. rubr.Sonetto nel quale si contiene l' argomento particulare del secondo libro.
L. 2, son. iniz.Questo secondo mostra il ritornare che fé Teseo di Scizia vincente; e delle Greche il tristo lagrimare, col priego insieme d' Evannès dolente; per lo qual, sanza del carro smontare, con picciola orazione a la sua gente persuadendo, si mosse ad andare contra Creon, re di Tebe possente; e come, in campo vinto, a lui la vita tolse e a' corpi fé dar sepoltura, avendo Tebe a le donne largita; e poi, feriti, per loro sciagura, presi da lui Palemone e Arcita mostra, mettendo poi loro in chiusura.
L. 2, ott. 1 rubr.Incomincia il libro secondo di Teseida. E prima perché e come Teseo si partisse di Scizia per tornare ad Attene con Ipolita e con Emilia.
L. 2, ott. 1Il sole avea due volte dissolute le nevi en gli alti poggi, e altrettante Zeffiro aveva le frondi rendute e i be' fiori alle spogliate piante, poi che d' Attena s' eran dipartute le greche navi, Africo spirante, da cui Teseo co' suoi furon portati nelli scitichi porti conquistati;
L. 2, ott. 2quando esso con la sua novella sposa in lieta vita e dolce dimorava, sanza pensiero d' alcuna altra cosa, e appena d' Atene si curava; ma il piacer divin più gloriosa vittoria assai che quella li serbava; onde li fé nuova vision vedere, per che del ritornar li fu in calere.
L. 2, ott. 3Nel dolce tempo che il ciel fa belle le valli e' monti d' erbette e di fiori, e le piante riveste di novelle frondi, sopra le quali i loro amori cantan gli uccelli, e le gaie donzelle di Citerea più senton gli ardori, era Teseo da dolce amor distretto, in un giardin, pensando a suo diletto.
L. 2, ott. 4Nel qual da una parte solo stando, gli parve seco con viso cruccioso tener per man Peritoo ragionando, dicendo a lui: - Che fai tu ozioso con Ipolita in Scizia dimorando, sotto amore offuscando il tuo famoso nome? Perché in Grecia oramai non torni, ove più gloria avrai assai?
L. 2, ott. 5Èssi da te quell' animo gentile, ch' ancor simile ad Ercul prometteva di farti, dipartito? Se' tu vile tornato nella tua età primeva? E stando entra la turba feminile, la tua prodezza, la qual già sapeva ciaschedun regno, hai qui messa in oblio d' Ipolita nel grembo e nel disio? -
L. 2, ott. 6A cui Teseo volendo dar risposta e iscusar la sua lunga dimora, subito agli occhi suoi si fu nascosta la imagine di quel che parlava ora; per che e' dubbioso col passo si scosta dal loco ove era, a sé mirando ancora dintorno, per veder se el vedea colui che quivi parlato gli avea.
L. 2, ott. 7Ma poi che la paura luogo diede a l' animal vertù, si ruppe il velo della 'gnoranza, e con intera fede, che non lì Peritoo, ma che dal cielo, da qualche deità la qual provede al suo onor con caritevol zelo, era venuto cotal ragionare; onde pensò ad Atene tornare.
L. 2, ott. 8Ad Ipolita adunque il suo volere con donnesco parlar fé manifesto; la qual rispose ad ogni suo piacere essere apparecchiata e anche a questo; ond' elli, allor ch' a lui fu in parere, il suo navilio fé preparar presto, e poi dispose del regno lo stato, per modo che alle donne fu a grato.
L. 2, ott. 9E fatto questo, entrò sanza dimoro in mare, e 'nsieme Ipolita reina; e tra più donne ne menar con loro la bella Emilia, stella matutina; quindi spirando tra Borea e Coro ottimo vento da quella marina li tolse, lor portando verso Attene il più del tempo con le vele piene.
L. 2, ott. 10 rubr.Transgressione dalla propria materia, per mostrare qual fosse la cagione per la quale Teseo andasse contra Creonte.
L. 2, ott. 10Ma Marte, il quale i popoli lernei con furioso corso avea commossi sopra' Tebani, e' miseri trofei donati avea de' prencipi percossi più volte già, e de' Greci plebei ritenuti talvolta e tal riscossi, con asta sanguinosa fieramente trista avea fatta l' una e l' altra gente;
L. 2, ott. 11perciò che, dopo Anfiorao, Tideo stato era ucciso, e 'l buono Ippomedone, e similmente il bel Partenopeo, e più Teban, de' qua' non fo menzione, innanzi e dopo al fiero Campaneo; e dietro a tutti, in doloroso agone, Etiocle e Polinice, ferito, morti, e Adastro ad Argo era fuggito;
L. 2, ott. 12onde 'l misero regno era rimaso voto di gente e pien d' ogni dolore; ma in picciola ora da Creonte invaso fu, che di quel si fé re e signore, con tristo agurio, e 'n doloroso caso recò insieme e 'l suo regno e l' onore per fiera crudeltà da lui usata, mai da nullo altro davanti pensata.
L. 2, ott. 13Esso, con fiero cuor li Greci odiando, poi che fur morti in lor l' odio servava, per ch' elli avea con gravissimo bando vietato a chi sua grazia disiava, ch' a nullo corpo quivi morto stando fuoco si desse, e 'mputridir lasciava lor sozzamente sanza sepoltura qual delle fiere pria non fu pastura.
L. 2, ott. 14Onde le donne argoliche, le quali venien dolenti a far lo stremo ofizio con somma maestà di tutti i mali, anzi giungesser quivi, ebbero indizio dello editto crudele; e però tali quali eran, triste di tal malefizio, proposer con le lagrime pregare Teseo a tale ingiuria vendicare.
L. 2, ott. 15E quindi i passi ad Attena drizzaro, atate dal dolor nella fatica; e a quella venute, con amaro segno mostrar la fortuna nemica. Gli Atteniesi assai si marvigliaro di quella turba, d' ogni ben mendica, e domandaron di ciò la cagione, perché venute e di qual regione.
L. 2, ott. 16I qua', poscia ch' udir la nobiltate di quelle donne e la cagion del pianto, con tenerezza lor prese pietate di veder loro in tormento cotanto; e gli alti cittadini apparecchiate proferser lor le case d' ogni canto, finché Teseo in Attene tornava, che d' ora in ora in essa s' aspettava.
L. 2, ott. 17Esse non voller da nessuno onore, ma solo il tempio cercar di Clemenza, e in quel con gravissimo dolore istanche e lasse fecer residenza, aspettando con lagrime il signore, assai crucciose della sua assenza; e le donne atteniesi in compagnia di loro stetter quivi tuttavia.
L. 2, ott. 18 rubr.Come Teseo ritornò triunfando in Attene, e la festa che vi si fece.
L. 2, ott. 18Teseo, con vento fresco a suo viaggio, contento ritornava inverso Attene con gran partita del suo baronaggio e con colei che 'l suo cuor guida e tene, Ipolita reina; e 'l suo passaggio tosto fornito fu e sanza pene;prima giunto fu alla marina che si seppe in Attene, la mattina.
L. 2, ott. 19Gli Atteniesi, che lui attendieno con gran disio, per la sua ritornata mirabil festa preparata avieno, la qual fu incontanente incominciata; secondo il lor poter, ch' assai potieno, fu la lor terra tutta quanta ornata di drappi ad oro e d' altri paramenti, con infiniti canti e istrumenti.
L. 2, ott. 20Quanto le donne allor fossero ornate, ne' teatri, ne' templi e a' balconi e per le vie mostrando lor biltate, nol potrieno spiegare i miei sermoni; la lor presenzia tal solennitate facea maggior per diverse ragioni; e 'n brieve in ogni parte si cantava e con somma allegrezza si festava.
L. 2, ott. 21Gli alti suoi cittadini apparecchiare li fero un carro ricco e triunfale, il qual gli fer là dov' era menare; né altro ne fu mai a quello equale veduto per alcuno; e apprestare li fer con esso vesta imperiale e corona d' allor, significante che per vittoria venia triunfante.
L. 2, ott. 22Teseo adunque, come fu smontato di mare in terra, in sul carro salio, degli ornamenti reali addobbato; e sopra quello appresso il suo disio, Ipolita, gli stette dall' un lato, da l' altro Emilia fu, al parer mio; poi l' altre donne e' cavalier con loro a cavallo il seguir sanza dimoro.
L. 2, ott. 23In diverse brigate festeggiando, a cavallo e a piè erano andati gli Atteniesi inver di lui cantando, di varii vestimenti divisati, con infiniti suoni ogn' uom festando, e con esso in Attene rientrati: diritto andò al tempio di Pallade a reverir di lei la deitade.
L. 2, ott. 24Quivi con reverenza offerse molto, e le sue armi e l' altre conquistate; e poi per altra via il carro volto, alquanto circuendo la cittate, con infinito d' uomini tomolto, ovunque gia, con grida eran lodate l' opere sue magnifiche, e con gloria le dicean degne d' etterna memoria.
L. 2, ott. 25 rubr.Come a Teseo si fero incontro le donne greche piagnendo.
L. 2, ott. 25E mentre ch' elli in cotal guisa giva, per avventura davanti al pietoso tempio passò, nel quale era l' achiva turba di donne in abito doglioso; la qual udendo che quindi veniva, su si levar con atto furioso: con alte grida e pianto e gran romore pararsi innanzi al carro del signore.
L. 2, ott. 26- Chi son costor ch' a' nostri lieti eventi co' crini sparti, battendosi il petto, di squalor piene in atri vestimenti, tutte piangendo, come se 'n dispetto avesson la mia gloria, a l' altre genti, sì com' io veggo, cagion di diletto? - , disse Teseo stupefatto stando; a cui una rispose lagrimando:
L. 2, ott. 27- Signor, non ammirar l' abito tristo che 'nnanzi a tutti ci fa dispettose,creder pianger noi del tuo acquisto, né d' alcun tuo onore esser crucciose; ben che l' averti in cotal gloria visto pe' nostri danni ne faccia animose a pianger più che non faremmo forse, essendo pur dal primo dolor morse. -
L. 2, ott. 28- Dunque chi sete? - disse a lor Teseo, - e perché sì nella publica festa sole piangete? - Allora oltre si feo Evannès, più che nessuna altra mesta, dicendo: - Isposa fui di Campaneo, e qualunque altra ancora vedi in questa turba, di re fu moglie o madre o suora o figlia; e aprirotti che ci accora.
L. 2, ott. 29La perfida nequizia del tiranno figliuol d' Edippo, contro a Polinice, suo unico fratello, e 'l fiero inganno del regno, degli Argivi lo 'nfelice esercito tirò al suo gran danno, che è maggiore assai che non si dice, davanti a Tebe, dove trista sorte ciascuno alto baron tolto ha con morte.
L. 2, ott. 30E dove noi, invano, speravamo con quello onor vederli ritornare alle lor terre ch' agual te veggiamo nella tua laurato triunfare, nell' abito dolente in che noi siamo a sepellirli ci conviene andare; ma l' aspra tirannia di que' c' ha preso il regno dietro a lor ci ha difeso.
L. 2, ott. 31Il perfido Creon, a cui più dura l' odio ch' a' morti non fece la vita, a' greci corpi nega sepoltura (crudeltà, credo, non mai più udita), e di qua l' ombre a la padule oscura di Stigia ritiene; onde infinita doglia ci assal tra gli altri nostri mali, sentendoli mangiare agli animali.
L. 2, ott. 32Pietose adunque a questo estremo onore voler donar, d' Acaia ci movemmo; ma come a noi contato fu il tenore di tale editto, i passi qua volgemmo, e porger prieghi a te, pio signore, di tale oltraggio con noi proponemmo; i qua' l' abito nostro per noi doni a te in prima, e poi a' tuoi baroni.
L. 2, ott. 33Se alto valor, come crediam, dimora in te, a questo punto sie pietoso; tu n' averai alto merito ancora, e oltre a ciò, ciò che uom virtuoso de' far, farai. Deh, s' altro da te infora far lo volesse, en dovresti cruccioso essere e impedirlo, acciò ch' avessi la gloria tu di punir tali eccessi.
L. 2, ott. 34Deh, se l' abito nostro e il lagrimare non ti movon, né prieghi, né ragione a far che 'l pio oficio possiam fare, movati almen la trista condizione di que' che già fur re; non gli lasciare nella futura fama in dirisione: e' furon teco già d' un sangue nati, e come te ancor Greci chiamati. -
L. 2, ott. 35Le lagrime non eran mai mancate, perché parlasse, agli occhi di costei, ma sempre in quantità multiplicate; e 'l simile era a l' altre dietro a lei, le qua' con forza avean messa pietate in ciaschedun di que' baroni attei; per che con seco ognun forte dannava la crudeltà la qual Creon usava.
L. 2, ott. 36Teseo attento le parole dette racogliea tutte, l' abito mirando di quelle donne, e ben che lor neglette vedesse, chiaro assai, seco stimando, la maestà nascosa conoscette; e greve duol nel cor gli venne quando udì de' re la morte; e dopo alquanto così rispose al doloroso canto:
L. 2, ott. 37 rubr.La risposta di Teseo alle donne greche.
L. 2, ott. 37- L' abito oscuro e 'l piangere angoscioso, e 'l voi conoscer pe' vostri maggiori, e 'l ricordarmi il vostro esser pomposo, gli agi e' diletti e' regni e' servidori e de' re vostri il regnar glorioso, hanno trovato ne' miei sommi onori luogo a' vostri prieghi, e la mutata fortuna trista di lieta tornata.
L. 2, ott. 38Io vorrei ben poter nel primo stato e in vita li vostri re tornare, com' io credo poter far che fia dato onor di sepoltura a cui donare vel piacerà; e l' orgoglio abbassato di colui fia che ciò vi vuol negare; però, se a male avuto può conforto vendetta porger, per me vi fia porto.
L. 2, ott. 39Fortificate gli animi dolenti con isperanza buona, ch' io vi giuro, prima che io o' miei baron possenti ci riposiam d' Attene dentro al muro, di ciò faremo interi esperimenti; e io son già di vittoria sicuro, non tanto avendo in mie forze fidanza, quanto mi dà di Creon la fallanza. -
L. 2, ott. 40 rubr.Come Teseo dispose Ipolita ed Emilia del carro, per gire a Tebe.
L. 2, ott. 40E detto questo, con benigno aspetto si rivolse ad Ipolita, dicendo: - Bene hai udito, donna, ciò c' han detto queste donne reali a noi piangendo: priegoti adunque non ti sia dispetto se al presente a lor giustizia intendo. Dismonta, e col mio padre ti starai finché tornato me qui vederai. -
L. 2, ott. 41A cui così Ipolita rispose: - Caro signor, ben ch' io sia amazona, io non son sì crudel, ch' a cota' cose volentier non mettessi la persona per vendicarle, sì son dispettose, se vero è ciò che delle donne sona il tristo ragionar, sol ch' io credesse che 'n ciò il mio portare arme ti piacesse.
L. 2, ott. 42Però, signor, secondo il tuo piacere opera omai, e s' elli è di tal fretta qual esse dicon, non soprasedere; va e fa ciò ch' al tuo onore aspetta, ché ciò m' è più ch' altra gioia in calere. - E questo detto, intra la turba eletta di molte donne che l' accompagnaro, essa e Emilia del carro smontaro.
L. 2, ott. 43Poi che Teseo le donne ebbe posate del carro suo, tenendo il viso fitto nella miseria delle sconsolate, da intima pietà nel cor trafitto, sopra 'l carro si volse a le pregiate schiere de' suoi sanz' altro alcun respitto; e con voce alta, di furore acceso, parlò sì che da tutti fu inteso:
L. 2, ott. 44 rubr.Diceria di Teseo a' cavalieri suoi per andare sopra Creonte.
L. 2, ott. 44- Tanto è nel mondo ciascun valoroso, quanto virtute li piace operare; dunque ciascun di vivere ozioso si guardi che in fama vuol montare; e noi, acciò che stato glorioso intra' mondan potessimo acquistare, venimmo al mondo, e non per esser tristi come bruti animali e 'ntra lor misti.
L. 2, ott. 45Adunque, cari e buon commilitoni che meco in tante perigliose cose istati sete in dubbie condizioni, per far le vostre memorie famose a le future nuove nazioni, ora li cuori all' opre gloriose vi priego dispognate, né vi caglia prender riposo d' avuta travaglia.
L. 2, ott. 46Udito avete tutti, sì com' io, ciò che le donne ne dicon presenti; certo ciascun ne dovrebbe esser pio, e al vengiar dovreste esser ferventi, ché l' aspre nimistà e il disio del nuocer debbon ciaschedune genti lasciare e obliar, poi l' uomo è morto; ma or Creon fa nuovo a' morti torto.
L. 2, ott. 47Andiamo adunque, e lui, fiero Creonte, umil facciàn con le spade tornare, sì che e' lasci l' ombre ad Acheronte, poi fien sepulti i corpi, trapassare; noi non andiamo acciò che a Demofonte rimanga regno, a l' altrui usurpare, ma a ragion rilevare in sua gloria; per che l' iddii ne daranno vittoria. -
L. 2, ott. 48E' non fu più lasciato avanti dire, ch' un romor surse che il ciel toccava: - Tutti siam presti di voler morire dintorno a te, e già molto ne grava che 'nver Creonte non prendiamo a gire, poi ch' opera commette così prava: voi vederete nell' operar nostro, signor, se ci fia caro l' onor vostro. -
L. 2, ott. 49 rubr.Come Teseo andò contra Creonte, re di Tebe.
L. 2, ott. 49Teseo adunque, sanza rivedere il vecchio padre o parente o amico, uscì d' Attene, né li fu in calere d' Ipolita l' amor dolce e pudico, né altro alcun riposo, per potere gloria acquistar sopra 'l degno nemico; e com' elli era entrato nella terra, così n' uscì a la novella guerra.
L. 2, ott. 50Le 'nsegne, che ancora ripiegate non eran, si drizzaron di presente; e' cavalier con le schiere ordinate, dietro a la sua ciascuno acconciamente, ne givano, e le donne sconsolate lor precedean, di ciò molto contente; e dopo giorno alcun giunsero a Tebe, e fermar campo in su le triste glebe.
L. 2, ott. 51Sentì Teseo l' aere corrotto pe' corpi ch' eran senza sepoltura; onde mandò a Creonte di botto che e' lasciasse aver de' morti cura, o s' aprestasse, sanza più dir motto, della battaglia dispietata e dura. I messi andaro e fecer l' ambasciata; a' qua' Creon cotal risposta ha data:
L. 2, ott. 52- Dite a Teseo ch' io sono apparecchiato della battaglia, e ch' elli avrà a fare con franco popol tutto bene armato, e non si creda qui donne trovare, come in altra parte egli ha trovato; e però venga, qualora gli pare, che' corpi fuoco non avranno, e esso giacer farò con loro assai di presso. -
L. 2, ott. 53Il buon Teseo la risposta intese superba assai, della quale e' si rise; e al pian campo con li suoi discese, e in tre parti tutti i suoi divise, e fece loro il loro affar palese; quindi davanti a tututti si mise; e bene in concio ne gir ver Creonte, che con sua gente lor veniva a fronte.
L. 2, ott. 54 rubr.La battaglia intra Teseo e Creonte, e come Teseo fu vincitore.
L. 2, ott. 54Allora trombe, nacchere e tamburi sonaron forte d' una e d' altra parte; fremivano i cavalli, e i securi cavalier tutti gridavano: - O Marte, or si parranno li tuoi colpi duri, ora conoscerassi la tua arte. - Allora lance e saette pungenti cominciarsi a gittar tra le due genti.
L. 2, ott. 55E' cavalieri insieme si scontraro con tal romore e con sì gran tempesta, che 'nsino al ciel le voci risonaro; e con le lance ciaschedun s' infesta di vender bene il romper quelle caro; poi con le spade battaglia molesta incominciar, dove molti moriro nel primo assalto che 'nsieme feriro.
L. 2, ott. 56Il buon Teseo, sopra un alto destriere, con una mazza in man pel campo andava ferendo forte ciascun cavaliere e abbattendo cui elli incontrava, e spesso confortando le sue schiere: col suo ben far tutti l' incoraggiava, porgendo arme sovente a chi l' avesse perdute e rimontando chi cadesse.
L. 2, ott. 57E ben vedea chi con tremante mano moveva i ferri, e chi arditamente sovra' nemici suoi valor sovrano combattendo mostrava, e chi niente pigro operava dimorando invano; li qua' gridando spregiava vilmente, lodando gli altri, e per nome chiamando or questo or quel, gli giva confortando.
L. 2, ott. 58Da l' altra parte il simile facea Creonte, come ardito conduttore, e quasi in sé del nemico credea sanza alcun fallo farsi vincitore. L' un contra l' altro ben si difendea arditamente e con sommo valore; ma sì andando, insieme si scontraro Creon e 'l buon Teseo, e si sgridaro.
L. 2, ott. 59Corsorsi adosso li due cavalieri, chiusi nell' armi, e valorosamente si cominciaro a ferire i guerrieri, com' uomin che s' odiavan mortalmente, e come que' ch' avrebber volentieri l' un l' altro a morte dato certamente; e già co' colpi tutte magagnate s' avevan l' armi, e le carni tagliate.
L. 2, ott. 60Teseo di cruccio tutto quanto ardeva, vedendo di Creon il gran durare, e fra se stesso fremendo diceva: - Deh, de'mi questi a la fine menare? - Poi tutte in sé sue forze raccoglieva, e furioso li si lascia andare adosso, e lui per sì gran forza fiere, che lì il gittò per morto del destriere.
L. 2, ott. 61Teseo allora da caval discese, dicendo: - O fier tiranno, or è venuto il dì che 'l tuo mal viver tanto attese; ora sarà tuo fallo conosciuto, or fien punite le già fatte offese da te, or fia il tuo viver compiuto; e le tue arme io sacrerò a Marte, benigno iddio a me in ogni parte.
L. 2, ott. 62E' corpi contra i qua' fosti spietato arsi saranno, e 'l tuo regno distrutto, e 'l nome tuo di memoria privato; e a le donne, a cui cagion di lutto fosti, sarà il tuo corpo donato, ch' esse ne facciano il lor piacer tutto: così la tua superbia fia abbattuta, ch' a rispondermi fu cotanto arguta. -
L. 2, ott. 63Non spaventar le parole Creonte, perch' abattuto si vedesse in terra, né sembianza mutò l' ardita fronte,mitigossi nel cuor la sua guerra; anzi più fiero, e con parole pronte, aspra risposta parlando diserra a que' che sopra il petto fier li stava e col suo ferro morte gli aprestava;
L. 2, ott. 64dicendo a lui: - Fanne tuo piacere, pur che io muoia avanti che vittoria io veggia a te e a tua gente avere; ché l' alma mia almeno alcuna gloria ne porterà con seco nel parere, e segnato terrà nella memoria che 'n dubbio i tuoi e' miei lascio d' onore; e credo che li miei hanno il migliore.
L. 2, ott. 65Questo ne porterò a l' infernali iddii, quasi contento; e se e' fia il corpo mio donato agli animali sanz' altro foco, ciò l' alma disia; però che parte delli miei gran mali di qua dalla riviera oscura e ria, la qual vuo' far passare a' regi morti, io celerò, se non fia chi men porti.
L. 2, ott. 66Or fa omai quel che più t' è in grato, ch' io non men curo. - E tacque; e intratanto l' avea Teseo già tutto disarmato, e quasi tutto del sangue e del pianto il vide il duca nel viso cambiato; e già era freddato tutto quanto: per che conobbe l' anima dolente esser partita dal corpo spiacente.
L. 2, ott. 67Il quale e' lasciò quivi, e risalio sopra 'l destriere, e fra' suoi ritornossi; e tutto quanto ardendo nel disio d' aver vittoria, focoso ficcossi tra li nemici, e 'l primo che ferio a li suoi piedi morto coricossi; e 'l simil fece a' più degli altri fare, per che nessun l' ardiva d' aspettare.
L. 2, ott. 68E' suoi facevan nell' armi gran cose, contra' nemici gran forze mostrando; e per lo campo le genti orgogliose uccidendo, ferendo e scavallando andavan, pur pensando a le pietose donne ch' avean vedute lagrimando; tal che non li potean più sofferire li Teban, salvo chi volea morire.
L. 2, ott. 69E d' altra parte già saputo aveno del lor signor la morte dolorosa, per che che farsi tra lor non sapeno; laonde in fuga trista e angosciosa, sì come gente che più non poteno, si volser tutti, ché nessun non osa volversi indietro o insieme aspettarsi, tanto di presso vedean seguitarsi.
L. 2, ott. 70I miseri cacciati non fuggiro nella città per quivi aver riparo, ma per li monti Ogigii se ne giro, chi per lo bosco ove Tideo assediaro, e qua' su Citeron se ne saliro, altri ne' cavi monti s' appiattaro; e 'n cotal guisa con greve dolore tutti fuggir davanti al vincitore.
L. 2, ott. 71Questo vedendo, i cittadin tebani, le donne e' vecchi e' piccioli figliuoli rimasi in quella miseri e profani, di quella usciron faccendo gran duoli, li suoi seguendo pe' luoghi silvani; e così tristi per diversi stuoli lasciar di Bacco e d' Ercule la terra nelle man di Teseo in tanta guerra.
L. 2, ott. 72Al buon Teseo non piacque seguitare que' che fuggien, ma tosto se ne gio inver la terra, de la qual nello entrare nessuno incontro con arme gli uscio. Passato adunque dentro, ad ammirare cominciò i templi di qualunque iddio, l' antiche rocche di Cadmo cercando, e l' altre cose mire riguardando.
L. 2, ott. 73E poi ch' egli ebbe vedute le cose magnifiche a ciascun quelle guardante, fuor se n' uscì, e a le sue vogliose genti di rubar quella rimirante licenzia diè; ver è ched elli impose che tutte salve sien le case sante delli tebani iddii: per che cercata fu tosto tutta e per tutto rubata.
L. 2, ott. 74 rubr.Come Teseo fé sepellire Creon, e concedette a le donne d' andare a sepellire cui esse volessero, concedendo loro, oltre a questo, Tebe.
L. 2, ott. 74Teseo sé veggendo vincitore, sopra Asopo il suo campo fé porre, e de' vincenti chetato il romore, del campo il corpo di Creon fé torre, e con esequie degne grande onore li fé, e fé la cenere riporre dentro ad una urna, e poscia di Lieo nel tempio in Tebe collocar la feo,
L. 2, ott. 75dicendo: - I' vo' che all' ombre infernali possi di me miglior testimonianza render, che quelli eccelsi e gran reali, a' qua' negavi con grande arroganza gli ultimi onori e' fuochi funerali, di te non posson, per la tua fallanza. - E questo fatto, a sé fece chiamare le greche donne, e lor prese a parlare:
L. 2, ott. 76- Donne, gl' iddii a la nostra ragione hanno prestata debita vittoria, e però con dovuta oblazione tenuti siam d' esaltar la lor gloria; perciò mettete ad esecuzione ciò che de' vostri faceste memoria; date alli vostri re l' uficio pio, secondo che avete nel disio.
L. 2, ott. 77E questo fatto, la terra prendete che cagion fu di morte a' vostri regi, e sì ne fate ciò che voi volete, come di nido di tutti i dispregi; sicuramente in quella andar potete, ch' alcun non v' è ch' al gir vi privilegi. - Le donne quasi liete il ringraziaro, e quindi a fare il loro oficio andaro.
L. 2, ott. 78 rubr.Come le donne, arsi i corpi e Tebe, si tornarono ad Argo.
L. 2, ott. 78Esse giron nel campo doloroso, dove gli argivi re morti giaceano; e ben che fosse a l' olfato noioso per lo fiato che' corpi già rendeano, non fu però a lor punto gravoso cercar pe' morti che elle voleano, in qua in là or questo or quel volgendo, il suo ciascuna intra molti caendo.
L. 2, ott. 79Il quale in prima non avean trovato che, dopo molto pianto, mille volte non si ristavan sì l' avean basciato, usando ne' lor pianti voci molte, qua' soglion far le donne a cotal piato; quindi, de' corpi le parti raccolte, prima ne' fiumi li bagnavan tutti, poi li ponean sopra li roghi estrutti.
L. 2, ott. 80E sopra lor, carissimi ornamenti quali a ciascun di lor si confacea, arme, corone, scettri e vestimenti, di quelle donne ciascuna ponea; e dietro a tutto, con pianti dolenti, ne' roghi ornati fuoco si mettea, dicendo versi di maniere assai, appartenenti tutti a tristi guai.
L. 2, ott. 81E 'n cotal guisa la turba piangente co' fuochi i corpi morti consumaro, e poi le cener diligentemente dentro da l' urne, con dolore amaro, ch' avean portate, miser di presente, e per portarle ad Argo le serbaro; ma prima giro in Tebe, e non potendo altra vendetta far, la giro ardendo.
L. 2, ott. 82Quindi a Teseo tornate, una di loro incominciò: - Valoroso signore, della vendetta c' hai fatta in ristoro del nostro inestimabile dolore, grazie ti rendan l' iddii e coloro c' hanno o avranno mai di ciò valore; e noi, in ciò che femine han potere, l' onestà salva, siamo al tuo piacere.
L. 2, ott. 83L' eccelsa gloria de' nostri reali, che morti sono in questo tristo loco, cui noi aspettavàn con triunfali solennità, con doloroso foco avèn tornata in ceneri, le quali, ristrette tutte in vassello assai poco ce ne portiamo; e tu riman con dio, il quale adempia ciascun tuo disio. -
L. 2, ott. 84Così sen giro; ma Teseo cercare fatto avea il campo, e ciaschedun ferito che fu trovato fatto medicare, e ogni morto aveva sepellito; e quindi a sé avea fatto recare ciò ch' avean guadagnato, e quel partito secondo i merti tra' suoi cavalieri, liberamente el diede e volontieri.
L. 2, ott. 85 rubr.Come Arcita e Palemone furono trovati e menati a Teseo.
L. 2, ott. 85Mentre li Greci i lor givan cercando, e ruvistando il campo sanguinoso, e' corpi sottosopra rivoltando, per avventura in caso assai dubbioso due giovani feriti dolorando quivi trovaron, sanza alcun riposo; e ciaschedun la morte domandava, tanto dolor del lor mal gli agravava.
L. 2, ott. 86E' non eran da sé guari lontani, armati tutti ancora, e a giacere; i qua', come coloro a le cui mani pervenner prima, udendo lor dolere, gli vider, si pensar che de' sovrani esser doveano; e ciò fecer vedere le lucenti armi e loro altiero aspetto che dio nell' ira lor facea dispetto.
L. 2, ott. 87E' s' appressaro ad essi e umilmente, quasi già certi di lor condizione,disarmarli, come l' altra gente nemica avevan fatta e cui in prigione avevan messi; e poi benignamente recatilisi in braccio, con ragione gli ripigliavan del disperar loro; e menarli a Teseo sanza dimoro.
L. 2, ott. 88I qua' Teseo come gli ebbe veduti, d' alto affar li stimò, lor dimandando se del sangue di Cadmo fosser suti. E l' un di loro altiero al suo dimando rispose: - In casa sua nati e cresciuti fummo, e de' suo' nepoti semo; e quando Creon contra di te l' empie arme prese, fummo con lui, co' nostri, a sue difese. -
L. 2, ott. 89Ben conobbe Teseo nel dir lo sdegno real ch' avean costor, ma non seguio però l' effetto a cotale ira degno; ma verso lor più ne divenne pio, e co' medici suoi, con ogni ingegno,sì che tutte lor piaghe guario; e poi con gli altri in prigion li ritenne, lor riservando al triunfo solenne.
L. 2, ott. 90 rubr.Come Teseo triunfando tornò ad Attene.
L. 2, ott. 90Poi che parve a Teseo del ritornare, distrutta Tebe e data sepoltura a cui vi fu da dovergliele dare, raccolti i suoi con diligente cura, inver d' Attene si mise ad andare; né prima fur vicini alle sue mura che ciò ch' all' altra festa era mancato, a quel punto trovaron ristorato.
L. 2, ott. 91Gli Atteniesi un carro li menaro più ricco assai che 'l primo, e tutti quanti generalmente inverso lui andaro con allegrezza, e con solenni canti di vittoria doppia il commendaro; e 'n cotal guisa, andandoli davanti, entrarono in Attene, e quivi Egeo, suo vecchio padre, incontro li si feo.
L. 2, ott. 92Esso davanti al suo carro fé gire Arcita e Palemon, presi baroni, a' qua' facea tutti gli altri seguire ch' avea nel campo presi per prigioni; e dietro al carro faceva venire di preda onusti i suoi commilitoni; ma al carro d' ogni lato era ripieno di donne assai che gran festa facieno.
L. 2, ott. 93A così alto e magnifico onore Teseo vegnendo, Ipolita reina li venne in petto, il suo alto valore mostrando più che mai quella mattina; la quale e' vide con allegro core, e Emilia con lei, rosa di spina, con altre donne assai e cavalieri, li quali ora nomar non fa mestieri.
L. 2, ott. 94A cotal festa e sì lieto sembiante fu Teseo ricevuto e onorato da tutti i suoi, e così triunfante quasi per tutto con gioia menato; ma com di Marte al tempio fu davante, quivi li piacque che fosse arrestato il carro suo, e in terra discese, e 'n quello entrò a tututti palese.
L. 2, ott. 95Lì si fé dare l' arme che a Creonte avea nel campo teban dispogliate, e a Marte l' offerse, e dalla fronte con man le frondi di Pennea levate diè similmente, e con parole pronte delle vittorie da lui acquistate grazie rendé a Marte copiose, offerendoli vittime pietose.
L. 2, ott. 96Quindi uscì poi, e al mastro palagio tornò, accompagnato dal suo padre; quivi prendendo gioco e festa e agio, alla reina le cose leggiadre narrava ch' avea fatte e 'l suo disagio, spesso assalito dalle luci ladre di quella donna, che 'l mirava fiso; per ch' esser li pareva in paradiso.
L. 2, ott. 97 rubr.Come Teseo fece mettere in prigione Palemone e Arcita.
L. 2, ott. 97Riposato più giorni in lieta vita, il buon Teseo si fé innanzi venire il teban Palemone e 'l bello Arcita, e ciascun vide molto da gradire e nello aspetto di sembianza ardita; per che pensò di farli ambo morire, dubbiando che s' andare e' li lasciasse, non forse ancora molto li noiasse.
L. 2, ott. 98Poi fra sé disse: «Io farei gran peccato, nullo di loro essendo traditore»; e in se stesso fu diliberato che li terrà in prigion per lo migliore; e tosto al prigioniere ha comandato che ben li guardi e faccia loro onore. Così da lui Arcita e Palemone dannati furo ad etterna prigione.
L. 2, ott. 99Li prigion furon tutti incarcerati e dati a guardia a chi 'l sapea ben fare; e questi due furon riservati per farli alquanto più ad agio stare, perché di sangue reale eran nati; e felli dentro al palagio abitare e così in una camera tenere, faccendo lor servire a lor piacere.
L. 2, explicitQui finisce il secondo libro.
L. 3, son. iniz. rubr.Sonetto nel quale si contiene uno argomento particulare del terzo libro.
L. 3, son. iniz.Nel terzo a Marte dona alcuna posa l' autore, e discrive come Amore d' Emilia, bella più che fresca rosa, a' duo prigion con li suoi dardi il core ferendo, elli accendesse in amorosa fiamma, mostrando poi l' aspro dolore del soverchio disio e l' animosa voglia di far sentire il lor valore. E poi, pregando il figliuol d' Isione il gran Teseo, suo amico caro, Arcita fa fuor trarre di prigione; e mostra i patti che con lui fermaro, e poi, preso congio da Palemone, d' Attene il mostra uscir con duolo amaro.
L. 3, ott. 1 rubr.Incomincia il libro terzo di Teseida.
L. 3, ott. 1Poi che alquanto il furor di Iunone fu per Tebe distrutta temperato, Marte nella sua fredda regione con le sue Furie insieme s' è tornato; per che omai con più pio sermone sarà da me di Cupido cantato e delle sue battaglie, il quale io priego che sia presente a ciò che di lui spiego.
L. 3, ott. 2Ponga ne' versi miei la sua potenza quale e' la pose ne' cuor de' Tebani imprigionati, sì che differenza non sia da essi alli loro atti insani; li qua', lontani a degna sofferenza, venir li fero a l' ultimo a le mani, in guisa che a ciascun fu discaro, e a l' un fu di morte caso amaro.
L. 3, ott. 3In cotal guisa adunque imprigionati i due Tebani, in supprema tristizia e quasi più che ad altro al pianger dati, del tutto d' ogni futura letizia dovere aver giammai più disperati, maladicean sovente la malizia dello 'nfortunio loro, e 'l tempo e l' ora ch' al mondo venner bestemmiando ancora,
L. 3, ott. 4morte chiamando seco spessamente che gli uccidesse, se fosse valuto. E in istato cotanto dolente presso che l' anno avevan già compiuto, quando per Vener, nel suo ciel lucente, d' altri sospir dar lor fu proveduto; né prima fu cotal pensiero eletto, che al proposto seguitò l' effetto.
L. 3, ott. 5 rubr.Il tempo prima, e poi come Arcita e Palemone s' innamorarono d' Emilia.
L. 3, ott. 5Febo, salendo con li suoi cavalli, del ciel teneva l' umile animale, ch' Europa portò sanza intervallidove il nome suo dimora aguale; e con lui insieme graziosi stalli Venus facea de' passi con che sale, per che il cielo rideva tutto quanto d' Amon, che 'n Pisce dimorava intanto.
L. 3, ott. 6Da questa lieta vista delle stelle prendea la terra graziosi effetti, e rivestiva le sue parti belle di nuove erbette e di vaghi fioretti; e le sue braccia le piante novelle avean di fronde rivestite, e stretti eran dal tempo gli alberi a fiorire e a far frutto e 'l mondo ribellire.
L. 3, ott. 7E gli uccelletti ancora i loro amori tututti avean cominciato a cantare, giulivi e gai, nelle frondi e ne' fiori; e gli anima' nol potevan celare, anzi 'l mostravan con sembianti fori; e' giovinetti lieti, che ad amare eran disposti, sentivan nel core fervente più che mai crescere amore;
L. 3, ott. 8quando la bella Emilia giovinetta, a ciò tirata da propria natura non che d' amore alcun fosse constretta, ogni mattina, venuta l' aurora, in un giardin se n' entrava soletta ch' allato alla sua camera dimora faceva, e 'n giubba e scalza gia cantando amorose canzon, sé diportando.
L. 3, ott. 9E questa vita più giorni tenendo la giovinetta semplicetta e bella, con la candida man talor cogliendo d' in su la spina la rosa novella, e poi con quella più fior congiugnendo al biondo capo fando ghirlandella, avvenne nova cosa una mattina per la bellezza di questa fantina.
L. 3, ott. 10Un bel mattin ch' ella si fu levata e' biondi crin ravolti alla sua testa, discese nel giardin, com' era usata: quivi cantando e faccendosi festa, con molti fior, su l' erbetta assettata, faceva sua ghirlanda lieta e presta, sempre cantando be' versi d' amore con angelica voce e lieto core.
L. 3, ott. 11Al suon di quella voce grazioso Arcita si levò, ch' era in prigione allato allato al giardino amoroso, sanza niente dire a Palemone, e una finestretta disioso aprì per meglio udir quella canzone; e per vedere ancor chi la cantasse, tra' ferri il capo fuori alquanto trasse.
L. 3, ott. 12Egli era ancora alquanto il dì scuretto, ché l' orizonte in parte il sol teneva, ma non sì ch' elli con l' occhio ristretto non iscorgesse ciò che lì faceva la giovinetta con sommo diletto, la quale ancora esso non conosceva; e rimirando lei fisa nel viso, disse fra sé: «Quest' è di paradiso!».
L. 3, ott. 13E ritornato dentro pianamente disse: - O Palemon, vieni a vedere: Vener è qui discesa veramente! Non l' odi tu cantar? Deh, se 'n calere punto ti son, deh, vien qua prestamente! Io credo certo che ti fia in piacere qua giù veder l' angelica bellezza, a noi discesa della somma altezza. -
L. 3, ott. 14Levossi Palemon, che già l' udiva con più dolcezza che que' non credea, e con lui insieme alla finestra giva, cheti amenduni, per veder la dea; la qual come la vide, in voce viva disse: - Per certo questa è Citerea; io non vidi giammai sì bella cosa tanto piacente né sì graziosa. -
L. 3, ott. 15Mentre costoro, sospesi e attenti, gli occhi e gli orecchi pur verso colei tenendo fissi facevan contenti, forte maravigliandosi di lei, e del perduto tempo in lor dolenti passato pria sanza veder costei, Arcita disse: - O Palemon, discerni tu ciò ch' io veggo ne' belli occhi etterni? -
L. 3, ott. 16- Che? - li rispose allora Palemone. Arcita disse: - Io veggo in lor colui che già per Danne il padre di Fetone ferì, se io non erro, e in man dui istral dorati tene, e già l' un pone sovra la corda, e non rimira altrui che me; non so se forse li dispiace ch' io miri questa che tanto mi piace. -
L. 3, ott. 17- Certo - rispose Palemone allora - il veggo, ma non so s' ha saettato l' un, ché non ha più che uno in mano ora. - Arcita disse: - Sì, e' m' ha piagato in guisa tal che di dolor m' acora, se io non son da quella dea atato. - Allora Palemon tutto stordito gridò: - Omè, che l' altro m' ha ferito! -
L. 3, ott. 18A quello omè la giovinetta bella si volse destra in su la poppa manca; né prima altrove ch' alla finestrella le corser gli occhi, onde la faccia bianca per vergogna arrossò, non sappiendo ella chi si fosser color; poi, fatta franca, co' colti fiori in piè si fu levata, e per andarsen si fu inviata.
L. 3, ott. 19Né fu nel girsen via sanza pensiero di quello omè, e ben che giovinetta fosse, più che non chiede amore intero, pur seco intese ciò che quello affetta; e parendole ciò saper per vero d' esser piaciuta, seco si diletta, e più se ne tien bella, e più s' adorna qualora poi a quel giardin ritorna.
L. 3, ott. 20Dentro tornaron li due scudieri, poscia che videro Emilia partita; e, stati alquanto con nuovi pensieri, pria cominciò così a dire Arcita: - Io non so che nel cor quel fiero arcieri m' ha saettato, che mi to' la vita, e sentomi fallire a poco a poco, acceso, lasso! non so in che foco.
L. 3, ott. 21E non mi si diparte della mente l' imagine di quella creatura, né pensiero ho d' altra cosa niente;m' è fissa nel cor la sua figura, e sì mi sta nell' animo piacente, ch' io mi riputerei somma ventura s' io le piacessi com' ella mi piace; e sanza ciò mai non credo aver pace. -
L. 3, ott. 22Palemon disse: - Il simile m' avene che tu racconti, e mai più nol provai; per che io sento al cor novelle pene, tal ch' io non credo si sentisser mai; e veramente io credo che ci tene quel signore in balia, che già assai volte udi' ricordar, cioè Amore, ladro sottil di ciascun gentil core.
L. 3, ott. 23E dicoti che già sua prigionia m' è grave più che quella di Teseo; già più d' affanno nella mente mia sento, ch' io non credea che questo iddeo donar potesse; e gran nostra follia a quella finestretta far ci feo, quando colei cantava tanto vaga, che già per lei di morte il cor si smaga.
L. 3, ott. 24Io mi sento di lei preso e legato, né per me trovo nessuna speranza; anzi mi veggo qui imprigionato e ispogliato d' ogni mia possanza; dunque che posso far che le sia in grato? Nulla; ma ne morrò sanza fallanza; e or volesse Iddio ch' io fossi morto! Questo mi fora sommo e gran conforto.
L. 3, ott. 25Oh, quanto ne sarieno a tal fedita gli argomenti esculapii buoni e sani! Il qual dice om che tornerebbe in vita con erbe i lacerati corpi umani. Ma che dich' io, poi ch' Apollo, sentita cotal saetta, che' sughi mondani tutti conobbe, non seppe vedere medela a sé che potesse valere? -
L. 3, ott. 26Così ragionan li due nuovi amanti, e l' un l' altro conforta nel parlare; san se questa è dea ne' regni santi che sia qua giù venuta ad abitare, o se donna mondana; e li suoi canti e le bellezze li fan dubitare; per che, ignoranti di chi sì gli ha presi, molto si dolgon, da dolore offesi.
L. 3, ott. 27escon delle sicule caverne, allora ch' Eol l' apre, sì furenti, ora le basse e ora le superne parti cercando, li rabbiosi venti, come costor delle parti più interne producean fuor sospiri assai cocenti, ma con picciole voci, perché ancora era la piaga fresca che gli accora.
L. 3, ott. 28Continuando adunque il gir costei, sola tal volta e tal con compagnia, nel bel giardino a diporto di lei, nascosamente gli occhi tuttavia drizzava alla finestra, ove l' omei prima di Palemone udito avia: non che a ciò amor la costrignesse, ma per veder se altri la vedesse.
L. 3, ott. 29E se ella vedeva riguardarsi, quasi di ciò non si fosse avveduta, cantando cominciava a dilettarsi in voce dilettevole e arguta; e su per l' erbe con li passi scarsi fra gli albuscelli, d' umiltà vestuta, donnescamente giva e s' ingegnava di più piacere a chi la riguardava.
L. 3, ott. 30Né la recava a ciò pensier d' amore che ella avesse, ma la vanitate, che innata han le femine nel core, di fare altrui veder la lor biltate; e quasi nude d' ogni altro valore, contente son di quella esser lodate, e per quel di piacer sé ingegnando, pigliano altrui, sé libere servando.
L. 3, ott. 31Li due novelli amanti ogni mattino, nello apparir primier dell' aurora levati, rimiravan nel giardino per veder se in quel venuta ancora fosse colei il cui viso divino oltre ad ogni misura gl' innamora; né di quel loco si potean levare mentre lei nel giardin vedeano stare.
L. 3, ott. 32E' si credevan, mirandola bene, saziar l' ardente sete del disio e minor far le lor gravose pene: e essi più dal valoroso iddio Cupido si stringean nelle catene; e or con lieto aspetto e or con pio si dimostravan rimirando quella, sol per piacere a lei quanto a loro ella.
L. 3, ott. 33E come avven che 'l dente del serpente pria lede altrui con picciola morsura,dilatando poi subitamente offusca il membro della sua mistura, poi l' uno a l' altro successivamente, infin che 'l corpo tutto quanto oscura; così costor di dì in dì, mirando, d' amore il fuoco gieno aumentando.
L. 3, ott. 34E sì per tutto l' avevan raccolto, che ogni altro pensier dato avea loco e a ciascun già si parea nel volto per le vigilie lunghe e per lo poco cibo che e' prendean; ma di ciò molto davan la colpa a l' allegrezza e 'l gioco ch' aver soleano, e ora eran prigioni; così coprendo le vere cagioni.
L. 3, ott. 35E da' sospiri già a lagrimare eran venuti, e se non fosse stato che 'l loro amor non volean palesare, sovente avrian per angoscia gridato. E così sa Amore adoperare a cui più per servigio è obligato: colui il sa che tal volta fu preso da lui e da cota' dolori offeso.
L. 3, ott. 36Era a costor della memoria uscita l' antica Tebe e 'l loro alto legnaggio, e similmente se n' era partita la 'nfelicità loro, e il dammaggio ch' avevan ricevuto, e la lor vita ch' era cattiva, e 'l lor grande eretaggio; e dove queste cose esser soleano Emilia solamente vi teneano.
L. 3, ott. 37Né era lor troppo sommo disire che Teseo gli traesse di prigione, pensandosi ch' a lor coverria gire in esilio in qualch' altra regione, né più potrebber veder né udire il fior di tutte le donne amazone; ver è ch' uscir di lì per sommo bene disideravano, e starsi in Attene.
L. 3, ott. 38Così costor da amor faticati, vedendo questa donna, il loro ardore più leve sostenean; poi ritornati, partita lei, nel lor primo furore, in lor conforto versi misurati sovente componean, l' alto valore di lei cantando; e in cotale effetto nelli lor mal sentieno alcun diletto.
L. 3, ott. 39E non sappiendo ben chi ella fosse ancora, un dì un lor fante chiamaro, al quale Arcita ta' parole mosse: - Deh, dinne per amore, amico caro, sai tu chi sia colei che dimostrosse l' altrieri a noi, cantando tanto chiaro, in quel giardino? Haila tu mai veduta in altra parte, o è dal ciel venuta? -
L. 3, ott. 40Il valletto rispose prestamente: - Questa è Emilia, suora alla reina, più ch' altra che nel mondo sia piacente; la qual, perché ancor molto fantina, al giardin se ne vien sicuramente, sanza fallir giammai, ogni mattina; e canta me' che mai cantasse Appollo, e io l' ho già udita, e così sollo. -
L. 3, ott. 41Disser fra lor costoro: - E' dice il vero; ell' è bene essa che n' ha tolto il core e a lei volto ogni nostro pensiero; e ciaschedun di noi albergatore di pianti e di sospiri e di severo tormento ha fatti e d' ogni altro dolore: con tanta forza sé fa disiare con la bellezza che in lei appare! -
L. 3, ott. 42Così li due amanti con sospiri vivevan tutto il giorno discontenti, e vegnente 'l mattino i lor martiri avevan sosta, infin gli occhi lucenti vedean d' Emilia, che li lor disiri ciaschedun' ora facean più ferventi; e così visser mentre fu la state, con doglia insieme e con soavitate.
L. 3, ott. 43Ma poi ch' al mondo tolse la bellezza Libra ch' aveva donata Ariete, li due amanti perder la dolcezza che quietava lor focosa sete, ciò è vedere la somma chiarezza che gli teneva d' amor nella rete; donde rimaser dolorosi forte, chiamando giorno e notte sempre morte.
L. 3, ott. 44Il tempo aveva cambiato sembiante e l' aere piangea tutto guazzoso; secche eran l' erbe e spogliate le piante, e 'l popol d' Eol correa tempestoso or qua or là nel tristo mondo errante; per che Emilia col viso amoroso, lasciati li giardin, sempre si stava in camera e del tempo non curava.
L. 3, ott. 45Allor tornarono i martiri e' pianti, gli aspri tormenti e le noie angosciose in doppio a ciaschedun de' due amanti, e non vedevan né udivan cose che lor piacesse; e così tutti quanti si consumavano in pene dogliose; e ciaschedun disperar si volea, ma pure in fine se ne ritenea.
L. 3, ott. 46Grandi erano i sospiri e il tormento di ciascheduno, e l' esser prigionati vie più che mai faceva discontento ciascun di loro, a tal punto recati; e ogni giorno lor pareva cento che fosser morti o quindi liberati; e per lor solo e unico conforto Emilia chiamavan, lor diporto.
L. 3, ott. 47 rubr.Come Arcita fu tratto di prigione ad istanzia di Peritoo.
L. 3, ott. 47In questo tempo un nobil giovinetto, chiamato Peritoo, venne a vedere Teseo, suo caro amico; e con diletto un dì si poser parlando a sedere; e ragionando, a Teseo venne detto de' due Teban li qua' facea tenere imprigionati, Arcita e Palemone, ciaschedun grande e nobile barone.
L. 3, ott. 48Allora Peritoo il prese a pregare che li dovesse far veder costoro; per che Teseo per lor fece mandare e li si fé venir sanza dimoro. Essi eran belli e di nobile affare, e ben parea la gentilezza loro nella forma e nell' abito ch' aveano, posto ch' alquanto scolorati seano.
L. 3, ott. 49 rubr.La forma e l' esser di Palemone.
L. 3, ott. 49Era Palemon grande e ben membruto, brunetto alquanto e nello aspetto lieto, con dolce sguardo e nel parlare arguto; ma ne' sembianti umile e mansueto, poi che fu innamorato, divenuto; d' alto intelletto e d' operar secreto, di pel rossetto e assai grazioso, di moto grave e d' ardir copioso.
L. 3, ott. 50 rubr.La forma e l' esser d' Arcita.
L. 3, ott. 50Arcita era assai grande ma sottile, non di soperchio, e di sembianza lieta; bianco e vermiglio com rosa d' aprile, e' cape' biondi e crespi, e mansueta statura aveva, e abito gentile; gli occhi avea belli e guardatura queta; ma nel parlar gran coraggio mostrava, e destro e visto assai a chi 'l mirava.
L. 3, ott. 51Conobbe Peritoo, nel lor venire, Arcita e 'ncontro li si fu levato, e abbracciollo e cominciolli a dire: - O caro amico, come se' tu stato qui tanto sanza farlomi sentire, ché l' uscir di prigion t' avre' impetrato? Mal grado n' abbi tu, ché ti sta bene d' avere avute queste e maggior pene. -
L. 3, ott. 52Poi si rivolse a Teseo, suo amico, dicendo: - Se giammai per mio amore nulla facesti, quel ch' ora ti dico ti priego facci, dolce mio signore, che questo Arcita, mio compagno antico, facci che di prigione egli esca fore; io ten sarò tutto tempo tenuto, e elli, in ciò che per te fia voluto. -
L. 3, ott. 53Teseo rispose: - Dolce amico caro, ciò che tu mi domandi sarà fatto, ma odi come, non ti sia discaro. I' 'l trarrò di prigion con questo patto, che nel mio regno e' non faccia riparo, né ci venga giammai per nessuno atto; ch' io l' ho disfatto e tenuto in prigione, perch' a dritto di lui ho sospeccione.
L. 3, ott. 54S' io cel prendessi, io gli farò tagliare la testa sanza fallo immantanente; però, se vuol cotal patto pigliare, vada dove li piace di presente per lo tuo amor, che lo mi fai lasciare; ché altramente mai al suo vivente uscito non saria di prigionia, ben lo ti giuro per la fede mia. -
L. 3, ott. 55Peritoo disse: - E io vo' ch' elli il faccia e te ringrazio di cotanto dono. - E tosto i ferri da' piè li dislaccia, e libero lui lascia in abandono. Arcita s' inginocchia e sì l' abraccia, dicendo: - Peritoo, dovunque io sono, son tutto tuo, e ciò ch' io posso fare, sol che ti piaccia a me tuo comandare. -
L. 3, ott. 56Poi se n' andò innanzi al gran Teseo, e ginocchion disse: - Nobil signore, se per me cosa incontro a te si feo giammai, perdona per lo tuo onore, ch' altro per me al ver non si poteo; il danno che m' hai fatto e 'l disinore i' 'l ti perdono, e ti ringrazio assai di questa grazia ch' agual fatta m' hai.
L. 3, ott. 57E in che che parte io me ne debba gire, son tutto tuo, quando ti sia in piacere; non men che vita avrò caro il morire per te, pur che ci sia il tuo volere. A così grande e fervente disire mi pinge Amor, che m' ha nel suo potere, e a te e a' tuoi sì obligato, ch' io sarò sempre tuo in ogni lato. -
L. 3, ott. 58Teseo cotal parlar non intendea donde venisse, ma semplicemente di puro cuor le parole prendea; e però fé venir subitamente nobili doni, e disse li piacea che, oltre a quel ch' è 'ntra lor convenente, e' pigliasse que' doni e glien portasse, e del patto e di que' si ricordasse.
L. 3, ott. 59Arcita, a cui niente avea lasciato la misera fortuna, bisognoso ebbe i don di Teseo non poco a grato; e poscia, con uno atto assai pietoso, piangendo prese da Teseo commiato, e del palagio discese doglioso, pensando al suo esilio che 'l doveva privar di veder ciò che li piaceva.
L. 3, ott. 60Ma Palemon, vedendo queste cose, quasi nel cor moriva di dolore per la fortuna sua, che più noiose cose serbava al suo misero core, e pel compagno suo, al qual gioiose credea novelle del comune amore; e quasi prese nova gelosia di ciò ch' ancor non aveva in balia.
L. 3, ott. 61Esso fu rimenato alla prigione, e Peritoo se ne gì con Arcita e disse: - Caro amico e compagnone, la voglia di Teseo tu l' hai udita; ben che 'l tempo sia duro e la stagione, e' si pur vuol pensar della partita; ben me ne pesa, e sappi, s' io potessi, non vorrei mai da me ti dividessi.
L. 3, ott. 62Io sì ti donerò arme e destrieri di gran valore, belle e ben fornite, per te e anco per li tuo' scudieri; e poi, dove vi piace, ve ne gite; tu se' di nobil sangue e buon guerrieri, nato di genti valenti e ardite, e non potrai fallire ad alto stato: dove ch' arrivi, e' ti sarà donato. -
L. 3, ott. 63Arcita li rispose lagrimando e ringraziollo del proferto onore, e poi li disse: - Bello amico, quando la mia partita è a grado al signore, io la farò; ma sempre lamentando andrò la mia fortuna con dolore, poi c' ho perduto ciò ch' al mondo avea, e converrà che d' altrui servo stea.
L. 3, ott. 64E certo io non conosco a cui servire con maggior fede e con minor fatica io possa ch' a Teseo, che dal morire mi tolse, presso alla mia terra antica; ma poi non vuol, convemmi intorno gire, né so che farmi e vie men ch' io mi dica. Or foss' io qui rimaso per servente di chi si fosse, e non vi dria niente!
L. 3, ott. 65Non sai tu, Peritoo, come l' andare attorno per lo mondo pien d' affanni m' è conceduto? E' ti de' ricordare ch' ancor non son trapassati due anni, che sei gran re per lo nostro operare fur morti a Tebe, e gravissimi danni n' ebber gli Argivi e popoli altri assai, per che odiati sarén sempre mai.
L. 3, ott. 66E oltre a ciò l' iddii ne sono avversi: come tu sai, antica nimistate serva Giunon ver noi, e diè perversi mali a color che passar questa etate; e noi ancor perseguendo ha somersi, come tu vedi, in infelicitate estrema; e Ercul né Bacco n' aiuta, per che io tengo mia vita perduta. -
L. 3, ott. 67Queste parole facea dire Amore; ma Peritoo non le conosceva, sì come que' che non sapea l' ardore che per Emilia dentro l' accendeva; e però pur con purità di core lui confortava, e spesso li diceva: - Deh, non pensar che ti fallin l' iddii che tu non abbi ancor quel che disii.
L. 3, ott. 68Molti altri regni ci ha dove potrai miglior fortuna attender pianamente, così com' io; e tu udito l' hai che del qui rimaner saria niente il ragionare, e a me parve assai ricever pur quand' io liberamente ti trassi di prigion; sie valoroso, ché Dio non mancò mai a virtuoso. -
L. 3, ott. 69Poscia che Arcita, doppio ragionando con Peritoo, sentì che 'l rimanere non avea luogo, in sé stette pensando; e tornandoli a mente che vedere Emilia non potrebbe, essendo in bando, quasi vicin fu a dir di volere innanzi la prigion che tale esilio, sospignendolo amore a tal consilio.
L. 3, ott. 70Ma la ragion, che subita prevenne alla volontà folle di costui, con tre buoni argomenti appena il tenne, dicendo: «Se tu di' questo ad altrui, e' non fia detto: "Amore il ci ritenne", ma: "Non credendo sé valer, per lui donato s' è a questa gran viltate, prima ch' abbia voluta libertate".
L. 3, ott. 71E oltre a questo, se di prigion fora se', molte cose potranno avvenire che in istato ti porranno ancora; e se 'n palese non potrai venire in questa terra, come vorresti, ora, forse altro tempo ci potrai reddire; e se non in palese, almeno ascoso, tanto che veggi il bel viso amoroso.
L. 3, ott. 72E se e' fosse tanta tua ventura che 'n altro regno ella si maritasse, non ti sarebbe soperchia sciagura se in prigione allora ti trovasse? Il che s' avien, con sollecita cura esser potrai là dovunque ella andasse; e posto che sua grazia non acquisti, pur la vedranno almen gli occhi tuoi tristi».
L. 3, ott. 73Questi consigli distolser Arcita dal suo sconcio e reo intendimento, e confortossi l' anima invilita, in ciò sperando; e preso il guarnimento da Peritoo proferto, fé partita, sé offerendo al suo comandamento, dove che fosse, e sé raccomandando, co' suoi scudier se ne gì sospirando.
L. 3, ott. 74 rubr.Come Arcita, preso commiato da Palemone, uscì d' Attene.
L. 3, ott. 74Da Peritoo partito, se ne gio dov' era Palemone imprigionato, e sì li disse: - Caro amico mio, da te convien che io prenda commiato e ch' io mi parta, contro al mio disio, sì come fuor bandito e iscacciato; né ci oserò, credo, tornar giammai, ond' io morrò in dolorosi guai.
L. 3, ott. 75Io me ne vo, o caro compagnone, con redine a fortuna abandonate, e vorria inanzi certo esta prigione, che isbandito usar mia libertate; almen vedrei alla nuova stagione colei che ha 'l mio core in potestate, ché mai, partito, vederla non spero, ond' io morrò di doglia, questo è 'l vero.
L. 3, ott. 76Io lascio l' alma qui innamorata e fuor di me vagabundo piangendo men vo, né so là dove l' adirata fortuna mi porrà così languendo; per ch' io ti priego, s' alcuna fiata vedi colei per cu' i' ardo e incendo, che tu le raccomandi pianamente que' che morendo va per lei dolente. -
L. 3, ott. 77Mentre 'n tal guisa favellava Arcita, Palemon sempre lagrimava forte, dicendo: - Lassa, trista la mia vita! Perché non mi confonde tosto morte, acciò che prima della tua partita fosse finita la mia trista sorte? Ché sanza te in doglioso tormento rimango, lasso! tristo e iscontento.
L. 3, ott. 78Ma tu, se savio se' sì come suoli, dei di fortuna assai bene sperare e alquanto mancar delli tuoi duoli, pensando ch' assai puoi adoperare, libero come se' di quel che vuoli,dove a me conviene ozioso stare: tu vederai andando molte cose ch' alleggeranno tue pene amorose.
L. 3, ott. 79Ma io, che sol rimango, a poco a poco verrò mancando come cera ardente; e ben che tal fiata mi dea gioco il riguardare il bel viso piacente, tutto mi fia uno accender più foco, come a me più non dimorrà presente; ond' io non so omai quel ch' io mi faccia, e par che 'l cuore in corpo mi si sfaccia. -
L. 3, ott. 80Così piangean con amari sospiri li due compagni forte innamorati, e parean divenuti due disiri di pianger forte, sì eran bagnati; per che, tra lor crescendo i lor martiri, da' lor valletti furon rilevati e della lor follia forte ripresi del mostrarsi d' amor cotanto accesi.
L. 3, ott. 81Allora i due compagni si levaro per le parole de' loro scudieri, e amenduni stretti s' abracciaro di buono amor e di cuor volontieri; e poco appresso in bocca si basciaro, e più che prima nel lagrimar fieri, con rotta voce si dissero addio. E così quindi Arcita si partio.
L. 3, ott. 82Nulla restava a far più ad Arcita se non di girsen via, e già montato era a caval per far sua dipartita, fra sé dicendo: «O lasso sconsolato! Sol tanto fosse a Dio cara mia vita ch' io solo un poco il viso dilicato d' Emilia vedessi anzi 'l partire, poi men dolente me ne potrei gire».
L. 3, ott. 83Passò i cieli allor quella preghiera, e seguì tosto d' Arcita l' affetto, ché quel giglio novel di primavera sovr' un balcone appoggiata col petto si venne a star, con una cameriera, mirando il grazioso giovinetto che in esilio dolente n' andava, e compassione alquanto gli portava.
L. 3, ott. 84Ma esso dopo il priego alzò il viso, incerto del futuro, e vide allora l' angelico piacer di paradiso; per ch' el disse con seco: «Omai se fora di qui mi to' fortuna, e' m' è avviso non poter male avere». E quindi ancora la riguardò, dicendo: «Anima mia, piangendo sanza te me ne vo via».
L. 3, ott. 85E così detto, per fornir la 'mposta fattoli da Teseo, a cavalcare incominciò; ma dolente si scosta dal suo disio, il qual quanto mirare poté il mirò, pigliando talor sosta, vista faccendo di racconciare; ma non avendo più luogo lo stallo, uscì piangendo d' Attene a cavallo.
L. 3, explicitQui finisce il terzo libro di Teseida.
L. 4, son. iniz. rubr.Sonetto nel quale si contiene l' argomento particulare del quarto libro.
L. 4, son. iniz.Dimostra il quarto dipartito Arcita con greve tempo, e 'l suo ramaricare, mutato il nome per sicura vita, e di Boezia a Corinto l' andare; e quindi appresso la sua dipartita, e in Mecena poscia l' arrivare, dove con Menelao con ismarrita mente si pose per famiglio a stare. Quindi ad Egina a Pelleo se ne vene, e con lui non potendo lungamente durar, non conosciuto entrò in Attene, e di Teseo diventò servente; quindi dimostra la vita che tene, faccendol noto a Panfil primamente.
L. 4, ott. 1 rubr.Incomincia il libro quarto del Teseida. E prima come Arcita con tempestoso tempo, mutatosi nome, ramaricandosi se ne va.
L. 4, ott. 1Quanto può fare il tempo più guazzoso, cotanto allora il faceva Orione, molto nel cielo allora poderoso con le Pliade in sua operazione; e Eol d' altra parte più ventoso il faceva che mai, in quella stagione ch' uscì d' Attena il doloroso Arcita sanza speranza mai di far reddita.
L. 4, ott. 2Grande era l' acqua, il vento e 'l balenare quel dì che Arcita si partì d' Attene, dal termine costretto dell' andare, posto che 'l dove e' non sapesse bene; ma non pertanto, sol per sodisfare a Peritoo, avendo ancora spene del ritornar, dolente a capo chino inver Boezia prese suo cammino.
L. 4, ott. 3Poco era ancor dalla terra partuto, quand' elli a' suo' scudieri: - Amici cari, io non intendo d' esser conosciuto, mentre che duran questi tempi amari; però che forse, se fosse saputodov' io fossi, io non viverei guari; e però non Arcita, ma Penteo mi nominate in questo tempo reo. -
L. 4, ott. 4E poi con tempo iniquo camminando, lo 'nnamorato Arcita si voltava ispesse volte la città mirando, e quindi, lei veduta, sospirava, seco sovente così ragionando: «Deh, quanto pò amor, poi che mi grava partir del loco ch' io dovrei odiare, se degnamente volessi operare!».
L. 4, ott. 5E quinci alla cagion che a ciò il traeva, ciò era Emilia bella e graziosa, subitamente l' animo volgeva; onde con voce alquanto più pietosa, fra sé parlando, misero diceva: «O nobile donzella, o amorosa più ch' altra fosse mai, esemplo degno delle bellezze dello etterno regno,
L. 4, ott. 6dove, partendom' io contra volere, posto che tu giammai non fosse mia, essendo io tuo, ti lascio, o bel piacere? Perché non m' era la prigion men ria, potendo alcuna volta te vedere, ch' avere il mondo tutto in mia balia sanza di te, che io più che me amo, né altra cosa ch' al mondo sia bramo.
L. 4, ott. 7Deh, se io fossi en la mia libertate dimorato in Attene tanto ch' io un poco pur la tua novella etate avessi, omè, accesa del disio del quale io ardo, credo in veritate ch' io sentire' il lungo esilio mio con men dolor, sentendo que' sospiri in te per me c' ho per te, e' disiri.
L. 4, ott. 8Ma tu appena non conosci amore non che tu m' ami, e però non ti cale del mio intollerabile dolore, né puoi compassione al mio gran male portare; e ciò che mi duol maggiore e con asprezza più il cor m' asale, è che mi par vederti maritata ad uom che mai non t' avrà più amata.
L. 4, ott. 9E così 'l mio fedele e buon servire sarà perduto, e angosciosamente lontano a te mi converrà morire. Deh, or foss' io pur certo solamente che per tal morte tu dovessi dire: "Certo costui amò ben fedelmente; e' me ne incresce!". Poi, dove ch' io gissi, altro che ben non credo ch' io sentissi.
L. 4, ott. 10Deh, lasso me!, or che vo io cercando ne' sospir dispietati e angosciosi, che in me ognora van multiplicando, ciò che esser non pò? O tenebrosi regni di Dite, s' alcun tormentando in voi tenete, dite che si posi, poiché vivendo io son colui che porto sol pena, più che altro vivo o morto».
L. 4, ott. 11Poi ad Amor le sue voci volgea con troppo più orribile favella dolendosi di lui; poscia dicea: « Omè, Fortuna dispietata e fella, che t' ho io fatto che sì mi se' rea? O Morte trista, vien, che 'l cor t' appella; coniugni me, col tuo colpo feroce, co' miei passati nella infernal foce».
L. 4, ott. 12 rubr.Come Penteo pervenne in Boezia, e quel che disse vedendo Tebe disabitata.
L. 4, ott. 12Così piangendo con seco Penteo, più doloroso assai che non appare, il dì secondo del regno d' Egeo uscì co' suoi, e cominciò a intrare in quel nel qual già felice poteo, cioè in Boezia; e dopo alquanto andare, Parnaso avendo dietro a sé lasciato, alla distrutta Tebe fu arrivato.
L. 4, ott. 13E' vide tutta quella regione esser diserta allora d' abitanti, per ch' elli incominciò: «O Anfione, se tu, intanto che co' dolci canti della tua lira, tocca con ragione, per chiuder Tebe i monti circustanti chiamasti, avessi immaginato questo, forse ti saria suto il suon molesto.
L. 4, ott. 14Dove sono ora le case eminenti del nostro primo Cadmo? Dove sono, o Semelè, le camere piacenti per te a quel che del più alto trono governa il cielo, e per le qua' le genti tebane mai non meritar perdono da Iuno? E quelle dove son d' Almena, che doppia notte volle a farsi plena?
L. 4, ott. 15Ove di Dionisio appaiono ora, misero me, li triunfi indiani? Deh, dove son gli eccelsi segni ancora de' popoli silvestri libiani? Nessun qui al presente ne dimora: li re son morti, e voi, tristi Tebani, dispersi gite, e 'n cenere è tornato ciò che di voi fu già molto lodato.
L. 4, ott. 16Ov' è lo spesso popolo, ove Laio, ove Edippo dolente, ove i figliuoli? Ogni cosa ha distrutto il fuoco graio; e per multiplicar li nostri duoli con vergogna, le femine il primaio v' accesero. O Iunon, dunque che vuoli del nostro miser sangue più omai? Non ti pare aver fatto ancora assai?
L. 4, ott. 17Piccola forza omai al tuo furore finire ha luogo, ch' io e Palemone, né altro più, del sangue d' Agenore rimasi siamo; e elli è in prigione, e io in tristo esilio; né piggiore stato potresti donarci, o Iunone, fuor se ci uccidi; e questo per conforto disidera ciascun, d' esser già morto».
L. 4, ott. 18 rubr.Come Penteo, partitosi di Boezia, andò a Corinto, e quindi in Mecena.
L. 4, ott. 18E detto ciò, con ira sospirando, da quella torse il viso disdegnoso, co' suo' scudieri inver Corinto andando; nella qual giunto, assai piccol riposo fece, ma ver Mecena cavalcando, in essa quasi fuor di sé pensoso pervenne, e quivi così sconosciuto a servir Menelao fu ricevuto.
L. 4, ott. 19Egli era ancora molto giovinetto, sì come il barba non aver mostrava; bello era assai e di gentile aspetto, e a gran pena quel ch' era celava; ben l' avea fatto alquanto palidetto l' amorosa fatica che portava, ma non sì ch' elli molto non piacesse a chiunque era que' che lui vedesse.
L. 4, ott. 20Egli era già vicin d' uno anno stato con Menelao in gran doglia e tormento, né mai, ben che n' avesse domandato celatamente, del suo intendimento niuna cosa n' aveva spiato; per che ad Egina li venne in talento d' andar, là dove reggeva Pelleo, e, concedendol Menelao, il feo.
L. 4, ott. 21Quivi sperava di potere udire d' Emilia novelle tal fiata; questa sola cagion vel fece gire. Elli avea già la forma sì mutata,di sé cosa alcuna sentia dire, sì ch' a fidanza con la sua brigata prese 'l cammino e gissene ad Egina,dove giunse la terza mattina.
L. 4, ott. 22 rubr.Come Penteo in guisa di povero valletto si pose a stare con Pelleo.
L. 4, ott. 22Quivi in maniera di pover valletto, non delli suoi maggior ma compagnone, al servigio del re sanza sospetto fu ricevuto e messo in commessione; e ubidendo a ciò che gli era detto, si fece a modo che un vil garzone, acciò che e' potesse lì durare, fin che fortuna li volesse atare.
L. 4, ott. 23Quivi con seco sovente piangeva la sua fortuna e la sua trista vita, e spesse volte con sospir diceva: «Ahi, doglioso più ch' altro e tristo Arcita! Se' fatto fante, laddove soleva esser tua casa di fanti guarnita; così fortuna insieme e povertate t' ha concio, e il voler tua libertate.
L. 4, ott. 24Per libero esser, più servo che mai se' divenuto, misero dolente! Ahi, real sangue, che vitupero hai: sed e' mi conoscesse questa gente! Certo per mio peccar nol meritai, ma di Creon la dispietata mente di questo, lasso!, m' è cagione stato, e ancor dello stare imprigionato».
L. 4, ott. 25Così senza nell' animo riposo aver giammai, in doglia sempre stava; e l' esser già istato glorioso vie più che gli altri danni il tormentava; e vorria inanzi sempre bisognoso essere stato e in vita trista e prava, ch' avere avuto tal fiata bene e ora sostener noiose pene.
L. 4, ott. 26E ben che di più cose e' fosse afflitto e che di viver gli giovasse poco, sopra ogn' altra cosa era trafitto d' amor nel core, e non trovava loco; e giorno e notte sanza alcun respitto sospir gittava caldi come foco, e lagrimando sovente doleasi, e ben nel viso il suo dolor pareasi.
L. 4, ott. 27Egli era tutto quanto divenutomagro, che assai agevolmente ciascun suo osso si saria veduto; né credo ch' Erisitone altramente fosse nel viso che esso paruto nel tempo della sua fame dolente; e non pur solamente palido era, ma la sua pelle parea quasi nera.
L. 4, ott. 28E nella testa appena si vedeano gli occhi dolenti; e le guance, lanute di folto pelo e nuovo, non pareano; e le sue ciglia pelose e acute a riguardare orribile il faceano; le come tutte rigide e irsute; e sì era del tutto tramutato, che nullo non l' avria raffigurato.
L. 4, ott. 29La voce similmente era fuggita e ancora la forza corporale; per che a tutti una cosa reddita qua su di sopra dal chiostro infernale parea, più tosto ch' altra stata in vita; né la cagion onde venia tal male giammai da lui nessun saputa avea, ma una per un' altra ne dicea.
L. 4, ott. 30Come d' Attene lì nessun venia, onestamente e con savio parlare di molte cose domandandol pria, d' Emilia trascorrea nel ragionare, addomandando s' ella fosse o fia nelli tempi vicin per maritare, e d' altre cose circustanti molte; ben che ciò gli avenisse rade volte.
L. 4, ott. 31 rubr.Come e perché Penteo si dispose di tornare ad Attene.
L. 4, ott. 31Ma i dolenti fati, i qua' tirando gian d' una in altra miseria costui, vegnendosi il suo fine appropinquando, con poca festa rallegraron lui, diversamente l' opere menando quando per esso e quando per altrui; fin ch' al veduto termine pervenne, dove si ruppe il fil che 'n vita il tenne.
L. 4, ott. 32Per avventura un dì, come era usato, Penteo soletto alla marina gio, e 'nverso Attene col viso voltato mirava fisamente e con disio; e quasi il vento ch' indi era spirato più ch' altro li pareva mite e pio, e ricevendol dicea seco stesso: «Questo fu ad Emilia molto appresso».
L. 4, ott. 33E mentre che 'n tal guisa dimorava, una barchetta dentro al porto entrare vide; laonde ad essa s' appressava, e cominciò di loro a domandare donde venisse; e un che 'n essa stava disse: - D' Attene, e là crediam tornare assai di corto; s' tu vorrai venire, qui su potrai con esso noi salire. -
L. 4, ott. 34A cotal voce sospirò Penteo; poi, tratto quel da parte, pianamente il domandò che era di Teseo, e di più cose diligentemente, a le qua' tutte que' li sodisfeo; ma poi della reina ultimamente e della bella Emilia domandando, così que' li rispose al suo domando:
L. 4, ott. 35- Qualunque dea nel cielo è più bella, nel cospetto di lei parrebbe oscura; ell' è più chiara che alcuna stella,dicesi che mai bella figura fosse veduta tanto come quella; ver è che per la sua disaventura l' altrier morì Acate, a cui sposa esser doveva quella fresca rosa. -
L. 4, ott. 36E altre cose molte più li disse, le qua' misor Penteo in gran pensiero; e 'l tramortito amor quasi rivisse, e il disio più focoso e più fiero parve subitamente divenisse; né ciò li parve a sostener leggiero, e in sé conobbe che 'n tal disiare non potrebbe or, come già fé, durare.
L. 4, ott. 37E' si sentiva sì venuto meno, ch' appena si poteva sostenere; onde, se a quelle pene che 'l coceno nol medicasse l' Emilia vedere, assai in brieve lui ucciderieno; per che diliberò pur di volere in ogni modo tornare ad Attene ad alleggiare o a finir sue pene,
L. 4, ott. 38fra sé dicendo: «Io son sì trasmutato da quel ch' esser solea, che conosciuto io non sarò, e vivrò consolato, me ristorando del mal c' ho avuto, vedendo il bello aspetto ove fu nato il disio che mi tene e ha tenuto; e s' al servigio di Teseo potessi esser, non so che poi più mi chiedessi.
L. 4, ott. 39Se forse è sì crudel la mia ventura ch' io sia riconosciuto, e' m' è il morire vie più grazioso che vita sì dura, come io fo in sempre mai languire». Poi in su tal proposta s' asicura e si dispon del tutto a ciò seguire; e mille anni gli par che a ciò sia, tanto vedere Emilia disia.
L. 4, ott. 40 rubr.Come Penteo tornò in Attene.
L. 4, ott. 40E' non tardò di metter ad effetto cotal pensiero, anzi commiato prese, e 'nver di quella navicò soletto; e 'n pochi giorni lì giunto discese in maniera di povero valletto, e in Attene con tema si mise; e acciò ch' elli Emilia vedesse, stette più dì, né fu chi 'l conoscesse.
L. 4, ott. 41Quando s' avide ben ch' era del tutto fuor delle menti di tutte persone, e che l' angoscia e 'l doloroso lutto ora li torna in consolazione, disse fra sé: «Ancor sentirò frutto della mia lunga tribulazione; e la fortuna, a me stata nemica, sotto altro aspetto mi fia forse amica».
L. 4, ott. 42 rubr.Come Penteo andò nel tempio d' Apollo ad adorare.
L. 4, ott. 42Quinci agli eccelsi templi se ne gio del grande Appollo, e 'nnanzi alle sue are s' inginocchiò, e con sembiante pio volendo quivi li suoi prieghi dare, subito pianto molto lo 'mpedio, venutoli da nuovo memorare quel che già fu e quel che egli ora era; poi cominciò in sì fatta maniera:
L. 4, ott. 43- O luminoso Iddio che tutto vedi, il cielo e 'l mondo e l' acque parimente, e con luce continua procedi tal che tenebra non t' è resistente, e sì tra noi col tuo girar provedi ched e' ci vive e nasce ogni semente, volgi ver me il tuo occhio pietoso e questa volta mi sie grazioso.
L. 4, ott. 44A me non legne, non fuoco, né incenso, non degno armento a la tua deitate, non lauree corone, e or pur censo mi fosse a sodisfar necessitate; e quinci vien che con giusto compenso non son da me le tue are onorate, e tu il ti vedi, ché di ciò ingannare non ti potrei, perch' i' 'l volessi fare.
L. 4, ott. 45Di lagrime, d' affanni e di sospiri, d' ogni infortunio e povertate intera son io fornito, e ancor di disiri d' amor, vie più che bisogno non m' era; di questi a te che l' universo giri fo sacrificii con nuova maniera; prendili per accetti, io te ne priego, e al mio domandar non metter niego.
L. 4, ott. 46Sì come te alcuna volta Amore costrinse il chiaro cielo abandonare e lungo Anfrisio, in forma di pastore, del grande Ameto a gli armenti guardare, così or me il possente signore qui in Attene ha fatto ritornare, contra 'l mandato che mi fé Teseo, allor ch' a Peritoo mi rendeo.
L. 4, ott. 47E ben ch' angoscia transformato m' abbia, e 'l nuovo nome, di ciò ch' io solea altra volta esser, la smarrita labbia priego mi servi o nuova in me la crea, sotto la qual coverta la mia rabbia, vedendo Emilia, contento mi stea, e a servir Teseo sia ricevuto, sanza mai esser lì riconosciuto.
L. 4, ott. 48Se ciò mi fai, e io sia rivestito giammai del mio, sì come tu se' degno t' onorerò. - E fu esaudito d' ogni suo priego, e cognobbene segno; per che dal tempio tosto dipartito, a fornir sua intenzion lo 'ngegno pose, e pensò come fatto venisse ch' esser potesse che Teseo servisse.
L. 4, ott. 49 rubr.Come Penteo fu ricevuto al servigio di Teseo, e come elli prima rivide Emilia, da lei solamente riconosciuto.
L. 4, ott. 49Com' elli avea con seco immaginato, così lo immaginar seguì l' effetto; e s' elli avesse a lingua dimandato non gli saria sì ben venuto detto; però che fu con Teseo allogato, né fu dell' esser suo preso sospetto,domandato fu chi fosse o donde: così gli andaron le cose seconde!
L. 4, ott. 50E' non fu prima a tal partito giunto, che 'l suo aspetto un pochetto più chiaro si fé che pria parea così compunto, e dipartissi il suo dolore amaro il qual l' avea col lagrimar consunto, e le sue membra forze ripigliaro; ma tutte altre allegrezze furon nulla a petto a quando vide la fanciulla.
L. 4, ott. 51Teseo, faccendo una mirabil festa, tra l' altre donne Emilia fé venire, la qual più ch' altra leggiadra e onesta, piacevol, bella e molto da gradire, ornata assai in una verde vesta, tal che di sé ciascuno uom facea dire lode maravigliose, e tal dicea che veramente ell' era Citerea.
L. 4, ott. 52Ma oltre a tutti gli altri con disio la rimirava più lieto Penteo, dicendo seco: - O Giove, sommo iddio, se e' mi fa omai morir Teseo, alli tuoi regni me ne verrò io; omai non mi può nuocer tempo reo, e di buon cuor perdono alla fortuna se mai di mal mi fece cosa alcuna,
L. 4, ott. 53poi ch' ella m' ha condotto a cotal porto, ch' io veggio il chiaro viso di colei ch' è sommo mio diletto e mio conforto. Fuggan da me e sospiri e gli omei, fugga 'l disio ch' aveva d' esser morto, siemi ben sommo il rimirar costei; questo mi basti. - E sì dicendo, fiso sempre mirava l' angelico viso.
L. 4, ott. 54Maggior letizia non credo sentisse allor Tereo quando li fu concesso per Pandion che Filomena en gisse alla sua suora in Trazia con esso, che or Penteo; ma come ch' avenisse, essendogli ella non molto di cesso, inver di lui alquanto gli occhi alzati, ebbe li suoi di botto affigurati.
L. 4, ott. 55Mirabil cosa a dir quella d' amore, che rade volte è che la cosa amata, quantunque ella abbia male abile core d' esser per tale obietto innamorata, pur nella mente porta l' amadore; e quantunque ella si mostri adirata, non le dispiace, e se non ama altrui, poco o assai conven ch' ami colui.
L. 4, ott. 56Era, com' è già detto, giovinetta Emilia tanto, ch' ella non sentia quanto nel core amor punge o diletta, allor ch' Arcita pria se n' andò via le' rimirando, come su si detta; il quale, ancor che la fortuna ria così deforme l' avesse renduto, da essa sola fu riconosciuto.
L. 4, ott. 57Ella nol vide prima che ridendo con seco disse: «Questi è quello Arcita il quale io vidi dipartir piangendo. Ahi, misera dolente la sua vita! Che fa e' qui? Or che va e' caendo? Non conosc' el che se fosse sentita la sua venuta da Teseo, morire gli converrebbe o in prigion reddire?».
L. 4, ott. 58Vero è che tanto fu discreta e saggia, che più di ciò non parlò ad alcuno, e a lui fa sembianti che non l' aggia giammai veduto più in loco nessuno; ma ben si maraviglia quale scaggia di bianco l' abbia così fatto bruno e dimagrato, che par pur la fame nel suo aspetto e pien di tutte brame.
L. 4, ott. 59Incominciò il nobile Penteo, ammaestrato da fervente amore, sì a servir sollecito a Teseo e ad ogni altro per lo suo valore, ch' elli in tutto suo segreto il feo, amando lui più ch' altro servidore; e 'l simile l' amava la reina di buono amor, e ancor la fantina.
L. 4, ott. 60E ben che la fortuna l' aiutasse e fosse a lui benigna ritornata, mai dal diritto senno lui non trasse, né 'l fece folleggiare una fiata; e posto che ferventemente amasse, sempre teneva sua voglia celata, tanto ch' alcun non se ne accorse mai, ben che facesse per amore assai.
L. 4, ott. 61Come io dico, saviamente amava, né si lasciava a voglia trasportare, e a luogo e a tempo rimirava Emilia bella, e ben lo sapea fare; e ella savia talor se ne addava, mostrando non saper che fosse amare; ma pur l' età già era innanzi tanto, che ella conoscea di ciò alquanto.
L. 4, ott. 62Esso cantava e faceva gran festa; faceva pruove e vestia riccamente, e di ghirlande la sua bionda testa ornava e facea bella assai sovente; e 'n fatti d' arme facea manifesta la sua virtù, che assai era possente; ma duol sentiva, in quanto esso credea Emilia non sentir per cui il facea.
L. 4, ott. 63Né e' non gliele ardiva a discovrire, e isperava e non sapea in che cosa, donde sentiva sovente martire; ma per celar ben sua voglia amorosa, e per lasciar li sospir fuori uscire che facean troppo l' anima angosciosa, avea in usanza tal volta soletto d' andarsene a dormire in un boschetto.
L. 4, ott. 64E questo aveva in costuma di fare nel tempo caldo, ch' era fresco il loco, e era sì rimoto da l' andare di ciaschedun, che ben poteva il foco d' amor con voci fuor lasciare andare e a sua posta lungamente e poco; e non era lontano alla cittate oltre tre miglia giuste misurate.
L. 4, ott. 65Egli era bello, e d' alberi novelli tutto fronzuto e di nova verdura; e era lieto di canti d' uccelli, di chiare fonti fresche a dismisura, che sopra l' erbe facevan ruscelli freddi e nemici d' ogni gran calura; conigli, lepri, cervi e cavriuoli vi si prendean con cani e con lacciuoli.
L. 4, ott. 66Come io dico, in quello assai sovente, quando con arme e quando senza, gire Penteo usava, e 'n su l' erba ricente sotto un bel pin si poneva a dormire, a ciò invitato da l' acqua corrente che mormorava; ma del suo disire focoso, in prima che s' adormentasse, con Amor convenia si lamentasse.
L. 4, ott. 67E cominciava così a parlare: - Io non pensava, Amor, che tu potessi tanto in un cuor d' uno uomo adoperare, ch' al piacer d' una donna sì 'l traessi, ch' ogni altra cosa il facessi obliare, e in potenzia di lei tutto il ponessi, come hai posto tutto quanto il mio, che altro che servirla non disio.
L. 4, ott. 68Ma tu m' hai fatto in alcun caso torto, però ch' io amo e non son punto amato, ond' io non spero mai d' aver conforto; e haimi sì tutto l' ardir levato, che dir non l' oso, e tu te ne se' accorto, perché troppo m' hai posto in alto lato a quel ch' a mia fortuna si convene, ché non son ricco d' altro che di pene.
L. 4, ott. 69Deh, quanto mi saria stata più cara la morte ch' aspettar la tua saetta! Oh, quanto dicer può che l' abbia amara qualunque è que' che dolente l' aspetta, però che in essa poco ben ripara a rispetto del mal che ella getta! E però s' io mi dolgo, io ho ragione, vedendo me legato in tua prigione.
L. 4, ott. 70Ma tu se' tanto e tal, caro signore, ch' ogni mia doglia puoi volvere in pace, faccendo ch' ella mi senta nel core quale essa dentro al mio sentir si face; e io, sì come umil servidore, ti priego il facci, Amor, se e' ti piace. Deh, chi sarà di me poi più contento, se per me pruova quel ch' io per lei sento?
L. 4, ott. 71Io viverò tutto tempo gioioso,biasmerò giammai tua signoria; io ti farò sacrificio pietoso, signor mio caro, della vita mia, e sempre il tuo onore in grazioso verso da me lieto cantato fia: adunque fallo, se di me ti cale, ch' io mi consumo per soverchio male. -
L. 4, ott. 72Questo ripete spesso con sospiri, chiamando Emilia, e nel dir si contenta, e quasi in mezzo delli suoi martiri istanco tutto quivi s' adormenta; e mentre il ciel co' suoi etterni giri l' aere tien di vera luce spenta, si stava, e sempre si svegliava allora che da Titon partita ven l' Aurora.
L. 4, ott. 73Allor, sentendo cantar Filomena che si fa lieta del morto Tereo, si drizza, e 'l polo con vista serena mirato un pezzo, lauda Penteo la man di Giove d' ogni grazia piena, che lavoro sì bello e grande feo; poi ad Emilia il suo pensier voltava, vedendo Citerea che si levava
L. 4, ott. 74mostrando innanzi al sol la sua chiarezza, alla qual gli occhi d' Emilia lucenti assomigliava e la mira bellezza; e gli augelletti, del giorno contenti, davan, cantando in su' rami, dolcezza, per che a Penteo i pensier più cocenti si facevano ognora, e più a quelli dava gli orecchi, sì gli parean belli.
L. 4, ott. 75E quando aveva gran pezza ascoltato, mirava inver lo cielo e sì dicea: - O chiaro Febo, per cui luminato è tutto il mondo, e tu piacente dea del cui valor m' ha tuo figliuol piagato vie troppo più che io non mi credea, mettete in me sì del vostro valore, che io non pera per soverchio amore.
L. 4, ott. 76Deh, date al mio amar fine piacente, sì ch' io non moia per fedelmente amare; per giovanezza Emilia non sente che cosa sia ancora innamorare, né come piace conosce niente, se ad Amor non gliel fate mostrare; e io non l' oso più fare assentire, tanta è la mia paura del morire.
L. 4, ott. 77E così vivo in speranza dubbiosa, e 'l mio adoperare è sanza frutto; per ch' io ti priego, o Venere amorosa, entrale in core omai, e me che tutto son sanza fallo suo, fa che pietosa senta, sì che si termini il mio lutto; e tu, Febo, la fa tanto discreta, che la mia voglia in sé ritenga cheta. -
L. 4, ott. 78E queste e altre più parole ancora metteva in nota lo giovine amante; ma poi che e' vedeva chiara l' ora e le stelle partite tutte quante, sanza far quivi più lunga dimora, se ne veniva ad Attene festante, e alla cambra del signor n' andava per lui servir, se nulla bisognava.
L. 4, ott. 79 rubr.Come Penteo, nel boschetto ramaricandosi, fu conosciuto da Panfilo.
L. 4, ott. 79Questa maniera teneva Penteo molto sovente, fuor d' ogni paura, e a grado servendo il gran Teseo, di suo amore ognora avea più cura; ma poco n' avanzava, e di ciò reo li parea molto, onde di sua sventura una mattina con greve parlare così si cominciò a ramarcare:
L. 4, ott. 80- O misera Fortuna de' viventi, quanti dai moti spessi alle tue cose! Deh, come abbassi li sangui e le genti, e quando vuoli ancora graziose le vilissime fai, e non consenti di legge avere in esse mervigliose, sì come uom vede in me che son verace esemplo del girar che fai fallace.
L. 4, ott. 81Di real sangue, lasso!, generato, venni nel mondo d' ogni pena ostello, e con gran cura in ricchezza allevato, nella città di Bacco tapinello vissi e con gioia tenni grande stato, sanza pensare al tuo operar fello; poi per l' altrui peccato, non per mio, la gioia e 'l regno e 'l sangue mio perio.
L. 4, ott. 82E fui del campo per morto, doglioso feruto, tolto e recato a Teseo, il qual, sì come signor poderoso, come li piacque, imprigionar mi feo; quivi, per farmi peggio, l' amoroso dardo m' entrò nel cor, focoso e reo, per la bellezza d' Emilia piacente, che mai di me non si curò niente.
L. 4, ott. 83E cominciai di novo a sospirare per tal cagione, e a sostener pene; né mi pareva assai avere a fare di sostener di Teseo le catene, delle qua' Peritoo mi fé cacciare; onde convenne partirmi d' Attene, credendo aver mio affar migliorato, e di gran lunga il trovai piggiorato;
L. 4, ott. 84ch' io mi trovai povero e pellegrino del regno mio cacciato, e per amore gir sospirando a guisa di tapino; e là dove altra volta fui signore, servo divenni per lo gran dichino della fortuna; e non potendo il core più sofferir, da Pelleo fei partita, Penteo essendo tornato d' Arcita.
L. 4, ott. 85E sì d' Emilia strinse la bellezza, che di Teseo cacciai via la paura, e qui mi misi per la mia mattezza a ritornare con mente sicura, essendo suo nemico; alla sua altezza divenni servidor con somma cura, sì ch' io Emilia vedessi sovente, colei ch' è donna mia veracemente.
L. 4, ott. 86E essa, omè, del mio greve tormento nulla si cura né pensa este cose, sì che io servo vie peggio ch' al vento, e stonne sempre in pene dolorose; e or m' avesser sol fatto contento d' un bel guardarmi le luci amorose! Ma tu, crudel Fortuna, mi ci nuoci, ch' ognor con nuovo foco più mi coci.
L. 4, ott. 87Di tanto sol seconda mi se' stata, che 'l nome mio hai ben tenuto cheto; e ha'mi ancor tanta grazia donata, che al servir m' hai fatto mansueto; e di Teseo la grazia m' hai prestata, di che io son vivuto molto lieto; ma tutto è nulla, s' Emilia non fai che com' io l' amo conosca oramai.
L. 4, ott. 88Io ardo e 'ncendo per lei tutto quanto, e dì né notte non posso aver posa, ma mi consumo e in sospiri e 'n pianto; né mi pò confortare alcuna cosa, se non Emilia cui io amo tanto, mostrandomi la sua faccia amorosa, dalla qual, morto, lei mirando vita riprendo, tanta speranza m' aita. -
L. 4, ott. 89Così di sopra da l' erbe e da' fiori Penteo la sua fortuna biasimava un bel mattin, nel venir degli albori. Allor per avventura indi passava Panfilo, ch' era l' un de' servidori di Palemone, e intento ascoltava dello scudiere il gran ramarichio di sua fortuna e ancor del disio.
L. 4, ott. 90E fra se stesso si fu ricordato chi fosse Arcita, e udì che Penteo nel suo ramaricar s' era chiamato, per che tantosto lo riconosceo, e molto seco s' è maravigliato com' elli avea la grazia di Teseo: non disse nulla, ma ver la prigione se ne tornò per dirlo a Palemone.
L. 4, ott. 91Ma il giovine Penteo, di ciò ignorante, come ora fu in Attene sen venne, e con allegro viso e con festante al loco ove era il suo signor pervenne; col qual di molte cose ragionante, sì com' elli era usato, si ritenne; poi, partito da lui, gì a sapere s' un poco Emilia potesse vedere.
L. 4, explicitQui finisce il libro quarto del Teseida.
L. 5, son. iniz. rubr.Sonetto nel quale si contiene l' argomento particulare del libro quinto.
L. 5, son. iniz.Marte, che troppo s' era riposato, entrato in Palemon novo sospetto il suo compagno udendo ritornato, dimostra il quinto a lui entrar nel petto; quindi dichiara lo 'ngegno trovato a sprigionarlo dal savio valletto, poi dal medico suo il mostra armato, e lui orante conduce al boschetto. Poscia le lor carezze, e 'l quistionare d' ognun volere Emilia, e 'l fiero Marte può chiaro assai chi più legge trovare; quindi venendo Emilia d' una parte, vedendo lor, Teseo fece chiamare, il qual con patto lor, già noti, sparte.
L. 5, ott. 1 rubr.Incomincia il libro quinto del Teseida. E prima come Palemone, pensoso rimaso in prigione, seppe che Arcita era tornato.
L. 5, ott. 1Rimase Palemon, partito Arcita, com' è già detto di sopra, in prigione, e poco cara aveva la sua vita, tanta sentiva più sconsolazione che altro, e simil per la dipartita la qual già fatta avea il suo compagnone; e 'l tempo suo in lagrime e sospiri tutto spendeva, pien d' aspri martiri.
L. 5, ott. 2In parte paurosa gelosia lo stimola che Arcita, dell' amore d' Emilia forse rinvestito, sia per suo sollecitar di prigion fore; e quinci pensa ch' Arcita si fia dileguato del mondo per temore dell' aspra morte che Teseo dicea di darli se lì giunger lo potea.
L. 5, ott. 3Poi d' altra parte lo stringeva assai amor più che l' usato, e disiare li facea ciò ch' a lui non parea mai possibil di potere appressimare; speranza d' altra parte li suoi guai faceva alquanto più lievi passare; così di cose varie si gravava dentro al pensiero, e simil s' alleggiava.
L. 5, ott. 4E pur portava nel core speranza che di prigion quando che sie uscirebbe, della qual fuor, l' amor della sua amanza sanz' alcun fallo crede acquisterebbe; e quasi li parea sanza fallanza ch' ancor per sua nel mondo la terrebbe; e 'n cotal guisa sua vita menando, viveva in doglia e 'n gioia talora stando.
L. 5, ott. 5Al qual Panfil, tornando del boschetto, venne in prigione e d' una parte il trasse; e ragionando con esso soletto, molto il pregò che non si sconfortasse, e poi li disse senza alcun difetto come conobbe Arcita, e ciò che trasse del suo parlare, e ch' e' servia Teseo e faceasi per nome dir Penteo.
L. 5, ott. 6Maravigliossi Palemone assai, e disse: - Panfil, guarda non errassi; ché io non credo che Arcita mai né tu né altri per qua lo scontrassi. - Rispose Panfil: - Certo sì scontrai, e ancora è nel boschetto e istassi, e ben che sia molto transfigurato, e' pure è desso, tanto l' ho mirato. -
L. 5, ott. 7Palemon disse allora: - Grande amore e poco senno cel fa dimorare, ché se venisse ad orecchie al signore, tututto il mondo nol poria campare. O sommo Giove, quanto l' amadore al suo disio sé lascia tirare, e quanti ingegni s' usan per venire all' amoroso fin di tal disire! -
L. 5, ott. 8Poi disse a Panfil: - Guarda che non sia sentito da nessun ciò che m' hai detto, ché posto ch' elli a me per gelosia sanza colpa di lui mi sia sospetto per uscir di prigione, in fede mia non vorre' io ch' egli avesse difetto; se gl' iddii l' aman più che me non fanno, abbiasi il pro' e mio si sia il danno. -
L. 5, ott. 9 rubr.Come a Palemone venne del tutto in disio d' uscire di prigione, e il perché; e come Panfilo trovò il modo.
L. 5, ott. 9Poi cominciò a pensar fortemente sopra l' affar d' Arcita innamorato, e crede che d' Emilia veramente il lieto amore egli abbia guadagnato, e poscia dice: «O me lasso dolente, in che mal punto nel mondo fui nato! Ch' io amo e sto in prigione, e altri face quel ch' io faccendo poria sentir pace.
L. 5, ott. 10E or mi fosse un poco di speranza rimasa, o mi venisse, dell' uscire di questo loco! Io mi crederei, sanza la doglia che io ho, gioia sentire, e ancora la mia somma intendanza sanz' alcun fallo crederei fornire; ma sì m' è gran nemica la fortuna, ch' io n' uscirò quando starà la luna!
L. 5, ott. 11E s' io di quinci uscissi per ventura, da Arcita converria che io sapesse, su buon cavallo e con forte armadura, quel che tra lui e me esser dovesse dell' amor della nobil creatura che mi fa sentir pene così spesse; e fermamente ella mi rimarrebbe, o sopra il campo l' un di noi morrebbe.
L. 5, ott. 12Ma come avrei io ardir contro a lui, che per uscirci giammai non tentai? E el non cura lo star con colui ch' è suo nemico per vederla, e mai non ha posato di servire altrui per servir lei; e io in trarre guai ho speso il tempo, ov' io dovea più tosto morir voler che sempre star nascosto».
L. 5, ott. 13E sì come Tesifone, chiamata dal cieco Edippo nella oscura parte dov' elli lunga notte avea menata, a' due fratei del regno con su' arte mise l' arsura, così a lui 'ntrata con quel velen che 'l suo valor comparte, d' Emilia aver, dicendo: - Signoria né amore stan ben con compagnia. -
L. 5, ott. 14E subito così cambiò il pensiero, e chiamò Panfil di cui si fidava, e disse: - Amico, ora sappi per vero che troppo qui l' adimorar mi grava, e però fa che il mio dire intero vegna, se puoi, sicch' io di questa prava prigion mi parta e possa conquistare per arme Emilia, se e' si può fare.
L. 5, ott. 15Questo pensier di novo m' è venuto e sanza fallo il metterò ad effetto; e se e' fia per ventura saputo prima che sia con l' opera perfetto, da me si dica che sia proceduto ciò che farai, ché e' mi fia diletto morire anzi che stare in tal tormento, perciò ch' io fo il dì ben morti cento. -
L. 5, ott. 16Panfil rispose: - Caro signor mio, morir per voi a me sarebbe vita, e però penserò sì ch' al disio di voi darò bene opera compita, avvegnane che puote omai; ché s' io ne dovessi morir, darovvi uscita di questo loco; onde vi confortate e di cuor lieto alquanto v' aspettate. -
L. 5, ott. 17Elli uscì fori e gio in loco solo, e 'nfra se stesso cominciò a pensare; e pria li venne nel pensiero il volo che Dedal fé con Icar per campare, ma nol vide possibil; poi d' imbolo s' immaginò lui di prigion cavare, ma non li parve via ben ben sicura; però non se ne mise in avventura.
L. 5, ott. 18Similemente pensò per denari voler corromper le guardie vegghianti, sentendo loro in generale avari; ma mal pareali a fidarsi di tanti quanti di nuovo lì venien vicari sanza lunga dimora essere stanti; e 'n brieve non vedea di poter fare ciò che 'ntendea con le guardie trattare.
L. 5, ott. 19Ma pur li venne un modo in pensamento che infra gli altri li parve migliore, e dopo molto disaminamento il si fermò con ordine nel core, pensando che il suo intendimento saria fornito e quel del suo signore; al qual n' andò, là dov' era in prigione, e così cominciò: - O Palemone,
L. 5, ott. 20e' non ha guar che qui venne Alimeto, di medicina maestro sovrano, uom d' alto senno e di vita quieto; e so che esso fu nostro tebano, e puolli l' uom ben dire ogni segreto e da lui prender buon consiglio e sano: questi ci fornirà il nostro fatto, per mio avviso, e udite in che atto:
L. 5, ott. 21che voi v' infignerete esser malato in sul mutar che le guardie si fanno, e io avraggio ben lui informato e avvisato dello nostro inganno, e 'ncontanente a voi l' avrò menato, perché e' curi voi del vostro affanno; e' vestirà li miei panni, ma voi, sì come mastro, vi vestite i suoi.
L. 5, ott. 22E sanza fare alcun dimostramento, con lui fuor ve n' uscite baldanzoso, e me lasciate qui sanza pavento in vostro luogo, e dite ch' io riposo; essi non fien di tanto avvedimento che vi conoscan, se voi uscite oso; poi se Arcita volete, soletto voi il troverete nel lieto boschetto. -
L. 5, ott. 23- Tu hai ben detto - disse Palemone; - però metti ad effetto queste cose. - E malato si fece alla stagione che Panfilo con lui insieme pose; e Panfil, sanza far dimoragione, ad Alimeto il loro affar dispose. Egli era a Palemon fedele amico; disse: - Io son presto, e farol com' io dico. -
L. 5, ott. 24 rubr.Come Panfilo, inebriate le guardie, fece Palemone uscire di prigione.
L. 5, ott. 24Panfilo allor si cominciò a dolere con que' ch' avean Palemon a guardare, che 'l suo signore è infermo, e a sedere con lor si puose, e fé vino arrecare a gran dovizia, e cominciò a bere; e però che non l' aveano a pagare, sanza ordine nessun n' hanno cioncato, tanto ch' ognun s' è bene inebriato.
L. 5, ott. 25Allora Panfil fé il mastro venire, il qual vi venne molto lietamente, e tosto de' suo' panni il fé vestire, e Palemone ancor similemente di que' del mastro fece rifornire; e sanza più addimorar niente, Palemon, fatto medico, assai lieto fuor di prigione uscì con Alimeto.
L. 5, ott. 26Le guardie allora incontro li si fanno, e del prigion domandan come stava, e e' con fermo viso dello inganno che Panfil fatto aveva, ben s' adava, e disse: - Certo egli ha assai affanno, ma al presente alquanto si posava; però il lasciate questa notte stare, domattina il verrò a ricercare. -
L. 5, ott. 27 rubr.Come Palemone, uscito di prigione, andò armato al boschetto.
L. 5, ott. 27Lasciato adunque il suo buon servidore Palemone in prigion, col suo maestro se n' andò all' ostiere, e di bon core, dimenticato già il tempo sinestro, dormì alquanto, e già vegnenti l' ore vicine al giorno su si levò destro; e fattesi armi e buon caval ancora prestar, quivi s' armò sanza dimora.
L. 5, ott. 28Alimeto sapeva il convenente, sì come Palemon gli avea contato; per ch' elli il lasciò fare, e prestamente ben l' aiutò, però che n' era usato. E quelli uscì d' Attene di presente, e inverso il boschetto s' è avviato,dove Arcita allora si dormia sicuro sì come faceva in pria.
L. 5, ott. 29Cheto era il tempo, e la notte le stelle tutte mostrava ancora per lo cielo, e 'l gran Chiron Aschiro avea, con quelle che vanno seco, il pianeto che 'l gielo conforta, il quale le sue corna belle coperte aveva con lucente velo, e quasi piena, ove Cenìt facea il ciel, nel mezzo cerchio, rilucea.
L. 5, ott. 30Inver la qual, poi l' ebbe rimirata alquanto, Palemon cominciò a dire: - O di Latona prole inargentata, che or meni i passi miei sanza fallire con la tua luce meco accompagnata, piacciati alquanto li miei prieghi udire; e come in questo se' ver me pietosa, così nell' altro mi sii graziosa.
L. 5, ott. 31Io vado tratto da quella fortezza d' amor che trasse Pluto a innamorarsi sopra Tifeo della tua gran bellezza, allor che tu ne' prati con iscarsi passi ten givi en la tua giovanezza cogliendo i fiori per li campi sparsi. Acciò che per battaglia io possa avere l' amor di quella sol che m' è in calere,
L. 5, ott. 32guida li passi miei, come facesti più volte in mar di Leandro i lacerti; e sì col padre tuo fa che mi presti quella virtù che fa gli uomini esperti; e come tu del tuo lume mi vesti, così da' colpi i membri fa coperti che mi darà l' avversario potente, sì ch' io di lui ne rimanga vincente. -
L. 5, ott. 33 rubr.Come Palemone pervenne al bosco, ove trovò Arcita dormire.
L. 5, ott. 33E mentre che così dicendo andava, giunse nel bosco per gli albori ombroso, e con intento sguardo in quel cercava acciò ch' Arcita trovasse amoroso; e mentre in dubbio fortuna il portava, s' avenne sopra il prato ove riposo prendeva Arcita, ch' ancora dormiva e Palemon vegnente non sentiva.
L. 5, ott. 34E poi che fu di sopra la rivera sotto il bel pino infra le fresche erbette che lì avea produtte primavera, vide dormire Arcita; onde ristette, e appressato quivi dov' egli era, il rimirava, e a ciò molto stette; e sì nel viso li parea mutato, che non l' avrebbe mai raffigurato.
L. 5, ott. 35Ma Febea, che chiara ancor lucea, co' raggi suoi il viso li scopria, sicché aperto Palemon vedea perché il risomigliarlo li fuggia; ma poi ch' alquanto mirato l' avea, in sé la sua effigie risentia, per che disse fra sé: « Desso è per certo, né 'l può celar la barba ond' è coverto».
L. 5, ott. 36E' nol voleva miga risvegliare, tanto pareva a lui che e' dormisse soavemente; ma si pose a stare allato a lui, e così fra sé disse: «O bello amico molto da lodare, se al presente tu ti risentisse, tosto fra noi credo si finirebbe qual di noi due per donna Emilia avrebbe».
L. 5, ott. 37 rubr.Come, risvegliato, Penteo si fece carezze con Palemone, e il loro ragionare.
L. 5, ott. 37E 'n questo il giorno a fare era già presso, e a cantar gli uccelli han cominciato, per che Penteo, risentendosi addesso, in piè si fu prestamente levato. Ver Palemon, che veniva verso esso, con maraviglia tosto s' è voltato, e disse: - Cavalier, che vai cercando per questo bosco, sì armato andando? -
L. 5, ott. 38A cui tosto rispose Palemone: - Cosa del mondo nulla altra cercava se non di trovar te, o compagnone; questo voleva e questo disiava, e però sono uscito di prigione. - E poi benignamente il salutava. Penteo li rispose al suo saluto e tostamente l' ha riconosciuto.
L. 5, ott. 39E 'nsieme si fer festa di buon core e li loro accidenti si narraro; ma Palemon, che tutto ardea d' amore, disse: - Or m' ascolta, dolce amico caro; io son sì forte preso del valore d' Emilia bella col visaggio chiaro, che io non trovo dì né notte loco, anzi sempre ardo in amoroso foco.
L. 5, ott. 40E tu so ch' ancor l' ami similmente, ma più che d' uno ella esser non poria; per ch' io ti priego molto caramente che tu consenta che ella sia mia; e' mi dà 'l cuor di far sì fattamente, se questo fai, che quel che ne disia di lei 'l mio core avrò sanza tardanza; lasciala dunque a me sol per amanza. -
L. 5, ott. 41Quando Penteo queste parole intese, tutto si tinse e divenne fellone, e d' ira dentro tutto il cor s' accese, e poi rispose e disse: - Palemone, e' ti puote esser certo assai palese ch' i' ho messa mia vita a condizione sol per poter ad Emilia servire, cui io tanto amo, ch' i' nol poria dire.
L. 5, ott. 42Però ti priego, se t' è la mia vita niente cara, che quel che dimandi tu il conceda al tuo parente Arcita, il qual s' è messo a pericoli grandi per procacciar di lei gioia compita; e tu il sai se e' son ammirandi, che uditi gli hai, raccontandotegli io: fa dunque, caro amico, il mio disio. -
L. 5, ott. 43Palemon disse allor: - Veracemente questa non è l' amistà ch' io credea aver di te, poi sì palesemente un don mi nieghi il quale io ti chiedea; ma io ti giuro, per l' onipotente Giove del cielo e per Venere dea, che prima ch' io di qui faccia partenza, co' ferri partirén tal differenza.
L. 5, ott. 44Però t' acconcia come me' ti piace dell' arme omai, e tua ragion difendi, ché di tal guerra non sarà mai pace, poi quel di ch' io ti priego mi contendi, e 'l core in corpo tutto mi si sface. Perché tu peni e del campo non prendi contra di me, che vincer o morire per la mia donna porto nel disire? -
L. 5, ott. 45A cui Penteo disse: - O cavaliere, perché vuo' por te e me in periglio forse di morte (e non ti fa mestiere)? Deh, noi possiam pigliar miglior consiglio, che ciascun si procacci a suo potere d' aver l' amor del grazioso giglio, e a cui il concede la fortuna colui se l' abbia sanza briga alcuna.
L. 5, ott. 46Tu sai che io son quiritto sbandito, e tu hai rotta a Teseo la prigione; però se 'l nostro affar fosse sentito, non ci bisogneria far più ragione d' Emilia bella col viso chiarito, ma seremmo di morte a condizione; e però piano amiamo intrambendui, infin che Giove altro faccia di noi.
L. 5, ott. 47Forse le cose avranno mutamento, e potremmo tornare in nostro stato; o io partirmi e tu esser contento, come fui io, da Teseo accettato, e così alleggiarsi il tuo tormento; o quello amor mancar che m' ha infiammato, e sola Emilia a te si rimarebbe, ch' essere in questo punto non potrebbe. -
L. 5, ott. 48Palemon più di ciò non volle udire, anzi li disse tosto: - Vedi, Arcita, se io dovessi qui oggi morire, tra noi convien che ella sia partita; chi me' saprà della spada ferire, a lui rimanga la donna e la vita; se tu mi fai per forza ricredente, mai più non l' amerò veracemente. -
L. 5, ott. 49- Deh! - disse Arcita, - Questo a dir che vene? Pognàn che tu quiritta m' abbi morto, che farai tu? Avrai tu minor pene? Che ben te ne verrà o che conforto? Io pur conosco che e' ti convene in prigion ritornare, o, pel più corto cammin che tu potrai, fuggirne via: Emilia, poscia, che util ti fia?
L. 5, ott. 50E pognàm pur che tu fossi in amore a Teseo com' io sono, è tua credenza che le volesse te dar per signore? Tu se' ingannato; egli ha più alta intenza! Io sono stato e son suo servidore quanto esser posso, e sempre sto in temenza, dove ch' io sia, pur di rimirarla; e tu come ardirai di domandarla?
L. 5, ott. 51E se io qui con fé ti promettessi di non amarla, credi tu che fare con tutto il mio ingegno io il potessi? Certo più tosto sanza mai mangiare crederei viver che d' amarla stessi; e amor non si può così cacciare come tu credi; e poco ama chi posa, per impromessa, d' amare una cosa.
L. 5, ott. 52Dunque che vuoi pur far? Combatteremo, e con le spade in man farén le parti di quella cosa che noi non avemo? Deh, perché lasci così abagliarti al tuo folle consiglio? Omè, ch' io temo lo 'mpedimento tuo, se non ti parti prima che 'l giorno sia, né sicur sono, s' io son riconosciuto, di perdono. -
L. 5, ott. 53- Di mia salute - disse Palemone, - non aver tu pensier; del tutto, avanti che io mi parta, la nostra quistione si finirà, sì che l' un de' due amanti solo d' amarla fia in possessione; e' consigli che dai ho tutti quanti esaminati meco, e son contento più di morir che di vita in tormento.
L. 5, ott. 54Se tu fai quel ch' io cheggio, gelosia, s' altro non me ne segue, avendo fede in te come in amico, anderà via; se ben nel tempo di ciò mi procede, rendronne grazie alla fortuna mia; dunque t' apresta, ché il mio cor crede vittoria aver, se non vuogli altramente in ciò far cosa che mi sia piacente. -
L. 5, ott. 55Allora disse Penteo sospirando: - Omè, ch' io sento l' ira dell' iddii, li quali ancor ne vanno minacciando contrarii tutti alli nostri disii; e la fortuna ci ha qui lusingando menati con effetti lieti e pii, e non Amore, a voler che moiamo per le man nostre, come noi sogliamo.
L. 5, ott. 56Omè, che m' era assai maravigliosa cosa a pensar che Iunon ci lasciasse nostra vita menare in tanta posa, e come i nostri noi non stimolasse, de' quali alcun giammai a gloriosa morte non venne, che si laudasse; ond' io mi posso assai ramaricare, vedendo noi a simil fin recare.
L. 5, ott. 57I primi nostri, che nacquer de' denti seminati da Cadmo, d' Agenore figlio, ver lor furon tanto nocenti, che sanza riguardar fraterno amore fra lor s' uccisero; e i can mordenti Atteon disbranaron lor signore; e Atamante i suoi figliuoli uccise, tal Tesifone in lui fiera si mise!
L. 5, ott. 58Latona uccise i figliuoi d' Anfione intorno a Niobè, madre dolente; e la spietata nemica Iunone arder fé Semelè miseramente; e qual d' Agave e delle sue persone fosse la rabbia, il si sa tutta gente; e simile d' Edippo, il quale il padre uccise e prese per moglie la madre.
L. 5, ott. 59Quai fosser poi fra loro i due fratelli, d' Edippo nati, non cal raccontare: il fuoco fé testimonianza d' elli, nel qual fur messi dopo il lor mal fare; e 'l misero Creonte dopo quelli molto non s' ebbe di Bacco a lodare; or resta sopra noi, che ultimi siamo del teban sangue, insieme n' uccidiamo.
L. 5, ott. 60E e' mi piace, poi che t' è in piacere, che pure infra noi due battaglia sia; io sarò presto a fare il tuo volere, ma pria mi lascia addobbar l' arma mia e ripigliare lo mio buon destriere; quindi farén tutto ciò che disia la mente folle che sì ti consiglia: piangasi il danno a cui di ciò mal piglia. -
L. 5, ott. 61Isnellamente Penteo si fu armato, se forse alcuna cosa li mancava, e ebbe tosto il caval ripigliato, e destramente sopra vi montava; e inver Palemon si fu voltato, che fiero e tutto ardente l' aspettava, e sì li disse: - Omai, come ti piace, prendi con meco o vuo' guerra o vuo' pace.
L. 5, ott. 62Ma siemi il ciel, che queste cose vede, ver testimonio, e Appollo surgente, e' Fauni e le Driade, se si crede che 'n questo loco alcun ne sia possente; e le stelle ch' io veggio faccian fede come io son del combatter dolente, e Priapo con esse, li cui prati ci apparecchiàn di fare insanguinati.
L. 5, ott. 63Non mi si possa mai rimproverare ch' io sia cagion di battaglia con teco; tu mossa l' hai e tu pur la vuoi fare, e pace schifi di voler con meco; sallosi Iddio ch' io non poria lasciare mai d' amar quella c' ha 'l mio cor con seco; ma, così amando, volentier vorrei con teco pace, e presto a ciò sarei. -
L. 5, ott. 64 rubr.Come tra Penteo e Palemone, dopo lungo ragionare, si cominciò la battaglia.
L. 5, ott. 64Dette queste parole, nulla cosa rispose Palemon, ma inanzi al petto lo scudo si recò, quindi l' ascosa spada nel foder trasse, e 'l viso eretto, inver Penteo con voce orgogliosa disse: - Or si parrà chi più diletto avrà d' amare Emilia. - A cui Penteo: - Tu di' il vero; - e 'nver di lui si feo.
L. 5, ott. 65E' non avevan lance i cavalieri, e però insieme giostrar non potero; ma con li spron punsero i buon destrieri, e con le spade in man presso si fero l' un verso l' altro, e sì si scontrar fieri, che maraviglia fu, a dir lo vero, e sì de' petti i cava' si feriro, che rinculando a forza in terra giro.
L. 5, ott. 66Ma non pertanto il valoroso Arcita su l' elmo con la spada a Palemone diede un tal colpo, ch' appena la vita li rimanesse fu sua oppinione, e ben credette alla prima ferita che terminata fosse lor quistione; ma poi che sotto il buon destrier caduto si vide, su si levò sanza aiuto.
L. 5, ott. 67E Palemon, nel cader del cavallo, percosse il capo sopra il verde prato; il che acrebbe il gran mal sanza fallo ch' aveva per lo colpo a lui donato dal buon Penteo, per che di quello stallo non si moveva, anzi parea passato di questa vita, e a giacer si stava; e 'l buon Penteo ardito l' aspettava.
L. 5, ott. 68Ma poi che elli il vide pur giacere, disse fra sé: «Che potrebbe esser questo?» E sanza indugio lui gì a vedere, e trovol che non era ancora desto dello spasmo profondo, e 'n suo parere disse: «Morto è, ché troppo li fu infesto il colpo della mia spada tagliente, di ch' io sarò tutto tempo dolente».
L. 5, ott. 69Elli il tirava degli arcion di fori soavemente, e l' elmo li traeva, e 'n su l' erbetta fresca e sopra i fiori teneramente a giacer lo poneva; e poi con man delli freschi liquori del vicin rivo a suo poter prendeva, e 'l viso li bagnava acciò che esso, se fosse vivo, si sentisse addesso.
L. 5, ott. 70Ma Palemone ancor non si sentia; per che Penteo piangeva doloroso, dicendo: - Lassa omai la vita mia! Morto è il mio compagno valoroso; ma di ciò testimon Febo mi sia, che io non fui di ciò volonteroso, né mai battaglia con lui disiai. O me dolente, perché mai amai?
L. 5, ott. 71S' io questa donna non avessi amata, com' io faceva, di tutto mio core, questa battaglia non sarebbe stata; ma per difendere il leale amore che io porto ad Emilia, è incontrata l' aspra giornata piena di dolore; or foss' io morto il giorno che a Teseo prima tornai, nominato Penteo! -
L. 5, ott. 72E 'n questo punto tornò Palemone in sua memoria e 'n piè si fu levato, ché non aveva altro che stordigione per lo gran colpo in sé di mal provato; e come ardito e franco e buon campione, davanti al petto lo scudo recato, si vide presso che forte piangea il buon Penteo, a cui così dicea:
L. 5, ott. 73- Leva su, cavalier, che io non sono ancora vinto, perch' io sia abbattuto; e se della tua spada il greve trono mi spaventò, in me son rivenuto; e non creder però aver perdono da me, perché pietoso t' ho veduto; e' ti convien con forza e con valore combatter meco d' Emilia l' amore. -
L. 5, ott. 74Maravigliossi allor Penteo assai, e dentro al cor nascose la sua ira, e disse: - Palemon, gran ragione hai di mal volere a chi per te sospira, ma d' altra foggia ti sarò omai; però come tu vuo' così ti gira, prendi come ti piace ogni vantaggio, ché di te vincer ho fermo coraggio. -
L. 5, ott. 75Ciaschedun chiama in suo aiuto Marte e Venere e Emilia insiememente, e imprometton doni; e d' altra parte ciascun si reca dentro alla sua mente la nobiltà, l' ardire e la molta arte delle battaglie e 'l ferir prestamente; e l' uno inver dell' altro de' baroni s' andarono a ferir come dragoni.
L. 5, ott. 76Li scudi in braccio e le spade impugnate, sopra l' erbette l' un l' altro ferendo, sanza aver più l' un dell' altro pietate, si gieno i due baroni e ricoprendo: tututte l' armi s' aveano spezzate, per la lunga battaglia combattendo; e poco s' era ancora conosciuto ch' alcun vantaggio fra lor fosse suto.
L. 5, ott. 77 rubr.Come ai due combattenti Emilia sopravenne.
L. 5, ott. 77Ma come noi veggiam venire in ora cosa che in mille anni non avvene, così avvenne veramente allora che Teseo con Emilia d' Attene uscir con molti in compagnia di fora; e qual di loro uccello e qual can tene, e nel boschetto entraro, alcun cornando, alcun compagni e alcun can chiamando.
L. 5, ott. 78E cominciar lor caccia e lor diletto, e ciascun gia sì come li piacea in qua in là per lo folto boschetto, e chi uccelli e chi bestie prendea; e in tal guisa, senza alcun sospetto, con un falcone in pugno procedea, per pervenire alla chiara rivera, Emilia, ove per lei tal battaglia era.
L. 5, ott. 79Ell' era sopra d' un bel pallafreno co' can dintorno, e un corno dallato avea e dalla man contraria al freno, dietro alle spalle, un arco avea legato e un turcasso di saette pieno, che era d' oro tratto lavorato; e ghirlandetta di frondi novelle copriva le sue treccie bionde e belle.
L. 5, ott. 80E sopravenne lì subitamente, e s' arestò vedendo i cavalieri; ma conosciuta fu immantanente da ciaschedun delli due buon guerrieri; li qua' però non ristetter niente, ma ne divenner più forti e più fieri, sì si raccese in ciaschedun l' ardore della donzella ch' amavan di core.
L. 5, ott. 81Ella si stava quasi che stordita, né giva avanti né 'ndietro tornava; e sì per maraviglia era invilita, ch' ella non si movea né non parlava; ma poi ch' alquanto fu in sé reddita, della sua gente a sé quivi chiamava, e similmente ancor chiamar vi feo a veder la battaglia il gran Teseo.
L. 5, ott. 82Il quale assai di maraviglia prese chi fosser questi due che combatteano, e a mirarli lungamente intese; e stima ben che gran mal si voleano, quando considerava ben l' offese che essi insieme tra lor si faceano; ma poi ch' egli ebbe assai ciascun mirato, cavalcò oltre e lor si fu appressato.
L. 5, ott. 83 rubr.Come Penteo e Palemone si palesassero a Teseo.
L. 5, ott. 83Poi disse loro: - O cavalier, se Marte vittoria doni a chi più la disia, ciascun di voi si tragga d' una parte, e s' elli è in voi alcuna cortesia, mi dite chi voi sete e chi in tal parte a battaglia v' induce tanto ria, secondo ne mostrate nel ferire che fate l' uno a l' altro da morire. -
L. 5, ott. 84Li cavalier quando vider Teseo e lui udiro a lor così parlare, ciascuno indietro volentier si feo, e vorrebbero avere a cominciare quella battaglia; ma il buon Penteo prima così rispose al dimandare: - Noi siam duo cavalier che per amore con le spade proviàn nostro valore. -
L. 5, ott. 85Disse Teseo: - Ditene chi sete. - A cui Penteo: - Noi 'l farem volentieri, se voi, caro signor, ne promettete la pace vostra, se a noi fia mestieri. - A cui Teseo rispose: - Vo' l' avete, perch' io vi veggio sì pro' cavalieri, e combattete ancor per tal cagione, ch' offendervi saria contra ragione. -
L. 5, ott. 86Allora que' rispose prestamente: - Io sono il vostro Penteo che vi parlo, il qual con questo cavalier valente, per troppo amor, volendo soperchiarlo, battaglia fo; e e' me similmente vuol soperchiar, perch' io accompagnarlo voglio ad amar; chi e' sia, ecco lui che vel dirà assai me' che altrui. -
L. 5, ott. 87A Palemon pareva male stare; ma non pertanto e' cacciò la paura e disse: - Siri, io nol posso celare chi io mi sia, e ancor mi sicura vostra virtù che non vorrete usare la vostra forza contro alla mia pura mente, che per amor fuor di prigione usci', e sono il vostro Palemone. -
L. 5, ott. 88Teseo, udendo nominar costoro, prima sdegnò, poi ringraziolli assai che s' eran nominati, e disse loro: - Deh, non vi spiaccia, ditemi oramai come Cupido con lo stral dell' oro amendun vi ferì di pari guai, con ciò sia cosa che l' un vien d' Egina, l' altro fu preso a Tebe la meschina.
L. 5, ott. 89E se licito m' è ch' io sappia ancora chi sia la donna, vi priego il diciate. - Palemon sospirò, e disse allora come le cose tutte erano andate; e ciò Teseo vie più che l' altre accora che prima gli erano state contate, e disse: - Amor v' ha dato grande ardire, poi non curate per lui il morire. -
L. 5, ott. 90A cui Palemon disse: - Alto signore, saputo hai ciò che vuoli interamente, e a contarlo m' ha dato valore disiderio di morte certamente, la qual mi finiria l' aspro dolore che sempre offende la mia trista mente; e io, che son di tua prigion fuggito, ho d' esser morto molto ben servito. -
L. 5, ott. 91 rubr.Come Teseo, perdonando loro, rispose, e i patti posti loro da lui.
L. 5, ott. 91Allor Teseo: - Non piaccia a Dio che sia ciò che dimandi, ben che meritato l' aggiate per la vostra gran follia; ché l' un contra 'l mandato è ritornato, e l' altro ha rotta la mia prigionia, sì ch' io non ne saria mai biasimato se i' 'l facessi, né faria fallanza, ma serverei l' antica buona usanza.
L. 5, ott. 92Ma però ch' io già innamorato fui e per amor sovente folleggiai, m' è caro molto il perdonare altrui, perch' io perdon più fiate acquistai, non per mio operar, ma per colui pietà a cui la figlia già furtai; però sicuri di perdono state: vincerà il fallo la mia gran pietate.
L. 5, ott. 93Ma non fia assoluto il perdonare, ch' io ci porrò piacevol condizione, la qual voi mi prometterete fare, se io perdono a vostro falligione. - Essi il promisero, e e' fé giurare lor di servarla sanza offensione, e felli insieme far pace solenne; poi in questo modo con lor si convenne.
L. 5, ott. 94E' cominciò: - Be' signori, io avea la giovinetta la qual voi amate meco guardata, e donar la credea per vera sposa al piacevole Acate, nostro cugin; ma la fortuna rea con morte queste cose ha via levate, e ella s' è rimasa senza sposo, come vedete, col viso amoroso.
L. 5, ott. 95Dunque convene a me pensar d' altrui, perché l' età di lei omai il richiede, né io non so pensar ben bene a cui io la mi dea, che con più ferma fede l' ami e onor che farà un di voi, se sì l' amate come il mio cor crede; ma non la può di voi aver ciascuno però convien ch' ella rimanga a l' uno.
L. 5, ott. 96A l' un di voi sarà bene investita, però che sete di sangue reale e d' alto affare e di nobile vita; e ella similmente è altrettale, e è sorella a la reina ardita che meco stato serva imperiale; per la qual cosa sdegnar non dovete per moglie lei, se averla potete.
L. 5, ott. 97Ma per cessar da voi ogni quistione, con l' arme indosso vi convien provare nel modo ch' io dirò: che Palemone cento compagni farà di trovare quali e' potrà a sua elezione, e a te simil converrà di fare; poi a battaglia nel teatro nostro sarete insieme col seguito vostro.
L. 5, ott. 98Chi l' altra parte caccerà di fore per forza d' arme, marito le fia; l' altro, di lei privato e dell' onore, a quel giudicio converrà che stia che la donna vorrà, al cui valore commesso da questa ora innanzi sia; e 'l termine vi sia a ciò donato uno anno intero. - E così fu fermato.
L. 5, ott. 99Sì come per mal sol palida fassi candida rosa o per Noto spirante, che poi, vegnendo Zeffiro, rifassi o per la fresca aurora levante, e gloriosa in su li pruni stassi, bella come tal volta fu davante, così costor diventaron, raccolto il parlar di Teseo lor caro molto.
L. 5, ott. 100E risposero a lui umilemente: - Signore, a tanta grazia quanta fai a ciaschedun di noi, nessun possente a ciò guiderdonar sarebbe mai; ma que' che 'l cielo e 'l mondo parimente governa ti contenti, sì come hai noi contentati de l' alto perdono del nostro fallo, il qual ci è sommo dono.
L. 5, ott. 101Noi siam disposti ad ogni tuo piacere, e penserem di metter ad effetto quel che n' hai comandato a tuo volere. - Poi cominciaron mirabil diletto, vedendo ciò che più era in calere sicura dimorar nel lor cospetto; la qual li rimirava vergognosa e delle lor ferite assai pietosa.
L. 5, ott. 102A cui Teseo: - O giovine donzella, vedi tu quanto per te faccia Amore, perché tu se' più ch' alcuna altra bella? Ben tel dei reputar sovrano onore, e oltre a ciò isposa se' novella dell' un de' due di cotanto valore. - Nulla rispose Emilia, ma cambiossi tutta nel viso, tanto vergognossi!
L. 5, ott. 103 rubr.Disegna il tempo e l' ora, e come Penteo e Palemone con Emilia ne vennero in Attene.
L. 5, ott. 103Febo era già a mezzo il ciel salito, nell' animal che tenne Garamante allor che Giove, di Creti partito, in Africa passava ad Atalante; quando ciascun di loro, assai ferito, le piaghe si stagnava tutte quante; ma 'l tempo caldo mosse a dir Teseo: - Medichera'ti alla città, Penteo. -
L. 5, ott. 104E poi li fé sovra i cavai salire con tutte l' arme, e in mezzo di loro Emilia bella di grazia fé gire; di che contenti tanto eran costoro, che lingua alcuna nol potrebbe dire; e poco gli occhi lor facean dimoro, che non mirasser lei assai celato, finché per loro in Attene fu intrato.
L. 5, ott. 105Quivi con festa al palagio maggiore disceser tutti, e Teseo disarmare fé li teban baron di gran valore, e dolcemente li fece curare; e più ancora lor fece d' onore, che li fé dentro al palagio abitare; e rendé lor castella e possessioni, quante n' avean pria che fosser prigioni.
L. 5, explicitQui finisce il libro quinto del Teseida.
L. 6, son. iniz. rubr.Sonetto nel quale si contiene l' argomento particulare del libro sesto.
L. 6, son. iniz.Il sesto libro nel cominciamento li due teban baron pacificati dimostra, e il lor ricco portamento, e le feste e' conviti dilicati. Appresso ciò, dichiara il lieto avvento in Attene di molti convitati baroni, acciò che ognun n' avesse cento tra molti eletti, arditi e più pregiati. E in che modo e abito ciascuno e di qual parte in Attena venuti discrive, e oltre a ciò come ognuno e tutti inseme fosser ricevuti; de' qua', veduta Emilia, nessuno biasima lor se e' ne son perduti.
L. 6, ott. 1 rubr.Incomincia il libro sesto del Teseida. E prima parole dell' autore.
L. 6, ott. 1L' alta ministra del mondo Fortuna, con volubile moto permutando di questo in quel più volte ciascheduna cosa togliendo e tal volta donando, or mostrandosi chiara e ora bruna secondo le pareva e come e quando, avea co' suoi effetti a' due Tebani mostrato ciò che può ne' ben mondani.
L. 6, ott. 2Però che con lei lieta furon nati e allevati, e già mutato il viso avea quando nel campo fur pigliati; indi da lor ciascun suo ben diviso avendo, li lasciò isconsolati e in prigion fuor d' ogni lieto avviso; poi l' un ne trasse e quasi a lieta vita l' avea recato, e questi fu Arcita.
L. 6, ott. 3L' altro che poi, com' ella volle, fore se n' era uscito ancor, mis' ella in esso con matto imaginare un tal furore, che sé col primo quasi ebbe rimesso d' acquistata salute in gran dolore; alla qual cosa essendo assai appresso e ben credendo ciò, com' ella volse, Teseo lor perdonò e li raccolse.
L. 6, ott. 4Né solamente li mise in speranza di posseder quel che ciascuno amava, ma oltre a ciò, sanza alcuna mancanza, quel che ciascuno in pria signoreggiava, com' è detto, rendé, sì ch' abondanza ebber dove ognun prima mendicava; così da morte, over da rea prigione, condusse loro in tale esaltazione.
L. 6, ott. 5Deh, chi fia qui che dica che' mondani provvedimenti a' moti di costei possan mai porger argomenti sani? Se non fosse mal detto, io dicerei certo che fosser tutti quanti vani, questo mirando e ciò ch' ancor di lei si legge e ode e vede ognora aperto, ben che ne sia come ciò fa coverto.
L. 6, ott. 6 rubr.Della vita de' due Tebani riconciliati a Teseo.
L. 6, ott. 6Costoro insieme tenner buona pace e l' amistà antica rifermaro, e quel voleva l' un che all' altro piace, e così era il contrario discaro. La rea fortuna loro ora si tace, fuggito è il tempo d' ogni parte amaro; ma pure Amor li teneva ristretti vie più che mai con tutti i lor diletti.
L. 6, ott. 7Elli avean di lor terre grande entrata, per che essi spendevan largamente; ogni persona da loro onorata era in Attene graziosamente; e sì gran cortesia da loro usata, che sen maravigliava tutta gente; onde gli amavan tutti i cittadini, quantunque egli eran, grandi e piccolini.
L. 6, ott. 8Altro che canti, suoni e allegrezza nelle lor case non si sentia mai, e ben mostravan la lor gentilezza; a chi prender volea davano assai; astor, falconi e can di gran prodezza usavano a diletto, né giammai erano in casa sanza forestieri, conti e baroni e donne e cavalieri.
L. 6, ott. 9E vestien robe per molto oro care, con gran destrier, cavalli e pallafreni; e nulla si lasciavano a donare, sì eran di larghezza i baron pieni; giostre faceano e grande l' armeggiare con lor brigate ne' giorni sereni; e ciascun s' ingegnava di piacere più ad Emilia, giusto il suo potere.
L. 6, ott. 10E ben che fosse la festa e 'l diletto ched e' facevan, ciascun giorno cento pareva lor che 'l dì ch' aveva detto Teseo venisse, acciò che di tormento uscissero o con gioia o con dispetto; e ciascheduno aveva intendimento di vincer l' altro sanza alcun fallire, e se perdesse, perdendo morire.
L. 6, ott. 11E per non aspettar l' ultimo giorno ch' esser doveva tra lor la battaglia, ciaschedun manda messaggi dintorno e d' invitare amici si travaglia; e d' altra parte, per esser adorno, ciascun fa paramenti di gran vaglia per sé ornare e per donare a' sui che arme porteranno il dì con lui.
L. 6, ott. 12E 'n brieve tempo si furon forniti d' armi lucenti e forti ad ogni pruova, e di cavalli feroci e arditi, grandi, alli Greci a veder cosa nova; e in sé ciascheduno i più spediti fatti di guerra pensando ritrova, per non venir disaveduti a fare cosa ch' a danno lor possa tornare.
L. 6, ott. 13 rubr.Discrive l' avvenimento de' prencipi invitati da' Tebani.
L. 6, ott. 13In questo mezzo il giorno s' appressava che dato avea Teseo a' cavalieri, onde ciascuno i suoi sollecitava che e' venisser, ch' elli era mestieri; per che ad Attene assai gente abbondava: d' ogni paese, per tutti i sentieri, chi ad Arcita e chi a Palemone venia per vinta dar la sua quistione.
L. 6, ott. 14 rubr.Viene il re Ligurgo.
L. 6, ott. 14Il primo venne, ancora lagrimoso per la morte d' Ofelte, a ner vestito, il re Ligurgo, forte e poderoso, di senno grande e di coraggio ardito; e menò seco popol valoroso del regno suo pure il più fiorito, e ad Arcita s' offerse in aiuto, per cui era di Nemea venuto.
L. 6, ott. 15 rubr.Viene il re Pelleo.
L. 6, ott. 15Venne d' Egina lì il re Pelleo, giovane ancora e di sommo valore, e seco quella gente, che si feo di seme di formiche en le triste ore che Eaco lo suo popol perdeo, menò con pompa grande e con onore: bianco e vermiglio e chiaro nel visaggio, più che non fu giammai rosa di maggio.
L. 6, ott. 16Vestito era il buon re in drappi d' oro cari per molte pietre e rilucente, e sovra un destrier grande di pel soro, era fra tutti i suoi più eminente, e un turcasso, ricco per lavoro, pien di saette, ciascuna pungente, dal destro lato, e dal manco pendea d' Arcadia uno arco forte ch' elli avea.
L. 6, ott. 17I biondi crini e 'l collo e' biancheggianti omeri ricoprien, cadendo stesi; la sella e 'l freno eran d' oro micanti, e similmente tutti gli altri arnesi; e' suoi gli gien dintorno tutti quanti d' alta prodezza e sommo ardire accesi; e 'n mano avea, quale a lui si convenne, una termodontiaca bipenne.
L. 6, ott. 18Così li piacque nella terra entrare; alla vista del qual ciaschedun trasse, né di mirarlo si potean saziare, né fu alcuno il dì che non lodasse. Oh, quante donne allor fé sospirare! E è credibil che ne innamorasse, se gentilezza e biltate han potere di fare a donna giovane uom piacere.
L. 6, ott. 19Cefal, d' Eol figliuol, seguì costui; seguillo Foco e seguil Telamone; Agreo epidaurio gì con lui, Flegiàs di Pisa e sicionio Alcone; e altri molti nobili, di cui la spenta fama non fa menzione, vi furo, i qua' si de' creder che onore v' acquistar molto per lo lor valore.
L. 6, ott. 20 rubr.Viene il re Niso.
L. 6, ott. 20Nisa, di gran boschi copiosa, tra gli urli dionei Niso ritenne, ma con sembianza lieta e valorosa, con bella gente, d' Alcatoe venne, armati tutti in arme luminosa, con quelli arnesi ch' a lor si convenne: guardando quel capel dal qual tenea la signoria delle terre ch' avea.
L. 6, ott. 21 rubr.Vegnono Agamenone, Menelao, Castore, Polluce.
L. 6, ott. 21Sopra un carro, da quattro gran tori tirato, di Trenarea, Agamenone vi venne accompagnato da plusori, armato tutto a guisa di barone, sé già degno mostrando degli onori ch' ebbe da' Greci nella ossidione a Troia fatta: nel sembiante arguto, con nera barba, grande e ben membruto.
L. 6, ott. 22Non arme chiare, non mantel dorato, non pettinati crin, non ornamenti d' oro o di pietre aveva, ma legato d' orso un velluto cuoio con rilucenti unghioni al collo, il qual da ogni lato ricoprien l' armi tutte rugginenti; e chiunque il vedea diceva d' esso: - Que' vincerà con cui questi fia messo. -
L. 6, ott. 23Di dietro a lui, in abito dispari, Menelao sen veniva giovinetto, vestito in drappi belli e molto cari: piacevol, bello e gentil nello aspetto, sanz' alcuna arme, e' crin come oro chiari Zeffiro ventilava, e giuso al petto la barba bionda come oro cadea, lodata da chiunque la vedea.
L. 6, ott. 24Egli era sopra un gran caval ferrante, reggendo il freno grave per molto oro, con un mantel ch' al collo ventilante da' circustanti s' udiva sonoro; e se Venere fosse sanza amante, ch' ella prendesse lui credean coloro che lui vedean: così la sua bellezza lodavano e 'l valore e la destrezza!
L. 6, ott. 25Costui seguieno il nobile Castore e 'l suo fratel Polluce, tutti armati, e ben mostravan che di gran valore gli avesse 'l cigno lor padre dotati; i qua' ne' loro scudi per onore aveano il quando e 'l come generati fur, con ingegno, della bella Leda, allor che ella fu del cigno preda.
L. 6, ott. 26Seguien costor più uomini lernei, armati tutti e fieri ne' sembianti, nobili misti insieme con plebei; e qual giva di dietro e qual davanti, in forme ta' che dir non le saprei, sì eran divisati tutti quanti; e con onor nella cittade entraro, e al real palazzo dismontaro.
L. 6, ott. 27 rubr.Viene Cromis, figliuol d' Ercule, e Ippodomo.
L. 6, ott. 27Un cuoio d' un leon nemeo velluto vi recò Cromis, tirinzio vestito che già al padre era stato veduto, da cui il giel mortale avea sentito; e con un baston grande e noderuto e di tutte l' altre armi ben guarnito, sopra Strimon, caval di Diomede, d' uomini mangiator, sì com si crede,
L. 6, ott. 28non altramenti la testa menando che faccia il toro poi ch' è amazzato, e sanza alcun riposo ognor ringhiando giva di suon tal, chente fu ascoltato tal volta già quando i cani abbaiando si fer sentir di Silla nel turbato mare, in quell' ora che Eolo spira il vento che quel loco più martira.
L. 6, ott. 29Con esso d' Oetalia molta gente vi venne ancora, tutta ben guarnita; Ippodomo vi fu similemente, figliuolo d' Oemomia pulita, con quello sforzo donde era possente a mostrar la grandezza di sua vita, sovr' un caval calidonio coverto di drappi sirii, ben ne' campi esperto.
L. 6, ott. 30 rubr.Viene Nestore, figliuolo di Neleo, di Pilos.
L. 6, ott. 30Di Pilos venne il giovane Nestore, di Neleo figliuol, la cui etate nelle vermiglie guancie il primo fiore mostrava, poco ancora seminate di crespo pel che d' oro avea colore, il qual multiplicava sua biltate; costui ornò il padre in guisa tale, che d' ornamento a lui non vi fu iguale.
L. 6, ott. 31Natura ornato l' avea di bellezza, quanto giovane donna disiare poté giammai, e poi di gentilezza di real sangue; né potea celare l' ardito cuor ch' avea e la prodezza con disio sommo di bene operare; e la Fortuna de' ben ch' ella dona più li fu larga ch' ad altra persona.
L. 6, ott. 32Costui armato, il ferro sotto argento, quanto era, in piatte tutto nascondea, ma della maglia il molto guarnimento tutto fu d' oro, quantunque n' avea; di ricche pietre assai fu l' ornamento che ad arnese cotal si richiedea, e sì lucea, che in ogni parte oscura luce avria data come giorno pura.
L. 6, ott. 33E in su un gran caval di pel morello, sanza riposo tuttavia fremendo, cavalcava Nestor leggiadro e bello, un gran baston di ferro in man tenendo; e sì come falcon che di cappello esce, s' andava tutto plaudendo, da molti cavalier da ogni lato molto nobilemente accompagnato.
L. 6, ott. 34Nella terra de' Ciclopi festando in cotal guisa se n' entrò Nestore, di che ciascun si gia maravigliando, faccendo a lui iusto 'l potere onore; e e', che ben sapeva dimostrando andare a tutti il suo sommo valore, a tutti onor facea, finché pervenne dove Teseo con gli altri lui ritenne.
L. 6, ott. 35 rubr.Viene il re Evandro.
L. 6, ott. 35Evandro, nato nel gelido colle Cilleno di Carmenta e di colui che l' anime da' corpi morti tolle, in ozio star con li popoli sui nella steril Nonacria non volle; ma per mostrar la sua potenza altrui, essendo ancora prospero e regnante, con molti suoi baron giunse festante.
L. 6, ott. 36Egli era in su tesalico destriere, co' suoi insieme andando baldanzoso; e era armato d' armi forti e fiere, e per mantello un cuoio d' orso piloso libistrico, le cui unghie già nere sotto oro eran nascose luminoso, e de' suoi molti avean tal copertura, e di leone alcun la pelle dura.
L. 6, ott. 37Altri avean pelli di tori lunati, tutte di cari limbi circuite, e alcuni erano in cinghiar fasciati; nullo v' aveva con armi pulite; così insieme tutti divisati circuivano Evandro, come udite, il qual dall' una man saette avea, dall' altra uno arco e il caval reggea.
L. 6, ott. 38A cui da l' armo pendeva sinestro uno scudo, assai rozzo per lavoro, nel qual pareasi Atlanciade, silvestro fatto, Argos ingannar col suo sonoro nuovo strumento, e lui uccider destro lì si vedeva ancor, sanza dimoro; eravi ancor quando divenne Geta per far del padre la volontà cheta.
L. 6, ott. 39Eravi ancor ciò che per Erse fece; e altre opere sue v' eran distinte, le qua' per brevità dir qui non lece; ma pur tra l' altre da parte dipinte, l' opere sue già fatte dritte o biece, eran le braccia sue al collo avvinte di Carmenta, di cui Evandro nacque ne' tempi ch' ella in Cilleno a lui piacque.
L. 6, ott. 40In cotal guisa co' suoi, rugginoso dell' arme e del sudor, venne in Attene; e ben che bel non paia, valoroso chiunque il vede veramente il tene; e fé del modo suo, non borioso ma utile, parlare a tutti bene; ben s' amiraron della condizione, chiunque il vide, a sì fatto barone.
L. 6, ott. 41 rubr.Viene Peritoo, figliuolo d' Isione.
L. 6, ott. 41Vennevi Peritoo, che della madre ancor le guancie sanza pelo avea; questi, con veste di drappi leggiadre, di biltà tutto nel viso splendea: bianco, vermiglio e con le luci ladre, chi 'l rimirava con amor prendea; e biondo assai vie più che fila d' oro, incoronato di frondi d' alloro.
L. 6, ott. 42Né crede alcun che sì bel fosse Adone di Cinera, da Vener tanto amato, quanto era Peritoo ancor garzone, morbido nello aspetto e dilicato; costui montato sopra un gran roncione, del seme di Nettunno procreato, venne ad Attene, e 'ncontro li si feo il suo amico, con festa, Teseo.
L. 6, ott. 43E ben che fosse molto conosciuto Peritoo in Attene, nondimeno sì era elli volontier veduto; per che ciaschedun luogo v' era pieno di popol ch' era a lui veder venuto, tanto ch' appena in loco non capeno; così col suo Teseo sen venne adagio, e con lui smontò nel suo palagio.
L. 6, ott. 44 rubr.Vegnono Ulisse e Diomede.
L. 6, ott. 44E il duca narizio, giovinetto ancora molto, vi mandò Laerte, da cui li fur con paternale affetto l' arme lucenti primamente offerte; le quali e' prese con sommo diletto, e assai parli ogni poco che esperte l' abbia; e con seco menò Diomede, cui sempre amò con amichevol fede.
L. 6, ott. 45 rubr.Vegnonvi Pigmaleone e Sicceo.
L. 6, ott. 45E di Sidonia ancor Pigmaleone vi venne; e fuvvi con esso Siceo, che poi fu sposo dell' alta Didone, e a' Fenici nobili si feo seguire a guisa di sommo barone; e con li suoi insieme da Teseo fu onorato magnificamente e ricevuto molto caramente.
L. 6, ott. 46 rubr.Vegnono Minòs re di Creti, e Radamante e Sarpedone.
L. 6, ott. 46Quivi nell' arme con solenne stuolo il gnosiaco re della dittea isola, già d' Europa figliuolo, vi venne, che ancora non avea del suo bello Androgeo sentito il duolo; e 'n su la riva d' Attene lernea discese, e fé con l' ancore fermare le navi lì che 'l doveano aspettare.
L. 6, ott. 47Di dietro a cui discese Radamante, fratel di lui, e Sarpedone appresso, e le lor genti ancora tutte quante. Quivi era un carro orrevole per esso, sovra 'l quale e' montò; e messa avante la gente sua, non però molto cesso, inverso Attene il camin prese tosto, sì come avea nella mente disposto.
L. 6, ott. 48Il manco lato uno scudo gli armava, nel qual vedeansi i regni di Nereo, e come Giove in que' toro notava, carico d' Europa onde nasceo; e' liti v' eran dove la posava soavemente nel regno ditteo; e similmente la casside bella tutta lucea della paterna stella.
L. 6, ott. 49Erano i campi, l' argini e le strade, le porte de' palazzi e li balconi, come che fossero o ispesse o rade, piene di donne tutte e di baroni, per veder di Minòs la dignitade; e vecchi antichi e giovani garzoni tutti venuti v' erano a mirare il gran baron nella lor terra entrare.
L. 6, ott. 50Il qual v' entrò con molto grande onore, e più vide ciascun che non credea veder di lui d' altezza e di valore; e furvi assai che poi non disser reabiasimarono il focoso amore di Silla, allor ch' ogni altro la dicea degna di morte per lo padre ucciso,rimembrando quale e' l' avean viso.
L. 6, ott. 51 rubr.Viene Anchelado bistone.
L. 6, ott. 51Vennevi ancora Anchelado bistone a dimostrar della sua gran prodezza, con nobil compagnia d' ogni ragione: audaci erano e pien di fierezza dintorno a lui, che sopra un gran roncione mostrava chiara la sua adornezza; e' fu da tutti in Attene, veduto, con lieto viso assai ben ricevuto.
L. 6, ott. 52 rubr.Viene Ida pisano.
L. 6, ott. 52E ben che molti de' liti d' Alfeo venissor quivi a volere onorarsi, non volle rimanere Ida piseo, ma per alquanto quivi dimostrarsi, pensando al suo valore, il quale il feo nelli giuochi olimpiaci pregiar, sì che coronato fu; e 'n compagnia gente menò di somma valentia.
L. 6, ott. 53Questi era tanto nel corso leggiere, veloce e presto, che nulla saetta da Partico o Cidone o altro arciere mandata fu di nervo con tal fretta, che lenta non paresse e che diriere non li fosse rimasa per dispetta; e tanto e sì e' tal fiata correa, ch' agli occhi de' miranti si togliea.
L. 6, ott. 54Questi saria nel fluttuoso mare, qualora e' più inver lo ciel crucciato istende i suoi marosi col gridare, correndo con asciutte piante andato; né li saria paruto grave affare l' esser trascorso sanza aver guastato alcuna spiga sopra li tremanti campi spigati e col vento sonanti.
L. 6, ott. 55 rubr.Viene Ameto, re di Tesaglia.
L. 6, ott. 55E oltre a questi ancor vi venne Ameto lucente di reale adornamento, di mezza etate, nello aspetto lieto, il quale in uno scudo d' ariento, in forma di pastore umile e queto d' oro portava Febo, che l' armento di lui ne' verdi boschi pasturava, e in Anfriso poi gli abeverava.
L. 6, ott. 56Questi infra' suoi Foloèn cavalcando, di verde quercia inghirlandato, giva; il qual da il castalio somigliando gregge fremendo adizzato anitriva, or qua or là co' piedi il suol pestando, ferendo chi appresso li veniva; e Irim gli menava avanti a destro, tutto coverto uno scudier sinestro.
L. 6, ott. 57E così con gli Ematici sen venne fino in Attene in atto baldanzoso; quivi al palagio di Teseo si tenne il caval fiero e d' andare animoso; dove fu, sì come si convenne, ben ricevuto assai dal valoroso Teseo, il qual l' aveva per amico, non or di nuovo, ma già ab antico.
L. 6, ott. 58 rubr.Vennervi altre genti e popoli assai.
L. 6, ott. 58Di Boezia vi venne molta gente, quali ad Arcita e quali a Palemone, però che lì ciascuno era possente e ne' popoli avea iurisdizione; onde ciascuno in tal punto fervente a far servigio di sua soiezione venne ad Attene sanza dimorare, armati bene e belli a riguardare.
L. 6, ott. 59Quivi i Dircei, per tema di Teseo fuggiti già, le spelunche lasciate, chi venne a Palemon, chi a Penteo; tra' qua' le genti fur che son bagnate dalle spumanti ripe d' Ismeneo, e quelle ch' a Citeron suggiocate sono e a' monti Ogigii tutti quanti, o vicini ad Elicona abitanti.
L. 6, ott. 60E quelli, i quali Esopo, troppo altiero contra l' iddii per Egina furata, veggono spesso torbido e sincero, vi furon tutti, gente bene armata; e 'l popol d' Antedon tututto intero con altri molti di quella contrata, contenti assai de' signor riavuti, li qua' credean del tutto aver perduti.
L. 6, ott. 61 rubr.Assegna la cagione d' alquanti che vi sarebbono suti, per che non vi furono.
L. 6, ott. 61Avrebbe quivi Cefiso mandato Narcisso, se non fosse che in fiore già ne' campi tespiaci mutato era, per troppo a sé avere amore, spesso dal padre in su il lito bagnato, sì com' io credo, per troppo dolore d' aver perduto en la sua fanciullezza il caro figlio per troppa bellezza.
L. 6, ott. 62E Leandro era già stato raccolto dalla sua Ero nel lito di Sesto, sospinto dal dalfin, con tristo volto e di lagrime pieno amare e mesto, e da lei pianto con sospiri molto; il non esservi adunque fu per questo, né' suoi vi gir, perché perduto aveno il lor signor cui seguitar doveno.
L. 6, ott. 63Sarebbevi Erisiton driopeo similemente a combatter venuto, ma per la debolezza non poteo, già magro e sanza forza divenuto per l' albero lo quale e' tagliar feo, che era stato a Ceres conceduto; rimase adunque e non vi poté gire, ma li convenne di fame morire.
L. 6, ott. 64Furvi altri assai e popoli e contrade, tanti che ben non gli saprei contare, sì gli nasconde in sé la lunga etade; né li vi fece bisogno menare, ma de' signori il voler nobiltade ciascun con le sue genti dimostrare, vaghi d' acquistar fama con onore, ciascun secondo fosse il suo valore.
L. 6, ott. 65 rubr.Come tutti coloro che vi vennero furono da tutti onorevolmente ricevuti.
L. 6, ott. 65Qualunque fu de' possenti signori, re, duca, prenze o altro d' onor degno, o qual si fosser piccoli o maggiori, che di Teseo venisse allor nel regno, e' fur con sommi e lietissimi onori ricevuti, ciascun con tutto ingegno; e per sé prima gli onorava Egeo, e poi con lieto viso il buon Teseo.
L. 6, ott. 66Ipolita reina lietamente quanti ne venner tutti ricevette con alta festa e graziosamente; né la giovane Emilia si stette, ma quanto più poté similemente: bella tenuta da chi la vedette, tanto a tututti si mostrava lieta, d' ogni grazia piena e mansueta.
L. 6, ott. 67Né furon folli Arcita e Palemone tenuti da chi seppe i fatti loro, se l' un s' era fuggito di prigione e l' altro oltre il mandato a far dimoro nella vietata bella regione, per acquistar così fatto tesoro; né s' amiraron se non voller loco dar l' uno a l' altro en l' amoroso foco.
L. 6, ott. 68E ben fu giudicato che 'l suo amore fosse troppo più caro da comprare, che pria non fu di Tebe esser signore o di quantunque cinge il verde mare, e che bene investito era 'l valore di tanti probi quanti ivi adunare avea fatti fortuna a dar sentenza ultima con lor arme a tale intenza.
L. 6, ott. 69Se gli alti regi furono onorati da Palemone e dal gentile Arcita, non cal ch' i' 'l narri, ché uomini nati non si crede che mai in questa vita fossero co' servigi lieti e grati veduti come questi, a' qua' fornita era ogni voglia, sol che essi dire volesser ciò che non potean sentire.
L. 6, ott. 70Alti conviti e doni a regi degni s' usavan quivi, e sol d' amor parlare, e' vizii si biasmavano e li sdegni; giovenil giuochi e sovente armeggiare il più del tempo occupavan gl' ingegni, o in giardin con donne festeggiare; lieti v' erano i grandi e i minori, e adagiati da' fini amadori.
L. 6, ott. 71E certo, poi che Pallade quistione con Nettunno ebbe a nomar la cittade, gente adunata d' alta condizione né tanta né di sì gran nobiltade non s' era vista per nulla stagione; il che Teseo in somma dignitade il si tenea, e fra l' altre sue cose più degne di memoria questa pose.
L. 6, explicitQui finisce il libro sesto del Teseida.
L. 7, son. iniz. rubr.Sonetto nel quale si contiene l' argomento particulare del libro settimo.
L. 7, son. iniz.Dimostra il libro settimo il parlare che fé Teseo a' prencipi adunati, e dopo quello assai aperto appare quai d' essi fosser da ciascun de' lati de' due Tebani, e poscia il loro orare; quindi le case delli iddii pregati disegna, appresso lor faccendo andare u' di milizia furono adornati. E al teatro quindi li conduce per vie diverse, ove gli Atteniesi già eran tutti; quivi, alla lor luce Emilia miran; ma, nel viso accesi, i suoi conforta e priega ciascun duce, ad aspettare il segno poscia attesi.
L. 7, ott. 1 rubr.Incomincia il libro settimo del Teseida. E prima la diceria di Teseo e il partire de' prencipi greci in due parti.
L. 7, ott. 1Mentre che la fortuna sì menava in Attene le cose in allegrezza, il giorno dato alli due s' appressava; per che con lieta e gran piacevolezza Teseo i duci, li quali onorava, raunò insieme tutti e la grandezza del teatro mostrò loro, e appresso tutti s' affisser a seder con esso.
L. 7, ott. 2Stette Teseo con li venuti regi labdacii nel teatro eminente, co' quali insieme li baroni egregi furono alquanto più umilemente, e tutti gli altri popoli e collegi nel pian sedettero intentivamente, sì che Teseo potessero udire, che, in piè levato, così prese a dire:
L. 7, ott. 3- Signori, io credo che ciascun sentito abbia perché tra li Teban quistione sia nata tale, e ancora 'l partito che io die' loro e non sanza ragione; però di ciò c' han contro a me fallito né della mia pietà qui far menzione più non intendo, né del loro amore, non conosciuto da chi non l' ha in core.
L. 7, ott. 4Ma certo, quand' io loro in pace posi e nelle man di cento e cento diedi l' amor di quella ond' eran sì bramosi, non mi credetti che lance né spieditroppi ferri chiari o rugginosi né gran cavai né grandi uomini a piedi dovesser terminar cotanto foco, ma esser ciò com' un palestral gioco.
L. 7, ott. 5E non credetti che tutta Lernea sotto li regi achivi si movesse per poca di cosa, anzi credea che ciaschedun de' suoi vassalli avesse a terminar così fatta mislea, e che con brievi forze li piacesse l' un contra l' altro questo amore avere, lo qual mostra sia lor tanto in piacere.
L. 7, ott. 6Ma essi forse credendosi ch' io non conoscessi loro esser potenti, di mostrarlomi lor venne in disio, e voi han fatto qui con vostre genti venire per pagar d' amore il fio, per cui e' son contra 'l dover ferventi; e io son ben contento che ci siate e che essi abbian lor forze mostrate.
L. 7, ott. 7Ma tuttavia la cosa ad altro segno vi priego che mandiate, com diraggio; qui non ha zuffa per acquistar regno o per pigliar perduto ereditaggio, qui non è tra costor mortale sdegno, qui non si cerca di commesso oltraggio vendetta, ma amore è la cagione, com' ho già detto, di cotal quistione.
L. 7, ott. 8Dunque amorosa dee questa battaglia esser, s' io ben discerno, e non odiosa; l' odiose sien di chi mal far travaglia, o di che n' ha ragion per altra cosa, o degli aspri Centauri di Tesaglia, i qua' non sanno mai che si sia posa, e non tra noi che, ben che siam creati chi qua chi là, pur d' un sangue siam nati.
L. 7, ott. 9E come poria io mai sofferire vedere il sangue larisseo versare e l' un pe' colpi dell' altro morire come al seme di Cadmo piacque fare? Oggi non è quel tempo né quelle ire; però con lor le lasciàn dimorare, e noi viviam come inseme dovemo, e leggier per amor ne combattemo.
L. 7, ott. 10Chi sarà que' che per sì fatta cosa volesse tanti popoli in periglio porre di gente tanto valorosa quant' io qui veggio? E' saria mal consiglio, e all' iddii saria molto odiosa veder qui contro al padre uscire il figlio, e ferir l' un contra l' altro parente co' ferri in man nimichevolemente.
L. 7, ott. 11Poi ch' a tal fine qui sete adunati, perché vostra venuta invan non sia, secondo che più son da voi amati li due amanti, come ognun disia, così si tragga, e cento nominati per parte siate, sì come la mia sentenzia diè il dì ch' io li trovai d' affanno, d' ira e d' amor pieni assai.
L. 7, ott. 12E acciò ch' odio fra voi non nascesse, le lance più nocive lascerete; sol con le spade o con mazze l' espresse forze di voi contenti proverete; e le bipenni porti chi volesse, ma altro no: di queste assai avete; e quelli a cui il bene ovrar vittoria darà, s' avrà e la donna e la gloria.
L. 7, ott. 13Questo sarà come un giuoco a Marte, li sacrifici del qual celebriamo il giorno dato; e vederassi l' arte di menar l' armi in che c' esercitiamo; e perciò ch' io giudice, non parte, qui esser debbo dove noi seggiamo, sanza arme i vostri fatti porrò mente; però di ben portarvi aggiate a mente. -
L. 7, ott. 14De' nobili e del popolo il romore toccò le stelle, sì fu alto e forte, - L' iddii - dicendo, - servin tal signore che delli amici suoi fugge la morte, e con pietoso e grazioso amore dà ne' contrasti men gravosa sorte. - E in quel loco, sanza dipartirsi, cento e cento s' elessero e partirsi.
L. 7, ott. 15Levossi adunque prima in piedi Arcita e in parte del teatro si trasse; appresso Palemon d' altra partita a fronte disse Teseo se n' andasse, e ciaschedun della gente lì sita con cui più li piacesse si tirasse. Avea detto, e però immantanente se n' andaro ad Arcita questa gente.
L. 7, ott. 16Il primo fu il fiero Agamenone, poi Menelao e Polluce e Castore con la lor gente, e poi Pignaleone; il re Ligurgo e di Pilos Nestore, e 'l gran Pelleo col popol mirmodone, e 'l tirinzio Cromis di valore, Sicceo e Peritoo ancor vi giro, e Ippodomo e altri più il seguiro.
L. 7, ott. 17A Palemone andò Ida pisano, e dopo lui Ulisse e Diomede, e Minòs e' fratelli a mano a mano, e 'l re Evandro, a cui non servar fede li suoi che 'l fer del suo reame strano gir per lo mondo, come ancor si crede; andovvi di Tesaglia il grande Ameto, e Anchelado, e Niso a lui dirieto.
L. 7, ott. 18Così divisi, delli suoi elesse Arcita diece, li qua' caramente pregò che ciascun nove ne prendesse con seco della sua più cara gente, acciò che cento de' migliori avesse; e essi il fecero assai prestamente, e scritti furo, e agli altri fu detto che buon tempo si desser con diletto.
L. 7, ott. 19Il simil fece ancora Palemone; e di buoni uomin si trovar sì pari, ched e' non v' era variazione; e credesi che non ne fosser guari rimasi al mondo di tal condizione, così gentili e per prodezza pari, quale era quivi l' uno e l' altro cento: di che Teseo fu assai contento.
L. 7, ott. 20Adunque, posto sotto grave pena lo stare in pace per cosa ch' avegna a tutti gli altri, Teseo ne li mena seco per via onorevole e degna per la cittade d' allegrezza piena, dove col padre insiememente regna; e come prima insieme assai contenti li re si stavan tutti e le lor genti.
L. 7, ott. 21E posto che l' un l' altro conoscea col qual dovea le sue forze provare, nulla division vi si vedea però in alcuno atto adoperare; anzi ciascuno quanto più potea a quelli a' qua' doveva incontro andare, con tutto cuor di piacer s' ingegnava; così in ben con festa vi si stava.
L. 7, ott. 22 rubr.Come i Tebani andaro a' templi a pregare l' iddii che gli atassero nella battaglia futura; e prima Arcita in quel di Marte.
L. 7, ott. 22Già era il dì al quale il dì seguente combatter si dovea, quando l' iddii Palemone e Arcita umilemente giro a pregare, e con affetti pii, sopra gli altari stando foco ardente, incensi diero, e con sommi disii dier prieghi a tutti che ciascun gli atasse il dì seguente in ciò che bisognasse.
L. 7, ott. 23Ma pure Arcita ne' templi di Marte, poscia ch' egli ebbe gli altri visitati e dati fuochi e 'ncensi in ogni parte, si ritornò, e quelli alluminati più ch' altri assai e con più solenne arte e di liquor sommissimi rorati, con cuor divoto tale orazione a Marte fece con gran divozione:
L. 7, ott. 24 rubr.Orazione d' Arcita a Marte.
L. 7, ott. 24- O forte Iddio, che ne' regni nevosi bistonii servi le tue sacre case, ne' luoghi al sol nemici e tenebrosi, de' tuoi ingegni piene per quai rase d' ardir le fronti furo agli orgogliosi fi' della Terra, allor ch' ognun rimase di morte freddo in sul suol per le prove fatte da te e dal tuo padre Giove,
L. 7, ott. 25se per alto voler la mia etate e le mie forze meritan che io de' tuoi sia detto, per quella pietate ch' ebbe Nettunno allor che con disio di Citerea usavi la biltate, rinchiuso da Vulcano, ad ogni iddio fatto palese, umilmente ti priego ch' alli miei prieghi tu non facci niego.
L. 7, ott. 26Io son, come tu vedi, giovinetto, e per nuova bellezza tanto Amore sotto sua signoria mi ten distretto, che le mie forze e tutto mio valore conviene ovrarmi, se io vo' diletto sentir di ciò che più disia il core; e sanza te io son poco possente, anzi più tosto non posso niente.
L. 7, ott. 27Dunque m' aiuta per lo santo foco che t' arse già, sì come me arde ora, e nel presente mio palestral gioco con le tue forze nel pugnar m' onora; certo sì fatto don non mi fia poco, ma sommo bene; adunque qui lavora; s' io son di questa pugna vincitore, io il diletto e tu n' abbi l' onore.
L. 7, ott. 28I templi tuoi etterni s' orneranno dell' arme del mio vinto compagnone, e ancora le mie vi penderanno, e fiavi disegnata la cagione; etterni fuochi sempre v' arderanno, e la barba e' miei crin, che offensione di ferro non sentiron, ti prometto, se mi fai vincer come io ho detto. -
L. 7, ott. 29 rubr.Come l' orazione di Arcita pervenne a Marte, e come e dove sia fatto il tempio suo.
L. 7, ott. 29Era allor forse Marte in esercizio di chiara far la parte rugginosa del grande suo e orribile ospizio, quando d' Arcita l' Orazion pietosa pervenne lì per fare il dato ofizio, tututta nello aspetto lagrimosa; la qual divenne di spavento muta, com di Marte ebbe la casa veduta,
L. 7, ott. 30ne' campi trazii, sotto i cieli iberni, da tempesta continua agitati, dove schiere di nimbi sempiterni da' venti or qua e or là trasmutati in varii luoghi ne' guazzosi verni, e d' acqua globi per freddo agroppati gittati sono, e neve tuttavia che 'n ghiaccio a mano a man s' indura e cria;
L. 7, ott. 31e una selva steril di robusti cerri, dove era, folti e alti molto, nodosi e aspri, rigidi e vetusti, che d' ombra etterna ricuoprono il volto del tristo suolo, e 'ntra gli antichi fusti di ben mille furor sempre ravolto vi si sentia grandissimo romore, né v' era bestia alcuna né pastore:
L. 7, ott. 32in questa vidde la ca' dello dio armipotente, questa edificata tutta d' acciaio splendido e pulio, dal quale era dal sol riverberata la luce che abborreva il luogo rio; tutta di ferro era la stretta entrata, e le porte eran d' etterno adamante ferrate d' ogni parte tutte quante.
L. 7, ott. 33E le colonne di ferro costei vide che l' edificio sosteneno; lì l' Impeti dementi parve a lei veder, che fier fuor della porta uscieno; e il cieco Peccare, e ogni Omei similemente quivi si vedieno; videvi l' Ire rosse come foco, e la Paura pallida, in quel loco.
L. 7, ott. 34E con gli occulti ferri i Tradimenti vide, e le 'nsidie con giusta apparenza;Discordia sedea e sanguinenti ferri avea in mano, e ogni Differenza; e tutti i luoghi pareano strepenti d' aspre Minacce e di Crudele Intenza; e 'n mezzo il loco la Vertù tristissima sedea, di degne lode poverissima.
L. 7, ott. 35Videvi ancora l' allegro Furore, e oltre a ciò con volto sanguinoso la Morte armata vide e lo Stupore; e ogni altar quivi era copioso di sangue, sol nelle battaglie fore de' corpi uman cacciato, e luminoso era ciascun di fuoco tolto a terre arse e disfatte per le triste guerre.
L. 7, ott. 36E era il tempio tutto istoriato da sottil mano e di sopra e dintorno; e ciò che pria vi vide disegnato eran le prede, di notte e di giorno tolte alle terre; e qualunque sforzato fu, era quivi in abito musorno; vedeanvisi le genti incatenate, porti di ferro e fortezze spezzate.
L. 7, ott. 37Videvi ancor le navi bellatrici, i voti carri e li volti guastati, e i miseri pianti e infelici, e ogni forza con gli aspetti elati; ogni fedita ancor si vedea lici, e' sangui con le terre mescolati; e in ogni luogo con aspetto fiero si vedea Marte torbido e altiero.
L. 7, ott. 38E tal ricetto edificato avea Mulcifero sottil con la sua arte, prima che 'l sol gli avesse Citerea mostrata co' suoi raggi esser con Marte. Il quale di lontan ciò che volea colei sentì, e seppe di che parte ella venia a lui sollecitare; per che la prese e 'ntese il suo affare.
L. 7, ott. 39Udita questa adunque di lontano da Arcita mandata umilemente, sanza più star sen gio a mano a mano là dov' era chiamato occultamente; né prima i templi il loro iddio sovrano sentiron che tremaron di presente e rugghiar tutte ad una ora le porte: di che Arcita in sé temette forte.
L. 7, ott. 40Li fuochi dieron lume vie più chiaro e diè la terra mirabile odore, e' fummiferi incensi si tiraro a l' imagine posta ad onore di Marte, le cui armi risonaro tutte in sé mosse con dolce romore; e segni dierono al mirante Arcita che la sua orazion era esaudita.
L. 7, ott. 41Dunque contento il giovinetto stette con isperanza di vittoria avere; né quella notte di quel tempio uscette, anzi la spese tututta in preghiere, e più segnali in quella ricevette che gli affermaron più le cose vere; ma poscia che li apparve il novo giorno, fecesi armare il giovinetto adorno.
L. 7, ott. 42 rubr.Come Palemone andò ad orare nel tempio di Venere.
L. 7, ott. 42Palemon similmente fatto avea ciaschedun tempio d' Attene fummare, né 'n cielo avea lasciato dio o dea il qual per sé non facesse pregare; ma sopra tutti gli altri Citerea li piacque più il giorno d' onorare con incensi e con vittime pietose, e nel suo tempio ad adorar si pose.
L. 7, ott. 43E fé divoto cotale orazione: - O bella dea, del buon Vulcano sposa, per cui s' allegra il monte Citerone, deh, i' ti priego che mi sii pietosa per quello amor che portasti ad Adone; e la mia voglia per te amorosa contenta, e fa la mia destra possente doman, per modo ch' io ne sia godente.
L. 7, ott. 44Nulla persona sa quanto io amo, niun conosce il mio sommo disio, nullo poria sentir quant' io la bramo, la bella Emilia, donna del cor mio, cui giorno e notte e sempre e ognor chiamo, se non se tu e 'l tuo figliulo iddio, li qua' sentite dentro quanto amore per lei martira me suo servidore.
L. 7, ott. 45Io non poria con parole l' affetto mostrar ch' io ho, né dir quanto io sento; tu sola il ti conosci e al difetto puoi, dea, dar lontan contentamento e 'l mio penar ritornare in diletto, se tu fai ciò di che io qui attento tanto ti priego, ciò è che io sia in possession di Emilia, donna mia.
L. 7, ott. 46Io non ti cheggio in arme aver vittoria per li templi di Marte d' armi ornare; io non ti cheggio di portarne gloria di que' contra de' quai doman provare mi converrà, né cerco che memoria lontana duri del mio operare; io cerco sola Emilia, la qual puoi donarmi, dea, se donar la mi vuoi.
L. 7, ott. 47Il modo trova tu, ch' io non ne curo; o ch' io sia vinto o ch' io sia vincitore m' è poco caro, s' io non son sicuro di possedere il disio del mio amore; però, o dea, quel che t' è men duro piglia, e sì fa che io ne sia signore; fallo, i' te ne priego, o Citerea, e ciò non mi negare, o somma dea.
L. 7, ott. 48Li templi tuoi saran sempre onorati da me, sì come degni fermamente, e di mortine spesso incoronati; e ogni tuo altar farò lucente di fuoco, e sacrifizii fien donati quali a tal dea si deon certamente; e sempre il nome tuo per eccellenza più ch' altro iddio avrò in reverenza.
L. 7, ott. 49E se t' è grave ciò ch' io ti domando far, fa che tu nel teatro la spada primaia prendi, e il mio cor forando, costringi che lo spirto for ne vada con ogni vita, il campo insanguinando; ché cotal morte troppo più m' agrada che non farebbe sanza lei la vita, vedendola non mia, ma sì d' Arcita. -
L. 7, ott. 50 rubr.Come l' orazione pervenne a Venere, e come fatto e dove sia il tempio suo.
L. 7, ott. 50Come d' Arcita Marte l' orazione cercò, così a Venere pietosa se n' andò sopra 'l monte Citerone quella di Palemon, dove si posa di Citerea il tempio e la magione fra altissimi pini alquanto ombrosa; alla quale appressandosi, Vaghezza la prima fu che vide in quella altezza.
L. 7, ott. 51Con la quale oltre andando, vide quello ad ogni vista soave e ameno, in guisa d' un giardin fronzuto e bello e di piante verdissime ripieno, d' erbette fresche e d' ogni fior novello, e fonti vide chiare vi surgeno, e intra l' altre piante onde abondava, mortine più che altro le sembiava.
L. 7, ott. 52Quivi sentì pe' rami dolcemente quasi d' ogni maniera uccei cantare, e sovra quelli ancor similemente li vide con diletto i nidi fare; poscia fra l' erbe fresche prestamente vide conigli in qua e 'n là andare, e timidetti cervi e cavriuoli e altri molti varii bestiuoli.
L. 7, ott. 53Similemente quivi ogni strumento le parve udire e dilettoso canto; onde passando con passo non lento e rimirando, in sé sospesa alquanto, dell' alto loco e del bello ornamento, ripieno il vide quasi in ogni canto di spiritei, che qua e là volando gieno a lor posta; a' quali essa guardando,
L. 7, ott. 54tra gli albuscelli, ad una fonte allato, vide Cupido fabricar saette, avendo alli suoi piè l' arco posato, le quai sua figlia Voluttà selette nell' onde temperava; e assettato con lor s' era Ozio, il quale ella vedette che con Memoria poi l' aste ferrava de' ferri ch' ella prima temperava.
L. 7, ott. 55Poi vide in quel passando Leggiadria con Addornezza e Affabilitate, e la smarrita in tutto Cortesia; e vide l' Arti c' hanno potestate di fare altrui a forza far follia, nel loro aspetto molto sfigurate da l' imagine nostra; e Van Diletto con Gentilezza vide star soletto.
L. 7, ott. 56Poi presso a sé vide passar Bellezza sanza ornamento alcun, sé riguardando; e gir con lei vide Piacevolezza, e l' una e l' altra seco commendando; poi con lor vide starsi Giovanezza, destra e adorna, molto festeggiando; e d' altra parte vide il folle Ardire, Lusinghe e Ruffiania insieme gire.
L. 7, ott. 57E 'n mezzo il luogo in su alte colonne di rame un tempio vide, al qual dintorno danzando giovinetti vide e donne, qual da bella e qual d' abito adorno, discinte, scalze, in capelli e in gonne, e in ciò sol dispendevano il giorno; poi sopra 'l tempio vide volitare passere molte e colombi ruccare.
L. 7, ott. 58E all' entrata del tempio vicina vide che si sedeva pianamente madonna Pace, e in mano una cortina 'nanzi alla porta tenea lievemente; appresso a lei, in vista assai tapina, Pazienza sedea discretamente, palida nello aspetto; e d' ogni parte dintorno a lei vide Promesse e Arte.
L. 7, ott. 59Poi dentro al tempio entrata, di Sospiri vi sentì un tumulto che girava focoso tutto di caldi Disiri; questo gli altari tutti alluminava di nuove fiamme nate di Martiri, de' quai ciascun di lagrime grondava mosse da una donna cruda e ria, che vide lì, chiamata Gelosia.
L. 7, ott. 60E in quel vide Priapo tenere più sommo luogo, in abito tal quale chiunque il volle la notte vedere poté, quando ragghiando l' animale più pigro destò Vesta, che 'n calere non poco gli era e 'nver di cui cotale andava; e simil per lo tempio grande di fior diversi assai vide ghirlande.
L. 7, ott. 61Quivi molti archi a' cori di Diana vide appiccati e rotti, intra' quali era quel di Calisto, fatta tramontana Orsa; e le pome v' eran della fiera Atalanta che 'n correr fu sovrana, e ancor l' arme di quell' altra altiera che partorì il bel Partenopeo, nepote al calidonio Oeneo.
L. 7, ott. 62Videvi istorie per tutto dipinte, intra le quai, con più alto lavoro, della sposa di Nin vide distinte l' opere tutte; e vide a piè del moro Piramo e Tisbe, e già le gelse tinte; e il grande Ercul vide tra costoro in grembo a Iole, e Biblis dolorosa andar pregando Cauno pietosa.
L. 7, ott. 63Ma non vedendo Vener, le fu detto, né conobbe da cui: - In più secreta parte del tempio si sta a diletto; se tu la vuo', per quella porta cheta te n' entra. - Ond' essa sanz' altro rispetto, in abito quale era mansueta, là s' appressò per entrar dentro ad essa, per l' ambasciata fare a lei commessa.
L. 7, ott. 64Ma essa lì nel suo primo venire trovò Ricchezza la porta guardare, la qual le parve assai da reverire; e lasciata da lei quiv' entro entrare, il luogo vide oscur nel primo gire; ma poca luce poscia per lo stare vi prese, e vide lei nuda giacere sopr' un gran letto assai bello a vedere.
L. 7, ott. 65Ella avea d' oro i crini e rilegati intorno al capo sanza treccia alcuna; il suo viso era tal, che' più lodati hanno a rispetto bellezza nessuna; le braccia e 'l petto e' pomi rilevati si vedean tutti, e l' altra parte d' una veste tanto sottil si ricopria, che quasi nulla appena nascondia.
L. 7, ott. 66Oliva il luogo di ben mille odori; dall' un de' lati Bacco le sedea, da l' altro Ceres con li suoi savori; e essa seco per la man tenea Lascivia e 'l pomo il quale, alle sorori prelata, vinse nella valle idea. E tutto ciò veduto, porse il priego, il qual fu conceduto sanza niego.
L. 7, ott. 67Di Palemon le voci adunque udite, subito gì la dea ove chiamata era, per che allora fur sentite diverse cose en la casa sacrata, e sì ne nacque in ciel novella lite intra Venere e Marte; ma trovata da lor fu via con maestrevol arte di far contenti i prieghi d' ogni parte.
L. 7, ott. 68Stettesi adunque, mentre il mondo chiuso tenne Appollo di luce, Palemone dentro dal tempio sagrato rinchiuso continuo in divota orazione, sì come forse in quel tempo era in uso a chi doveva far mutazione d' abito scuderesco in cavaliere, come e' doveva che era scudiere.
L. 7, ott. 69E certo li predetti innamorati per lor piacevolezza in generale da tutti gli Atteniesi erano amati; per che l' iddii da ciascun con equale animo furon tututti pregati che li guardasser d' angoscia e di male, e ciascheduno in modo contentasse che di lor nullo mai si biasimasse.
L. 7, ott. 70 rubr.Come Emilia sacrificò a Diana.
L. 7, ott. 70Fra gli altri che all' iddii sacrificaro, fu l' una Emilia più divotamente; la qual, sentendo quanto ciascun caro era de' due amanti alla sua gente, non sofferse il suo cuor d' esser avaro di porger prieghi a Diana possente, in servigio di que' ch' amavan lei più che gli uomini in terra o 'n cielo i dei.
L. 7, ott. 71E le serventi sue tutte chiamate, co' corni pien d' offerte ragunare le fé davanti a sé e disse: - Andate, fate di Diana li templi mondare, e le veste e' liquor m' aparecchiate e l' altre cose da sacrificare. - Elle n' andaro, e essa, in compagnia di molte donne onesta, là seguia.
L. 7, ott. 72Fu mondo il tempio e di bei drappi ornato, al quale ella pervenne, e quivi presto tutto trovò ch' ella avea comandato; e poi in loco a poche manifesto, di fontano liquore il dilicato corpo lavossi, e poi, fornito questo, di bianchissima porpora vestissi, e' biondi crin dalli veli scoprissi.
L. 7, ott. 73Quinci scoperse la sacra figura di quella dea cui ella più amava, e con la bianca man la fece pura, se forse alcuna nebula vi stava; poi senza avere in sé nulla paura sovra l' altar soave la posava, e quindi, di mirifici liquori rorando, il tempio riempié d' odori.
L. 7, ott. 74E coronò di quercia cereale, fatta venire assai pietosamente, tututto il tempio e 'l suo capo altrettale; poi fatto il grasso pin minutamente spezzare a' servi, con misura equale sopra l' altare, molto reverente due roghi fece di simil grossezza, né ebbe l' un più che l' altro d' altezza.
L. 7, ott. 75Quindi con pia man v' accese il foco; e quel di vino e di latte inaffiato per tre fiate temperò un poco; e poi lo 'ncenso preso e seminato sopra di quello, riempié il loco di fummo assai soave in ogni lato; e poi si fé più tortole recare, e 'l sangue lor sopra 'l foco sprizzare.
L. 7, ott. 76E molte bianche agnellette bidenti, elette al modo antico e isvenate, si fé recare avanti alle sue genti; e tratti loro i cuori e le curate, ancor li caldi spiriti battenti, sopra gli accesi fuochi l' ha posate; e cominciò pietosa nello aspetto così a dir come appresso fia detto:
L. 7, ott. 77 rubr.L' orazione d' Emilia a Diana.
L. 7, ott. 77- O dea a cui la terra, il cielo e 'l mare e' regni di Pluton son manifesti qualor ti piace di que' visitare, prendi li miei olocausti modesti in quella forma che io gli so fare; ben so se' degna di maggior che questi, ma qui al più innanzi non sapere supplisca, dea, lo mio buon volere. -
L. 7, ott. 78E questo detto, tacque tanto ch' ella vide ogni parte delli roghi accesa; poi dinanzi a Diana la donzella s' inginocchiò e, da pietate offesa, di lagrime bagnò la faccia bella, la quale inver la dea avea distesa; quindi chinata stette assai pensosa, poi la drizzò tututta lagrimosa;
L. 7, ott. 79e cominciò con rotta voce a dire: - O casta dea, de' boschi lustratrice, la qual ti fai a vergini seguire, e se' delle tue ire vengiatrice, sì come Atteon poté sentire, allora ch' el più giovin che felice, dalla tua ira ma non dal tuo nervo percosso, lasso!, si mutò in cervo,
L. 7, ott. 80odi le voci mie, s' io ne son degna, e quelle per la tua gran deitate triforme priego che tu le sostegna; e se e' non ti fia difficultate, a lor donar perfezion t' ingegna, se mai ti punse il casto cor pietate per vergine nessuna che pregasse over che grazia a te adomandasse.
L. 7, ott. 81Io sono ancora delle tue schiere vergine, assai più atta a la faretra e a' boschi cercar che a piacere per amore a marito; e se s' aretra la tua memoria, bene ancor sapere dei quanto fosse più duro che petra nostro voler contra Venere sciolta, cui più che ragion segue voglia stolta.
L. 7, ott. 82Per che se 'l mio migliore è che' tuoi cori seguiti ancora vergin giovinetta, attuta gli aspri e focosi vapori ch' accendono il disio, che sì m' affetta, de' giovinetti di me amadori, di cui gioia d' amor ciascuno aspetta; e di lor guerra tra lor metti pace, ché certo molto, e tu il sai, mi dispiace.
L. 7, ott. 83E se' fati pur m' hanno riservata a giunonica legge sottostare, tu mi dei certo aver per iscusata, né dei però li miei prieghi schifare; e vedi ch' ad altrui son suggiugata, e quel che i piace, a me convien di fare; dunque m' aiuta e li miei prieghi ascolta, s' io ne son degna, dea, questa volta.
L. 7, ott. 84Coloro i qua' per me ne' ferri aguti doman non savi s' avilupperanno, caramente ti priego che gli aiuti; e' pianti miei, li quai d' ogni lor danno per merito d' amor sarien renduti, ti priego cessi, e facci il loro affanno volvere in dolce pace o in altra cosa ch' alla lor fama sia più gloriosa.
L. 7, ott. 85E se l' iddii forse hanno già disposto con etterna parola che e' sia da lor seguito ciò c' hanno proposto, fa che e' venga nelle braccia mia colui a cui più col voler m' acosto e che con più fermezza mi disia, ché io nol so in me stessa nomare, tanto ciascun piacevole mi pare.
L. 7, ott. 86E basti a l' altro la vergogna sola, sanza altro danno, d' avermi perduta; e, se licita m' è questa parola, fa che da me, o dea, sia conosciuta in queste fiamme il cui incenso vola a la tua deità, da cui tenuta sarò; che per Arcita ci si pone l' una, e l' altra poi per Palemone.
L. 7, ott. 87Almen s' adatterà l' anima trista a men sospir per la parte perdente, e più leggiera sosterrà la vista quando il vedrò del teatro fuggente, e la mia volontà, ch' è ora mista, dell' una parte si farà parente; l' altra con più forte animo fuggire vedrà sappiendo ciò che dee venire. -
L. 7, ott. 88 rubr.Ciò che ad Emilia orante apparve e come ella si partì del tempio.
L. 7, ott. 88I fuochi ardean mentre Emilia pregava, dando soave odor nel tempio adorno, ne' quali Emilia tuttora mirava, quasi per quelli sanza alcun sogiorno veder dovesse ciò che disiava, quando di Diana il cor l' apparve intorno infaretrato, e disser: - Giovinetta, tosto vedrai ciò che per te s' aspetta;
L. 7, ott. 89e già nel ciel tra l' iddii è fermato che tu sii sposa dell' un di costoro, e Diana n' è lieta, ma celato poco ti sia qual debbia esser di loro, se ben da te nel tempio fia mirato ciò che averrà non fuor di questo coro; però intenta inver gli altar rimira e vedrai ciò che il tuo cor disira. -
L. 7, ott. 90E questo detto, sonar le saette della faretra di Diana bella, e l' arco per sé mossesi, né stette più nulla lì di quelle, ma isnella ciascuna a' boschi ginne onde venette. Fremiro i cani, e il corno di quella si sentì mormorar, laonde segni Emilia prese che' prieghi eran degni.
L. 7, ott. 91La giovinetta le lagrime spinse dagli occhi belli, e dimorando attenta più ver lo foco le luci sospinse; né stette guari che l' una fu spenta, poi per sé si raccese, e l' altra tinse e tal divenne qual talor diventa quella del solfo, e, le punte menando, in qua in là gia forte mormorando.
L. 7, ott. 92E parean sangue gli accesi tizzoni, da' capi spenti tututti gemendo lagrime tai, che spegnieno i carboni; le quali cose Emilia vedendo, gli atti non prese né le condizioni debitamente del fuoco, che ardendo si spense prima e poscia si raccese, ma sol di ciò quel che le piacque intese.
L. 7, ott. 93E così nella camera dubbiosa si ritornò com' ella n' era uscita, ben che dicesse aver veduta cosa che le mostrava sua futura vita. Ella passò quella notte angosciosa infin che ogni stella fu fuggita, poi si levò e rifecesi bella più che non fu mai matutina stella.
L. 7, ott. 94 rubr.Come i due Tebani armati co' lor compagni uscir de' templi.
L. 7, ott. 94Il ciel tutte le stelle ancor mostrava, ben che Febea già palida fosse, e l' orizonte tutto biancheggiava nell' oriente, e eransi già mosse l' ore, e col carro in cui la luce stava giungevano i cavai, vedendo rosse le membra del celeste bue levato, dall' amica Titonia accompagnato;
L. 7, ott. 95per che ne' templi armati i due amanti li lor compagni quivi convocaro, e i fatti futuri tutti quanti, dico del giorno, tra sé ordinaro, e qua' fosser di dietro e qua' davanti alla battaglia ancora stanziaro; poscia con loro armati se n' usciro de' templi e 'nverso Teseo se ne giro.
L. 7, ott. 96 rubr.Come Teseo co' Tebani andò al tempio di Marte.
L. 7, ott. 96Il gran Teseo, dagli alti sonni tolto, ancor le ricche camere tenea del suo palagio, en la cui corte molto di popol cittadin vi si vedea; il qual vi s' era per veder raccolto che modo per li due vi si tenea di ciò che e' doveano il giorno fare, per Emilia la bella conquistare.
L. 7, ott. 97Quivi destrier grandissimi vediensi con selle ricche d' ariento e d' oro, e ispumanti li lor fren rodiensi, tenuti da chi guardia avea di loro; ringhiare e anitrir spesso sentiensi, qual per amor, qual per odio tra loro; e l' uno in qua e l' altro in là andava di tali a piè, e alcun cavalcava.
L. 7, ott. 98Vedeanvisi venire i gran baroni, di robe strane e varie addobbati, e intra tutti eran varie quistioni; qui tre, quatro, e sei adunati, tra lor mostrando diverse ragioni di qual credevan dell' innamorati che rimanesse il dì vittorioso, faccendo un mormorar tumultuoso.
L. 7, ott. 99L' aula grande d' alti cavalieri tutta era piena e di diversa gente; quivi aveva giullari e ministrieri di diversi atti copiosamente, girfalchi, astor, falconi e isparvieri, bracchi, levrieri e mastin veramente su per le stanghe e in terra a giacere, assai a' cuor gentil belli a vedere.
L. 7, ott. 100Tra queste genti magnifico molto uscì Teseo con real vestimento, ov' è con somma reverenza accolto; e e' con alto e visto portamento tutti li vide assai con lieto volto, e domandò se ancora i duecento eran venuti; a cui e' fu risposto: - No, signor mio, ma e' verranno tosto. -
L. 7, ott. 101In questa venner, non per un cammino, quasi in un punto, li due gran Tebani; e qual, qualora a Libero divino fa sacrificio ne' luoghi montani la dircea plebe, s' ode infino al chino di quai vi son li vallon più sottani, di voci e d' altri suoni e di romore, tal s' udì quivi allora e non minore.
L. 7, ott. 102Essi, ciascun co' suoi, tratti da parte, aspettaron Teseo, che prestamente venuto, inverso del tempio di Marte con lor n' andò, e là pietosamente diè sacrificio e con senno e con arte; poscia levato, sanza star niente, sopra 'l gran soglio della porta venne e lì fermato i suoi passi ritenne.
L. 7, ott. 103 rubr.Come i Tebani, fatti cavalieri da Teseo, n' andarono verso il teatro per combattere.
L. 7, ott. 103E sanza star, con non piccolo onore, cinse le spade alli due scudieri; e ad Arcita Polluce e Castore calzar d' oro li sproni e volontieri, e Diomede e Ulisse di core calzarli a Palemone, e cavalieri amendun furono allora novelli l' innamorati teban damigelli.
L. 7, ott. 104E ciascheduno sotto una bandiera d' un segnal qual li piacque con sue genti si ragunò, e con faccia sincera gir per la terra visti e apparenti; e già del cielo al terzo salito era Febo co' suo' cavai fieri e correnti, quando per loro al teatro fu giunto quasi ch' a uno medesimo punto.
L. 7, ott. 105E ben che non avesser ancor vista di sé alcuna in quel loco, pensando per che venieno e ciò che vi s' acquista, e l' un dell' altro le trombe sonando udendo, e 'l grido della gente mista che or l' uno or l' altro gien favoreggiando, quasi dubbiando, dentro al cor sentiro subitamente men caldo disiro.
L. 7, ott. 106E ciaschedun per sé divenne tale, qual ne' getuli boschi il cacciatore, a' rotti balzi accostatosi, il quale il leon, mosso per lungo romore, aspetta e ferma in sé l' animo equale, e nella faccia giela per tremore, premendo i teli con forza sudanti, e li suoi passi trieman tutti quanti;
L. 7, ott. 107né sa chi venga né quale e' si sia, ma di fremente orribili segni riceve nella mente, che disia di non avere a ciò tesi l' ingegni; e 'l mormorar che sente tuttavia, con cieca cura in sé par che disegni, per quel talora sua tema alleggiando, e ancora tal volta più gravando.
L. 7, ott. 108 rubr.Disegna l' autore il teatro e come Egeo e molti altri v' andarono.
L. 7, ott. 108Poco era fuori della terra sito il teatro ritondo, che girava un miglio, che non era meno un dito, del quale il mur marmoreo si levava inverso il ciel sì alto, con pulito lavor, che quasi l' occhio si stancava a rimirarlo, e avea due entrate con forti porte assai ben lavorate.
L. 7, ott. 109Delle quai, l' una inverso il sol nascente sovra colonne grandi era voltata, l' altra mirava inverso l' occidente, come la prima apunto lavorata; per queste entrava là entro ogni gente: d' altronde no, ché non v' aveva entrata; nel mezzo aveva un pian ritondo a sesta, di spazio grande ad ogni somma festa,
L. 7, ott. 110dal quale scale in cerchio si moveno, e cre' che in più di cinquecento giri infino all' alto del muro salieno, con gradi larghi, per petrina miri; sopra li quali le genti sedeno a rimirare gli arenarii diri o altri che facesser alcun gioco, sanza impedir l' un l' altro in nessun loco.
L. 7, ott. 111Al qual davanti era venuto Egeo con pompa grande per voler vedere; e similmente v' era già Teseo, che per fuggire scandal me' potere, del teatro le porte guardar feo da molti, che là entro forestiere o cittadin con arme non entrasse: sanza esse chi volesse sì v' andasse.
L. 7, ott. 112A questo tutti i popoli lernei, poscia che' lor maggiori ebber lasciati, sen venner, tanti che dir nol potrei, benché v' entrasser tutti disarmati; e come avean li lor con li Dircei veduti, così s' eran separati, tenendo l' un la parte del ponente, e l' altra incontro tenea l' oriente.
L. 7, ott. 113Vennervi i citadini e tutte quante le belle donne, realmente ornate, e qual per l' uno e qual per l' altro amante prieghi porgeva, e, così adunate, dopo tututte con lieto sembiante Ipolita vi venne, in veritate più ch' altra bella, e Emilia con lei, a rimirar non men vaga che lei.
L. 7, ott. 114 rubr.Come i Tebani entraron nel teatro, l' un per l' una porta e l' altro per l' altra.
L. 7, ott. 114Venuti adunque li due campioni armati di tutte arme, in esso entraro; e ciaschedun co' suoi decurioni l' un dopo l' altro assai ben si mostraro, seguendo li già detti lor pennoni, come ne' templi è detto ch' ordinaro; e dalla porta donde Euro soffia, Arcita entrò con tutta sua parroffia,
L. 7, ott. 115tale a veder qual tra giovenchi giunge non armati di corna il fier leone libico, e affamato i denti munge con la sua lingua e aguzza l' unghione, e col capo alto, quale innanzi punge, l' occhio girando, fa dilibrazione; e sì negli atti si mostra rabbioso, ch' ogni giovenco fa di sé dottoso.
L. 7, ott. 116Egli era inanzi in su un gran destriere a tutti i suoi tutto quanto soletto; e ben mostrava ardito cavaliere, sì feroce veniva nello aspetto, quando attraverso e innanzi e arriere gia senza posa il buon cavallo eletto; e elli aveva lo scudo imbracciato, e il forte elmo in testa ben legato.
L. 7, ott. 117Appresso gli era col pennone in mano il forte Dria montato da vantaggio, di cuore ardito e di poder sovrano; il qual seguiva il nobil baronaggio, e il primo era Agamenon spartano e 'l secondo Pelleo nobile e saggio, Ligurgo il terzo e 'l quarto era Castore, Menelao il quinto e 'l sesto Nestore;
L. 7, ott. 118poi Peritoo e Cromis virilmente, e Ippodamo e poi Pigmaleone, ciascun co' nove suoi arditamente; e in quel preser quella porzione che giustamente lor fu contingente; ma d' altra parte entrò poi Palemone, fiero e ardito, il cavallo spronando, negli atti bene il suo valor mostrando.
L. 7, ott. 119Qual per lo bosco il cinghiar ruvinoso, poi c' ha di dietro a sé sentiti i cani, con le sete levate e isquamoso, or qua or là per viottoli strani rugghiando va fuggendo furioso, rami rompendo e schiantando silvani, cotale entrò mirabilmente armato Palemon quivi da ciascun mirato.
L. 7, ott. 120Il qual col segno in man Panto seguia, e dopo lui Minòs, fiero a guardare, e co' suoi Niso di dietro li gia; poi Sarpedon e Ida seguitare e Radamanto, appresso il qual venia Evandro re, poté ciascun mirare; Anchelado e Ameto vi si vede, e dietro a tutti Ulisse e Diomede.
L. 7, ott. 121E come già aveva fatto Arcita, così e Palemon co' suoi si trasse e del teatro tenne una partita, solo aspettando che 'l segno sonasse; ma guardando Teseo la gente ardita, comandò che giammai non si trombasse, se nol dicesse, lor fiso mirando, ciascun per sé e tututti lodando.
L. 7, ott. 122 rubr.Stando il campo in pace, Arcita, vedendo Emilia, seco medesimo parla.
L. 7, ott. 122Mentre così mansueta la cosa si stava attesa dalli circustanti, Arcita sotto l' elmo l' amorosa vista levò, e quasi a sé davanti vide colei che a tanto perigliosa battaglia gli metteva tutti quanti; e, sotto l' elmo sospirando molto, così parlava con levato volto:
L. 7, ott. 123«Ahi, bella donna, più degna di Giove che d' uom terren, se moglie non avesse, e degno guiderdon di maggior prove che qualunque Ercul al mondo facesse, o qual pur fu più forte iddio là dove bisogno fu la rabbia s' abbattesse de' perfidi giganti, ch' agognaro il ciel donde venisti, o lume chiaro;
L. 7, ott. 124tu se' bellezza ineffabile tale, che 'l mondo mai non vide simigliante, né credo che il ciel n' abbia altra equale a te, che vinci Titan luminante di lungo andar di splendor naturale e con lui insieme l' altre luci sante; se' di virtù fontana e d' onestate, di leggiadria esemplo e d' umiltate.
L. 7, ott. 125Non isdegnare adunque il mio amore, ch' a combatter per te fiero m' induce; ma con preghiere lo sommo Fattore, che creò te e ciascuna altra luce, tenta per me e per lo mio onore; il fin del qual più là non si conduce, che per premio poterti possedere e me per tuo in etterno tenere.
L. 7, ott. 126E' non saprebbe, posto che volesse, tornare indietro, bella donna e cara, cosa che la tua bocca li chiedesse; dunque non m' esser de' tuoi prieghi avara, alli qua' domandar, se io potesse, sanza fallo verria; ma tu che rara savia tra l' altre se', conoscer puoi ciò ch' i' domando, tacend' io, se vuoi.
L. 7, ott. 127E ciò che è con prieghi domandato, donna, non è soverchio da gradire, però che par venduto e non donato; adunque, poi che sai il mio disire, che di te fui pria ch' altro innamorato, sanza aprirtel, provedi al mio languire e fammi lieto di sì fatto dono, ché vaglio sol perciò che di te sono».
L. 7, ott. 128In cotai prieghi tacito si stava Arcita, e gli occhi non partia da quella; e Palemon, ch' ancora la mirava, quasi con questa medesma favella tacito sotto l' elmo ragionava, quasi dea fosse quella damigella; e così stando fuor di ciascuno, de' suon della battaglia sonò l' uno.
L. 7, ott. 129E quale è que' che dal sonno disciolto si leva su di subito stordito e qua e là va rivolgendo il volto per conoscer che è quel c' ha sentito, così ciascun di loro, in sé raccolto, del pensier fuori si fu risentito, e del combatter ritornò il furore per lo già conosciuto trombatore.
L. 7, ott. 130 rubr.Teseo dichiara le condizioni pertinenti alla battaglia.
L. 7, ott. 130Levossi allor Teseo, e con la mano silenzio pose al molto mormorare che nel teatro i popoli faciano, e sanza troppo lungo dimorare del loco dove stava scese al piano, largo alle genti faccendosi fare, e qui alquanto stette fermo in piede; seco pensando giudica e provede.
L. 7, ott. 131Esso li fece avanti sé venire, ciascun con parte delli suoi armati, e lor le condizion fé referire a le quai s' eran davanti obligati; e poi v' agiunse, cominciando a dire: - Signor, que' che di voi saran pigliati, l' arme per mio comando lasceranno, e staranno a veder se e' vorranno.
L. 7, ott. 132E qual, forse per caso fortunoso o per altra cagion, di fuori uscisse del teatro, da ora non sia oso che più nella battaglia rivenisse; della qual chi sarà vittorioso avrà la donna, e l' altro ciò che disse la mia prima sentenza. Adunque andate e valorosamente vi portate. -
L. 7, ott. 133 rubr.Come Arcita parlando confortò i suoi.
L. 7, ott. 133Poi questo detto, il secondo sonare fece Teseo sanza tardar niente; laonde Arcita cominciò a parlare in cotal guisa, volto alla sua gente: - Signor, che sete in così dubbio affare per me venuti com' è il presente, poco conforto di parole a voi credo ch' abbiate bisogno da noi.
L. 7, ott. 134Ma tuttavia, per una antica usanza servar, m' ascolterete, se vi piace: in voi è ferma la mia speranza, in voi la vita e la mia morte giace, in voi la pena e la mia dilettanza, in voi è la mia guerra e la mia pace, in voi sta e nel vostro potere quanto di bene o male io posso avere.
L. 7, ott. 135Dunque, per Dio, la vostra virtute oggi si mostri davanti a Teseo, acciò ch' io prenda di quella salute che è il fin che qui venir vi feo; non risparmiate le vostre ferute, né la morte, al bisogno, per Penteo, il qual da morte a vita recherete e per vostro in etterno il comperrete.
L. 7, ott. 136Poi potete veder ch' i' ho ragione di tal battaglia; onde avremo il favore del forte Marte en la nostra quistione, e 'l cor mi dice io sarò vincitore, però ch' io volli già con Palemone participare amando questo amore con pace, e e' non volle; ond' io son certo che dall' iddii n' avrà debito merto.
L. 7, ott. 137E se non m' ingannaron le calde are del nostro grande iddio armipotente, ier, quando a lui andai sacrificare, sanza dubbio niun sarò vincente; ma se 'l contrario ne dovesse fare per ira concreata iustamente, sopra la testa mia priego che caggia, anzi ch' alcun di voi nessun mal n' aggia.
L. 7, ott. 138Ma io non sento averla meritata, sì che pur ben mi promette speranza insieme con vittoria, ch' acquistata mi fia non già per mia poca possanza, ma per la vostra grande e onorata fama, che 'n ciò mi dà ferma fidanza; e dello affanno me per vostro avrete, se ben pugnando per forza vincete.
L. 7, ott. 139E ben ch' i' non sia premio a tanto affanno, né per me vi movesse amor né fede a sostenere il già offerto danno, ricordivi di cui voi sete erede, e qual sia il nome che' vostri primi hanno, se alla prisca fama nessun crede, e chi voi sete ancora vi pensate: poi com vi piace, così operate.
L. 7, ott. 140Hanno l' iddii in mezzo a questo prato posto della vertù per premio onore, se più v' agrada ch' io ne sia levato ch' ancor vi son legato da amore; e ben sappiate, e' non fia repugnato da gente vile e sanza alcun valore, ma ben da tali chenti noi qui siamo, o miglior forse convien che l' abbiamo.
L. 7, ott. 141Li qua' se voi vincete, maggior gloria ne fia che non saria di gente vile; ella sarà di lor doppia vittoria quella che d' essi avrem, non gente umile; e la crescente fama con memoria etterna a' successor con dritto stile ci renderà, e sarenne lodati da tai ch' ancor non sono ingenerati.
L. 7, ott. 142Dunque di voi vi ricordi, per Dio! E se ne fu niun mai inamorato, dimostri qui chente avesse il disio; voi non avete con duplificato popolo a ricercar di Marte il fio, anzi è, come sapete, appareggiato di numero con voi, e voi il sapete, e tutti a voi davanti li vedete.
L. 7, ott. 143Pensate ancora quanti riguardanti e che persone sono in questo loco; voi li vedete tutti a voi davanti, però, come volete, o molto o poco adoperate omai, ché cotai vanti avrà la fiamma chente fia il foco; priegovi pur quant' io posso di bene, però che male a voi non si convene. -
L. 7, ott. 144Egli era tale a veder nello aspetto quando parlava, qual nel cielo avverso è da mane o da sera nuvoletto al sol: con parlare alto, assai diverso dal suo usato, e 'n su le strieve eretto, con l' una man reggea 'l caval perverso, ch' anitrendo era sanza alcuna posa, l' altra la spada nel foder ascosa.
L. 7, ott. 145Elli avea detto; e Palemone ancora con alte voci li suoi invitava a grandi onori, e a ben far l' incora quanto poteva, e molto glien pregava: laonde l' una parte e l' altra allora sì per lo dir de' due incoraggiava, ch' appena suon volevano aspettare, tanto disio avean d' avanti andare.
L. 7, explicitQui finisce il libro settimo del Teseida.
L. 8, son. iniz. rubr.Sonetto nel quale si contiene l' argomento particulare del libro ottavo.
L. 8, son. iniz.L' ottavo libro il fiero incominciare ne mostra dello stormo primamente, e il crudele e aspro adoperare che fé ciascun de' prencipi possente; di Teseo e de' presi il riguardare con laude di ciascun combattente seguita poi, e quindi il favellare d' Emilia seco tacito e dolente. Poi finge Marte, in Teseo transformato, in Arcita raccendere il furore, che per riposo in parte era tirato; poi come Palemon con gran dolore dal gran caval di Cromis fu pigliato, e quindi Arcita mostra vincitore.
L. 8, ott. 1 rubr.Incomincia il libro ottavo del Teseida. E prima invoca, cominciando poi la battaglia.
L. 8, ott. 1Taceva tutto il teatro aspettando il terzo cenno del sonar tireno, in qua in là in giù in su mirando, e or dell' uno or dell' altro diceno ciò che nel cor ne givano stimando, e qua' con questi e qua' con que' teneno; e mentre stavano attenti a costoro, subito udissi il terzo suon fra loro.
L. 8, ott. 2Ora la Musa a cui più di me cale per me versi componga, or per me canti, e noto faccia il gioco marziale fieramente operato da' due amanti, con compagnia ciascun di schiera equale di cavalier valorosi e atanti; ch' io per me non varria a far sentire il duro scontro e l' amaro seguire.
L. 8, ott. 3Se il romore del gonfiato mare da fieri venti e forti stimolato e quanto mai ne fero nel pigliare porto li marinar fosse adunato o quello insieme che si dovea fare quando a Pompeo Cesar assembrato si fu in Tesaglia, non fora ad assai quanto fu quel, che non si udì più mai;
L. 8, ott. 4né saria stato, s' agiunto vi fosse quel che Lipari fé, o Mongibello, o Strongolo, o Vulcan quando più cosse, o quando Giove, più crucciato, il fello Tifeo di spavento più percosse, tonando forte: omai chente fu quello pensil ciascun che ha fior d' intelletto; forse che 'l sentirà qual io ho detto,
L. 8, ott. 5d' arme, di corni, nacchere e trombette, di voci messe da' popoli strani, il qual dicon che 'n Corinto s' udette, tanto nel ciel si dilatar sovrani: ciascuno uccello di volar ristette, e temer tutti gli animai silvani; e qualunque era quivi non venuto pensò parte del ciel fosse caduto.
L. 8, ott. 6E qual là, dove Appennin da Peloro tronchi si truovan, per li venti avversi gli alti marosi per forza tra loro romponsi e bianchi ritornan di persi, giunsersi sì le schiere di costoro con corsi più veloci e più perversi, che d' alto monte, per subita piova, rabbioso il rivo il pian letto ritrova.
L. 8, ott. 7Così adunque le schiere animose li gran destrieri urtaron con li sproni; sanz' aver lance, co' petti, focose insieme si ferir de' buon roncioni. La polver alta tutti li nascose in un nuvol di sé; e degli arcioni usciron molti allor, che non montaro più a caval, né quindi si levaro.
L. 8, ott. 8E' si sostenner, né poter passare oltre fra lor, ma ricularsi indietro per le percosse equal, sì come fare suol raggio in acqua percosso o in vetro, che riflettendo i raggi fa tornare subitamente per lo cammin tetro; e vigorosi spronar li destrieri, in sé tornando gli arditi guerrieri.
L. 8, ott. 9Né credo, quando più la fucina arse di Vulcan nera ne' regni sicani, o quando maggior fummo fuori sparse, tale il facesse qual salivan vani vapori al cielo, i quai delle riarse terre nascean dalli cavalli strani premute, e dagli anari e da' sudori mossi e dagli spumanti corridori.
L. 8, ott. 10Nullo dintorno alcun di lor vedea, se non come per nebbia ne' turbati tempi si vede, e l' un non conoscea l' altro di loro, e gran colpi donati erano in danno, che ciascun credea dare a color cui aveno scontrati; per che Arcita - Pegaso! - a gridare cominciò forte e' suoi a confortare.
L. 8, ott. 11Ma Palemon solo - Asopo! - gridava, e con tal voce a sé i suoi raccolse e di bene operar li confortava; poi ver gli avversi la testa rivolse del suo cavallo, e la spada vibrava; inver di cui il buono Arcita si volse, avendo lui appena conosciuto per lo gran polverio che v' era suto;
L. 8, ott. 12e con li sproni urtato il gran destriere, li corse adosso con la spada in mano; e que' ver lui come pro' cavaliere corse feroce e certo non invano; ma tal de' petti, in mezzo delle schiere, si riferiro e de' corpi, ch' al piano insieme co' cavai che rincularo amendun cadder sanza alcun riparo.
L. 8, ott. 13Cremiso quivi, in Elicona nato, e Parmenon, che l' onde d' Ismeneo tutte sapeva, e con lor Polimato, questo vedendo, incontro di Fegeo d' Antedon sceser, ch' era dismontato, e con lui il teumesio Alfesibeo, per lo lor Palemon volere atare e, se potesser, Arcita pigliare.
L. 8, ott. 14E cominciar fra loro aspra battaglia così a piè con le spade impugnate, e ciaschedun per lo suo si travaglia, dando alla parte avversa gran collate, sforzandosi per vincer la puntaglia; e ben mostravan lor gran probitate in mantenersi per ispazio molto, sanza mai volger, l' uno a l' altro volto.
L. 8, ott. 15Quivi rimase per misera sorte Artifilo Itoneo, il qual ferio d' una bipenne il buon Cremiso a morte; e mentre lui lo suo fratel pio volea levar, li sopragiunse il forte Eleno, e orgoglioso il perseguio e lui uccise ancor similemente allato al frate dolorosamente.
L. 8, ott. 16E 'nnanzi si potesser riavere ciascun da' suoi, vi fur colpi assai dati, però che l' uno l' altro ritenere voleva; e dopo molto in ciò provati e a ciascuno mancato il potere, amenduni a caval fur rimontati, mercè de' lor che gli aiutaron bene, oprando ciò ch' a tal cosa convene.
L. 8, ott. 17La pressa grande e lo spesso ferire tolse di sé a questi due la vista; e cominciaron per lo campo a gire, dipartendo ove più la gente mista si combatteva, ciascun con disire; e andar sen potea l' anima trista all' infernali iddii di cui giugnea Arcita: in saldo ta' colpi traea!
L. 8, ott. 18 rubr.Come gli altri baron tutti s' afrontarono.
L. 8, ott. 18Il gran Minòs il fiero Agamenone presto nell' arme gì a riscontrare, e 'l buon Nestor iscontrò Almeone, e Ida Peritoo nell' afrontare, e Evandro s' urtò con Sarpedone; ma Radamanto venne ad ovviare il fiero Niso, e appetto a Castore Anchelado s' oppose con valore.
L. 8, ott. 19E contro Alimedon Pelleo sen venne, e Menelao si fé incontro ad Ameto; né il buon Ligurgo di correr si tenne inver d' Ulisse, il qual non mansueto andò ver lui; ma Diomede attenne al buon Polluce, d' ira assai repleto; gli altri ciascun secondo che poteo nella battaglia più innanzi si feo.
L. 8, ott. 20Chi passò innanzi e chi rimase appresso de' prencipi primai nella scontrata; ciascun feriva e era ferito esso, la battaglia tenendo lunga fiata; ma per lo in qua e 'n là ferire spesso, tosto fu tutta in sé rimescolata; né ordine servossi, anzi correa ciascun colà dove me' far credea.
L. 8, ott. 21E' si scontrò Arcita in Almeone e battaglia aspra insieme incominciaro; né di lor nullo pareva garzone, anzi vendea ciascun suo colpo caro; e d' altra parte il fiero Palemone e 'l nobile Polluce si scontraro; quivi Polluce mostrò aspramente ch' elli era del ciel degno veramente.
L. 8, ott. 22El feria Palemon con tal valore, che quasi a forza ritenuto l' ebbe; se non che Ulisse, buon combattitore, lasciò Ligurgo, sì di ciò l' increbbe, e lui riscosse; ma Pollùs di core, tal contra Ulisse mal voler li crebbe, col buon Nestore insieme accompagnato a forza fuor de' suoi l' hanno tirato.
L. 8, ott. 23Laertin maravigliosa prova mostrò di sé con Filacide insieme in riscuotere Ulisse, ma non giova; ciascun, quantunque pò, sopra lor preme, e certo egli era a veder cosa nova ciò che Liarco faceva e Crusteme per lui raver; ma Acarnan pisano li facea fatigar del tutto invano.
L. 8, ott. 24Col quale insieme era 'l buono Agilleo, dell' ardir del fratel tutto focoso; e 'l buon Toàs col suo frate Euneo, ciascun nell' arme forte e poderoso; de' quali ognun tanto per forza feo, che 'ndietro si tornò ciascuno iroso di que' d' Ulisse; e essi della spessa turba lui trasser con non poca pressa.
L. 8, ott. 25Quivi, tratteli l' arme, a riguardare che fesser gli altri il mandaro a sedere. Fé dunque il dì assai di sé parlare Polluce, e fece assai chiaro sapere che sed e' non l' avesse fatto andare Giove sì tosto il cielo a possedere, che elli avrebbe per Elena a Troia al grande Ettor donata molta noia.
L. 8, ott. 26Ma qual la leonessa negli ircani boschi, per li figliuo' che nel covile non trova, sé con movimenti insani messa in oblio, la sua ira gentile mugghiando corre e per monti e per piani, né mai la fa se non affanno umile; cotal correndo Diomede andava, veggendo Ulisse preso che si stava.
L. 8, ott. 27Niuno aveva resistenza a lui; e' ferì Eris e ferì Sicceo e Alcion sicionio, e con lui molto aspramente l' epidaurio Agreo, nulla aveva paura d' altrui; e 'n quello andare il buon Iolao Ianteo preso, da Niso e da Almeone atati, lui ritenner per prigione.
L. 8, ott. 28Poi ritornati valorosamente alla battaglia, Cefalo scontraro e lui ferir; ma valorosamente Cefalo fé a tal corsa riparo; ma sua prodezza non valse niente: Alcidamàs e lui insieme pigliaro, e dello stormo li mandaron fuori, sicché non fur più il dì feritori.
L. 8, ott. 29 rubr.Come Diomede fu preso.
L. 8, ott. 29Agamenone di parte lontana questo vedeva, tuttor combattendo; per che, chiamata sua gente spartana, in quella parte se ne gì correndo, e gridò forte: - O Diomede, appiana; troppo ci vai di dammaggio faccendo! - E questo detto, in sul capo il ferio, ond' elli a terra tramortito gio.
L. 8, ott. 30Prender lo volle allora Eliodoro e 'l buon Mefiso, e eran dismontati; ma ben vi fu chi contradisse loro, Arbato e Cidoneo quivi arrivati, li quali a piè s' opposero a costoro, e tra lor fur di gran colpi donati; e Diomede, tutto sanguinoso, fu tratto dello stormo per riposo.
L. 8, ott. 31 rubr.Come Minòs fu preso.
L. 8, ott. 31Avea Niso ferito il buon Castore e quasi già che stancato l' avea, ove Agilleo ancor con gran valore mostrava ben tutto ciò che valea; allor Minòs con furia e con furore, che assai vicino a sé questo vedea, vi corse e gli assaliti riscotendo giva, aspramente in qua e 'n là ferendo.
L. 8, ott. 32A questo venne correndo Pelleo, mostrando sé degno padre d' Accille, e in mezza la pressa far si feo vie più di luogo assai, che se con mille vi fosse giunto, e il figliuol di Perseo con lui insieme; e parea che faville gittasser d' ogni parte, sì ferventi quivi pervenner con tutte lor genti.
L. 8, ott. 33E 'ncontro al gran Minòs Pelleo si mise con un bastone di ferro impugnato, né mai alcun per colpir li divise, sì parea ciascheduno inanimato; e tanto il buon Pelleo s' inframise, ferendo forte e sostenendo armato, che mal suo grado ebber Minòs prigione: egli, e co' suoi, lo buon Mirmodone.
L. 8, ott. 34Al qual riscuoter Ditteo operava con quella forza che potea maggiore, e 'l ciprian Rifeo forte l' atava, e 'l simile faceva il buon Mintore, alli quali Astragon alto gridava: - Deh, riscotiamo il nostro car signore. - E Piro e Cenis e Tricon sagace, ciaschedun sopra ciò quanto pò face.
L. 8, ott. 35Ma Telamone incontro resistenza aspra facea con Foco suo fratello, e Fenice con loro, a tale intenza; Tarso, Cidone, Parmeso e 'l gemello Arion con Acon la lor potenza dimostravan nell' armi a tal zimbello; tra' quali aspra battaglia e angosciosa fu certo e grande e per tai dolorosa.
L. 8, ott. 36Quivi Rifeo fu da Talamone ucciso, il qual gli avea morto davanti miseramente il dolente Arione, il qual parole, sangue e tristi pianti ad una ora nel sen del suo Acone, alla morte vicin, tra tutti quanti, gittava; e quivi l' anima rendeo, perché cacciata star più non poteo.
L. 8, ott. 37Ma al da sezzo dopo molti danni, dopo gran colpi e morti dolorose, dopo molti sudori e molti affanni, menar sì Foco e Telamon le cose, che gli uomini Gnosiachi, e gl' inganni loro e le forze e l' opre mervigliose quasi per vinte, indietro rincularo e lì preso Minòs pur vi lasciaro.
L. 8, ott. 38 rubr.Come Evandro e Sicceo furono tratti della battaglia.
L. 8, ott. 38Quando l' arcado Evandro di lontano di tal campion si vide rimanere sol, quasi l' ira il fé tornare insano, e sanza più di sua vita temere, la bella spada recatasi in mano, inver di Sicceo corse e con potere sommo li fece da presso sentire come sapeva di spada ferire.
L. 8, ott. 39Ben si difese il giovinetto accorto e ben l' ataro i suoi arditamente, tal che 'l narizio Leles vi fu morto, e abbattuta d' una e d' altra gente; ma alla fine Evandro bene scorto, abbracciato Sicceo fortemente, giù del cavallo il voleva tirare, né il potean colpi da lui separare.
L. 8, ott. 40Tenevasi Sicceo e abbracciato aveva lui, e 'n qua e 'n là correndo givan, ciascun dal suo destrier menato; ultimamente ciascun, pur tenendo, fu dal cavallo in tal modo portato, ched e' votaron gli arcioni, e cadendo si magagnaron di maniera tale, che più non fero il dì né ben né male.
L. 8, ott. 41Dintorno a loro era la pressa molta, chi per pigliare e chi per ritenere; e sì di genti e d' armi v' era folta, che fu più volte loro in dispiacere; e ciascun si sprovò più ch' una volta di levar su, ma non v' era il potere; laonde il meglio che essi poteno dalli menati colpi si coprieno.
L. 8, ott. 42Era lì Sipil di Menalo monte, e 'l forte Menfìs, nato in Cinosura, e d' Azan v' era il crudo Ginodonte, e di Partenio con vista sicura v' era Bricol, e con ardita fronte Croton vi stava, che giammai paura non si crede ch' avesse, e il nifeo Nirilo e anche Trofilo tegeo.
L. 8, ott. 43Questi volean Sicceo del tutto preso, e in ciò si sforzavan; ma e' v' era ben gente dalla quale e' fu difeso; quivi Plesippo e Tosea con fiera vista si videro, e Acasto acceso di mal talento, il quale in tal maniera Croton, tegnente allor Sicceo, ferio, che morto a' piè tramazzato li gio.
L. 8, ott. 44E con lor fu Linceo e Eurizio e 'l buon Fenice, figliuol d' Amintore, e Etion e Pelopeo Narizio, ciaschedun uom di non piccol valore, e ancora con loro era Caspizio; li qua', ben ch' essi avesser le loro ore più messe in caccie che nell' arme armati, fer d' arme sì, che ne furo onorati.
L. 8, ott. 45E 'l buon Sicceo, lor compagno caro, malgrado di Menfìs, soavemente fuor della calca fra' suoi il menaro, e in riposo quivi pianamente, con li suoi disarmati, lui lasciaro, e allo stormo tornar fieramente; e quei d' Evandro fero il simigliante; poi al ferir seguiron Radamante.
L. 8, ott. 46 rubr.Come Pelleo fu trasportato dal cavallo fuor del teatro.
L. 8, ott. 46Non si ritenne per questo Pelleo, ma, tra gli Arcadi fieramente messo, quasi che 'ndietro rivoltar li feo sanza signore, e furvi assai appresso; al quale Alimedon quanto poteo si fece incontro, e altri assai dop' esso, e sì d' una bipenne in capo il fiere, ch' appena si ritenne in sul destriere.
L. 8, ott. 47Il quale il ne portò tutto stordito del teatro di fuor, forte correndo, dove da Tarso e da Cidon seguito fu, che 'l ritenner, che giva dormendo; ma nol ritenner pria che risentito si fu il re, e a caval credendo esser ancora, voleva tornare il colpo ricevuto a vendicare.
L. 8, ott. 48Ma nulla fu, poi si trovò smontato e al ritondo teatro di fore; per che conobbe ch' elli era privato di combattere il dì; onde dolore intollerabile ebbe e non provato da altrui mai; onde con tristo core, co' suoi ch' eran con lui, al suo ostello se n' andò disdegnoso e tutto fello.
L. 8, ott. 49E quale, degli armenti ancor bramoso, sol pien di sangue rimane il leone, cotal Pelleo, tutto sanguinoso, sanza trovar né bestie né persone de' già feriti, sen gia polveroso, rodendo sé in sé, tutto fellone, perché non s' era ritornar potuto com' elli avrebbe volentier voluto.
L. 8, ott. 50E Telamon, che nel vide portare, l' aveva richiamato più fiate, credendol far, gridando, ritornare, ma non eran le sue voci ascoltate da lui che non sapea dove s' andare, sì le sue posse s' eran dileguate pel ricevuto colpo, duro e forte, ch' ad altro avria forse data la morte.
L. 8, ott. 51 rubr.Della battaglia che fu tra Ameto e Arcita.
L. 8, ott. 51Ameto, sovra Foloèn ardito, del buon Sicceo seguitò la schiera: con un baston d' acciaio, chiaro e forbito, si fé conoscer qual nell' armi egli era; e 'l buono Appollo ben l' aveva udito, quando li porse l' umile preghiera; per che fra tutti aspramente correndo, si fé far luogo col baston ferendo.
L. 8, ott. 52Esso ferio d' Amintor Fenice e l' abbatté, e l' ardito Linceo, e dopo loro Eurizio infelice, e dop' essi il dolente Pelopeo; e se ciò che l' antica fama dice è ver, di Testio ferì il buon Toseo; e tai cose facea, che ammirazione a chi 'l vedeva dava con ragione.
L. 8, ott. 53E 'n poca d' ora tanto fatto avea, che quasi in volta parte n' avea messi; di che Arcita molto si dolea, e quasi che sconfitto allor vedessi; ma nol sofferse, anzi ver là correa, aspreggiando 'l caval con sproni spessi, e fier si mise ad Ameto davanti, che giva i suoi cacciando tutti quanti.
L. 8, ott. 54Quivi si cominciò l' aspra battaglia, e' ferri eran mezzan della tencione. Ameto con li suoi buon di Tesaglia facevan forte e buona difensione;miga dimostravan che lor caglia di rivedere o paese o magione, anzi mostravan lor le morti care pria che volessero indietro tornare.
L. 8, ott. 55Né già Arcita dalli suoi Dircei era peggio d' Ameto seguitato; onde di parte in parte fra' Lernei era di molto male adoperato: quelli il sapevan che gridando omei cadevan sanguinosi d' ogni lato; e lungo e aspro tra loro il ferire fu più assai che io non potrei dire.
L. 8, ott. 56Quivi era Aschiro, al gran Chiron nepote, che poi nudrì Acchille piccioletto, al qual quantunque dii nell' alte rote con Giove regnano erano in dispetto; costui con furia qualunque percote, del viver più non gli ha luogo rispetto. E del monte Ossa Fillaro crudele era con lui, e di Pindar Linfele.
L. 8, ott. 57A lo scontro de' qua' Cremiso venne, e vennevi Anfion, sopra Permesso nato, e ciascun per forza li ritenne; e 'l parnasio Cirreo v' era, e con esso Decalione, quanto si convenne armato; e sì in quel bisogno espresso adoperar, che la foga di quelli ristette, e furo offesi alquanti d' elli.
L. 8, ott. 58 rubr.Come Ida pisano fu preso.
L. 8, ott. 58Ma mentre in tal contasto si sudava, Ida, leggier più ch' altro, destramente del suo destriere in terra dismontava, e di dietro ad Arcita prestamente, sopra la groppa, armato si gittava, credendo lui ritener fermamente; e sì faceva el, ma e' fu corto l' avviso, perché Arcita ne fu accorto.
L. 8, ott. 59El s' avisava d' Arcita pigliare di dietro per le braccia molto stretto, e il cavallo ad una ora spronare, per portarnel tra' suoi; ma ciò effetto non ebbe, ché Arcita, nel montare di lui, l' un braccio alzò, e poi ristretto con l' altra mano il freno, il buon destriere rivolger fé inver delle sue schiere;
L. 8, ott. 60sì ch' Ida dietro per iscudo gli era, il qual lui forte abbracciato stringendo volea tirar, con la sua forza fiera, in terra del caval; ma non potendo e lui veggendo già nella sua schiera, per iscampo di sé volle, scendendo, fuggir di lì e fra' suoi ritornare; ma non poté, com' elli avvisò, fare.
L. 8, ott. 61Però che l' un delli suoi spron prese del destrier la coverta ventilante, sicché col piè impacciato, quando scese, rimase e gir non sen poteva avante, ma in terra cadendo si distese, onde addosso li furon tutte quante le genti allor d' Arcita per pigliarlo; ma' suoi si fero avanti per atarlo.
L. 8, ott. 62Quivi era Archesto con altri Pisani, li quali il preser per tirarlo a loro e a caval riporlo; ma' Tebani forte il tenean per lo busto fra loro; onde co' ferri vennero alle mani,percotendo agramente costoro; altri il tiravan per lui riavere e altri forte per lui ritenere.
L. 8, ott. 63E tal rissa era tra costor, qual vene tra 'l gioviale uccello e il serpente il quale i parvi nati di lei tene: quella di riaverli con tagliente becco ricerca, adiungendoli pene; questi solo al fuggire sta intendente con essi; onde la briga cresce ognora, mentre il serpente li presi divora.
L. 8, ott. 64Così era tra questi, ma Eleno gridò: - Signor, se voi nol ci lasciate, tra noi e voi qui lo straziereno. - Ma non eran le sue voci ascoltate; ond' elli insieme col fiero Parmeno, gravanti scuri nelle man recate, feriro Archesto e Limaco sì forte, che ad amendun sentir fecer la morte.
L. 8, ott. 65Gli altri, per far di se stessi difesa, lasciarono Ida quivi, e per vengiare de' lor compagni la crudele offesa cominciar colpi spietati a menare; ma poco valse lor focosa impresa, ché pure ad Ida ne convenne andare, malgrado suo, per prigione a posarsidove gli altri lì vedeva starsi.
L. 8, ott. 66 rubr.Della battaglia fatta da Ameto per abbattere la bandiera d' Arcita.
L. 8, ott. 66Poscia che Ameto vide che scampato quindi era Arcita maestrevolmente e Ida per prigion n' era mandato, turbato nello aspetto, fieramente inverso Drias ha co' suoi spronato, lo quale la bandiera fortemente tenea nel campo; e giusto suo potere s' ingegnò di volerla far cadere.
L. 8, ott. 67Ma il giovane con anima sicura non si mutò, ma stretto l' abracciava, e sostenendo la battaglia dura de' colpi che Ameto li donava, a' suoi gridava con solerte cura ch' atasser lui, e li rincoraggiava; quivi Ligurgo con li suoi ardito era a guardarla posto per perito.
L. 8, ott. 68El tornò il suo caval verso d' Ameto, e con lui fu il gran Pigmaleone; né alcun lì si mostrò mansueto, ma fiero più che mai alcun dragone; e dieron colpi assai, che pien di fleto furono a chi sentì tale offensione; né si partì in brieve la mislea, per ciò ch' Ameto pur fare intendea.
L. 8, ott. 69Quivi di spade e di baston ferrati era sì grande la batosta e tale, che molti ve ne furon magagnati, né stata v' era nel campo cotale; e' Pegasei quasi erano avanzati; per che Anchelado, corso a questo male, co' suoi raccolto, per costa ferio, e quasi quindi ciascun si fuggio.
L. 8, ott. 70E' vi rimase Apintos nemeo, e Faleron che agli aspri cinghiari già nelli boschi molta guerra feo; e tra li sparti sangui nelli amari campi rimase il misero Neseo, e altri ancora, non delli men cari; ma non pertanto Ameto non posava, ma il suo proposto di far s' ingegnava.
L. 8, ott. 71El ritornò ver Drias banderese, e solo abbatter il segno volea: questo con forze e con diverse offese verso Ligurgo che gliel difendea, cercava, di cui venne alle difese Peritoo, tosto che questo vedea; e iscontrossi con Alimedonte, figliuolo stato d' Eurimedonte.
L. 8, ott. 72E' si feriron di tutta lor possa sugli elmi con le spade, e ispezzaro parte di quelli; ma qual si move Ossa per picciol vento, cotal si mutaro d' in su' destrier; ma quivi si ringrossa l' ira; per che più volte si toccaro e fer maravigliar chi li mirava, tanto d' arme ciascuno adoperava.
L. 8, ott. 73Corsevi ancora Artofil mirmodone contro ad Ameto, ma il buon cavallo li mancò sotto, donde e' fu prigione dagli altri messo fuor senza intervallo; e gissene con esso Sarpedone, il quale aveva quivi lungo stallo fatto, abbattuto, e scalpitato spesso da qualunque ivi gli era andato presso.
L. 8, ott. 74Questo vedendo Giapeto feroce, che da l' alber fatale aveva tratta possa durabil, pessima e atroce, poscia che Egina fu tutta disfatta e di formiche si rifé veloce, come Eaco ebbe sua orazion fatta, corse ferendo tanto furioso quanto per piova è rivo ruvinoso.
L. 8, ott. 75E Dromone il seguì il qual solea di Calidonio le grotte cercare, e Cinfalio con lui e 'l buon Finea e 'l fier Cresippo, credendosi fare ciò che il lor poter non concedea, ciò era il buono Artofil racquistare; per che incontro a loro il larisseo uscì, con molti armati, Dodoneo.
L. 8, ott. 76Aveva lungamente combattuto Peritoo, e Ameto, e veramente l' un di lor due saria stato tenuto, se e' non fosse per la molta gente che venne a dare a ciascheduno aiuto; ma pure a Peritoo massimamente, perch' era stanco, vie più bisognava che ad Ameto ch' ancor fresco stava.
L. 8, ott. 77Lì venne il buon Leonzio Crimione e l' epidaurio Doricon ancora, e ciaschedun di ferro un buon bastone portava, e ben ciascun per sé lavora; e Amintor di Lelegia a ragione di Peritoo l' affanno ristora, e Fizio Filacido; e sì fero ch' alcuna lena a Peritoo rendero.
L. 8, ott. 78 rubr.Come Arcita valorosamente, dopo alcun riposo, combatté.
L. 8, ott. 78Così per lungo spazio combattendo givano alcuni, e altri per vigore maggior pigliar si givan ritraendo; tra' quali Arcita, asciugando il sudore che sanguinoso gli gia trascorrendo giù per lo viso, della calca fore alquanto s' era tratto e riprendeva un poco d' aer sì come poteva.
L. 8, ott. 79Ma mentre che prendeva tal riposo così nell' arme, alquanto gli occhi alzati gli venner là dove 'l viso amoroso vide d' Emilia e' belli occhi infiammati di luce tanto lieta, che gioioso facean qualunque a cui eran voltati; e tutto in sé tornò quale in prima era, sì come fior per nova primavera.
L. 8, ott. 80E quale Anteo, quando molto affannato era da Ercul con cui combattea, come a la terra, sua madre, accostato s' era, tutte le forze riprendea, cotale Arcita, molto faticato, mirando Emilia forte si facea; e vie più fiero tornò al ferire che prima, sì lo spronò il disire.
L. 8, ott. 81El sì ferì tra la gente più folta, e con la spada si facea far via; e questo qua e quello in là rivolta, costui abbatte e quello altro feria; e combattendo dimostra la molta prodezza che Amor nel cor li cria; el non ne giva nullo risparmiando, ma, come folgor, tutti spaventando.
L. 8, ott. 82Egli abbatté Aschiro e Piragmone e dopo loro il ferrigno Cefeo e l' etolo Cheron di Pleurone e 'l gran cavalcatore Erimeteo e Filon poi, nepote a Palemone, al qual di morte doglia sentir feo: tal con la spada in sul capo li diede, che per morto sel fé cadere a piede.
L. 8, ott. 83Poi sen oltre, e costui istordito rimase in terra lì villanamente; ma poi che fu di stordigione uscito, con voce fioca dolorosamente disse: - Va oltre, cavaliere ardito, col primo agurio della nostra gente, e cotai basci Emilia ti dea spesso, qual tu m' hai dato! - E giù ricadde addesso.
L. 8, ott. 84Similemente Erimeteo dicea, il qual di sangue avea la faccia sozza; ma le parole più rotte porgea, però ch' era ferito nella strozza; laonde forte seco si dolea, tal di quel colpo sentiva la 'ndozza, dicendo: - Se te padre raspettasse, quale hai me concio qui ti ritrovasse! -
L. 8, ott. 85Maraviglie facea il buono Arcita, in qua in là per lo campo correndo; e con gran voci le sue schiere aita, or questo or quello andando soccorrendo; e ciascheduno a bene ovrare invita che vede lui così andar ferendo; e d' altra parte facea il simigliante l' ardito Palemon, pro' e atante.
L. 8, ott. 86 rubr.Della disposizione del campo.
L. 8, ott. 86Dopo il crudele e dispietato assalto, orribile per suoni e per ferite, lì fatto prima, sopra il rosso smalto, si dileguaron le polveri trite: non tutte, ma tal parte, che da alto e ancora da basso eran sentite parimente e vedute di costoro l' opere e 'l marziale aspro lavoro.
L. 8, ott. 87Il sangue quivi de' corpi versato e de' cavalli ancor similemente aveva tutto quel campo inaffiato, onde attutata s' era veramente e la polvere e 'l fummo, e imbragacciato di sangue era ciascun destrier corrente, o qualunque omo vi fosse caduto, ben che a caval poi fosse rivenuto.
L. 8, ott. 88Ciascuno aveva i ferri sanguinosi, e 'l viso rotto, e l' armi dispezzate; e' più morbidi aspetti rugginosi eran di vero, e le veste squarciate, e i cavai non erano orgogliosi come soleano, e le schiere scemate erano assai e scemavano ognora: tanto di cuor ciascuno a ciò lavora!
L. 8, ott. 89 rubr.Ciò che Teseo e gli altri riguardanti diceano.
L. 8, ott. 89Miravali, ammirando, il grande Egeo, con vista aguta del suo real loco; e 'l simile faceva ancor Teseo, tutto nel viso rosso come foco, tanto 'l disio del combatter poteo, di che più volte si tenne per poco! Esso vedeva e conosceva aperto qual di lor fosse più nell' arme esperto.
L. 8, ott. 90E similmente assai chiaro notava l' opere di ciascuno e 'l suo ferire; e chi la morte per onor cercava, e chi temeva per gloria morire, e chi più arte en la battaglia usava, e chi aveva o più o meno ardire, e chi schifava e chi facea niente, tutto vedea in sé tacitamente.
L. 8, ott. 91E spesso giudicava la dubbiosa battaglia e 'l fin di quella seco stesso; ma non poteva fermo di tal cosa giudicio dar, sì si mutava spesso il caso d' essa, che non men noiosa di lontano era che fosse da presso; e 'n general per prodi e per valenti lodava seco tutti i combattenti.
L. 8, ott. 92Elli avea seco li prigion chiamati, e de' lor casi con lor si ridea; e, come volle, quivi disarmati seco ciascun reverente sedea, tenendo dell' affar diversi piati: chi questi e chi quegli altri difendea; ma tututti dicean ch' alcun vantaggio non vi vedean, ma eran d' un paraggio.
L. 8, ott. 93Ipolita con animo virile la doppia turba attenta rimirava, né già fra sé ne teneva alcun vile, anzi d' alta prodezza li lodava; e s' elli avesse il suo Teseo gentile voluto, arme portarvi disiava, tanto sentiva ancora di valore di quella donna il magnifico core!
L. 8, ott. 94 rubr.Come Emilia, rimirando la battaglia, seco parlava.
L. 8, ott. 94Emilia rimirava similmente e conosceva ben, tra gli altri, Arcita e Palemone ancora combattente; e attonita quasi e ismarrita, fiso mirava la marzial gente; e quante volte vedea dar ferita a nullo, o che el fosse in terra miso, tante color cangiava il chiaro viso.
L. 8, ott. 95E sempre in sé dimorava dubbiosa non colui fosse Arcita o Palemone, e con voce soave assai pietosa dava all' iddii divota orazione. Ciò che vedeva o udiva noiosa nell' animo le dava mutazione; e tutta impalidita nello aspetto, che ella non fosse essa avria l' uom detto.
L. 8, ott. 96Questa con seco talora dicea: «Omè, Amor, quant' hai male operato! Io non ti vidi e non ti conoscea,costor similmente, in alcun lato; né per lor venni, né data dovea essere a lor, né non l' avea pensato Teseo giammai; ma tu e la fortuna a tal m' avete recata qui una.
L. 8, ott. 97E se tu pur volevi il tuo ardore in altrui porre per la mia bellezza, potevil fare, e con lieto colore adimandarmi far da sua grandezza, perciò che io non son di tal valore, che per me si convegna ogni prodezza mostrar che posson molti. O me amara, che da vender non fui cotanto cara!
L. 8, ott. 98Deh, quanto mal per me mi diè natura questa bellezza di cui pregio fia orribile battaglia, rea e dura, che qui si fa sol per la faccia mia! La quale avanti ch' ella fosse oscura istata sempre volentier vorria, che tanto sangue per lei si versasse, quanto qui veggio nelle parti basse.
L. 8, ott. 99Omè, Amor, con che agurio omai nella camera di qual di costoro entrerò io, se non d' etterni guai? L' anime dolorose di coloro ch' a torto per me muoion, non fien mai sanza disio di mio dolore e ploro, e sempre attente mi spaventeranno e faran festa di ciascun mio danno.
L. 8, ott. 100Oh, quante madri, padri, amici e frati, figliuoli e altri, me maladicendo, davanti a l' are staranno turbati, da' loro iddii i miei danni chiedendo; e fien da lor con diletto ascoltati s' egli avverranno, e dell' altro piagnendo; e sì l' iddii infesteranno forte, che dannata sarò a crudel morte.
L. 8, ott. 101Oh, che duro partito è quello a ch' io misera son venuta per amore, di cui non mi scaldò giammai disio, e sanza colpa ne sento dolore! O sommo Giove, deh, diventa pio di me, che sol nel tuo sommo valore ispero per soccorso del mio male, più ch' altro greve, se di me ti cale.
L. 8, ott. 102E s' io dovea pur per Marte donata esser a sposo, vie minore affanno che questo bisognava, ove assembrata cotanta gente non è sanza danno. Andromeda fu sola liberata da Perseo, quando l' ebbe sanza inganno, e esso al monstro s' oppose marino, poi fu atato dal coro divino.
L. 8, ott. 103Borea sol volò verso Etiopia e ebbe Orizia, tanto seppe fare! E Pluto, che patia di moglie inopia, sol se la seppe in Cicilia furare; e Orfeo della sua riebbe copia, tanto sol seppe umilmente pregare! E Atalanta ancor fu guadagnata da un da cui fu nel corso avanzata.
L. 8, ott. 104Io sola son con le forze di molti chesta da due, mentre ch' io son mia; e qui dinanzi a me li veggio accolti, e iracundi la lor fellonia l' un verso l' altro con colpi disciolti veggo mostrar per la lor gran follia; né so ancor di cui esser mi deggia, tanto di pari par ch' ognun mi cheggia.
L. 8, ott. 105E or pur fosse la mia mente all' uno col disio appoggiata e mi piacesse! Ma tanto è bello e nobile ciascuno, che io non so qual di lor m' eleggesse, se e' mi fosse detto da alcuno che qual volessi in isposo prendesse; così in amorosa erranza posta m' ha, lassa!, Amor, perché più non li costa.
L. 8, ott. 106Io sto di ciascun d' essi sospettosa, e di ciascuno il mal temo e 'l dammaggio; e pur son certa che vittoriosa fia l' una parte, e non so col coraggio qual io m' aiuti, o di quale io pietosa diventi, o di qual fosse danno maggio s' ella perdesse; e l' uno e l' altro miro, e per ciascuno igualmente sospiro.
L. 8, ott. 107Né mi vene all' orecchie: " Pegaseo!" alcuna volta dalli suoi chiamato, ch' io non divenga qual si fa Rifeo per le sue nevi dal sol riscaldato; e il gridare: "Asopo!" ancor mi feo parer più volte col viso cangiato;veggio nullo, e sia qual vuol, cadere, che non mi paia il suo duol sostenere.
L. 8, ott. 108Deh, or gli avesse pur Teseo lasciati, quando noi li trovammo nel boschetto, combatter soli! Almen diliberati sariensi in lor di me, e con diletto avrebbe l' un gli abbracciar disiati di me, tenendol nel suo cor distretto sanza scoprirsi; e io non sentiria per lor né ira né malinconia.
L. 8, ott. 109Così m' hai fatto, Amore, e più non posso, e sanza amare innamorata sono: tu mi consumi, tu mi priemi adosso per colpa degna certo di perdono; tu m' hai il cor, dolorosa!, percosso con disusato e non saputo trono: e or pur foss' io certa che campasse l' un d' esti due e sposa men portasse!».
L. 8, ott. 110Così la giovinetta in sé dicea, mirando fuor di sé le cose dire che l' un baron contra l' altro facea nel campo, acceso di troppo disire; e l' altro popol, che questo vedea, chi gioia ne sentiva e chi martire, e ciaschedun con voci confortava, alto gridando, quel che più amava.
L. 8, ott. 111 rubr.Come Marte in forma di Teseo, disceso nel campo, raccese in Arcita, che si riposava, l' ardore della battaglia.
L. 8, ott. 111La battaglia era a pochi ritornata, chi qua chi là per lo campo scorrendo; e quasi già sì la gente affannata era, l' un l' altro per forza ferendo, che poco potean più; ma spessa fiata di patto fatto si gian sostenendo, e quasi pari ciascun del partito, per istanchezza si ristava attrito.
L. 8, ott. 112Ma Marte riguardava d' alto loco, e Venere con lui, i combattenti; il qual poi vide intiepidire il foco che facea prima gli animi ferventi, e le spade chetarsi a poco a poco, e stanchi vide i buon destrier correnti, pien d' ira e di coruccio lì discese, e con parole tali Arcita accese,
L. 8, ott. 113in forma rivestito di Teseo: - Ahi, villan cavalier, falso e fello qual codardia qui fermar ti feo? Non vedi tu combatter Palemone e per dispetto nomarti Penteo, dicendo che 'ntendevi, a tradigione, sotto altro nome Emilia possedere, la quale elli in aperto crede avere? -
L. 8, ott. 114E detto questo, trascorse en la schiera d' Arcita con parole accese d' ira; e sì focoso fé qualunque v' era, ch' a veder parve a tutti cosa mira. E Arcita, infiammato com' elli era, ogni riposo lasciando, si tira con la sua spada in man, mostrando ch' esso non fosse quel che si posava addesso.
L. 8, ott. 115Agamenone il seguì animoso, e Menelao e Polluce e Castore, e Peritoo appresso valoroso, e con Cromis ancora il buon Nestore; né cura avendo di nessun riposo, ver Panto dirizzaro il lor valore, e lui per forza aspramente pigliaro, e la bandiera in braccio gli tagliaro.
L. 8, ott. 116Ma loro uscì incontro Palemone, fiero e ardito, con Ameto allato, li qua' seguiva il feroce Almeone, e Anchelado, e Niso transmutato in ira di riposo, e Alimedone che 'n quello incontro fu forte piagato; e cominciar la battaglia sì fiera, che tal non fu veduta qual quella era.
L. 8, ott. 117E ben che fosser fieri e animosi, e al morir più ch' a vergogna dati, taciti, alquanto nel cor paurosi, divenner, poi con lor furo scontrati; perché augusti più e poderosi parean lor gli avversarii ritornati; ma nondimen durava la mislea crudele e fiera quant' ella potea.
L. 8, ott. 118Combattea Palemone arditamente con Menelao, e Cromis combattea con Almeon, ciascuno assai possente; Alimedon contra Nestor tenea, ma il fiero Arcita vigorosamente vincere Ameto per forza volea; Ligurgo contro a Niso avea ripresa battaglia, e e' faceva gran difesa.
L. 8, ott. 119E così insieme gli altri combatteno, tutti nel campo raccesi a battaglia, e lungo assalto fra lor manteneno: ciascun di cacciar l' altro si travaglia. E mentre in guisa tal le cose gieno, cadde di Foloèn quel di Tesaglia, e Peritoo vi fu abbattuto e dagli Asopii forte ritenuto.
L. 8, ott. 120 rubr.Come Palemon fu preso dal cavallo di Cromis.
L. 8, ott. 120Cromis avea sì stancato Almeone, che non poteva più, ma si tirava indietro; ma di Cromis il roncione, ch' ancora che solea si ricordava gli uomin mangiar, pel braccio Palemone co' denti prese forte, e sì l' agrava col duol, che 'l fece alla terra cadere mal grado ch' e n' avesse, e rimanere.
L. 8, ott. 121E quale il drago talora i pulcini dell' aquila ne porta renitenti, o fa la leonessa i leoncini per tema degli aguati delle genti, così faceva quel vibrando i crini, forte strignendo Palemon co' denti, cui elli aveva preso in tal maniera, che merviglia n' avea chiunque v' era.
L. 8, ott. 122E se non fosse che e' fu atato da' suoi avversi, il caval l' uccidea, a cui di bocca appena fu tirato, e tratto fuor della crudel mislea, e sanza alcuno indugio disarmato per Arcita, che l' arme sue volea per offerire a Marte, s' avenisse che 'l dì a lui il campo rimanesse.
L. 8, ott. 123Se Palemone allora fu cruccioso, soverchio qui saria ciò raccontare, e però di narrarlo mi riposo: ottimamente il può ciascun pensare. Egli era alla sua vita invidioso e quasi si voleva disperare, e ben si crede del tutto perduta aver d' Emilia la speranza avuta.
L. 8, ott. 124 rubr.Parole dell' autore, d' Emilia vedendo preso Palemone.
L. 8, ott. 124Essa ciò riguardava assai dolente, e sappiendo qua' patti eran tra loro, già d' Arcita credendo fermamente esser, l' animo suo sanza dimoro a lui voltò, e divenne fervente dell' amor d' esso, e già, per suo ristoro, per lui vittoria, pietosa chiedea, né più di Palemon già le calea:
L. 8, ott. 125così le fece il subito vedere di cui esser credea pensier cangiare! Ciascun si guardi adunque di cadere e del non presto potersi levare, se non gli è forse caro di sapere chi gli è amico o chi amico pare: colui che 'n dubbio davanti era amato, ora è con certo cuore abbandonato.
L. 8, ott. 126Or loda Emilia seco la bellezza d' Arcita tutta e 'l nobil portamento; ora le par più somma la prodezza di lui e troppo maggior l' ardimento; or crede lui aver più gentilezza, or più cortese il reputa l' un cento:dove prima le parieno equali, or le paion del tutto disiguali.
L. 8, ott. 127Or ha preso partito e appagata dagl' iddii tiensi d' avere il migliore; e già d' Arcita si dice sposata, e già li porta non usato amore occultamente, e già spessa fiata priega l' iddii per lo suo signore; e con nuovo disio il va mirando, l' opere sue sopra tutte lodando.
L. 8, ott. 128Già le rincresce il combatter che fanno più lungo, e fine a quel tosto disia; e già con nuova cura teme il danno d' Arcita più che non faceva in pria; e di lui pensier nuovi al cor le vanno, li quai davanti punto non sentia; e sol d' Arcita l' imagine prende, e sé lascia pigliar, né si difende.
L. 8, ott. 129 rubr.Come, preso Palemone, il campo rimase ad Arcita.
L. 8, ott. 129L' aspra battaglia stata infino allora, poscia che vider preso Palemone, e Ameto abbattuto in terra ancora, e sopra lor più fiero Agamenone vidono e gli altri, ciascun si discora e lievemente si dà per prigione; né valse a Palemone il suo gridare - Tenete il campo! - , che 'l volesser fare.
L. 8, ott. 130Laonde Arcita in poca d' ora prese co' suoi di quelli i tiepidi pugnanti; il che vedendo tutto si raccese, sì come soglion sempre far gli amanti, se dubbiosa speranza mai gli offese, quando certa ritorna a' disianti secondo il lor disio; e valoroso il campo circuia vittorioso,
L. 8, ott. 131e lieto i suoi andava ricogliendo, ben che pochi rimasi ve n' avesse; e con la spada in mano ancor ferendo, s' alcun vi fosse che contradicesse alla vittoria sua; e sì faccendo, d' allegrezza parea tutto godesse: e già voleva il caval ritenere, avendo tutto vinto, al suo parere.
L. 8, explicitQui finisce il libro ottavo del Teseida.
L. 9, son. iniz. rubr.Sonetto nel quale si contiene l' argomento particulare del libro nono.
L. 9, son. iniz.Dimostra il nono libro apertamente perché e come Arcita vincitore sotto al caval cadesse, e il dolore ch' ebbe di ciò Teseo e ogni gente; ma, com' el puote, poi triunfalmente in Attene il ne mena con onore. Quivi Teseo, parlando, ogni signore contenta ch' era stato il dì perdente. Libera poi Emilia Palemone, il qual, pe' patti fatti nel boschetto, quivi le fu presentato prigione, e alti don gli dona; e in cospetto di ciaschedun notabile barone la sposa Arcita, come 'n fine è detto.
L. 9, ott. 1 rubr.Incomincia il libro nono del Teseida. E prima come Venere, mandata Erinis, infernal furia, a spaventare il cavallo d' Arcita, gliele fé cadere addosso.
L. 9, ott. 1Già s' appressava il doloroso fato, tanto più grave a lui a sostenere, quanto in più gloria già l' avea elato il sé vittorioso ivi vedere. Ma così d' esto mondo va lo stato, ch' allor è l' uom più vicino al cadere e vie più grieve cade, quanto ad alto è più montato sovra il verde smalto.
L. 9, ott. 2Sovra l' alta arce di Minerva attenti Venere e Marte a rimirar costoro stavan, fra sé dell' ordine contenti che preso fu per li prieghi fra loro. Ma già vedendo Venus che le genti di Palemon non potean dar ristoro a la battaglia più, rivolta a Marte, disse: - Oramai fornita è la tua parte.
L. 9, ott. 3Bene hai d' Arcita piena l' orazione, che, come vedi, va vittorioso; or resta a me quella di Palemone, il qual perdente vedi star doglioso, a mio poter mandare a secuzione. - A la qual Marte, fatto grazioso, - Amica - disse, - ciò che di' è 'l vero; fa oramai il tuo piacere intero. -
L. 9, ott. 4Ell' avea poco avanti visitati gli oscuri regni dell' ardente Dite, e al re nero aveva palesati i suoi disii; per che di quella uscite più furie eran con alti mandati; ma ella, Erinis presa, a l' altre: - Gite dove vi piace - disse; e poi a questa tutta la voglia sua fé manifesta.
L. 9, ott. 5Venne costei di ceraste crinita, e di verdi idre li suoi ornamenti erano a cui in Elisso la vita riconfortata avea, le quai lambenti le sulfuree fiamme, che uscita di bocca le facevan puzzolenti, più fiera la faceano; e questa Dea di serpi scuriata in man tenea.
L. 9, ott. 6La cui venuta diè tanto d' orrore a chi nel teatro stava a vedere, ch' ognuno stava con tremante core, né il perché nessun potea sapere. Li venti dier non usato romore, e 'l ciel più ner cominciò a parere; il teatro tremò, e ogni porta cigolò forte ne' cardini storta.
L. 9, ott. 7Costei, nel chiaro dì rassicurata, non mutò forma cangiò sembiante; ma giù nel campo tosto se n' è andata,dove Arcita correva festante, e orribil come era, fu parata al corrente destrier tosto davante, il qual per ispavento in piè levossi e indietro cader tutto lasciossi.
L. 9, ott. 8Sotto il qual cadde il già contento Arcita, e 'l forte arcione li premette 'l petto e sì il ruppe, che una fedita tutto pareva il corpo; e 'l giovinetto, che fu in forse allora della vita abbandonar da gran dolor costretto, per molti, che a lui corsero allora, atato fu sanz' alcuna dimora.
L. 9, ott. 9I quali a pena lui disvilupparo da' fieri arcioni, e con fatica assai da dosso il caval lasso gli levaro; il qual, com si sentì libero, mai non parve faticato, tal n' andaro le gambe sue fuggendo: tanti guai li minacciò la Furia con la vista sua dispettosa, noievole e trista!
L. 9, ott. 10 rubr.Ciò che ad Emilia parve della caduta d' Arcita.
L. 9, ott. 10Emilia del loco dove stava chiaro conobbe il caso doloroso, per che il cor, che più ch' altro l' amava, di lui dubbiando si fé pauroso; onde per tema a sé tutte chiamava le forze sparte nel corpo doglioso; per che nel viso tal rimase smorta, quale è colui che al rogo si porta,
L. 9, ott. 11«O me dogliosa!» in sé trista dicendo, «Quanto la mia felicitate è breve istata!» questo caso ora vedendo. «E ben che il pensier mi fosse greve, e' pur m' andava dentro il cor dicendo che non poteva con fatica leve d' amor passar, più che passar si soglia per gli altri c' han provata la sua doglia.
L. 9, ott. 12Ora conosco ciò che volea dire Bellona sanguinosa, che davanti oggi m' è stata, senza dipartire, con atti fieri e morte minaccianti, quasi io dovessi li danni patire che si fesser tra lor li due amanti». E questo detto, sì il dolor la vinse, ch' errando fuor di sé tutta si tinse.
L. 9, ott. 13El fu subitamente disarmato, e il palido viso pianamente con acqua fredda lì li fu bagnato, onde e' si risentì subitamente, e molto fu da' suoi riconfortato; ma parlar non poteva ancor niente, sì gli avea 'l petto il suo arcion premuto mentre il cavallo adosso gli era suto.
L. 9, ott. 14 rubr.Come Agamenone, caduto Arcita, ritenne il campo.
L. 9, ott. 14Agamenon, con contenenza fiera, con Menelao per lo campo gia, e scorrendo per quel con la bandiera, ciascun de' suoi di dietro li venia; e a qual fosse della vinta schiera rimaso quivi, sanza villania alcuna far, per preso nel mandava, e vincitor sopra 'l campo si stava.
L. 9, ott. 15 rubr.Come molti vennero per riconfortare Arcita, e del dolore di tutti.
L. 9, ott. 15Ma poi che fur le cose riposate e manifesto a tutti il vincitore, e 'l molto suon delle trombe sonate e alti gridi mandati in onore e d' Arcita e de' suoi, e già levate le genti varie con novo romore, trassersi i vincitori inverso Arcita per vedere il sembiante di sua vita.
L. 9, ott. 16discendendo venne il vecchio Egeo, e 'n grembo la sua testa si fé porre; e dopo lui vi venne il pio Teseo, e la reina Ipolita vi corre, e Emilia ancor quanto poteo; e ciaschedun lui conforta e soccorre con pietose parole, stropicciando le mani e' piè di lui, lui domandando.
L. 9, ott. 17Ma e' non rispondeva, anzi ascoltava, e ciò per non potere adivenia; ma gli occhi erranti in qua e 'n là voltava or questo or quello con sembianza pia mirando, e sé quasi non sé mostrava: tale era il duol che l' anima sentia, ch' ancora in dubbio di stare o di gire errava per lo cuor con gran martire.
L. 9, ott. 18Ma poi ch' Emilia tabefatto il viso di polvere, di sangue e di sudore vide, e sentì che 'l capo avea diviso in parte alcuna, appena il suo dolore casto ritenne dentro al cor conquiso, maladicendo in sé il soverchio amore che lui a tal partito posto avea e lei vie troppo di novo pungea.
L. 9, ott. 19Ma sì non seppe la cosa celare,ritener le lagrime dolenti, che spesse volte il suo viso cangiare visto non fosse da' più delle genti. Ella non sa come racconsolare onesta il possa, e i disii ferventi pur la vi tirano; e così sospesa, da greve doglia lui rimira offesa.
L. 9, ott. 20Quivi era sì dolente Agamenone, Menelao e Nestore e ciascheduno altro amico di lui o compagnone, che non pareva aver vinto a nessuno, anzi di doglia vie maggior cagione aver che di pigliar riposo alcuno; e 'n qua e 'n là si givan lamentando, l' iddii di tanta offesa biasimando.
L. 9, ott. 21Palemon tristo d' una e d' altra cosa, del mal d' Arcita forte li dolea, ma più assai sua fortuna angosciosa, che perditor quivi fatto l' avea; né sa se isperanza graziosa si prenda quindi, o se l' aspetta rea; e pur conosce Arcita per parente, né può fuggir che non ne sia dolente.
L. 9, ott. 22 rubr.Come Teseo fece votare il teatro di genti e medicare Arcita, il quale, potendo parlare, domandò d' Emilia, la quale Teseo li fé venire; ond' elli si confortò molto.
L. 9, ott. 22Fece Teseo il campo a' vincitori raccoglier tutto, e fece comandare che qual non fosse de' combattitori sanza dimoro sen dovesse andare; li quai poi furo al teatro di fori, fece quel dentro alle guardie serrare, e mise cura solenne in Arcita in rivocar la sua vita smarrita.
L. 9, ott. 23El fé chiamar più medici e venire nel loco, i quai di vin tutto il lavaro, e con loro argomenti fer reddire a lui il parlar, che l' ebber molto caro; poi le sue piaghe li fecer coprire di fini unguenti e tututto il lenzaro; e poi ch' alquanto fu riconfortato, a seder lì tra lor si fu levato.
L. 9, ott. 24E con voce non salda, umilemente domandò qual di loro era vittore; a cui Teseo rispose tostamente: - Amico mio, del campo è tuo l' onore. - Allor diss' elli: - Adunque la piacente Emilia ho guadagnata e 'l suo amore? - Teseo rispose: - Sì, ecco tua sia; omai ne fa ciò che 'l tuo cor disia. -
L. 9, ott. 25A cui el disse: - Se io ne son degno, deh! fammi alquanto la sua voce udire, a me più cara ch' alcuno altro regno, e fa ch' io possa en le sue man morire, però che 'n core ferma oppinion tegno che' regni neri sanza alcun martire visiterò, s' io la posso vedere o dar l' anima mia al suo piacere. -
L. 9, ott. 26Teseo rispose: - Cotal parlamento non ha qui luogo, che ora non morrai. Ecco lei qui al tuo comandamento, con cui vivendo ancor t' allegrerai. - E a lei disse: - Deh! fallo contento di quel ch' e' chiede: deh! perché nol fai? Non vedi tu quant' elli ha per te fatto, ch' è a partito d' esserne disfatto? -
L. 9, ott. 27Emilia più niente disiava, se non onesta poterli parlare, e vergognosa così cominciava: - O signor mio, se vale il mio pregare, confortati, ché 'l tuo mal sì mi grava, ch' appena il posso, lassa!, comportare; io son sempre con teco, o dolce sposo, oggi stato per me vittorioso. -
L. 9, ott. 28Quali i fioretti richiusi ne' prati per lo notturno freddo, tutti quanti s' apron come dal sol son riscaldati, e 'l prato fanno con più be' sembianti rider fra le verdi erbe mescolati, dimostrandosi lieto a' riguardanti, cotal si fece vedendola Arcita, poscia che l' ebbe sì parlare udita.
L. 9, ott. 29 rubr.Come Arcita in su un carro triunfale rientrò in Attene.
L. 9, ott. 29Passata avea il sol già l' ora ottava, quando finì lo stormo incominciato in su la terza; e già sopra montava il Pincerna di Giove, permutato in luogo d' Ebe, e col ciel s' affrettava il Pesce bin di Vener lo stellato polo mostrar; però parve ad Egeo di partirsi indi, e 'l simile a Teseo.
L. 9, ott. 30E già Arcita ne volea pregare, quando Teseo comandò che venisse un carro triunfal, che apparecchiare aveva fatto a chiunque vincesse; e lì il fé molto riccamente ornare, e Arcita pregò che su vi gisse fino all' ostier, se non li fosse noia. Rispose Arcita che anzi gli era gioia.
L. 9, ott. 31E certo, quando Roma più onore di carro triunfale a Scipione fece, non fu cotal; né di splendore passato fu da quello il qual Fetone abbandonò per soverchio tremore, quando Libra si cosse e Iscorpione, e e' da Giove nel Po fulminato cadde, e lì l' ha l' epitafio mostrato.
L. 9, ott. 32E ben che fosse ancor molto stordito per la caduta del fiero destriere, non era elli ancor sì indebolito, che non vi stesse ben suso a sedere di drappi triunfal tutto vestito e coronato, secondo 'l dovere, di verde alloro; e su vi gì con esso la bella Emilia, sedendoli appresso.
L. 9, ott. 33Così volle Teseo che ella andasse, per più piacere al grazioso Arcita, e acciò ch' ella ancora il confortasse, se sua sembianza tornasse smarrita per accidente che 'n lui si mutasse; di che Arcita la penosa vita riconfortò, non poco disioso mirando spesso il bel viso amoroso.
L. 9, ott. 34Cromis ancora, tutto quanto armato, vi gì, con forte mano i fren reggendo de' cavai da cui 'l carro era tirato; e gli avversarii, quello antecedendo, girono a piè, ma ciascun disarmato, e certo non costretti ma volendo, come gli avea pregati Palemone, per ad Arcita dar consolazione,
L. 9, ott. 35ben ch' ella fosse assai dovuta cosa e ab antico ne' triunfi usata. Poi di dietro veniva la pomposa turba de' suoi così come era armata, e con sembianza assai vittoriosa; e da molti era, da ciascun, portata o spada o scudo o mazza o scuricella bipenne, tolta en la battaglia fella;
L. 9, ott. 36e altri ne menavano i roncioni donde i signor furono scavallati, coverti tutti, ma con voti arcioni; e ta' dell' altrui armi gieno armati, chi elmo e chi barbuta e chi tronconi d' altre armadure nel campo trovati, e chi toraca e chi caro balteo, secondo che trovar quivi poteo.
L. 9, ott. 37Ma tra gli altri più nobili davante giva di Palemon tutto l' arnese, a Marte già botato, e simigliante quel v' era con che Arcita si difese. Da' lati al carro gia gente festante, giovini e donne in abito cortese, con dolci suoni e canti festeggiando diversamente con arte danzando.
L. 9, ott. 38Questo ordinato, fé il teatro aprire Teseo, e 'n cotal guisa n' uscì fore Arcita triunfando, al cui venire ciascun faceva mirabile onore; e fé quelle armi al gran Marte offerire, e ringraziollo con pietoso core della vittoria ch' avea ricevuta; poi fé dal tempio presta dipartuta.
L. 9, ott. 39E circuì la terra, triunfando in questa guisa con molta allegrezza, la sua Emilia sovente mirando e più lodando che mai sua bellezza; e ben mill' anni ognor li parea quando quella dovesse goder con lietezza; e l' avenuto caso biasimava e molto seco se ne contristava.
L. 9, ott. 40Ella si giva onesta e vergognosa, con gli occhi bassi, da ciascun mirata, in guisa tal qual suol novella sposa per vergogna nel viso colorata; a tututti piacente e graziosa e da ciascuno igualmente lodata; e simile era ancora il buono Arcita, ben ch' elli avesse sembianza smarrita.
L. 9, ott. 41Nulla persona in Attene rimase, giovane, vecchio, zita overo sposa, che non corresse là con l' ale spase onde venia la coppia gloriosa. Le vie e' campi e i tetti e le case tutt' eran pien di gente letiziosa; e in gloria d' Arcita ognun cantava e della nuova sposa che menava.
L. 9, ott. 42E spesse volte, le prede mirando, le guaste veste e i voti destrieri, li givan l' uno a l' altro dimostrando, dicendo: - Quel fu del tal cavalieri, e questo del cotale - ; e, ammirando, le cose state più che volentieri recitavan fra lor, ch' avean vedute il dì, com' eran gite e come sute.
L. 9, ott. 43Ma ciò che più maravigliar facea e con attenta vista riguardare, era de' regi la turba lernea, che giva innanzi in abito dispare troppo da quel nel quale andar solea e che 'l mattin si vider cavalcare; li quali, a capo chino e disarmati, a piè venien, nell' aspetto turbati.
L. 9, ott. 44E chi bene avvisava Palemone, detto averia che el seco dicesse: «Ben vive ancora l' ira di Giunone ver me, e certo, se Giove volesse, operar non poria ch' io di prigione o di mortal periglio fuori stesse; e io vi voglio stare e avvilirmi, poi che le piace sì di perseguirmi».
L. 9, ott. 45Molto era ancor mirato disdegnoso Minòs da chi 'l vedea, e in dispetto parea la vita avesse, sì stizzoso andando si mostrava nello aspetto. E 'l tesalico Ameto, assai doglioso, parea di Febo, a lui stato suggetto, si ramarcasse, perché operato aveva bene e era mal mertato.
L. 9, ott. 46Ida, Evandro e Alimedonte, Ulisse e Diomede e ciascheduno degli altri ancora, con chinata fronte, si vedean tutti, e con aspetto bruno, più che se al lito tristo d' Acheronte se ne vedesse per passare alcuno; e vie più tristi li facea il parlare che udieno a' circunstanti di sé fare.
L. 9, ott. 47Ne' colli lor non sonavan catene, però ch' Arcita del tutto, pregando, il tolse via; e così per Attene disciolti, al picciol passo innanzi andando al carro, tristi di sì fatte pene, in questo loco e ora in quel restando, quasi scherniti tutti si teneano per gli atti delle genti che vedeano.
L. 9, ott. 48 rubr.Come, pervenuti al real palagio, Arcita dismontò.
L. 9, ott. 48In cotal guisa, con alto romore d' infiniti strumenti e di gridare che' popoli facean lì per onore del grande Arcita e del suo operare, giunsero al gran palagio del signore, e a lor piacque quivi dismontare; e di fuor fatta restar la più gente, gir nella real sala pianamente.
L. 9, ott. 49Sovr' un gran letto, quivi fatto allora, posato fu il faticato Arcita; allato a cui Ipolita dimora, bella vie più che gemma margherita, e di conforto sovente il rincora con ornata parola e con ardita; e 'l simil fa Emilia, sua sorella, con altre molte, ciascheduna bella.
L. 9, ott. 50E tutto ciò Palemon ascoltava, che con li suoi in abito dolente davanti al vincitor diritto stava sanza alzare occhio; e nella trista mente ogni parola con doglia notava, imaginando ch' omai per niente pace daria a sé con isperanza, poi che perduta avea sua disianza.
L. 9, ott. 51 rubr.Diceria di Teseo a Palemone e a' compagni.
L. 9, ott. 51Teseo, per pace dare agli affannati re, si levò e, con sereno aspetto, con cenni i mormorii ebbe chetati, che quivi eran per doglia o per diletto forse da molti fra sé susurrati, e degli onor veduti e del dispetto; e con piacevol voce il suo disire incominciò in cotal guisa a dire:
L. 9, ott. 52- Signori, e' non m' è nuova la credenza, la quale alcuni afferman che sia vera, cioè che la divina provedenza, quando creò il mondo, con sincera vista conobbe il fin d' ogni semenza razionale e bruta che 'n quell' era, e con decreto etterno disse stesse quel che di ciò in sé veduto avesse.
L. 9, ott. 53Se ciò è ver non so; ma se ver fosse, noi siam guidati dal piacer de' fati, la cui potenza sempre mai si mosse col giro etterno delli ciel creati; dunque contra di lor l' umane posse invan s' affannano, e sono ingannati chi per senno o per forza contastare volesson contra il loro adoperare.
L. 9, ott. 54E ciò non dico sanza alta cagione, però che oggi la vostra virtute ho rimirata e ogni operazione, e come date e come ricevute abbiate le percosse e l' offensione del gridar, sanza stordir, sostenute; e dico certo che, al mio vivente, non vidi insieme tanta buona gente,
L. 9, ott. 55né tanto ardita, né con tal fortezza non saggia d' arme, né di tanto affanno sostenitrice, né di tal fierezza meno infingarda, né che men di danno mettesse cura, sol che sua prodezza mostrar potesse, sì come i buon fanno, com' io ho oggi tutti voi veduti, e d' una parte e d' altra conosciuti.
L. 9, ott. 56Le prodezze de' quai s' ad uno ad uno volessi raccontar, ben le saprei; ma troppo saria lungo, e ciascheduno le vide sì com' io; dunque direi ciò che non fa bisogno, ma ognuno per valente uomo al mondo approverei; e se tai fosser quei della mia terra, per forza vincerei ogni mia guerra.
L. 9, ott. 57Perché se oggi non vi fu donata vittoria, ciò non fu vostro difetto, ma cosa fu avanti assai pensata nel chiaro e santo divino intelletto; il quale Emilia mostra abbia servata al piacevole Arcita e lui eletto per isposo di lei: di che dovete esser contenti, poi più non potete.
L. 9, ott. 58Né vi dovete di voi biasimare che non abbiate bene adoperato; ma sol gl' iddii ne dovete incolpare, se degno è ciò ch' egli han diliberato di potere altra volta permutare, ched e' non l' hanno per voi permutato; ma credo che deggiate esser contenti a lor piacer, poi di noi sono attenti.
L. 9, ott. 59Questo ch' è stato, non tornerà mai per alcun tempo che stato non sia; però vi priego quanto posso assai, amici car, per vostra cortesia, che l' abito, ch' avete pien di guai vestito per dolor, cacciate via, e nel pristino stato ritornate, e con noi insieme tutti festeggiate.
L. 9, ott. 60Liberi sete omai, poi ch' adempiuto avete del triunfo la ragione; ben vo' però che sia fermo tenuto ciò che nel bosco dissi a Palemone; il qual dee esser da noi ritenuto e servato ad Emilia per prigione, e ella faccia di lui il suo volere, poco e assai, come l' è in piacere. -
L. 9, ott. 61 rubr.Come i compagni di Palemone partiti ritornarono.
L. 9, ott. 61Piacque a costoro il parlar di Teseo, ben che 'n parte non ver tenesser quello; per che lieto ciascun quanto poteo, sanza dimor, tornò al suo ostello; quivi d' abito nuovo si rifeo, sì come prima, piacevole e bello, e a cui fu bisogno medicare, tosto fur fatti medici trovare.
L. 9, ott. 62Gli altri, che non curavan di riposo, tornaro a corte con fronte cangiata; e 'nsieme si rivider con gioioso aspetto, come se fra loro stata non fosse il dì battaglia; e grazioso sollazzo insieme ciascuna brigata faceva quivi, per amor d' Arcita, che si desse conforto e buona vita.
L. 9, ott. 63 rubr.Come, dopo le parole di Teseo, Palemone si presentò per prigione ad Emilia, e le parole che disse.
L. 9, ott. 63Andonne adunque presto Palemone, con tristo aspetto, molto umilemente, ad Emilia davanti, e 'n ginocchione, con voce e con sembianza assai dolente, disse: - Madonna, io son vostro prigione, e sono stato continuamente poi ch' io vi vidi: fate che vi piace di me, che mai non spero sentir pace.
L. 9, ott. 64Poi che l' iddii m' hanno tolta vittoria e voi insieme in questo dì meschino, troppo mi fia la morte maggior gloria, che per lo mondo più viver tapino; per ch' io vi priego, se di voi memoria etterna di ben duri e d' amor fino, dannate me sanza indugio alla morte, ch' io la disio, vie più che vita, forte. -
L. 9, ott. 65 rubr.Come Emilia liberò Palemone, datili grandissimi doni.
L. 9, ott. 65Con pietoso occhio Emilia riguardava ver Palemone, e 'n piè il fece drizzare, e le parole sue fissa ascoltava, né che risponder si sa consigliare, anzi appena le lagrime servava che nel cor le facea pietà destare; ma dopo alquanto pure in sé dispose di far risposta, e così li rispose:
L. 9, ott. 66- S' io fossi dall' iddii stata data al mondo sol per tua sola speranza, in guisa che dal tuo veder levata fosse ogni altra lieta dimostranza, mentr' io fui mia, io avrei reputata essere stata soverchia fallanza il non averti amato; ché t' amai, mentre mi si convenne, pur assai.
L. 9, ott. 67Ma veggo che come io il santo amore potea sperar di molti giustamente, così molti sperar nel mio valore potevan; ma un solo apertamente considerar dovien ch' al mio onore si riserbava della molta gente; il qual, qual volle, m' ha mandato Iddio: e tu tel vedi così ben com' io.
L. 9, ott. 68E però più a l' amorose pene di te conforto non posso donare,dei voler, né a me si convene, né ben faria, se i 'l volessi fare; ma le greche città, che tutte piene son di bellezze assai più da lodare che e' non è la mia, dar ti potranno giusto ristoro all' amoroso danno,
L. 9, ott. 69e te riporre in più lieto disio che io non fui, allor ch' ancor dubbioso istesti di dover divenir mio. Dunque di te medesmo sie pietoso, ch' io non intendo esserne crudele io; ma poi che se' cavalier valoroso sotto il giudicio di me incappato, per me sarai in tal guisa dannato.
L. 9, ott. 70Per me ti sia donata libertate e a tua posta lo stare e il gire; e per l' amor che per la mia biltate già di soverchio t' arse nel disire, questo anel porterai, che spesse fiate forse di me ti farà sovenire; e priegoti, qualora ten sovene, pensi d' amare un' altra donna bene. -
L. 9, ott. 71Non si dee creder che valesse poco cotale anel, cui tutta fiammeggiante era la pietra assai vie più che foco; appresso una cintura, simigliante a quella per la qual si seppe il locodove Anfiorao era latitante, lieta li diè, dicendo: - Porterai questa a qualunque festa tu sarai; -
L. 9, ott. 72quinci li diede una spada tagliente e ricca e bella d' alto guarnimento, e un turcasso, che nobilemente lavorato era, di gran valimento, pien di saette lizie veramente; e uno scitico arco, non contento di poca forza a volerlo operare. Poscia li fé altro dono arrecare,
L. 9, ott. 73e ciò fu un destrier maraviglioso, tutto guarnito qual si convenia al nobil cavaliere e valoroso, con armi nelle quai la maestria di Vulcan s' operò mastro ingegnoso; e uno scudo bel quanto potia, con un gran pin delle sue frondi orbato, d' un chiaro ferro e forte bene armato.
L. 9, ott. 74E a lui disse dopo alquanto spazio: - O valoroso e nobil cavaliere, del mio amore omai dei esser sazio, e di qualunque con cotal mestiere s' acquista, di se stesso tristo strazio faccendo, quale in questo puoi vedere che s' è fatto per me, che trista sono per tanto sangue e miserabil dono.
L. 9, ott. 75Ma perciò che tu dei vie più a Marte che a Cupido dimorar suggetto, ti dono queste, acciò che, se in parte avvien che ti bisogni, con effetto adoperar le puoi; esse con arte son fabricate, che sanza sospetto le puoi portar: forse l' adoperrai dove vie più che me n' acquisterai. -
L. 9, ott. 76 rubr.La risposta di Palemone ad Emilia.
L. 9, ott. 76Prese il dono Palemone allora, e disse: - Donna, io tengo la mia vita tanto più cara ch' io non faceva, ora, poi ch' io da voi la sento gradita, che con migliore agurio ciascun' ora la guarderò infino alla finita, sperando che in ciel fermato sia ciò che dite per vostra cortesia.
L. 9, ott. 77E voi ringrazio pietosa di quella, quanto io più posso, e del libero stato ch' io ho per voi, o matutina stella, sì graziosamente racquistato; e ciascheduna d' este gioie bella m' è più che d' esser nel ciel coronato, e guarderolla sempre per amore del vostro alto ineffabile valore.
L. 9, ott. 78Che io aspetti più d' amor saetta per altra donna, questo tolga Iddio: da me amata sarete soletta, né mai fortuna cangerà disio. Se' fati v' hanno per altrui eletta, in ciò non posso più contrastare io; ma che io v' ami esser non mi pò tolto, né fia mentre sarò in vita volto. -
L. 9, ott. 79Quinci sen gì pensoso a rivestire e a lavarsi, ch' era rugginoso tutto, per poscia quivi rivenire; e ben che 'n sé non trovasse riposo, pur s' ingegnò di sua noia coprire; e con più lieto viso e grazioso nell' aula tornò a rivedere il suo diletto e 'l suo sommo piacere.
L. 9, ott. 80La donna fu assai quivi lodata da' circunstanti re e da Arcita: e ben li piacque ch' ella avea donata a Palemon libertà espedita; e similmente ancora fu pregiata di Palemone la risposta ardita, il qual da tutti accolto lietamente fu, ma più da Arcita veramente.
L. 9, ott. 81 rubr.Come Arcita sposò Emilia.
L. 9, ott. 81Ma poi ch' alquanto si fu riposato, Arcita ver Teseo cominciò a dire: - Signore, adempiuto è il tuo mandato con non poco di me greve martire, e per quel credo d' aver meritato Emilia e perdono al mio fallire; la qual dimando, se e' t' è in piacere, se elli è tempo ch' io la deggia avere - .
L. 9, ott. 82A cui Teseo con voce graziosa rispose: - Dolce amico, ciò m' è caro,disio tanto nessuna altra cosa; e però in quel modo che lasciaro a noi i nostri primi, quando sposa essi ne l' età lor prima pigliaro, vo' che solennemente ti sia data e in presenza delli re sposata. -
L. 9, ott. 83Adunque lì li baron ragunati e' sacrificii fatti degnamente sì come egli erano in quel tempo usati, Arcita Emilia graziosamente quivi sposò, e furon prolungati li dì delle lor nozze veramente, infin ch' el fosse forte e ben guarito: e così fu fermato e stabilito.
L. 9, explicitQui finisce il libro nono del Teseida.
L. 10, son. iniz. rubr.Sonetto nel quale si contiene l' argomento particulare del libro decimo.
L. 10, son. iniz.Nel decimo l' uficio funerale fanno li greci re a' morti loro; e Teseo chiama Itmon sanza dimoro, il qual d' Arcita il mal dice mortale. Poi Arcita a Teseo racconta quale, dopo la morte sua, del suo tesoro il testamento sia; e poi con ploro quasi con Palemon fa altretale. Poscia, presente Emilia, seco stesso del suo morir si dole, e poi con lei; e ella dopo lui, porgendo ad esso gli estremi basci con dolenti omei. Quindi a Mercurio lita e piange appresso, poi l' alma rende all' immortali iddei.
L. 10, ott. 1 rubr.Incomincia il libro decimo del Teseida. E prima come li re greci andarono di notte a dare sepoltura a' morti loro.
L. 10, ott. 1Il gran nido di Leda ogni bellezza in molte luci di sé dimostrava e già propinqua a sua maggior cortezza tacitamente la notte n' andava, forse due ore vicina all' altezza dov' ella il suo mezzo cerchio toccava, quando da corte i Greci si partiro e alli proprii loro ostier reddiro.
L. 10, ott. 2E acciò che per lor non si impedisse la lieta festa della nuova sposa, anzi che più della notte sen gisse, presa con loro ciascheduna cosa degna da pirra far, ciaschedun disse a' suoi: - Mentre la gente si riposa, piani al teatro grande ve n' andate e quivi con silenzio ci aspettate.
L. 10, ott. 3E' morti corpi delli nostri amici tutti con diligenzia troverete, e acciò che non sien forse mendici d' onor di sepultura, laverete lor tutti quanti, e' roghi fate lici, ne' quai con degno onor li metterete, poi venuti sarem; ma chetamente si vuol far ciò, che nol senta la gente. -
L. 10, ott. 4Mossersi allor con l' urne i servidori e 'nverso del gran teatro n' andaro; e, come avean comandato i signori, li morti corpi tutti ritrovaro, e quei con odoriferi liquori e con lagrime molte ancor lavaro; poi fatte pire per sé a ciascuno, sovra catune d' esse poserne uno.
L. 10, ott. 5Vennervi i regi, e la tuba dolente con tristo suono fu apparecchiata, e 'ntorniarle tutte con lor gente; e poi ch' egli ebber ciascuna onorata d' arme e di ghirlande e di lucente porpora, fu la tromba comandata a sonare; e dier voce i tristi guai de' dolenti, che quivi erano assai.
L. 10, ott. 6Allora i re, addimorati un poco, dentro alle pire fatte con dolore ciascuno al morto suo accese foco, e poi a Giove Stigio di core fer sacrificio, acciò che 'n pio loco ponesse que' che per lo lor valore erano il giorno morti combattendo, l' anime lor per altrui offerendo.
L. 10, ott. 7I grassi fuochi e grandi e bene ardenti consumar tosto i corpi lor donati; li qua' con vino dalle greche genti pietosamente fur mortificati; e ricolte le ceneri candenti ne' vasi furon messe, apparecchiati con pia mano e con dolente verso, durante ancora assai del tempo perso.
L. 10, ott. 8E quanto Niobè in Sifilone, allor che' figli di Latona fero vendetta della sua alta orazione, ne portò urne, e quivi in sasso vero si trasmutò, cotante è oppinione di quivi al tempio del gran Marte altiero segnate gisser del nome di quelli la cenere de' quai messa era in elli.
L. 10, ott. 9Poi ricercarono i lasciati ostieri sì come bisognosi di riposo, e a dormire i regi e' cavalieri e qualunque altro, el tempo tenebroso, tutti quanti ne giron volontieri, infino al novo giorno luminoso; quindi levati a corte ritornaro, dove Teseo levato già trovaro.
L. 10, ott. 10 rubr.Come tutti gli altri Greci fediti guarivano; Arcita solo peggiorava.
L. 10, ott. 10Tutti li Greci i qual avean difetto eran con somma cura medicati, e lor donato sollazzo e diletto, e ne' bisogni lor bene adagiati; tal che di morte e d' ogni altro sospetto forono in pochi giorni liberati, e come prima si rifecer sani così i cittadin come gli strani.
L. 10, ott. 11Ma solo Arcita non potea guarire, tanto era dentro rotto pel cadere. Fevvi Teseo il grande Itmon venire d' Epidauria ad Arcita vedere; il qual si mise segreto a sentire del mal ch' Arcita in sé potesse avere, e sanza fallo se n' avide tosto come Arcita dentro era disposto.
L. 10, ott. 12Per che a Teseo rispose di presente in cotal guisa: - Nobile signore, il vostro Arcita è morto veramente, né luogo ci ha di medico valore; Giove potrebbe in vita solamente servarlo, se volesse, ch' è maggiore che la natura e puote adoperare assai più che natura non può fare.
L. 10, ott. 13Ma lasciando i miracoli in lor loco, dico che Esculapio non varrebbe per sanità di lui molto né poco; né 'l chiaro Appollo, ancora che tutta ebbe l' arte con seco e seppe il ghiaccio e 'l foco e l' umido e 'l calor e che potrebbe ciascuna erba o radice; però ch' esso per lungo e per traverso è dentro fesso.
L. 10, ott. 14Dunque fatica per sua guarigione saria perduta, per quel ch' io ne senta. Fateli festa e consolazione, sì che ne vada l' anima contenta, il più si può, all' etterna prigione dove ogni luce Dite tiene spenta, e dove noi di dietro a lui andremo, quando di qua più viver non potremo. -
L. 10, ott. 15Molto cotal parlar dolfe a Teseo, però ch' Arcita sommamente amava; e a chi ciò udiva il simil feo, però ch' ognuno alte cose sperava della sua vita, se 'l superno Deo vivo nelle parti attiche il lasciava; né sapevan di ciò nulla che farsi, se non ciascun di Giove lamentarsi.
L. 10, ott. 16 rubr.Come Arcita, fatto chiamare Teseo, dispose delle cose sue.
L. 10, ott. 16Adunque, ciascun giorno piggiorando, il buono Arcita in sé si fu accorto che 'l suo valor del tutto gia mancando, e che sanza alcun fallo egli era morto; né di ciò trarre il potea ragionando alcun giammai o dandoli conforto; per che volle di sé ciò che potesse disporre, sol ch' al buon Teseo piacesse.
L. 10, ott. 17E fello a sé sanza indugio chiamare e cominciò con lagrime ver lui pietosamente così a parlare: - O nobile signor caro e a cui, mille volte morendo, meritare l' onor del qual giammai degno non fui non potre' mai, io mi veggo venire al passo il qual nessuno uom può fuggire.
L. 10, ott. 18Al qual s' io vengo, che vi son, contento ne vado mal, pensando che l' amore il qual m' ha dato già tanto tormento per la giovane donna, che nel core ancora come mai per donna sento, lascio infinito, e te, caro signore, cui io appresso lei più disiava servir che Giove, e più mi dilettava.
L. 10, ott. 19Ma più non posso, e far lo mi convene; per ch' io ti priego per ultimo dono, se lungamente Iddio ti guardi Attene, che, poi del mondo dipartito sono e sarò gito a riguardar le pene de' miseri che priegan per perdono, quel ch' io dirò tu facci sia fornito, se tu da Marte sempre sii udito.
L. 10, ott. 20Signor, tu sai che, poi che di Creonte il giusto Marte ti diede vittoria, io, che con lui t' era uscito a fronte, per prigion preso, fui della tua gloria picciola parte, e certo non isponte, e Palemone ancor, come in memoria esser ti dee; li qua' festi guardare, forse temendo del nostro operare.
L. 10, ott. 21Ma poi che quindi fummo liberati, per tua bontà e per tua cortesia li nostri ben, donde eravàn privati, ci fur renduti, e ogni baronia, come ti piacque, avemmo, e onorati fummo quale eravam giammai in pria; de' quali a Palemon tutta mia sorte ti priego doni appresso la mia morte.
L. 10, ott. 22Similemente ancor t' è manifesto quanto amor m' abbia per Emilia stretto, il quale al tuo servigio sol per questo ad esser venni, né ciò che sospetto mi doveva esser mi fu mai molesto, anzi con fe' serviva e con diletto; né credo mai ti trovassi ingannato di cosa che di me ti sii fidato.
L. 10, ott. 23El m' insegnò a divenire umile, esso mi fé ancor sanza paura, esso mi fé grazioso e gentile, esso la fede mia fé santa e pura, esso mostrò a me che mai a vile io non avessi nulla creatura, esso mi fé cortese e ubidente, esso mi fé valoroso e servente.
L. 10, ott. 24Tanto mi diede ancor di pronto ardire, che sotto nome stran nelle tue mani mi misi, a rischio di dover morire; e certo a ciò non mi furon villani l' iddii, anzi facevan ben seguire i miei pensieri interi e tutti sani; né mi vergogno che in tuo onore io ti sia stato lungo servidore.
L. 10, ott. 25Febo si fece servidor d' Ameto, mosso da quella medesma cagione che io mi mossi, e sì dolce e quieto servì, ch' egli ebbe la sua intenzione; e certo io il seguiva mansueto, se el non fosse stato Palemone;dubito che ciò ch' io disiava m' avessi dato, s' io mi palesava.
L. 10, ott. 26Or così va: e' non si può tornare ciò che è stato; ond' io sono a tal punto qual tu mi vedi, e sentomi scemare ognor la vita, e già quasi consunto del tutto son, né mi posso aiutare; a tal partito m' ha ora Amor giunto, a cui i' ho servito il tempo mio con pura fede e con sommo disio.
L. 10, ott. 27Né 'l merito di ciò ch' io attendea goder non posso, ben che mi sia dato: veggio, di me, che ciascun fato avea che così fosse in sé diliberato, e che del mio servir voglion ch' io stea contento che per merito onorato istato sia della data vittoria, che a' futuri fia sempre in memoria.
L. 10, ott. 28E io perciò che più non posso avante, voglio aver questo per buon guiderdone; e que' che fu così com' io amante e la sua vita ha messa in condizione di morte e di periglio simigliante a me, io dico del buon Palemone, per merito del suo amar riceva la donna ch' io per mia aver doveva.
L. 10, ott. 29Io te ne priego per quella salute che tu a lui e a me parimente donasti già, e per la tua virtute nota agl' iddii e all' umana gente, e per l' opere tue che conosciute sono e saranno al mondo etternalmente, e per la fede che io ti portai mentre nel tuo servigio dimorai.
L. 10, ott. 30Questa mi fia tra l' ombre gran letizia, che Palemon, cui io molto amo, sia tratto per me d' amorosa tristizia, possedendo elli ciò che più disia; pensando ancora ch' elli abbia divizia di ciò ch' elli ama, per tua cortesia: almeno Emilia, mentre fia in vita, vedendo lui avrà a mente Arcita. -
L. 10, ott. 31E questo detto, forte sospirando, tacque con gli occhi alla terra bassati, tacito seco stesso lagrimando; né quelli ardiva di tener levati: onde Teseo un poco attese, e quando vide che' suoi parlari eran posati, quasi piangendo, assai di lui pietoso, disse così con viso doloroso:
L. 10, ott. 32 rubr.Come Teseo rispose ad Arcita.
L. 10, ott. 32- Tolgan l' iddii, Arcita, amico caro, che Lachesìs il fil poco tirato ancora tronchi, e cessin questo amaro dolor da me, se io l' ho meritato, che non si dia a tua vita riparo; e già in ciò Alimeto ha pensato insieme con Itmon, e sì faranno che vivo e sano a noi ti renderanno.
L. 10, ott. 33Ma pur se dell' iddii fosse piacere di torti a me che più che luce t' amo, a forza ciò ne converria volere, però che isforzarli non possiamo. Ciò che m' hai detto, puoi certo sapere che, poi ti piace, sì come te il bramo, e sanza fallo tutto fia fornito, se tu venissi a sì fatto partito.
L. 10, ott. 34Ma tu, come sì forte ti sgomenti pensando che così notabil cosa, come è Emilia, che faria contenti qualunque iddii di sé, tanto amorosa si fa vedere, e' suoi occhi lucenti pur te disian con vista lagrimosa, e essa è tua? Deh! prendi conforto, ch' ancor verrai a grazioso porto.
L. 10, ott. 35Ben ci ha da render alto guiderdone delle fatiche da lui ricevute: io dico al tuo amico Palemone, del quale a me domandi la salute. Sol che tu sani, i' ho oppinione di porvi in parte, per vostra virtute, dove di voi tra voi ancor sarete contenti, sì che lieti viverete. -
L. 10, ott. 36 rubr.Come Arcita si fé chiamar Palemone e ciò che li disse.
L. 10, ott. 36Arcita nulla a questo rispondeva, sì lo stringeva l' angoscia d' amore; e il suo stato assai ben conosceva, posto che i conforti del signore divoto udisse quanto più poteva; e già l' ambascia s' appressava al core della misera morte, onde si volse in altra parte e a Teseo si tolse.
L. 10, ott. 37E poi che fu alquanto dimorato sanza mostrare o dire alcuna cosa, come era prima si fu rivoltato, e 'n voce rotta assai e angosciosa priega che Palemon li sia chiamato anzi che lasci esta vita noiosa; il qual lì venne, sanza dimorare, con altri molti per lui visitare.
L. 10, ott. 38Il qual poi vide innanzi a sé venuto, e rimirato l' ebbe lungamente con luci acute, quasi conosciuto pria non l' avesse, con voce dolente disse: - O Palemone, egli è voluto nel ciel che più qui non istea niente; però innanzi il mio tristo partire, veder ti volli, toccare e udire.
L. 10, ott. 39Tanto n' ha sempre avversata Giunone, che del seme di Cadmo solo Arcita n' è conosciuto e tu, o Palemone: or mi conviene angosciosa partita da te, parente, amico e compagnone, far, poi le piace, che alla mia vita stata è invidiosa allor ch' ella poteva più contentarla, se ella voleva.
L. 10, ott. 40In quella entrata ch' io doveva fare ad esser delli suoi raccomandati, fa ella il mondo lieto a me lasciare per congiugnermi a' nostri primi andati. Or m' avesse ella pur lasciato entrare per tre giornate ne' suoi disiati luoghi! E appresso in pace avria sofferto ch' ella m' avesse morto o vuo' diserto.
L. 10, ott. 41Non l' è piaciuto, e io non posso avanti; dunque tu sol, che a me se' rimaso del sangue altiero degli avoli tanti, quando verrà il doloroso caso ch' io lascerò la vita e' tristi pianti, gli occhi e la bocca e l' anelante naso priegoti che mi chiuda, e facci ch' io tosto trapassi d' Acheronte il rio.
L. 10, ott. 42E perché tu, sì come io, amato hai lungamente Emilia graziosa, io ho Teseo a mio poter pregato che la ti doni per etterna sposa: priegoti che da te non sia negato perché tu sappi che di me pietosa ella sia stata e a me porti amore, ch' ell' ha suo dover fatto e suo onore.
L. 10, ott. 43E giuroti, per quel mondo dolente al quale io vado sanza ritornata, che, a dire il ver, giammai al mio vivente di lei niuna cosa t' ho levata, se non forse alcun bascio solamente, sì che tale è qual tu te l' hai amata; ond' io ti priego, per tua cortesia, che tu la prenda e che cara ti sia.
L. 10, ott. 44E lei con quello amor che tu solevi portarle più che ad altra creatura, s' egli era ver ciò che tu mi dicevi, onora e guarda; e sì d' operar cura, che 'l tuo valore usato si rilevi a ricrear la nostra fama oscura per lo dolente seme, ch' è ispento s' a rilevarlo non dai argomento.
L. 10, ott. 45Certo quest' è manifesta cagione che ciaschedun dell' operato affanno ricever deggia degno guiderdone; dunque sarà per merito del danno c' hai già avuto e desolazione, come io so e ancor molti sanno, ricever lei, che credo più che 'l regno di Giove l' avrai cara, e senne degno.
L. 10, ott. 46E s' ella forse per la morte mia pietosa desse alcuna lagrimetta, sì la raccheta che contenta sia, perciò che la sua vista leggiadretta fatta ha l' anima mia di lei sì pia, che 'l riso suo più me che lei diletta, e così il pianto suo più me attrista, ond' io mi cambio come la sua vista.
L. 10, ott. 47In questa guisa, se l' anima sente poi la morte del corpo alcuna cosa di queste qua, tra la turba dolente andrà con più ardire e men dogliosa. - E questo detto, più oltre niente allora disse; donde con pietosa sembianza e voce appresso Palemone incominciò così fatto sermone:
L. 10, ott. 48 rubr.Come Palemone rispose ad Arcita.
L. 10, ott. 48- O luce etterna, o reverendo onore del nostro sangue, poderoso Arcita, sed e' non è in te spento il valore usato, aiuta la tua cara vita con conforto sperando, ché 'l signore del ciel soccorre a chi se stesso aita; né far ragion che 'n giovinetta etate Antropòs ora pigli podestate.
L. 10, ott. 49Cessin gl' iddii che io ultimo sia di tanto sangue, se tu te ne vai, né che Emilia mai diventi mia: tu l' acquistasti e tu per tua l' avrai; né l' uficio che chiedi fatto fia con la mia man, per mia voglia, giammai; ma la tua prole e tu gli chiuderete a me, e sopra me vivi sarete.
L. 10, ott. 50Confortati: per que' celesti regni che t' ha il tuo valore apparecchiati allor che' membri tuoi saranno degni per età lunga d' esser transmutati in cenere, io ti priego ti sostegni, sì che tu usi i ben già guadagnati; e me tapino per lo mondo andare lascia, che' fati me voglion provare. -
L. 10, ott. 51Arcita disse: - E' fia com' io t' ho detto; il che s' avien, ti priego quant' io posso che 'l mio disio in ciò mandi ad effetto, e questo sia, ogn' altro affar rimosso. Così disio, così mi fia diletto, così d' ogni gravezza sarò scosso. - E quinci tacquero amendun piangendo, e chi vi stava ancor pianger faccendo.
L. 10, ott. 52 rubr.Come Arcita, vedendo Emilia sopravenuta, parlò.
L. 10, ott. 52A cotal pianto Ipolita piacente vi sopravenne, e Emilia con lei; e quando vider sì pietosamente pianger gli Achivi e li duci dircei, d' Arcita dubitarono, e dolente ciascuna domandò i re lernei che era ciò, che' due Teban piangeno e tutti loro ancor pianger faceno.
L. 10, ott. 53E' fu lor detto; onde ognuna di loro più ad Arcita si fecero appresso, e cominciaron sanz' alcun dimoro a ragionar di più cose con esso e a darli conforto con costoro insieme ch' eran lì venuti ad esso e elli alquanto prese d' allegrezza poi che d' Emilia vide la bellezza.
L. 10, ott. 54Ma poi ch' Arcita l' ebbe rimirata con occhio attento, sì come potea, e ebbe bene in sé considerata la gran bellezza che la donna avea, cominciò con sembianza transmutata a parlare in tal guisa qual potea, premessi avanti dolenti sospiri, caldo ciascun d' amorosi disiri:
L. 10, ott. 55- Piangemi Amor nel doloroso core, là onde morte a forza il vuol cacciare; né vi può star, né uscir ne pò fore, sì ch' io il sento in me ramaricare con pianti e con parole di dolore accese più ch' i' non poria narrare, in forma che di sé mi fa pietoso, e di me, lasso!, oltre il dover doglioso.
L. 10, ott. 56Gli spiriti visivi assai sovente mostrano a lui l' angelica figura per la qual esso nel core è possente, dicendo: «Deh! fie tal nostra sciagura, che ci convenga teco insiememente abandonar sì nobil creatura?». Esso risponde loro e sì gli abraccia, dicendo: «Sì, ché morte me ne caccia:
L. 10, ott. 57io me ne vo con l' anima smarrita, la quale io presi col piacer di quella che da voi è nel mondo più gradita». Dunque nelle sue man ricevami ella, quand' io farò la dogliosa partita della presente vita tapinella. - E questo detto, forte lagrimando, gli occhi bassò, in terra riguardando.
L. 10, ott. 58 rubr.Come Emilia parlò ad Arcita.
L. 10, ott. 58Queste parole gli angelici aspetti di quelle donne conturbavan molto e con dolore offendevano i petti dilicati in maniera che nel volto si parea loro; e ben sentieno i detti quali erano e che fosse in lor raccolto; e ben l' occulta morte conosceno nel viso a lui, che già veniva meno.
L. 10, ott. 59Per che Emilia disse: - O signor mio, poscia che tu del viver ti disperi, deh, dimmi, o lassa!, e come farò io? Io ne verre' con teco volentieri, e già ciò appetisce il mio disio, perch' io non so che fuor di te mi speri. Tu eri solo il mio bene e la gioia, sanza di te non spero altro che noia. -
L. 10, ott. 60 rubr.Come Arcita rispose ad Emilia.
L. 10, ott. 60A cui Arcita disse: - Bella amica, prendi conforto, e del mio trapassare non prender nel tuo animo fatica; ma per amor di me di confortare ti piaccia, se giammai cosa ch' io dica intendi nel futuro d' operare; io ho trovato a tua consolazione modo assai degno e con giusta ragione.
L. 10, ott. 61Palemon, caro e stretto mio parente, non men di me t' ha lungamente amata, e per lo suo valor veracemente è più degno di me che isposata li sii, e questo vede tutta gente; ché, posto che vittoria a me donata fosse l' altrier, non fu già dirittura, ma sola fu la sua disaventura.
L. 10, ott. 62Di che l' iddii errarono, e per certo credetter lui atare e me ataro; ma poi che il loro error fu discoperto, ciò ch' avean fatto indietro ritornaro e me recaron a sì fatto merto quale ora piango con dolore amaro, acciò che tu ti rimanessi ad esso, com' essi avean diliberato espresso.
L. 10, ott. 63E io che tu sii sua me ne contento più che d' altrui, poi esser non puoi mia. Ferma in lui il tuo intendimento e quel pensa di far che el disia; e io son certo ch' ogni piacimento di te per lui sempre operato fia: egli è gentile e bello e grazioso; con lui avrai e diletto e riposo.
L. 10, ott. 64Io muoio, e già mi sento intorno al core quella freddezza che suole arrecare con seco morte, e ogni mio valore sanza alcun dubbio in me sento mancare; però quel ch' io ti dico, per amore farai, poi più non posso teco stare; i fati t' hanno riserbata a lui, me' sarai sua non saresti d' altrui.
L. 10, ott. 65Ma non pertanto l' anima dolente, che se ne va pel tuo amor piangendo, ti raccomando, e priegoti ch' a mente ti sia tuttora, mentre che vivendo qui starai sotto del bel ciel lucente, a te contenta l' aure traendo; ch' i' me ne vo, né so se tu verrai là dov' io sia, ch' i' ti rivegga mai.
L. 10, ott. 66Gli ultimi basci solamente aspetto da te, o cara sposa, i quai mi dei ti priego molto; questo sol diletto in vita omai attendo, ond' io girei isconsolato con sommo dispetto s' i' non gli avessi, e mai non oserei gli occhi levar tra' morti innamorati, ma sempre li terrei tra lor bassati. -
L. 10, ott. 67 rubr.Come Emilia rispose ad Arcita e dielli gli ultimi basci.
L. 10, ott. 67Fatti erano i begli occhi rilucenti d' Emilia due fontane, lagrimando e fuor gittando sospiri cocenti, del suo Arcita il parlar ascoltando; e ben vedeva per chiari argomenti che, come esso dicea, venia mancando; per ch' ella in voce rotta e angosciosa così rispose tutta lagrimosa:
L. 10, ott. 68- O caro sposo a me più che la vita, non verso te son crucciati l' iddii; io sola son cagion di tua partita, io nocevole sono a' tuoi disii; questa è vecchia ira incontro a me nutrita ne' petti lor, sì com' io già sentii, i qua' del tutto lo mio matrimonio negano, e io ne veggo testimonio.
L. 10, ott. 69Il gran Teseo m' avea serbato Acate, col quale io giovinetta mi crescea: bello era e fresco nella nova etate, e nelli primi amori assai piacea a me; ma la innata crudeltate c' ha contro al nostro sangue Citerea, mel tolse, già al maritar vicina, ben che io fossi ancora assai fantina.
L. 10, ott. 70Questa, non sazia del primo operare contra di me, già te veggendo mio, similemente te mi vuol levare. Dunque non altri t' uccide che io; io, lassa!, colpa son del tuo passare; il mio agurio tristo e 'l mio disio ti noccion, lassa!, e io rimango in pene e in tormento, non qual si convene.
L. 10, ott. 71Omè, sovra di me andasse l' ira che altrui nuoce per la mia bellezza! Che colpa ci ha colui che mi disira, se la spietata Vener mi disprezza? Perché or contra te diventa dira? Perché in te discovre sua fierezza? Maladetta sia l' ora ch' io fui nata, e a te prima giammai palesata!
L. 10, ott. 72O bello Arcita mio, sanza ragione or foss' io morta il dì che 'n questo mondo venni, poi ti doveva esser cagione di morte e torti di stato giocondo! Donde giammai sentir consolazione non credo in me, ma sempre di profondo cor mi dorrò dopo la tua partita, se dietro a te rimango, caro Arcita.
L. 10, ott. 73Ora conosco i dolorosi ardori che oscuri mi mostrò l' altrier Diana; or so quai fosser l' aure che di fori n' uscian con vista e con voce profana, e quel che della fiamma li furori a me mostravan con mente non sana; ché se allor conosciuti gli avessi, non credo come stai che tu istessi.
L. 10, ott. 74Io mi sarei dolorosa parata a te allor ch' al teatro ne gisti, e di pietà e d' amor colorata avrei voltati li tuoi passi tristi, e la dolente battaglia sturbata per la qual morte e per me ora acquisti; ma io non li conobbi, anzi sperai tutto il contrario di ciò che tu hai.
L. 10, ott. 75Or più non posso; ond' io morrò dogliosa, né so veder chi di morir mi tene, vedendo, sposo, tua vista angosciosa istar per me e in cotante pene. O me isventurata dolorosa! Quanto mal vidi, e tu ancora, Attene! E quanto mal per te mi riguardasti, il giorno che di me t' innamorasti!
L. 10, ott. 76Omè, che' fior ch' io allora cogliea, e 'l canto, anzi fu pianto, ch' io cantava. Erinis, lassa!, tutto ciò movea; e i' 'l senti', che talora tremava pavida, e la cagion non conoscea, né le future cose imaginava: or le conosco che son nel periglio,posso ad esse porre alcun consiglio.
L. 10, ott. 77E ora, caro sposo, mi comandi che, tu mancato, io prenda Palemone. Certo le tue parole mi son grandi, e debbo quelle per ogni ragione servar più che gli eccelsi e venerandi iddii che or m' offendon, né cagione non hanno; e io così le serveraggio, in quella guisa che io ti diraggio.
L. 10, ott. 78Io so che Palemon m' ha tanto amata quanto uom gentil nessuna donna amasse; di che io non gli voglio essere ingrata, eziandio se Giove il comandasse. Chiaro conosco ch' a chiunque data fossi, se esso di grazia abondasse d' ogni vivente, ch' io nel priverei, tanto gli agurii miei conosco rei.
L. 10, ott. 79E s' io a te sono or cagion di morte, e ad Acate fui, aver nociuto al mondo tanto assai gravosa sorte m' è a pensar; né quinci spero aiuto che possa sostener mia vita forte, che poi lo spirto tuo sarà partuto, che dietro a te per soverchio dolore io non ne venga, seguendo 'l tuo amore.
L. 10, ott. 80E se pur fia la mia disaventura di vivere oltre a te, non vo' donare a Palemon della mia sciagura, laddove esso per fedele amare ha meritato; ma sola mia cura ne' boschi fia Diana seguitare, e ne' suoi templi, vergine vestita, serverò sempre mai celebe vita.
L. 10, ott. 81E se Teseo vorrà pur che io sia d' alcuno sposa, alli nemici sui mi mandi, acciò che la sciagura mia ad essi noccia e sia utile a lui; e Palemone è tal, che se el disia d' avere sposa, e' troverà altrui, che li sarà, più non sarei, felice; e ciò il cuor manifesto mi dice.
L. 10, ott. 82Li stremi basci, omè!, li quai dolente mi cerchi, ti darò volonterosa, e prenderolli ancora parimente a mio poter; dopo li quai mai cosa non fia ch' io basci più certanamente; ma la mia bocca sempre come sposa di te co' basci che le donerai guarderò mentre in vita sarò mai. -
L. 10, ott. 83E quinci quasi furiosa fatta, piangendo con altissimo romore, sopra lui corse in guisa d' una matta, dicendo: - Caro e dolce mio signore, ecco colei che per te fia disfatta, ecco colei che per te trista more; prendi li basci estremi, dopo i quali credo finire i miei etterni mali. -
L. 10, ott. 84E pose il viso suo su quel d' Arcita, palido già per la morte vicina; né 'l toccò prima, ch' ella tramortita in su la faccia cadde risupina; ma, poi appresso si fu risentita, piangendo cominciò: - O me tapina! son questi i basci che io aspettava d' Arcita, il qual vie più di me amava?
L. 10, ott. 85A le nemiche mie cotal basciare, o dispietati iddii, sia riserbato. - Arcita, che nel cielo esser li pare, il bianco collo teneva abbracciato, dicendo: - Omai non credo male andare, tal viso al mio sentito ho accostato; qualora piace omai a l' alto Giove, di questa vita mi tramuti altrove. -
L. 10, ott. 86 rubr.Il dolor di coloro che vedevano Arcita.
L. 10, ott. 86Quivi era sì gran pianto e sì doglioso di donne e di signori e d' altra gente che vedean questo, onde ciascun pietoso era assai più che distretto parente, che non si crede sì fosse noioso allor che Febo si mostrò dolente tornando adietro, nel tempo che Atreo mangiare i figli al suo Tieste feo.
L. 10, ott. 87Essa allora, sì com' esso volle e come volle Ipolita, drizzossi; e sé e lui aveva tutto molle di lagrimari, da' belli occhi mossi,più né men come 'l Menalo colle, quando da Ariete riscaldossi, che, consumata sua veste nevosa, mostra la faccia sua tutta guazzosa.
L. 10, ott. 88E quel dì tutto quanto si posaro sanza più rinovare altro dolore, ben che nel cor l' avesser sì amaro quanto potesser più a tutte l' ore; e con parole assai riconfortaro Emilia e Arcita, e il furore lor temperaron con soavi detti, lena rendendo a' desolati petti.
L. 10, ott. 89 rubr.Come Arcita, sentendosi vicino alla morte, domandò di volere sacrificare a Mercurio.
L. 10, ott. 89Nove fiate s' era dimostrato il sole e altrettante sotto l' onde d' Esperia s' era co' carri tuffato, poi si mutaron le cose gioconde per lo cader d' Arcita in tristo stato, quando nel tempo che tutto nasconde, d' Emilia avendo il dì li basci avuti, parlò Arcita a' suoi più conosciuti:
L. 10, ott. 90- Amici cari, i' me ne vo di certo; per ch' io vorrei a Mercurio litare, acciò che esso, per sì fatto merto, in luogo amen li piaccia di portare lo spirito mio, poi che li fia offerto; e ciò vorre' i' domattina fare: però vittime degne e olocausti m' aparecchiate, a lui decenti e fausti. -
L. 10, ott. 91Palemon, ch' era a questo dir presente, come quel che da lui mai non partia, fece apprestar tutto ciò immantanente che a cotal mestier si convenia: e sangue e latte nuovo e di bidente gregge e d' armenti, quali a l' ara pia si richiedea di così fatto iddio, ad adempiere d' Arcita il disio.
L. 10, ott. 92 rubr.Come Arcita sacrificò a Mercurio.
L. 10, ott. 92Il giorno venne oscuro e nebuloso, e questi Febo s' avea messi avanti al viso, acciò che 'l morire angoscioso d' Arcita non vedesse e' tristi pianti d' Emilia bella, a' quali assai pietoso si mostrò il giorno, li suoi luminanti raggi celando infra le nebbie oscure, vedendo chiaro le cose future.
L. 10, ott. 93Allora l' ara fu apparecchiata, e' fuochi accesi, e l' incensi donati, e ciascuna altra offerta a ciò parata, e' sacerdoti i versi ebber cantati con voce assai da l' altre transmutata, e' fummi furo tutti al cielo andati; Arcita piano incominciò a dire, in guisa tal che si poté sentire:
L. 10, ott. 94 rubr.L' orazione d' Arcita a Mercurio.
L. 10, ott. 94- O caro iddio, di Proserpina figlio, a cui sta via l' anime portare de' corpi, e quelle secondo 'l consiglio che da te prendi le puoi allogare, piacciati trarmi di questo periglio soavemente, per le tue sante are le quali ancora calde per me sono che a te in su quelle offersi eletto dono.
L. 10, ott. 95E quinci me intra l' anime pie, le quai sono in Eliso, mi trasporta; ché, se tu miri ben, l' opere mie non m' hanno fatto dell' aura morta degno, sì come fur l' anime rie de' miei maggiori, a' quai crudele scorta fece Giunon, adirata con loro con ragion giusta, a lor donando ploro.
L. 10, ott. 96Io non uccisi il sacrato serpente all' alto Marte ne' campi dircei, come fé Cadmo, della nostra gente avol primaio; né nelli baccei sacrificii tolsi fieramente la vita al mio figliuol, come colei che dopo il danno riconobbe il fallopoté poi con lagrime emendallo;
L. 10, ott. 97né, come Semelè, contra Giunone mai operai; né, sì come Atamante, contra la prole divenni fellone; né il mio padre uccisi, né amante della mia madre fui, la nazione ne' sen materni indietro ritornante, sì come Edippo; né mio frate uccisi; né mai regno occupai, né mal commisi;
L. 10, ott. 98né di Creonte l' aspra crudeltate mi piacque mai, né in altrui l' usai. Se arme furon già per me pigliate incontro a Palemon, male operai, e io ben n' ho le pene meritate; e certo i' non l' avrei prese giammai, se esso non m' avesse a ciò recato, perch' era, sì com' io, innamorato.
L. 10, ott. 99Dunque tra' neri spiriti non deggio, o pio iddio, ciò credo, dimorare, e del ciel non son degno, e i' nol cheggio. E' m' è sol caro in Eliso di stare: di ciò ti priego e di ciò ti richeggio, se esser può che tu mel deggi fare; so che 'l farai, se così se' pio come suogli esser, venerando iddio. -
L. 10, ott. 100 rubr.Come Arcita, dette queste parole, si cominciò a dolere della morte.
L. 10, ott. 100Detto ch' ebbe così, con più dogliosa voce parole mosse dove stava Ipolita e Emilia valorosa, e' greci re, e ciascun l' ascoltava, e Palemon con anima angosciosa, tanto del tristo caso li pesava; e esso con parola vinta e trista dicea così con dolorosa vista:
L. 10, ott. 101- Or mancherà la vita, ora il valore d' Arcita finirà, ora avrà fine l' acerbo e inespugnabil suo amore; or vederà d' Acheronte vicine le triste ripe, ora saprà 'l furore delle nere ombre, misere, tapine; or se ne va Arcita innamorato, del mondo a forza sbandito e cacciato.
L. 10, ott. 102Ahi, lasso me! che l' età giovinetta lascio sì tosto, en la quale sperava ancor mostrar di me virtù perfetta: tale speranza l' ardir mi prestava. Omè, che troppo la morte s' affretta, e più che 'n alcuno altro in me è prava; in me si sforza, in ver me la sua ira mostra quant' ella puote, e mi martira.
L. 10, ott. 103Dove è, Arcita, tua forza fuggita? Dove son l' armi già cotanto amate? Come non l' hai, per la dolente vita dalla morte campare, ora pigliate? Oimè, ch' ella s' è tutta smarrita, né più porian da me esser guidate; per ch' io per vinto omai mi rendo, lasso!, e per più non potere oltre trapasso.
L. 10, ott. 104O bella Emilia, del mio cor disio, o bella Emilia, da me sola amata, o dolce Emilia, cuor del corpo mio, ora sarai da me abandonata! Ohimè lasso! I' non so quale iddio in ciò mi noccia con voglia turbata; per te sola m' è noia il mio morire, per te non sarò mai sanza languire.
L. 10, ott. 105Deh, che farò allora che vedere più non potrotti, donna valorosa? Seconda morte io non potrò avere, ben ch' io la cheggia per men dolorosa; né so ancor che luogo me tenere debba di là nella vita dubbiosa; ma se con Giove sanza te istessi, non credo che giammai gioia sentissi.
L. 10, ott. 106Dunque angoscioso ovunque io n' anderaggio sempre sarò, sanza te, luce chiara; né mi sarà il secondo viaggio a qui tornar concesso, donna cara, come Pelleo, che fu mio signor maggio, già mel concesse, allora che amara vita traeva in Egina, lontano dal tuo valor, bella donna, sovrano.
L. 10, ott. 107Lagrime sempre e amari sospiri omai attende l' anima dolente per giunta, lasso!, alli nuovi martiri ch' io avrò forse intra la morta gente; li quai tanti non fien, che' miei disiri di te veder faccian cessar niente; ma sempre te nell' etterna fornace per donna chiamerò della mia pace.
L. 10, ott. 108Omè, dove lascio io i cari amici? Dove le feste e il sommo diletto? Ove i cavalli, omai fatti mendici del lor signore? Ove quel ben perfetto ch' amor mi dava, qualora i pudici occhi d' Emilia vedeva e l' aspetto? Dove lascio io Palemon grazioso, meco d' amor parimente focoso?
L. 10, ott. 109E Peritoo ancor, cui similmente più che la vita, con ragione, amava? Ove li regi e l' altra buona gente, che loro a' miei servigi seguitava? Ove Teseo, nobil signor possente, che più che caro frate m' onorava? Ove lascio io il reverendo Egeo? Dove il mio caro e buon signor Pelleo?
L. 10, ott. 110Certo io gli lascio dove rimanere, s' esser potesse, vorria volentieri, e in gioco e in festa e in piacere con prencipi e con donne e cavalieri; sì che, del rimaner di lor, mestiere non m' è dolermi; ma sol mi son fieri gli aspri pensier ch' a me ne mostran tanti perder dovere, e e' me tutti quanti. -
L. 10, ott. 111 rubr.Come Arcita trapassò di questa vita.
L. 10, ott. 111Poscia ch' egli ebbe queste cose dette, di cuor gittò un profondo sospiro amaramente e di parlar ristette, e 'nverso Emilia i suoi occhi s' apriro mirando lei, e mirandola stette un poco e poscia li rivolse in giro; e ciascun vide che piangeva forte, però ch' a lui s' appressava la morte.
L. 10, ott. 112La quale in ciascun membro era venuta da' piedi in su venendo verso il petto, e ancor nelle braccia era perduta la vital forza; sol nello 'ntelletto e nel cuore era ancora sostenuta la poca vita; ma già sì ristretto gli era il tristo cuor dal mortal gielo, ch' agli occhi fé subitamente velo.
L. 10, ott. 113Ma poi ch' egli ebbe perduto il vedere con seco cominciò a mormorare, ognor mancando più del suo potere; né troppo fece in ciò lungo durare, ma 'l mormorio transmutato in vere parole, con assai basso parlare, - A Dio, Emilia! - e più oltre non disse, ché l' anima convenne si partisse.
L. 10, explicitQui finisce il libro decimo del Teseida.
L. 11, son. iniz. rubr.Sonetto nel quale si contiene l' argomento particulare del libro undecimo.
L. 11, son. iniz.Nell' undecimo Emilia primamente l' uficio imposto fa con Palemone; poi mostra il pianto della greca gente, dintorno al corpo ornato per ragione. Quinci tagliata una selva eminente, un ricco rogo fanno più persone, sovra 'l qual posto Arcita eccelsamente, vi mette Emilia l' acceso tizzone. Le ceneri del rogo consumato racoglie Egeo, e merita coloro che 'n varii giuochi onore hanno acquistato. Quindi fa far con subito lavoro un tempio Palemone istoriato,dove Arcita loca in urna d' oro.
L. 11, ott. 1 rubr.Incomincia il libro undecimo del Teseida. E prima come l' anima d' Arcita, uscita del corpo, loda le cose superne, e queste qua giù biasima.
L. 11, ott. 1Finito Arcita colei nominando la qual nel mondo più che altro amava, l' anima leve se ne gì volando ver la concavità del cielo ottava, degli elementi i convessi lasciando; quivi le stelle ratiche ammirava, l' ordine loro e la somma bellezza, suoni ascoltando pien d' ogni dolcezza.
L. 11, ott. 2Quindi si volse in giù a rimirare le cose abandonate, e vide il poco globo terreno, a cui intorno il mare girava e l' aere e di sopra il foco, e ogni cosa da nulla stimare a rispetto del ciel; ma poi al locodove aveva il suo corpo lasciato gli occhi fermò alquanto rivoltato;
L. 11, ott. 3e seco rise de' pianti dolenti della turba lernea, la vanitate forte dannando dell' umane genti, li quai, da tenebrosa cechitate mattamente oscurati nelle menti, seguon del mondo la falsa biltate, lasciando il cielo; e quindi se ne gio nel loco che Mercurio li sortio.
L. 11, ott. 4 rubr.Come Emilia e Palemone chiusero gli occhi ad Arcita morto.
L. 11, ott. 4A la voce d' Arcita dolorosa quanti v' eran gli orecchi alti levaro, aspettando che più alcuna cosa dovesse dir; ma poi che rimiraro l' alma partita, con voce angosciosa pianse ciascuno e con dolore amaro; ma sopra tutti Emilia e Palemone, la qual così rispose a tal sermone:
L. 11, ott. 5- O signor dolce, dove m' abandoni? Dove ne vai? Perché non vengh' io teco? Dimmi quai sieno quelle regioni che ora cerchi; poi non se' con meco, io vi verrò, e con giuste cagioni! - , dicendo: - Poi non volle in vita seco Giove ch' io sia, e i' 'l seguirò morto, colui che è il mio bene e 'l mio conforto. -
L. 11, ott. 6Ma poi che vide lui tacente e muto e l' alma sua aver mutato ospizio da lui non stato mai più conosciuto, con Palemon piangendo il tristo ofizio fecero, e gli occhi travolti al transuto chiusero, per suppremo benefizio, e il naso e la bocca; poi ciascuno si tirò indietro con aspetto bruno.
L. 11, ott. 7 rubr.Come Arcita fu pianto da tutti.
L. 11, ott. 7Non fer tal pianto di Priam le nuore, la moglie e le figliuole, allor che morto fu lor recato il comperato Ettore, lor ben, lor duca e lor sommo diporto, quale Ipolita fé per lo dolore ch' ella sentì, e certo non a torto; e Emilia con lei, e altre molte attiche donne lì con loro accolte.
L. 11, ott. 8Piangeno i re offesi da pietate e da dolore, e piangea Palemone; piangevan gli altri d' ogni qualitate, o d' età vecchio o giovane garzone; e come Attene davanti occupate erano in feste, ora in desolazione tututte si vedevan lagrimose e d' alti guai oscure e tenebrose.
L. 11, ott. 9Niun potea racconsolar Teseo, sì avea posto in lui perfetto amore; il simile avveniva di Pelleo e del buon Peritoo e di Nestore e d' altri assai, e ancora d' Egeo; il qual la bianca barba per dolore tutta bagnata aveva per Arcita, allor passato della trista vita.
L. 11, ott. 10Ma come savio e uom che conoscea i mondan casi e le cose avvenute, sì come quei ch' assai veduto avea, il dolor dentro strinse con virtute, per dare esemplo a chiunque il vedea di confortarsi delle cose sute; e poi s' asise Palemone allato, il qual faceva pianto ismisurato;
L. 11, ott. 11e ingegnossi con parole alquanto, con quel silenzio ch' el poté avere, di voler temperare il tristo pianto, ricordando le cose antiche e vere: le morti e' mutamenti e 'l duolo e 'l canto l' un dopo l' altro spesso ogn' uom vedere; ma mentre che parlava, ognun piangeva, poco intendendo a ciò che el diceva.
L. 11, ott. 12Anzi così l' udivan, come 'l mare Tiren turbato ascolta i navicanti, o come folgor, che scenda dall' are, pe' nuvoletti teneri ovvianti da l' impeto suo cura di ristare, ma gli apre e scinde e lor lascia fumanti; e quel dì e la notte in duolo amaro, sanza punto ristar, continuaro.
L. 11, ott. 13 rubr.Come Teseo, ordinato che un rogo si facesse nel boschetto, fece vestire il corpo d' Arcita e recarlo nella corte.
L. 11, ott. 13Quinci Teseo con sollecita cura con seco cerca per solenne onore fare ad Arcita nella sepoltura; né da ciò il trasse angoscia né dolore, ma pensò che nel bosco, ov' e' rancura aver sovente soleva d' amore, faria comporre il rogo dentro al quale l' uficio si compiesse funerale.
L. 11, ott. 14E comandò ch' una selva che stava a quel bosco vicina, vecchia molto, fosse tagliata, e ciò che bisognava per lo solenne rogo fosse accolto dentro al boschetto, nel qual comandava una area si facesse da tal colto: mossersi allora li ministri tosto, per far ciò che Teseo loro avea 'mposto.
L. 11, ott. 15El fece poi un feretro venire reale a sé davanti, e tosto fello d' un drappo ad or bellissimo fornire; e similmente ancor fece di quello il morto Arcita tutto rivestire; e poi il fece a giacer porre in ello, incoronato di frondi d' alloro, con ricco nastro rilegate d' oro.
L. 11, ott. 16E poi che fu d' ogni parte lucente il nuovo giorno, elli il fece portare nella gran corte, ove tutta la gente come voleva il potea riguardare; né crede alcun che sì fosse dolente di Tebe allora il popolo a mirare, quando li sette e sette d' Anfione figli fur morti en la trista stagione,
L. 11, ott. 17come d' Attene si vide quel giorno, nel quale altro che pianger non si udia: nessuno andava per la terra attorno, o el della sua casa non uscia, in quella stando sì come musorno; o, se ne uscisse, a la corte sen gia per rimirar l' esequie dolorose, nate dell' aspre battaglie amorose.
L. 11, ott. 18 rubr.Come fu tagliata la selva e fatto il rogo.
L. 11, ott. 18Alta fatica e grande s' aparecchia, ciò è voler l' antico suol mostrare a l' alto Febo della selva vecchia; la qual Teseo comandò a tagliare s' andasse, acciò ch' una pirra parecchia alla stata d' Ofelte possan fare, o se si puote, ancor la vuol maggiore, in quanto fu più d' Arcita il valore.
L. 11, ott. 19Essa toccava con le cime il cielo, e' bracci sparti e le sue come liete aveva molto, e di quelle alto velo alla terra facea; né più quiete ombre aveva Acaia; né giammai telo l' aveva offesa, o altro ferro sete n' aveva avuta; ma la lunga etate d' essa tenean per degna deitate.
L. 11, ott. 20La qual non si credea che solamente gli uomini avesse per età passati, ma si credea che le ninfe sovente e' fauni e le lor greggi permutati fosser da lei, che continuamente di sterpi nuovamente procreati si ristorava, in etterno durando, e degli antichi suoi pochi mancando.
L. 11, ott. 21Al miserabil loco soprastava tagliamento continuo, del quale ogni covil si vide che vi stava; e fuggì quindi ciascuno animale, e ogni uccello i suoi nidi lasciava, temendo il mai più non sentito male; e alla luce, in quel giammai non stata, in poca d' ora si diè larga entrata.
L. 11, ott. 22Quivi tagliati cadder gli alti faggi e i morbidi tigli, i qua' ferrati sogliono spaventare i fier coraggi nelle battaglie, molto adoperati; né si difeser dalli nuovi oltraggi gli esculi e i caonii, ma tagliati furono ancora, e 'l durante cipresso ad ogni bruma e il cerro con esso,
L. 11, ott. 23e gli orni pien di pece, nutrimento d' ogni gran fiamma, e gli ilici soprani, e 'l tasso, li cui sughi nocimento soglion donare, e' frassini che' vani sangui ber soglion del combattimento, col cedro, che per anni mai lontani non sentì tarlo né isgombrò sito per sua vecchiezza dove fosse unito.
L. 11, ott. 24Tagliato fuvvi l' audace abete, e 'l pin similemente, che odore dà dalle tagliature, com sapete; il fragil corilo e il bicolore mirto, e con questi l' alno senza sete, del mare amico; e, d' ogni vincitore premio, la palma fu tagliata ancora, e l' olmo che di viti s' innamora.
L. 11, ott. 25Donde la Terra sconsolato pianto ne diede; e quindi ciascuno altro iddio de' luoghi amati si partì intanto, dolente certo e contra suo disio, e l' albitro dell' ombre Pan che tanto quel luogo amava, e ciascun semidio; e lor partenti ancor piangea la selva, che forse lì mai più non si rinselva.
L. 11, ott. 26Adunque fu degli alberi tagliati un rogo fatto mirabilemente; poco più furo i monti accumulati sopra Tesaglia dalla folle gente, inverso il ciel mattamente elevati, che fosse quivi quel rogo eminente; il qual dalli ministri fu tessuto velocemente e con ordin dovuto.
L. 11, ott. 27El fu di sotto di strame salvaggio agrestamente fatto e di tronconi d' alberi grossi, e fu il suo spazio maggio; poi fu di frondi di molte ragioni tessuto, e fatto con troppo più saggio avvedimento, e di più condizioni di ghirlande e di fior fu pitturato: e questo suolo assai fu elevato.
L. 11, ott. 28Sopra di questi l' arabe ricchezze e quelle d' oriente con odori mirabil fero delle lor bellezze il terzo suol composto sopra i fiori; quivi lo 'ncenso, il qual giammai vecchiezze non conobbe, vi fu dato agli ardori, e il cennamo più ch' altro durante, e il legno aloè di sopra stante.
L. 11, ott. 29Poi fu la sommità di quella pira d' un drappo in ostro tirio con oro tinto coperto, a veder cosa mira sì per valore e sì per lo lavoro; e, questo fatto, indietro ognun si tira e con tacito aspetto fa dimoro, quelli attendendo che dovean venire col morto corpo a tal cosa finire.
L. 11, ott. 30 rubr.Come li greci re vennero per portare Arcita al rogo, e il pianto che vi fu, e come el fu ornato da Teseo.
L. 11, ott. 30Già ogni parte era piena di pianto, e già l' aula regia mugghiava, tale che di lontan bene altrettanto nelle valli Eco trista risonava; e Palemone, di lugubre manto coperto, nella corte si mostrava con rabbuffata barba e tristo crine e polveroso e aspro sanza fine.
L. 11, ott. 31E sopra 'l corpo misero d' Arcita, non men dolente Emilia piangea, tutta nel viso palido smarrita, e' circunstanti più pianger facea, né dal corpo poteva esser partita, con tutto che Teseo gliele dicea; anzi parea che sommo suo diporto fosse mirare il suo Arcita morto.
L. 11, ott. 32Quando gli Achivi in abito doglioso entraron dentro a l' aula piangente, allora il pianto assai più doloroso incominciò e d' una e d' altra gente, più forte che non fu quando il dubbioso mondo lasciò quell' anima dolente; e rintegrossi più volte e ristette dentro le menti da dolor costrette.
L. 11, ott. 33Né dal tumulto tacque alcuna volta la stupefatta casa, che Egeo a Palemone con parola molta non desse alcun conforto, se 'l poteo, a lui mostrando in quanto male involta fosse la vita d' esto mondo reo e le cose durissime occorrenti miseramente ogni giorno a' viventi.
L. 11, ott. 34E ben che Palemon forse tacesse, e' non l' udia, se non come Atteone si crede che la sua turba intendesse: anzi piangeva in sé, né orazione esser potea che da ciò il traesse, tanta nel core avea compassione al trapassato suo più caro amico, a cui ingiustamente fu nemico.
L. 11, ott. 35Quivi cavalli altissimi, guardati per lui, furon coverti nobilmente, e su vi fur, delle sue armi armati, sopra ciascuno un giovane sergente; quivi l' esuvie de' suoi primi nati furono apparecchiate parimente, quivi faretre e archi con saette, e più sue veste nobili e elette.
L. 11, ott. 36E acciò che Teseo intero segno di nobil sangue desse di costui, tutti vi fé gli ornamenti da regno venir presenti, e adornarne lui; lì le veste purpuree, con ingegno fatte, si videro addosso a colui; lo scettro e 'l pomo e l' eccelsa corona per lui al fuoco del suo rogo dona.
L. 11, ott. 37 rubr.Come Arcita fu portato al rogo.
L. 11, ott. 37Li più nobili Achivi i vasi cari, di mel, di sangue e di latte novello pieni, portaron con lamenti amari sopra le braccia, precedendo quello; né si studiavano i lor passi guari, anzi soavi, con l' aspetto bello cambiato, andavan l' uno a l' altro appresso, come l' ordine dato avea concesso.
L. 11, ott. 38Sopra le spalle, de' Greci i maggiori il feretro levarsi lagrimando, e con esso d' Attene usciron fori, con alto pianto la gente gridando, l' iniqui iddii e li loro errori con alte voci spesso bestemiando; e 'nfino al loco per la pira eletto portaro i duci il miserabil letto.
L. 11, ott. 39La qual già fatta in quel loco trovata e d' ogni legno ricca, sopra d' essa ebbero la lettiera riposata, la qual fu tosto dalla gente spessa che li seguiva tutta intorniata, per ciò veder, con disoluta pressa; e poi li duci indietro si tiraro e gli altri che venivano aspettaro.
L. 11, ott. 40Là venne Palemone, al quale Egeo dolente andava dal suo destro lato, e dal sinistro li venia Teseo, poi d' altri Greci tututto fasciato; Emilia poi appresso si vedeo, cui più debole sesso sconsolato accompagnava, e essa in mano il foco feral recava al doloroso loco.
L. 11, ott. 41 rubr.Come Emilia mise il foco nel rogo d' Arcita, e quel ch' ella disse.
L. 11, ott. 41Nel qual poi ched e' furon pervenuti, Emilia lassa cominciò piangendo: - O dolce Arcita, e' non furon creduti da me tai casi, che a te venendo fosser li visi da dolor premuti, con piagnevoli voci quali intendo; né 'n questa guisa mi credetti entrare nelle camere tue ad abitare.
L. 11, ott. 42Assai è, lassa!, duro a sostenere ciò che io veggo, che le prime tede al rogo tuo mi convenga tenere. O dispietati iddii, sanza merzede, or che è questo che v' è in piacere? Dove è l' amore antico, ov' è la fede che solavate portare a' mondani? Ella n' è gita con li venti vani.
L. 11, ott. 43O caro Arcita, più non posso avanti: prendi le fiamme da me concedute al rogo tuo, e' dolorosi pianti per la tua alma in loco di salute. - E mentre ch' essa ne' dolenti canti stava così, da lei fur conosciute le voci funeral che in usanza erano allor per pelopea mostranza.
L. 11, ott. 44Per che ella, al rogo fatta più vicina, con debil braccio le fiamme vi mise, e per dolore indietro risupina tra le sue donne cadde, in quelle guise che fan talor, poi tagliata è la spina, le bianche rose per lo sol succise; e semiviva fece dubitare di morte a chi la potea rimirare.
L. 11, ott. 45Ma, sanza lungo indugio risentita, si levò in piè e l' anella si tolse, le quai donate già l' aveva Arcita, e con suoi altri ornamenti gli accolse, e 'n su la pira, subita e smarrita, le gittò presta, sì come altri volse, dicendo: - Te': non si convene omai che io m' adorni, poi lasciata m' hai. -
L. 11, ott. 46E quinci, rotti li tristi lamenti, muta ricadde, e il chiaro colore fuggì del viso, e' belli occhi lucenti perdér la luce, sì ne giro al core subitamente tutti i sentimenti per lui soccorrer, che già dal dolore soverchio con fierezza era assalito, laonde ogni valor l' era fuggito.
L. 11, ott. 47 rubr.Come Palemone, tondutasi la barba, la gittò sopra 'l rogo, e quel che disse.
L. 11, ott. 47Da l' altra parte, Palemon s' avea la barba e' crin tutti quanti tagliati e posti sopra Arcita, e sì dicea con sommo pianto: - O iddii spietati, con altro patto certo mi credea che questi crini vi fosser litati; ma poi nell' are, iddii, non li volete, nelle dolenti esequie li prendete. -
L. 11, ott. 48E poi ch' egli ebbe la barba e' capelli così donati, a sé fece venire militari armi con altri gioielli, e tutti su li vi fece salire; e altre cose assai ancor con quelli care li fur, piangendo, d' offerire e di far ricca la pira dolente, dove giacea il suo caro parente.
L. 11, ott. 49 rubr.Quale ordine fosse servato per li circunstanti, ardendo la pira.
L. 11, ott. 49Già istrepivan per lo messo foco le prime frondi, e la fiamma pigliava con le sue lingue parte in ogni loco, e ognora più ricca diventava; e certo in lungo tempo né in poco più ricca pira non si ricordava, che quella fu quivi fatta ad Arcita per lo suppremo onor della sua vita.
L. 11, ott. 50Le gemme crepitavano, e l' argento, che ne' gran vasi e negli ornamenti era, si fondea tutto, e ogni vestimento sudava d' oro nella fiamma fiera; e ciascun legno d' assirio unguento si facea grasso e con maggior lumiera; e' meli ardenti stridivano in esse, con l' altre cose in quelle allora messe.
L. 11, ott. 51E le cratere de' vini spumanti e dello scuro sangue, e 'l grazioso candido latte, tututti fumanti sentieno ancora il fuoco poderoso; e' maggior Greci intorno tutti quanti stavano a Palemon per lo noioso rogo dagli occhi torli, e 'l simigliante stavan le donne ad Emilia davante.
L. 11, ott. 52Allora Egeo fé far di cavalieri ischiere sette, di diece per una, armati tutti sopra gran destrieri; e ciascheduno indosso aveva alcuna sua sopravesta, quale era mestieri di vestirlasi a quella festa bruna; delle quai sette de' Greci maggiori furono allora li conducitori.
L. 11, ott. 53E a sinistra man, con tondo giro, tre volte il rogo tutto intorniaro; e la polvere alzata il salir diro delle fiamme piegava, e risonaro le lance che alle lance si feriro per lo sovente intorniarsi amaro, che quivi si facea intorno intorno, sopra 'l piè presti e sanza alcun sogiorno.
L. 11, ott. 54Dieder quelle arme orribile fragore quattro fiate, e altrettante pianto le donne dier con misero dolore e con le palme ripercosse alquanto; poi, dietro ciascheduno al suo rettore, come l' ordine usato dava intanto, sul destro braccio si voltaron tutti, con nuovo giro e con dolore e lutti.
L. 11, ott. 55E ciò che essi sopra l' arme aveno forse portato lì per covertura, tututti quanti insieme si traeno, quelle gittando nella calda arsura; e i cavalli ancora discoprieno di lor coverte e di lor armadura; e così il quarto giro fu fornito per quella gente, come avete udito.
L. 11, ott. 56E oltre a questo, chi vi gittò freno, chi lancia, chi iscudo e qual balteo; chi elmo e qual barbuta, e altri pieno di saette turcasso; e chi vi dieo archi e chi spade, come me' poteno; e qual toraca ancor metter vi feo, chi carri da triunfi e chi cavalli, tanto lor piacque a tutti onor di falli.
L. 11, ott. 57 rubr.Come, consumato il rogo d' Arcita, le ceneri sue furono ricolte da Egeo.
L. 11, ott. 57Il giorno inverso della notte andava, e Vulcan lasso in ceneri recate le cose avea che ciascun li donava; per che con acque per ciò ordinate da' Greci il rogo già si soporava, e fine era alle cose, che lasciate appena fur, l' ombre sopravenute: tanto le fecer d' ogni onor compiute!
L. 11, ott. 58Egeo vi ritornò il dì seguente, e con pietosa man tutte raccolse le ceneri, da capo prima spente con molto vino, e di terra le tolse, e in una urna d' oro umilemente le mise, e quella in cari drappi involse e nel tempio di Marte fé guardare, fin ch' altro luogo le potesse dare.
L. 11, ott. 59 rubr.Come de' giuochi fatti furono i vincitori guiderdonati.
L. 11, ott. 59E acciò che l' onor fosse maggiore, molti giuochi vi furono ordinati, ne' quali i re mostrar molto valore; ma intra gli altri nel corso onorati i primi furono e Ida e Castore, sì come molto in ciò esercitati; costoro adunque di vertute equali, di lor vittoria pari ebber segnali,
L. 11, ott. 60perciò che fu a ciaschedun donato per premio del valore un dono caro: ciò fu per uno un caval covertato di nobili coverte, u' si mostraro da uom, d' ingegno altissimo dotato, di Pallade gli onor, quando pigliaro nome novello i Cicropi, e ancora v' era il palude ove pria fé dimora.
L. 11, ott. 61Vedeasi ancor le fistule sonare, le quali ella trovò primieramente; poi con Aragne folle disputare, e di Vulcan vi si vedea vincente; e altre istorie assai, le quai contare non è ben convenevol al presente. Adunque l' Oebalio e 'l Pisano furo onorati di don sì sovrano.
L. 11, ott. 62Ma poi nell' unta palestra Teseo per virtù propria meritò l' onore, però ch' al tempo suo me' ch' altro il feo, e ben lo seppe Elena; e per maggiore gloria li fece recare Egeo un bello scudo e di molto valore, nel qual vedeasi Marsia sonando, sé con Appollo nel sonar provando.
L. 11, ott. 63Vedeasi appresso superar Fitone, e quindi sotto l' ombre graziose, sopra Parnaso, presso a l' Elicone fonte seder con le nove amorose Muse e cantar maestrevol canzone; e oltre a queste v' eran molte cose, tutte in onor di Febo, con molto oro, belle a vedere e care per lavoro.
L. 11, ott. 64Poi al cesto giucando assai più degno Polluce si mostrò, che avanzato aveva Ameto, pien d' alto disdegno, da Febo male in ogni cosa atato; onde per la gran forza e per lo 'ngegno il quale aveva ne' giuochi operato, li fé venire Egeo due nappi grandi, per oro cari e per arte ammirandi.
L. 11, ott. 65In essi con non poca sottigliezza era scolpito Alcide nella cuna ancor giacente prender con fierezza le serpi a lui mandate e ad ognuna la morte dare; e quindi la fortezza ch' egli usò nella nemea selva bruna contra 'l fiero leone, e quindi appresso l' altre fatiche sue v' eran con esso.
L. 11, ott. 66Ebbevi ancora Evandro molto onore con Sarpedone al desco allor giucando, a cui per merto del suo gran valore uno elmo venne, d' Egeo al comando, e forte e bello e 'n forma di pastore su vi sedeva Pan iddio sonando, in quella vera forma che gli danno gli Arcadi allor che figurar lo fanno.
L. 11, ott. 67Molti altri ancor che con costor giucaro, li quai sarebbe lungo il raccontare, ne' fatti giuochi assai ben si portaro, alli quai tutti fece Egeo donare solenni doni, onde si contentaro lieti non poco di tale operare, di lor vertù sovente contendendo, l' un dell' altro i difetti riprendendo.
L. 11, ott. 68Né ne' giuochi olimpiaci giammai d' ulivo fu ghirlanda conceduta, over ne' fizii delli pennei mai, o d' appio ne' nemei ricevuta, o di pin negli stimii, ch' ad assai fosse al ricevitor così dovuta, come 'n quel giuoco detto cereale di quercia l' ebbe Agamenon aguale.
L. 11, ott. 69 rubr.Come Palemone fece fare un tempio, nel quale elli fece istoriare tutti i casi d' Arcita, e mettervi le ceneri sue.
L. 11, ott. 69Poi fé subitamente Palemone,dove il rogo d' Arcita era stato, edificar con mira operazione un tempio grande, bello e elevato, il qual sacrò alla santa Giunone; e in quel volle che 'l cener guardato fosse d' Arcita, in etterna memoria del suo valore e della sua vittoria.
L. 11, ott. 70Era il tempio grande, come è detto, e per più cose molto da lodare, nel quale el fece per propio diletto tutti i casi d' Arcita istoriare e adornar di lavorio perfetto da tal che ottimamente il seppe fare: il quale i Greci rimirando spesso, con giusto cuor pietà avevan d' esso.
L. 11, ott. 71El si vedeva lì, nel primo canto, Teseo di Scizia tornar vincitore, e delle donne achive il tristo pianto e le lor voci e lor greve dolore quasi sentia chi le mirava alquanto, sì fu sovrano e buon l' operatore; e ciascheduna v' era conosciuta da chi l' avesse altra volta veduta.
L. 11, ott. 72Vedeasi appresso il sanguinoso Ismeno, e il superbo Asopo, e ciascun lito di corpi morti quasi tutto pieno; e similmente si vedeva il sito di Tebe qual el fu né più né meno, e' monti ancor donde era circuito, nel quale ancora con superba fronte vi si vedea regnare il gran Creonte.
L. 11, ott. 73Né molto poi, li gran duci armati, Teseo con Creonte e la lor gente in gran battaglia insieme mescolati vi si vedeano, e quale era valente e qual codardo assai bene avvisati eran da chi mirava fisamente; e 'l campo v' era vinto da Teseo, con quanto lì per lui poscia si feo.
L. 11, ott. 74E per li monti si vedean fuggire le dolorose madri co' figliuoli; pareanvisi le voci ancor sentire de' lor dolenti e dispietati duoli; e vedeansi le donne achive gire nell' alte torri, con diversi stuoli, e ardere ogni cosa, poscia ch' esse ebber le corpor nelle fiamme messe,
L. 11, ott. 75e quella tutta nel fuoco avampare; poi v' era il campo tutto ricercato da chi dovea cotale uficio fare, nel qual tra gli abbattuti era trovato Arcita tutto sanguinoso stare, e Palemone ancor presso pigliato, e a Teseo menati per prigioni, perché parevan nobili baroni.
L. 11, ott. 76Poi ciascheduno tristo e doloroso al carro avanti a Teseo triunfante vi si vedeva e in atto pensoso; e rimirando un poco più avante, in prigion si vedeano, e l' amoroso giardino ancora allato a loro stante, tutto vestito pel tempo novello di nuove frondi, grazioso e bello.
L. 11, ott. 77Nel qual la lieta e bella giovinetta gir si vedeva in su li nuovi albori, e lietamente cantando soletta frondi cogliendo e bellissimi fiori, e a sé far leggiadra ghirlandetta; e quivi a finestrella gli amadori erano in guisa che chi li mirava diceva che ciascun di loro amava.
L. 11, ott. 78Vedeansi poi i lor grevi sospiri e' rotti sonni e l' amorosa vita, e quali e chenti fosser lor martiri; e quivi appresso ancora come Arcita, da Peritoo con sommi disiri disprigionato, faceva partita; e vedevasi in Corinto arrivare, quindi in Mecena e poi in Egina andare.
L. 11, ott. 79Poscia d' Egina ad Attene tornato, e dipartito dallo re Pelleo, e il gran tempio d' Appollo lasciato, vi si vedeva servire a Teseo; e mentre stette in così fatto stato, ciò ch' el fé v' era, e sì come Penteo dir si faceva, e sì come soletto se n' andava tal volta nel boschetto,
L. 11, ott. 80dove il chiaro rivo il dilettava e 'l venticel che le frondi battea e ciascheduno uccel che lì cantava: e lui dormente tutto si vedea; e Panfil v' era ancor come ascoltava infra le frasche ciò che el dicea, e riportava ciò a Palemone, signor di lui, ch' ancora era 'n prigione.
L. 11, ott. 81Di Panfil poscia v' era la malizia che elli usò, quando fece Alimeto quivi venire, e simil la letizia di Palemon, quando si vedea lieto fuor di prigion, dov' elli avea dovizia vie più che d' allegrezza, d' amar fleto; e lui armato vedevasi andare nel tempo oscuro ad Arcita trovare.
L. 11, ott. 82Poscia vedeasi nel boschetto sceso, che attendeva Arcita ancor dormente; poi come, destro, era fra lor conteso dell' amor della donna pianamente; poscia ciascuno, di furore acceso, nell' arme si vedeva parimente combatter fieri con aspra battaglia, e come ognun di vincer si travaglia;
L. 11, ott. 83dove Emilia si vedea venuta, che per lo bosco con Teseo cacciando s' andava, né alcuno avea sentuta questa battaglia; e vedeavisi quando quivi Teseo con parole partuta l' avea, e come con lor ragionando li riconobbe, e il dato partito preso da loro, e poi bene ubidito.
L. 11, ott. 84Vedeanvisi le feste de' Dircei, che e' facevan costretti d' amore; e quivi ancora li duci lernei, venir ciascun con sommissimo onore, vi si vedevano, acciò che colei sola ristesse dell' uno amadore; e poi le 'nsegne a' suoi da ciascun date, e come armati in esse fur mostrate.
L. 11, ott. 85Eranvi i templi d' incensi fumanti, e il pigliar di lor prima milizia: poi nel teatro insieme tutti quanti, e di diversi strumenti letizia vi si vedea, e tutti i lor sembianti, e come la battaglia lor s' inizia; e ciò che poi vi si fé quel giorno tututto v' era di lavoro adorno.
L. 11, ott. 86E la gran festa ancor vi si parea, e' sacrifici e 'l chiamato Imeneo ch' allor si fé, quando Arcita prendea pria per isposa davanti a Teseo Emilia bella; e poi vi si vedea il duol dolente ch' ogni Greco feo nella partita della trista vita, che fé il valoroso e buono Arcita.
L. 11, ott. 87E il feretro suo di sopra a' regi con alti pianti si vedea portato, e similmente da tutti gli egregi baron che v' eran da ciaschedun lato; e 'l lamento de' popoli e collegi che 'nfino in ciel parea fosse ascoltato; poi sopra il rogo si vedeva ardente il corpo ornato molto riccamente.
L. 11, ott. 88Sola la sua caduta da cavallo gli uscì di mente né vi fu segnata: credo che' fati voller senza fallo, acciò che mai non fosse ricordata; ma non poté la gente amenticallo, sì nel cor era di ciascuno entrata con greve doglia, sì era in amore di ciascheduno il giovane amadore.
L. 11, ott. 89Era 'n tal guisa tututto dipinto il nobil tempio, dentro al quale el pose di sacerdoti numero distinto, li quai le trierterie dolorose, il dì che Arcita fu da' fati estinto, dovesser celebrar maravigliose; e riccamente il tempio fé dotare e d' ornamenti nobili adornare.
L. 11, ott. 90E 'n mezzo d' esso fece prestamente una colonna di marmo pulita drizzar, sopra la qual d' oro lucente una urna fu discretamente sita, dentro la qual la cenere tepente fece servar del suo amico Arcita; e adornolla di sequenti versi, in guisa tal che ben legger potersi:
L. 11, ott. 91 rubr.L' epitafio d' Arcita.
L. 11, ott. 91«Io servo dentro a me le reverende del buono Arcita ceneri, per cui debito sacrificio qui si rende; e chiunque ama, per esemplo lui pigli, s' amor di soverchio l' accende; perciò che dicer può: "Qual se', io fui; e per Emilia usando il mio valore mori': dunque ti guarda da amore".».
L. 11, explicitQui finisce il libro undecimo del Teseida.
L. 12, son. iniz. rubr.Sonetto nel quale si contiene l' argomento particulare del libro duodecimo.
L. 12, son. iniz.In questo duodecimo libello disegna primamente l' autore come e perché si lasciasse il dolore da tutti avuto del morto donzello; quindi l' aspetto grazioso e bello d' Emilia disegna, e con onore la fa sposare al tebano amadore, chiamato prima Imineo nel sacello. Poi le sue nozze magnifiche pone, e, il partir de' regi dimostrato, debito fine fa al suo sermone, avendo prima al suo libro parlato quasi per modo di conclusione, dicendo sé nel porto disiato esser con venti diversi arrivato.
L. 12, ott. 1 rubr.Incomincia il libro duodecimo e ultimo del Teseida. E prima qual fosse la vita d' Emilia, mentre le predette cose si facevano.
L. 12, ott. 1Quanto fosse crudele e aspra vita quella d' Emilia, mentre queste cose lì si facevano in onor d' Arcita, coloro il pensin che sì dolorose cose sentiron mai; essa, vestita di nero, con le guancie lagrimose, sanza prender volere alcun conforto, solo piangeva il suo Arcita morto.
L. 12, ott. 2E del bel viso il vermiglio colore s' era fuggito, e era divenuta palida e magra, e il chiaro splendore delle sue luci non avea paruta; e sì poteva in lei il fier dolore, che stata appena saria conosciuta, per sol conforto notte e dì chiamando Arcita suo, piangendo e lagrimando.
L. 12, ott. 3 rubr.Come Teseo, fatta una lunga diceria, comandò che Palemone sposasse Emilia e che i neri vestimenti si lasciassero.
L. 12, ott. 3Ma poi che furon più giorni passati dopo lo sventurato avvenimento, con lui essendo li Greci adunati, parve di general consentimento che' tristi pianti omai fosser lasciati, e il voler d' Arcita a compimento fosse mandato: cioè che l' amata Emilia fosse a Palemon sposata.
L. 12, ott. 4Per che Teseo, chiamato Palemone, con molti di quei re accompagnato, non sappiendo esso però la cagione, di ner vestito e così tribolato com' era, lui seguì in quella stagione; e esso con quanti era se n' è entrato dove con molte donne si sedea Emilia, la quale ancor piangea.
L. 12, ott. 5E quivi, poi ch' ogni uom tacitamente si fu posto a seder, Teseo stette per lungo spazio sanza dir niente; ma già vedendo di tututti erette l' orecchie pure a lui umilemente, dentro tenendo le lagrime strette ch' agli occhi per pietà volean venire, così parlando incominciò a dire:
L. 12, ott. 6- Così come alcun che mai non visse non morì mai, così si pò vedere ch' alcun non visse mai che non morisse; e noi che ora viviam, quando piacere sarà di quel che 'l mondo circunscrisse, perciò morremo: adunque sostenere il piacer dell' iddii lieti dobbiamo, poi ch' ad esso resister non possiamo.
L. 12, ott. 7Le quercie, ch' han sì lungo nutrimento e tanta vita quanta noi vedemo, hanno pure alcun tempo finimento; le dure pietre ancor, che noi calchemo, per accidenti varii mancamento ancora avere, aperto le sapemo; e i fiumi perenni esser seccati veggiamo e altri nuovi esserne nati.
L. 12, ott. 8Degli uomini non cal di dir, ch' assai è manifesto a quel che la natura li tira e ha tirati sempre mai de' due termini a l' uno: o ad oscura vecchiezza piena d' infiniti guai, e questa poi da morte più sicura è terminata; overo a morte, essendo giovani ancora e più lieti vivendo.
L. 12, ott. 9E certo io credo ch' allora migliore la morte sia quando di viver giova; il modo e dove l' uom che ha valore nol de' curar, ché dovunque el si trova, fama li serba il suo debito onore; e 'l corpo che riman, nulla altra prova fa in un loco che in altro morto, né l' alma n' ha più pena e men diporto.
L. 12, ott. 10Del modo ancora dico il simigliante, ché, come che alcuno anneghi in mare, alcun si muoia in sul suo letto stante, alcun per lo suo sangue riversare nelle battaglie, o in qual vuoi di quante maniere om pò morir, pur arrivare ad Acheronte a ciaschedun convene, muoia come si vuole o male o bene.
L. 12, ott. 11E però far della necessitate virtù, quando bisogna, è sapienza, e il contraro è chiara vanitate, e più in quel che n' ha esperienza che 'n quel che mai non l' ha ancor provate; e certo questa mia vera sentenza può luogo aver tra noi, i qua' dolenti viviam di cose sempre contingenti;
L. 12, ott. 12anzi più tosto necessarie in tutto: cioè d' alcun la morte il cui valore fu tanto e tal, che grazioso frutto di fama s' ha lasciato dietro al fiore; il che se ben pensassomo, al postutto lasciar dovremmo il misero dolore, e intender a vita valorosa che ci acquistasse fama gloriosa.
L. 12, ott. 13Vero è che il voler dentro serrare in cota' punti la tristizia e 'l pianto, appena par che si possa ben fare, onde conceder pur si dee alquanto; ma dopo quel, si dee poscia ristare, ché il voler soprabondare in tanto può nuocere a chi 'l fa, e è follia, né si rià quel ch' uom però disia.
L. 12, ott. 14E certo s' el fu giammai lagrimato in Grecia nessuno uom valoroso, sì è debitamente Arcita stato da molti re e popol copioso; e con onor magnifico onorato è stato ancora al suo rogo pomposo, e ben solvuto gli è ogni dovere che morto corpo dee potere avere.
L. 12, ott. 15E è ancor, sì come noi veggiamo, durato il pianto più giorni in Attene; e ciascheduno ancora abito gramo portato n' ha quale a ciò si convene, e noi massimamente che qui siamo, da cui agli altri prender s' apartiene essemplo in ciascuno atto e seguitare massimamente nel bene operare.
L. 12, ott. 16Dunque da poi parimente ci more ciò che ci nasce, e sia pur che si voglia, e è fatto per noi il debito onore a colui per lo quale ora avem doglia, estimo con ragion che sia il migliore se questo abito oscur da noi si spoglia, e lascisi il doler, ch' è feminile atto più tosto che non è virile.
L. 12, ott. 17Se io credessi che raver per pianti Arcita si potesse, io dicerei che dovessomo pianger tutti quanti, e caramente ve ne pregherei; ma non varria: però da mo' in avanti ciascun festeggi, e 'l piangere e l' omei si lasci star, se piacer mi volete, ché 'n questo tanto pur far lo dovete.
L. 12, ott. 18E oltre a ciò, quel ch' esso ultimamente pregò, si pensi mettere ad effetto; però che Foroneo, che primamente ne donò leggi, disse che il detto estremo di ciascun solennemente doveva con ragione esser perfetto; e el pregò ch' Emilia fosse data a Palemon, che l' avea tanto amata.
L. 12, ott. 19Però diposte queste nere veste e il pianto lasciato e il dolore, comincerén le liete e chiare feste; e prima che si parta alcun signore, de' due già detti nozze manifeste celebrerem con debito splendore. Disponetevi adunque, io ve ne priego, a quel ch' io vo' facciate sanza niego. -
L. 12, ott. 20 rubr.Come Palemone rispose alle parole di Teseo.
L. 12, ott. 20Poscia che Teseo tacque, confermate fur le parole sue per molti allora e con più detti ancor fortificate; ma Palemon pur tacito dimora, e fortemente gli sarebber grate se publica vergogna, che l' acora, non contra stesse; e dopo molto stare disse così, veggendosi aspettare:
L. 12, ott. 21- Caro signor, da me più degnamente che la mia vita amato, manifesto conosco vero il vostro dir presente, e possibile ancor con tutto questo (ben che sia assai rado contingente) poter dal cor cacciar caso molesto con allegrezza; e però questo fia quando a Dio piacerà, che n' ha balia.
L. 12, ott. 22Ma in quanto voi dite che ad effetto volete vada quel che fu lasciato da Arcita nel suo ultimo detto, così vi dico: che se postergato fosse il dover da me e il diletto preposto, già ve n' averei pregato, però ch' al mondo non fu cosa mai che io amassi cotanto ad assai.
L. 12, ott. 23Ma questo cessi Iddio, che, se m' è tolta felicità, che in me almen ragione più che 'l voler non possa alcuna volta; e ben che in me tra lor sia gran quistione, che 'l dover vinca ho isperanza molta; il che s' avien, per lieta possessione il guarderò, mentre l' iddii vorranno, e sosterrò leggiere ogn' altro danno.
L. 12, ott. 24Io son di tante infamie solo erede de' miei primi rimaso, che s' io posso, questa, che assai grande si vede, io non mi vo' con l' altre porre adosso; la donna è bella, e credo ch' el si crede che di qui infin nel reame molosso simile a lei non sia; ben troverete a cui, vie me' che a me, dar la potrete.
L. 12, ott. 25E sì come l' iddii testimonianza, che sol degli uomin conoscono i cuori, render porien sanza alcuna fallanza, e' non fur mai tra due ferventi amori, o per istretto sangue o per usanza, ched e' non fosser per certo minori che quel che io ho portato ad Arcita, poscia ch' io nacqui in questa trista vita.
L. 12, ott. 26E se alcun forse opporre volesse a questa verità, ver me dicendo se fosse ver ch' io amato l' avesse non l' avrei incitato combattendo, risponderei che quella mi movesse a tal follia, ch' è sempre ita accendendo de' nostri primi i cuori, ond' io saraggio sempre mai tristo ch' io ci viveraggio.
L. 12, ott. 27Per che se io Emilia pigliassi, altro non fora che questo negare; né per segno maggior, ch' io disiassi la morte sua potrei altrui mostrare; la qual quanto mi doglia, credo sassi per tutti voi. Non voglio adunque fare cosa che il contrario se ne vegga, né di ciò priego ch' alcun mi richegga.
L. 12, ott. 28Se Arcita morendo questo disse, volle ver me usar sua cortesia; né perciò legge a me in ciò prescrisse che, s' io non la volessi, fosse mia; ben mi cred' io che s' io vi consentisse, per cortesia renderei villania, e però intendo che mentre ad altrui che a me non si dà, sia pur di lui. -
L. 12, ott. 29 rubr.Come Teseo replicando disse a Palemone.
L. 12, ott. 29E questo detto, gli occhi lagrimosi bassò in terra; al qual disse Teseo: - I tristi pianti e' sospiri angosciosi già molto sconfortati da Egeo, tutti ci fanno certi de' pietosi affetti li qua' tu verso Penteo portasti; né potresti, per dolerti mentre vivessi, noi farne più certi.
L. 12, ott. 30Né fia, faccendo ciò che dicevamo, infamia alcuna, né lieto mostrarsi de l' altrui morte, poi che noi vogliamo; né sarà da ragion questo allungarsi, però che 'l simil tutto dì veggiamo dell' un fratel la sposa a l' altro darsi, se morte quel previen; né ch' el contento del morto sia, è però argomento.
L. 12, ott. 31Qui si può dir che tutta Grecia sia nelli suoi regi, davanti alli quali tal matrimonio per mia voglia fia mandato a compimento; essi son tali, che se ciò si dicesse villania di te in alcun luogo o altri mali, sì come consapevoli, saranno per te per tutto, e sì ti scuseranno.
L. 12, ott. 32Pon dunque giù lo stolto imaginare e segui il mio voler, che so ti piace; e vogli innanzi, mentre vivi, stare in lieta vita e in contenta pace, che te con tristo pianto consumare, il quale innanzi tempo l' uom disface; così mi piace e voglio che a te piaccia,parola di ciò incontro si faccia. -
L. 12, ott. 33 rubr.Quel che Palemone, da molti a ciò confortato, consentendo dicesse.
L. 12, ott. 33A questo fu da molti Palemone, il qual taceva, molto confortato, ora uno ora altro usando suo sermone chente usar suolsi a così fatto piato, assegnando una e ora altra ragione che da lui non doveva esser negato; laonde Palemone, il viso alzando al ciel, s' udì in tal guisa parlando:
L. 12, ott. 34- O Giove pio, che con ragion governi la terra e 'l cielo e doni parimente a ciascheduna cosa ordini etterni, volgi gli occhi ver me e sii presente e con giustizia il mio voler discerni, il quale ora si fa consenziente a quel del mio signor: nel che s' io sono peccator, priego che mi dei perdono.
L. 12, ott. 35E tu, sacra Diana e Citerea, delli cui cori il numero minore far mi convien, ben che io non volea, e quindi appresso dell' altra maggiore, siate presenti, e ciascun' altra dea che ha ne' matrimonii valore; e testimonio etterno renderete di ciò ch' io ho nel cuor, ché 'l conoscete.
L. 12, ott. 36E tu, o ombra pietosa d' Arcita, dovunque se', perdona s' io offendo,odio por per ciò alla mia vita, se la cosa la qual tu già morendo dicesti che volevi, fia compita per me, del gran Teseo ancor seguendo più il piacer che 'l mio contentamento: che or foss' io in una ora teco spento!
L. 12, ott. 37E voi, o alti regi, i qua' presenti sete colà ov' io debbo seguire ora del mio signore i mandamenti, testimon siate: più per ubidire che per seguire i miei disii ferventi, fo quel ch' io fo, e disposto a servire te, o Teseo: comanda, ch' io son presto a ogni cosa fare e anche questo. -
L. 12, ott. 38 rubr.Come Teseo parlò verso Emilia.
L. 12, ott. 38Allor Teseo ad Emilia voltato, la quale intra le donne sospirava dolente molto, col capo chinato, e le parole tututte ascoltava con animo da nulla ancor piegato, tanto più duol che altro l' ansiava, a cui el disse: - Emilia, hai tu udito? Quel che io vo' farai che sia fornito. -
L. 12, ott. 39 rubr.Quello che Emilia dicesse a Teseo.
L. 12, ott. 39A questa voce tutta lagrimosa levò Emilia la testa, dicendo: - Caro signore, el non è nulla cosa che io non faccia, te voler sentendo; ma per l' amor che tu alla pietosa ombra d' Arcita porti, ancor sedendo m' ascolta un poco, e poi, se tu vorrai, io farò ciò che comandato m' hai.
L. 12, ott. 40Sì come tu hai potuto udir dire, tutte le donne scitiche botate furo a Diana, allor che in disire ebber primieramente libertate; e tu sai ben quel ch' è contravenire o non servare alla sua deitate le cose a lei promesse, che vendetta subita fa, qual sa quei che l' aspetta.
L. 12, ott. 41E io di quelle fui; contra la quale, perciò che 'l boto non volea servare, ha ella usato il già veduto male, prima contra d' Acate a cui donare tu mi dovevi, e l' altro, a quello equale, contra d' Arcita, come ancora pare a l' abito di noi, che or ne siamo di ner vestiti e ancor ne piagniamo.
L. 12, ott. 42Se tuo nemico fosse Palemone come fu già, volentier lo farei; ma, non vedendo agual nulla cagione per che odiar lo debbi, crederei che fosse il me', sanza più provazione fare oramai del poter dell' iddei, che mi lasciassi a Diana servire e ne' suoi templi vivere e morire. -
L. 12, ott. 43 rubr.Come Teseo rispose ad Emilia.
L. 12, ott. 43A cui Teseo: - Questo dire è niente; ché se Diana ne fosse turbata, sopra di te verria l' ira dolente, non sopra quelli alli quai se' donata; e perciò fa che lieta immantanente di cuor ti vegga e d' abito tornata; la forma tua non è atta a Diana servir ne' templi né 'n selva montana. -
L. 12, ott. 44 rubr.Come Teseo e ciascuno altro cambiò abito, e comandossi che per tutta Attene si facesse festa.
L. 12, ott. 44Detto così, con gli altri gran baroni della camera usciro e ritornaro, come li piacque, alle proprie magioni; e 'l dì vegnente tututti cangiaro abito, vestimento e condizioni, e quel che ciascuno era dimostraro; e Palemone il simigliante feo: e così ritornarono a Teseo.
L. 12, ott. 45Teseo similemente avea cambiato con tutti i suoi i vestir dolorosi, e in sembiante lieto era tornato, festa faccendo; e già suoni amorosi e canti e allegrezza in ogni lato d' Attene si sentia, tutti gioiosi del lor signor ch' avea mutata vesta per la futura magnifica festa.
L. 12, ott. 46E Ipolita il simil fatto avea e l' altre donne e anche Emilia bella a cui a forza ancora ciò piacea, ma non poteva più, e però ella faceva quel ch' allor Teseo volea; ma dopo pochi dì la damigella nello stato primaio fu ritornata, tanto fu dalle donne confortata.
L. 12, ott. 47 rubr.Come, stabilito il dì che Emilia si sposasse e venuto, i re con Teseo e con Palemone andarono al tempio di Venere, dove era ordinato di fare le sposalizie.
L. 12, ott. 47Diliberò Teseo con li suoi quando le sposalizie si dovesson fare, e per Attene mandò comandando che ciascun s' apprestasse a festeggiare. Indi venendo il giorno appressimando, ciascun si cominciò ad apprestare, secondo il suo stato, a fare onore alla giovane Emilia di buon core.
L. 12, ott. 48E già Arcita era uscito di mente a ciaschedun, né più si ricordava; ognuno a festa intendea solamente e delle nozze lo giorno aspettava. Il qual venuto bello e rilucente ad allegrezza ciascun confortava; per che Teseo fece il tempio aprire di Venere per quivi voler gire.
L. 12, ott. 49E in quel simigliantemente feo li sacerdoti andar, li qua' portaro la imagine bella d' Imeneo; e el con un vestir nobile e caro, di dietro seguitando il vecchio Egeo con tutti gli altri re a quel n' andaro; e Palemon con loro, allegro tanto che mai non si potrebbe mostrar quanto.
L. 12, ott. 50Chi poria mai con soluto parlare l' oro e le pietre e li cari ornamenti, che' greci re aveano, dimostrare? Egli eran tanti e sì belli e lucenti, che il volerlo al presente narrare nol crederebbono il più delle genti; i quali al tempio giunti di gioia pieno, aspettaron le donne che venieno.
L. 12, ott. 51 rubr.Come Ipolita con altre donne e con Emilia andarono al tempio.
L. 12, ott. 51Ipolita da molte accompagnata quella mattina con solenne cura aveano Emilia nobilmente ornata, avvegnadio che sì di sua natura d' ogni bellezza fosse effigiata, che poco agiugner vi potea cultura; e 'n cotal guisa del palagio usciro, e lente inver lo tempio se ne giro.
L. 12, ott. 52 rubr.Disegna l' autore la forma e la bellezza di Emilia, e prima invoca l' aiuto delle Muse.
L. 12, ott. 52O sante donne, le quali Anfione ataste a chiuder Tebe, or fa mestiere che da voi sia atato il mio sermone, acciò ch' io possa dimostrar le vere bellezze che mostrò 'n quella stagione Emilia a cui le piacque di vedere: voi le vedeste, e so che le sapete; adunque qui la mia penna reggete.
L. 12, ott. 53Era la giovinetta di persona grande e ischietta convenevolmente, e, se il ver l' antichità ragiona, ella era candidissima e piacente; e i suoi crin sotto ad una corona lunghi e assai, e d' oro veramente si sarian detti, e 'l suo aspetto umile, e il suo moto onesto e signorile.
L. 12, ott. 54Dico che i suoi crini parean d' oro, non con treccia ristretti, ma soluti, e pettinati sì, che infra loro non n' era un torto, e cadean sostenuti sopra li candidi omeri, né foro prima né poi sì be' giammai veduti; né altro sopra quelli ella portava ch' una corona ch' assai si stimava.
L. 12, ott. 55La fronte sua era ampia e spaziosa, e bianca e piana e molto dilicata, sotto la quale in volta tortuosa, quasi di mezzo cerchio terminata, eran due ciglia, più che altra cosa nerissime e sottil, tra le qua' lata bianchezza si vedea, lor dividendo, né 'l debito passavan, sé stendendo.
L. 12, ott. 56Di sotto a queste eran gli occhi lucenti e più che stella scintillanti assai; egli eran gravi e lunghi e ben sedenti, e brun quant' altri che ne fosser mai; e oltre a questo egli eran sì potenti d' ascosa forza, che alcun giammai non gli mirò né fu da lor mirato, ch' amore in sé non sentisse svegliato.
L. 12, ott. 57Io ritraggo di lor poveramente, dico a rispetto della lor bellezza, e lasciogli a chiunque d' amor sente che immaginando vegga lor chiarezza; ma sotto ad essi non troppo eminente né poco ancora e di bella lunghezza il naso si vedea affilatetto qual si voleva a l' angelico aspetto.
L. 12, ott. 58Le guance sue non eran tumorosemagre fuor di debita misura, anzi eran dilicate e graziose, bianche e vermiglie, non d' altra mistura che intra' gigli le vermiglie rose; e questa non dipinta, ma natura gliel' avea data, il cui color mostrava perciò che 'n ciò più non le bisognava.
L. 12, ott. 59Ella aveva la bocca piccioletta, tutta ridente e bella da basciare, e era più che grana vermiglietta con le labbra sottili, e nel parlare a chi l' udia parea una angioletta; e' denti suoi si potean somigliare a bianche perle, spessi e ordinati e piccolini, ben proporzionati.
L. 12, ott. 60E oltre a questo, il mento piccolino e tondo quale al viso si chiedea; nel mezzo ad esso aveva un forellino che più vezzosa assai ne la facea; e era vermiglietto un pocolino, di che assai più bella ne parea; quinci la gola candida e cerchiata non di soperchio e bella e dilicata.
L. 12, ott. 61Pieno era il collo e lungo e ben sedente sovra gli omeri candidi e ritondi, non sottil troppo e piano e ben possente a sostenere gli abbracciar giocondi; e 'l petto poi un pochetto eminente de' pomi vaghi per mostranza tondi, che per durezza avean combattimento, sempre pontando in fuor, col vestimento.
L. 12, ott. 62Eran le braccia sue grosse e distese, lunghe le mani, e le dita sottili, articulate bene a tutte prese, ancor d' anella vote, signorili; e, brievemente, in tutto quel paese altra non fu che cotanto gentili l' avesse come lei, ch' era in cintura sotile e schietta con degna misura.
L. 12, ott. 63Nell' anche grossa e tutta ben formata, e il piè piccolin; qual poi si fosse la parte agli occhi del corpo celata, colui sel seppe poi cui ella cosse avanti con amor lunga fiata; imagino io ch' a dirlo le mie posse non basterieno avendol' io veduta: tal d' ogni ben doveva esser compiuta!
L. 12, ott. 64Né era ancor, dopo 'l suo nascimento, tre volte cinque Appollo ritornato nel loco donde allor fé partimento, ben che da molti forse giudicato ne saria altro, prendendo argomento dalla sua forma che oltre l' usato in piccol tempo era cresciuta assai, forse più ch' altra ne crescesse mai.
L. 12, ott. 65Quando costei apparve primamente ornata, come noi creder dovemo che ella fosse allora, riccamente, d' un drappo verde di valor suppremo vestita, ciaschedun generalmente ch' allor la vide, dal primo al postremo, Venere la credette, né saziare si potea nullo di lei rimirare.
L. 12, ott. 66I teatri, le vie, piazze e balconi, per li quali essa andando gir dovea al tempio là dov' erano i baroni, tutt' eran piene; e ogn' uom vi correa, femine e maschi e vecchi con garzoni per veder questa mirabile dea; la qual ciascuno oltre ogn' altra lodava, e per lo ben di lei Giove pregava.
L. 12, ott. 67 rubr.Come Emilia, pervenuta al tempio, invocato prima l' aiuto di Giunone e d' Imeneo, fu sposata da Palemone.
L. 12, ott. 67Ma dopo certo spazio pervenuta al gran tempio di Vener, con onore magnifico da' re fu ricevuta, i quai la sua bellezza e il valore lodaron più che d' altra mai veduta; e Menelao, veggendola in quelle ore, la reputò sì di bellezza piena, che la prepose con seco ad Elena.
L. 12, ott. 68Quivi non fu alcuno indugio dato; ma fatto cerchio intorno dell' altare ch' era di fiori e di frondi adornato, fecero a' preti lì sacrificare; e con voci pietose fu chiamato l' aiuto d' Imeneo, sì come fare era usato in Attene a la stagione, e dopo quel l' altissima Giunone.
L. 12, ott. 69E poi in presenza di quella santa ara il teban Palemon gioiosamente prese e giurò per sua sposa cara Emilia bella, a tutti i re presente; e essa, come donna non già gnara, simil promessa fece immantanente; poi la basciò sì come si convenne, e ella vergognosa sel sostenne.
L. 12, ott. 70 rubr.Come, tornati al palagio, si celebrarono le nozze.
L. 12, ott. 70Questo fornito, al palagio tornaro con somma festa dinanzi e dintorno; li greci re Emilia intorniaro, non sanz' ordine debito e adorno, come si convenia, con passo raro; e l' ora quinta già venia del giorno, quando, venuti nel palagio, messe trovar le mense, e assisersi ad esse.
L. 12, ott. 71E quai fossero a quelle i servidori e quanti ancora, saria lungo a dire, che furon pur de' giovani maggiori, né si porian per numero finire; e' ricchi arnesi non furon minori che l' altre cose, magnifiche e mire; delle vivande mi taccio infinite, che vi fur, dilicate e ben compite.
L. 12, ott. 72Quivi fur sonatori e istrumenti di varie condizioni, e tai ch' Orfeo, per lo giudicio di molti esistenti, con lor perduto avrebbe, e 'l gran Museo con tutti i suoi non usati argomenti, e Lino ancora, e Anfion tebeo; e canti tai che sarebbero stati belli a Caliopè, e ben notati.
L. 12, ott. 73Di mille modi e di piedi e di mani vi si poté il dì veder ballare gli Atteniesi e ancora li strani, giovani e donne, chi me' sapea fare; e mescolati gentili e villani, ciaschedun si vedeva festeggiare; e 'n cotal guisa spendevano il giorno, per la città, in qua e 'n là, attorno.
L. 12, ott. 74Li greci re con li lor cavalieri fer nuovi giuochi assai, e cavalcando sopra coverti e adorni destrieri, e con ischiere varie armeggiando, per le gran piazze e ancor pe' sentieri, la lor letizia a tutti dimostrando, poi ritornando al palagio gioioso quando eran disiosi di riposo.
L. 12, ott. 75 rubr.Come Palemone dormì con Emilia.
L. 12, ott. 75Il giorno, troppo lungo giudicato da Palemon, sen giva inver la sera; e essendo già il ciel tutto stellato, in una ricca camera, quale era quella dove fu il letto apparecchiato qual possiam creder a così altiera isponsalizia, invocata Iunone, Emilia se n' entrò con Palemone.
L. 12, ott. 76Qual quella notte fosse all' amadore qui non si dice; quelli il può sapere, che già trafitto da soverchio amore alcuna volta fu, se mai piacere ne ricevette dopo lungo ardore. Credom' io ben che estimando vedere il possa quei che nol provò giammai, che lieta fu più ch' altra lieta assai.
L. 12, ott. 77Vero è che per l' offerte che andaro poi la mattina a' templi, s' argomenta che Venere, anzi che 'l dì fosse chiaro, sette volte raccesa e tante spenta fosse nel fonte amoroso, ove raro buon pescator con util si diventa: el si levò, venuta la mattina, più bello e fresco che rosa di spina.
L. 12, ott. 78E poi si fece Panfilo chiamare, e, sì com' esso già promesso avea, così li fé eccelsi don portare al tempio della bella Citerea, e con gran lode la fece onorare, lei ringraziando per cui el tenea la bella Emilia, da lui molto amata e così lungo tempo disiata.
L. 12, ott. 79Quindi sen venne con allegro aspetto nella gran sala riccamente ornata, dove con gioia somma e con diletto era la festa già ricominciata; e li re greci li vennero impetto, con lieti motti della trapassata notte qual fosse suta domandando, molto di ciò insieme sollazzando.
L. 12, ott. 80Durò la festa degli alti baroni più giorni poi continuatamente; dove si dieder grandissimi doni a ciascheduna maniera di gente; ricchi vi fur ministrieri e buffoni, e qualunque altro prese parimente; ma dopo il dì quindecimo si pose fine alle feste liete e graziose.
L. 12, ott. 81 rubr.Come li greci re, preso commiato, tornarono nelle loro contrade.
L. 12, ott. 81Già due fiate era stata cornuta la sorella di Febo, e tante piena similemente era suta veduta, poi che la nobil baronia in Attena delle contrade sue era venuta; onde parve a ciascun, poi che la amena festa era fatta, di tornare omai ne' suoi paesi, quivi stati assai.
L. 12, ott. 82Onde ciaschedun re prese commiato dal vecchio Egeo e ancor da Teseo, e dalle donne ancor l' hanno pigliato, e poi da Palemone; il qual rendeo a tutti grazie, e sé disse obligato a ciaschedun, per sé e per Penteo, in tutto ciò ch' egli operar potesse, mentre che esso nel mondo vivesse.
L. 12, ott. 83Partirsi adunque i re, e ciascun prese quanto poté il cammin suo più corto, per tosto ritornare in suo paese; e Palemone in gioia e in diporto con la sua donna nobile e cortese lì si rimase e con sommo conforto, quel possedendo che più li piacea e a cui el tutto 'l suo ben volea.
L. 12, ott. 84 rubr.Parole dell' autore al libro suo.
L. 12, ott. 84Poi che le Muse nude cominciaro nel cospetto degli uomini ad andare, già fur di quelli i quai l' esercitaro con bello stilo in onesto parlare, e altri in amoroso l' operaro; ma tu, o libro, primo a lor cantare di Marte fai gli affanni sostenuti, nel volgar lazio più mai non veduti.
L. 12, ott. 85E perciò che tu primo col tuo legno seghi queste onde, non solcate mai davanti a te da nessuno altro ingegno, ben che infimo sii, pure starai forse tra gli altri d' alcuno onor degno; intra li qual se vieni, onorerai come maggior ciaschedun tuo passato, materia dando a cui dietro hai lasciato.
L. 12, ott. 86E però che i porti disiati in sì lungo peleggio già tegnamo, da varii venti in essi trasportati, le vaghe nostre vele qui caliamo, e le ghirlande e i don meritati, con l' ancore fermati, qui spettiamo, lodando l' Orsa che con la sua luce qui n' ha condotti, a noi essendo duce.
L. 12, explicitQui finisce il duodecimo e ultimo libro del Teseida delle nozze d' Emilia. Deo gratias. Amen.
son. fin. 1 rubr.Sonetto nel quale l' autore priega le Muse che il presente libro presentino a la donna a cui istanzia è fatto, acciò che ella secondo il suo piacere lo 'ntitoli.
son. fin. 1O sacre Muse, le quali io adoro e con digiuni onoro e vigilando, di voi la grazia in tal guisa cercando qual l' acquistaron palidi coloro a' quai poi deste il grazioso alloro in sul fonte castalio poetando, i versi lor sovente esaminando col vostro canto sottile e sonoro, io ho ricolte della vostra mensa alcune miche da quella cadute, e come seppi qui l' ho compilate; le quai vi priego che voi le portiate liete alla donna in cui la mia salute vive, ma ella forse nol si pensa, e con lei insieme il nome date e 'l canto e 'l corso ad esse, se ne le cal tanto.
son. fin. 2 rubr.Risposta delle Muse al soprascritto sonetto, nel quale esse li significano il titolo dato al libro suo.
son. fin. 2Portati abbiam tuoi versi e bel lavoro, o caro alunno, di Teseo cantando, e i due Teban, l' un preso e l' altro in bando, combatter per Emilia donna loro. La più tua donna ch' essa di costoro, gli altrui riletti amori a sé recando, fra sé soletta disse sospirando: «Ahi, quante d' amor forze in costor foro!». Poi di fiamma d' amor tututta accensa, ci porse priego che non fosser mute le ben scritte prodezze e la biltate; «Teseida di nozze d' Emilia», o vate, nomar li piacque; e noi con note argute darenli in ogni etate fama immensa. Così gli abbiam, rorati al fonte santo, licenziati a gire in ogni canto.