Teseida delle nozze d'Emilia. Chiose.Boccaccio, GiovanniConsiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto Opera del Vocabolario ItalianoGiovanni Boccaccio, Teseida delle nozze d'Emilia. Chiose, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di Vittore Branca, vol. II, Milano, Mondadori, 1964, pp. 253-664 [a cura di Alberto Limentani].Teseida delle nozze d'Emilia. Chiose.Boccaccio, Giovanni13751339ALtosc.fior.comm. 1339-1375
L. 1, 1.1O sorelle etc. Nel principio del suo libro fa l'autore, secondo l'antico costume de' componitori, una sua invocazione, e chiama le Muse in suo aiuto alla presente opera; e chiamale «sorelle» perciò che furono nove, tutte figliuole di Giove e d'una che si chiamò Memoria, secondo che i poeti scrivon «castalie» le chiama per una fonte che è in Boezia, c'ha nome Castalia, consecrata alle dette Muse. Elicona è un monte nel quale esse similemente dimorano.
L. 1, 1.3gorgoneo fonte etc. Scrivono i poeti che una femina fu, la quale ebbe nome Medusa, e era chiamata Gorgone; la quale aveva questa proprietà, che chiunque la vedea diventava di pietra; la qual cosa udendo uno giovane, ch'avea nome Perseo, avuto uno scudo di cristallo da Pallade, andò verso questa Gorgone; la quale, come se medesima vide nel cristallo, fu vinta, e Perseo le tagliò la testa; e delle gocciole del sangue che caddero di questa testa si generarono diversi animali, tra' quali si creò uno cavallo, il quale aveva ali; e questo cavallo volando in sul monte Parnaso, là dove giunto percosse col piè, e uscinne una fonte, la quale si chiama gorgonea, perché fatta fu di colui che nato era del Gorgone: questa fonte similemente è consecrata alle Muse.
L. 1, 1.4le frondi amate etc. Febo s'innamorò d'una vergine chiamata Danne, la quale non amando lui, ma fuggendogli innanzi, diventò alloro; alle frondi del quale Febo portò e porta tanto amore, ch'egli, essendogli e i poeti e gl'imperadori vittoriosi consecrati, volle che per merito delle loro fatiche fossero coronati di queste frondi, sì come ancora sono; e però dice che le Muse stanno sotto la loro ombra, perché esse sono cagione degli onori de' poeti.
L. 1, 2.4che latino autor: non è stata di greco traslata in latino.
L. 1, 3.1Siate presenti etc. Perciò che trattar dee e di battaglie e d'amore, invoca similemente l'aiuto di Marte, secondo gli antichi pagani iddio delle battaglie, e Venere, madre d'Amore, e Cupido, cioè Amore.
L. 1, 5.7amazona:l'Amazone, donne, le quali, uccisi tutti li maschi loro, si diedero a l'armi e fecersi seccare tutte le destre poppe, perciò che le impedivano a tirare l'arco; e però sono chiamate amazone, che vuole tanto dire quanto senza poppa.
L. 1, 6.1Egeo fu padre di Teseo. - Con ciò sia cosa che la principale intenzione dell'autore di questo libretto sia di trattare dell'amore e delle cose avvenute per quello, da due giovani tebani, cioè Arcita e Palemone, ad Emilia amazona, sì come nel suo proemio appare potrebbe alcuno, e giustamente, adimandare che avesse qui a fare la guerra di Teseo con le donne amazone, della quale solamente parla il primo libro di questa opera. Dico, e brievemente, che l'autore a niuno altro fine queste cose scrisse, se non per mostrare onde Emilia fosse venuta ad Attene; e perciò che la materia, cioè li costumi delle predette donne amazone, è alquanto pellegrina alle più genti, e perciò più piacevole, la volle alquanto più distesamente porre che per avventura non bisognava; e il simigliante fa della sconfitta data da Teseo a Creonte, re di Tebe, per dichiarare donde e come alle mani di Teseo pervenissero Arcita e Palemone. Le quali due cose mostrate, assai delle seguenti rimangono a' lettori molto più chiare.
L. 1, 6.2Scizia è un paese di là da Constantinopoli, sopra il mare della Tana
L. 1, 7.1Belo fu re in una parte di Grecia, e ebbe due figliuoli; l'uno ebbe nome Danao, il quale fu re dopo la morte del padre e ebbe cinquanta figliuole; l'altro ebbe nome Egisto e ebbe cinquanta figliuoli maschi; e di pari concordia diedeno le cinquanta figliuole di Danao per mogli alli cinquanta figliuoli d'Egisto; e ordinò Danao, per tema la quale aveva de' figliuoli d'Egisto che non gli togliessero il regno, che ciascuna delle figliuole, la prima notte che co' mariti giacessero, ciascuna uccidesse il suo; e così fecero, fuori che una etc. Ipermestra, Lino, etc.
L. 1, 14.1Marte tornava etc. Vuole in questa parte l'autore mostrare, poeticamente fingendo, qual fosse la cagione che movesse Teseo contra le donne amazone a fare guerra; e a mostrar questo, pone due cose: l'una è i ramaricamenti fatti da' suoi degli ostaggi ricevuti ne' porti d'Ipolita, e questa è posta nella stanza che è dinanzi a questa; l'altra è l'animoso sdegno che di ciò gli nacque, il quale vuole mostrare gli nascesse per una valorosa cosa fatta, in quegli tempi, magnificamente da uno valente uomo, chiamato Tideo; la quale fu in questa forma: Etiocle e Polinice figliuoli d'Edippo, re di Tebe, composero insieme di regnare ciascuno il suo anno, e mentre l'uno regnasse, l'altro stesse come sbandito fuori dal regno. Etiocle, che era di più tempo, regnò il primo anno; e Polinice, andando in esilio, pervenne ad una città, chiamata Argo; e quivi, in una medesima notte, avendo prima avuta quistione e battaglia con Tideo, presero per moglie due figliuole del re Adrasto, re d'Argo. E essendo finito l'anno che Etiocle dovea aver regnato, venne a Tebe Tideo, a richiedere il regno per Polinice; il quale non solamente non gli fu renduto, ma fu di notte in uno bosco assalito da cinquanta cavalieri, li quali Tideo, fieramente combattendo, tutti uccise, e poi consecrò a Marte, iddio delle battaglie, il suo scudo. Vuole adunque dire l'autore che la fama di questo fatto pervenne a Teseo, il quale si tenea ed era tenuto, in quegli tempi, de' valorosi uomini d'arme del mondo; per che più ardore gli crebbe che femine oltraggiassero lui, essendosi Tideo difeso solo da cotanti uomini: e questo brievemente intende qui l'autore.
L. 1, 15.6poi nelle valli etc. Scrivono fingendo i poeti che la casa di Marte, dio delle battaglie, sia in Trazia, a piè de' monti Rifei. Alla quale fizione volere intendere, è da sapere che, secondo che vogliono alcuni filosofi, che l'ira e il furore s'accende più fieramente e più di leggiere negli uomini ne' quali è molto sangue, che in quegli ne' quali n'è poco; e questo veggiamo noi essere vero per aperta testimonianza di quelli di Barberia e di quelli della Magna: quegli di Barberia sono sotto caldo cielo e hanno poco di sangue e sono uomini mansueti; quegli della Magna sono sotto freddo cielo e tutti pieni di sangue, furiosi e vaghi di guerra: per che ottimamente finsero i poeti la casa di Marte, cioè l'appetito della guerra, in Trazia, cioè in quella provincia posta sotto tramontana là dove sono similmente li monti Rifei.
L. 1, 40.3passando: Partendosi uomo da Attene e andando inverso il mare della Tana, si truovano molte isole, tra le quali sono queste che qui sono nominate: cioè Macroni, Andro e Tenedos.
L. 1, 40.7entrando poi etc. Sì come manifestamente appare sopra la carta da navicare, volendo del mare di Grecia entrare nel mare della Tana, si passa per uno braccio di mare il quale oggi si chiama per alcuni lo stretto di Costantinopoli; il quale braccio è in alcuna parte sì stretto, che non ha più di largo che tre miglia. Sopra questo stretto sono duo terre, l'una dall'una riva e l'altra da l'altra, e chiamasi l'una Abido, come che oggi li navicanti la chiamino Aveo; l'altra si chiama Sesto. Era in Abido uno giovane, il quale aveva come nome Leandro, e amava molto una giovane di Sesto, ch'avea nome ero. Il quale, acciò che il loro amore fosse occulto, la notte, notando, passava da Abido a Sesto, e stato con la giovane quanto gli parea, notando tornava indietro; ma tra l'altre volte, ne gli colse male una che egli v'afogò, sì che se stato gli era soave, gli fu alla fine reo.
L. 1, 41.1E oltre quel cammino etc. Sì come i poeti scrivono, Atamante, re di Tebe, ebbe per moglie una donna, chiamata Nefile, della quale egli ebbe due figliuoli: l'uno maschio, chiamato Frisso, e l'altra femina, chiamata Elles. E morta Nefile, Atamante prese per moglie una figliuola di Cadmo, re di Tebe,ch'avea nome Ino, la quale sommamente odiava li figliastri; e dopo molte cose da lei contro a loro maliziosamente fatte, ordinò che per cessare una pistolenzia, la quale essa maliziosamente faceva parere che nella contrada avvenisse, questi due suoi figliastri per fare sacrificio agl'Iddii fossero uccisi; ma Nefile, la quale era divenuta dea, veggendo i figliuoli a tale pericolo, subitamente apparecchiò loro uno montone, il quale avea i velli d'oro, e comandò che su vi montassero e fuggissero. Frisso salì dinanzi e Elles in groppa, e fugivansi verso il mare della Tana, così chiamata da uno fiume ch'ha nome Tanais che dentro vi mette; e venuti a quello stretto che oggi si chiama di Costantinopoli, Elles, avendo paura, cadde in quello mare e affogovvi: onde poi fu chiamato Ellesponto, cioè mare d'Elles. questa via adunque fece Teseo, e pervenne a una città, chiamata allora Bisanzio: oggi si chiama Constantinopoli
L. 1, 55.3Nettunno e Glauco, secondo le fizioni poetiche e gli errori degli antichi, sono due degl'iddii del mare.
L. 1, 58.8ad Acheronta etc. Acheronte è l'uno de' quattro fiumi d'inferno.
L. 1, 59.3con l'arte che in Flegra etc. Sì come li poeti fingendo scrivono, una maniera d'uomini furono, che furono chiamati giganti; li quali, sentendosi molto forti, presunsero di volere torre il cielo a Giove, il quale gli antichi dicevano che n'era iddio; e ragunatasi insieme per torgliele, Giove insieme con gli altri iddii, tra' quali fu Marte, uscirono loro incontro in uno luogo il quale si chiama Flegra, e quivi combatterono con loro; e in quella battaglia fece Marte maravigliose cose d'arme, tanto che gli sconfissero. Di questi giganti fu uno Anteo.
L. 1, 60.1E tu, Minerva etc. Minerva tenevano gli antichi che fosse dea della sapienzia, e questa oltre a ogni altro iddio era onorata in Attene, sì come i Fiorentini più che alcuno altro santo onorano San Giovanni Battista.
L. 1, 60.4né ch'io ti liti: cioè sacrifichi.
L. 1, 60.5alcuno giuco etc. Solevano gli antichi fare certi giuochi ad onore degl'iddii, sì come li Fiorentini fanno, ad onore d'alcuni santi, correre diversi palii.
L. 1, 60.8teco d'un sesso: quasi dica: - Minerva, tu se' femina, e però aiuti costoro che sono femine come tu -
L. 1, 61.3achiva: cioè greca.
L. 1, 62.1Apollo: cioè il sole.
L. 1, 65.2I Centauri si dicono essere mezi uomini e mezi cavalli, ferocissimi e forti in arme.
L. 1, 65.3Lapiti sono certi popoli di Tesaglia similemente fortissimi e arditi in fatti d'arme.
L. 1, 84.2Essendo in Grecia, in una padule chiamata Lerna, una serpe con sette teste, la quale i paesani chiamavano Idra, e corrompendo tutta la contrada, Alcide, cioè Ercule, andato per ucciderla e combattendo con lei, s'avide che quale ora egli le mozava una delle sue teste, subitamente ne le rinascevano sette. Pensò che se al principale luogo della vita dell'Idra non pervenisse, mai non potrebbe avere vittoria di quella; per che, rachiusala in alcuno stretto luogo, l'accese un gran fuoco sotto, e così l'uccise.
L. 1, 102.2Medea, avendo uccisi i figliuoli, che avuti avea di Iansone, perché egli avea presa altra moglie, si fuggì di Tesaglia e andossene ad Attene, e quivi si maritò ad Egeo, padre di Teseo, il quale era già vecchio. E tornando Teseo d'alcuna parte, diede Medea a vedere ad Egeo che questi era uno che venia per torgli il regno; di che ella fece un beveraggio avelenato, e diello in mano ad Egeo, che sotto spezie di fargli onore il desse a costui, quando dinanzi gli venisse. Teseo adunque venendo a visitare il padre, senza essere da lui riconosciuto, prese di sua mano il beveraggio, e già era per bere, quando Egeo alla manica d'uno coltello che al lato avea il riconobbe, e subitamente gli fece cadere il beveraggio di mano. Medea si fuggì, né mai più di lei si seppe novelle.
L. 1, 130.7Elena, sirocchia di Castore e di Polluce, fu prima rapita da Teseo che da Paris; poi essendo Teseo con Peritoo, suo amico, andato per rapire proserpina (là overo in altra parte che fosse ito), la madre di Teseo rendé Elena a' fratelli.
L. 1, 131.1-2È da sapere, secondo che i poeti scrivono, che Amore porta due saette: l'una è d'oro e ha punta aguta, e questa genera amore; l'altra è di piombo e è torta nella punta, e questo genera odio: dice adunque qui l'autore che Teseo avea nel core la più cara, cioè quella dell'oro, per la quale dimostra Teseo essere innamorato d'Ippolita.
L. 1, 132.7Perciò che mentre erano in fatto d'arme, facevano andatura d'uomo, nella quale si fanno i passi più lunghi che quando si fa andatura di donna.
L. 1, 134.2Citerea si è Venere, così chiamata da uno monte ch'è sopra Tebe c'ha nome Citerone, nel quale Venere è adorata.
L. 1, 134.7Imeneo appo gli antichi fu tenuto lo dio delle noze.
L. 2, 10Poscia che l'autore ha dimostrato di sopra, nel primo libro, donde e come Emilia venisse ad Attene, in questo secondo intende di dimostrare come Arcita e Palemone vi pervenissero. Alla quale cosa fare, gli conviene toccare la guerra stata tra Etiocle e Pollinice, e quello che di quella adivenne; ma perciò che brevissimamente trapassa nel testo, acciò che le seguenti otto stanzie e assai cose che apresso seguitano s'intendano più chiaramente, quanto più brievemente potrò qui la racconterò, acciò che la cagione altressì della guerra che segue tra Teseo e Creonte sia più manifesta. Dico adunque che, essendo Etiocle e Pollinice, fratelli, in composizione di regnare ciascuno il suo anno in Tebe e che, mentre l'uno regnasse, l'altro stesse in esilio fuori del regno, e Etiocle avesse il primo anno il reame, Pollinice, andando in esilio, pervenne ad Argo, e quivi prese per moglie Argia, figliuola d'Adrasto, re d'Argo; e finito l'anno del regno d'Etiocle, Tideo, il quale aveva per moglie Deifile, sirocchia d'Argia, andò in servigio di Pollinice a Tebe a domandare che Etiocle lasciasse il regno a Pollinice per lo seguente anno, secondo i patti; dal quale Tideo ebbe mala risposta, e, oltre a ciò, fu, tornandosi egli ad Argo, assalito una notte da cinquanta cavalieri d'Etiocle, gli quali egli tutti uccise; e, tornato, ad Argo, commosse ad andare a vendicare la ingiuria fatta a Pollinice, e quella che stata era fatta a lui, Capaneo re, Anfiorao re, Ippomedone re, Partenopeo re, e Adrasto suo suocero; e con grandissimo esercito di gente a piè e a cavallo, e egli e Pollinice co' predetti altri cinque re andarono ad assediare Tebe, e quivi dopo molte battaglie, senza potere prendere Tebe, furono tutti morti,fuori che Adrasto, il quale si fuggì indietro ad Argo: e fuvvi nell'ultima battaglia ucciso Etiocle, perciò che egli e pollinice s'uccisero insieme. E dopo la morte de' detti due frategli, non essendovi rimaso re in Tebe e l'assedio essendo partito, Creonte, uomo nobilissimo e possente, della città incontanente prese la signoria; e fattosi re, perciò che uno suo figliuolo chiamato Menesteo, combattendosi un dì alle mura e difendendo egli valorosamente, era stato ucciso e caduto morto fuori delle mura e rimaso senza sepoltura, comandò che a niuno che di fuori fosse morto, qual che si fosse, o re o altro, non fosse, sotto pena della vita, data sepoltura. Eransi da Argo partite le donne de' morti re, e venivano a dare sepoltura a' corpi de' mariti loro con molte altre nobili donne; le quali, nel cammino udito il comandamento di Creonte, una parte di loro non volle andare a Tebe, sì come fu Evanne, moglie di Capaneo, e altre molte, ma se ne andarono ad Attene, a dolersi di questo oltraggio di Creonte a Teseo, il quale in quegli tempi era famosissimo vendicatore d'ogni ingiuria di che stato gli fosse posto richiamo; e non trovandovelo, non vollero entrare in casa d'alcuno cittadino, ma tutte se ne andarono in uno tempio, il quale era consecrato ad onore della Clemanzia, e quivi aspettarono la tornata di Teseo. Il quale anzi che del triunfale carro smontasse, in abito così misero come erano, gli si feron incontro e posergli il richiamo della ingiuria di Creonte; per la quale Teseo, senza arestarsi punto, con le donne insieme si andò a Tebe, e quinci combatté contra Creon e ebbe vittoria e l'uccise. E in questa battaglia furono presi Arcita e Palemone, li quali erano Tebani, e menati ad Attene e messi in prigione da Teseo, sì come apresso chiaramente appare.
L. 2, 10.1Lernei etc.: cioè greci. - id.: È in Grecia una padule molto famosa, la quale è chiamata Lerna, e da questa li Greci sono chiamati Lernei.
L. 2, 10.3trofei etc.: trofeo è uno picciolo onore, il quale si fa a colui il quale ha vinto alcuno famoso nemico e trattegli l'arme; e suolsi fare in questa guisa, che si prende uno tronco di legno come fosse uno uomo, e vestonglisi l'arme tratte al nemico, e ponsi in uno luogo publico, dove da tutti si può vedere e essere conosciuto il valore di colui ch'è stato vincitore.
L. 2, 11.1Amfiorao: re.
L. 2, 11.2Ippomedone: re.
L. 2, 11.3Partenopeo: re.
L. 2, 11.5Campaneo: re.
L. 2, 11.6agone: battaglia.
L. 2, 11.7Etiocle: re. - Polinice: re.
L. 2, 11.8Adastro: re. - Argo: città.
L. 2, 12.1regno: di Tebe.
L. 2, 12.3Creonte: re. - invaso: assalito.
L. 2, 13.6fuoco si desse etc.: usavansi anticamente d'ardere li corpi morti e di sepellire la cenere che di quegli si facea.
L. 2, 14.1argoliche etc. Argos fu già in Grecia famosissima città, e da lei furono li Greci, e sono, chiamati Argivi e Argolici.
L. 2, 14.2stremo: cioè ultimo.
L. 2, 14.3con maestà: cioè con apparenza.
L. 2, 20.2teatri: teatro era generalmente ogni luogo publico, come oggi sono le loggie e i ridotti, come che alcuno per eccellenza avesse più quello nome che gli altri, sì come il Coliseo di Roma, il quale era teatro generalmente di tutti.
L. 2, 23.7Pallade e Minerva sono una medesima cosa, e di sopra dicemmo Minerva essere sopra ogni altro iddio onorato in Attene.
L. 2, 24.5tomolto: romore come si fa nelle feste.
L. 2, 25.3achiva: cioè greca. - id.: Li Greci sono chiamati Achivi da una contrada ch'è in Grecia, chiamata Acaia.
L. 2, 26.3atri: cioè neri.
L. 2, 27.5-8Quasi dica: - In cotale abito, in chente ora veggiamo te, raspettavamo li nostri mariti, ove ora gli andiamo a sepellire -.
L. 2, 28.4mesta: trista.
L. 2, 28.5Campaneo: re.
L. 2, 29.1-2del tiranno etc.: cioè d'Etiocle.
L. 2, 31.5e di qua l'ombre etc.: fu oppinione degli antichi che ogni anima n'andasse in inferno, fuori quelle di coloro li quali deificavano; e credevano che a ciascuna fosse certo luogo diterminato nel quale si punissero i peccati nella vita commessi, e, puniti quegli, credevano loro andare in uno luogo dilettevole, il quale chiamavano Eliso, e quindi dopo certo tempo poi tornare nel mondo. E similemente credevano essere in inferno uno fiume chiamato Acheronte, di là dal quale per andare al luogo diterminatole non potesse passare niuna anima insino a tanto che il corpo, del quale era uscita, non fosse sepellito, anzi errasse cento anni di qua dal fiume; e per cotale credenza erano sollecitatissimi i parenti e gli amici che rimanieno a sepellire i corpi di coloro che morieno; e bene che l'autore dica qui palude stigia, non monta guari, perciò che la palude di Stige nasce del fiume d'Acheronte, sì che puose l'uno per l'altro: la qual cosa spesse volte usano fare i poeti.
L. 2, 32.7i qua': cioè prieghi.
L. 2, 35.6attei: cioè atteniesi, perciò che la contrada nella quale è Attene si chiama Attica.
L. 2, 36.3neglette: cioè non ornate.
L. 2, 36.5la maestà: l'autorità.
L. 2, 47.5Demofonte: fu figliuolo di Teseo.
L. 2, 50.8glebe: cioè terre.
L. 2, 65.6riviera: d'Acheronte.
L. 2, 70.4assediaro: que' cinquanta de' quali è detto di sopra.
L. 2, 70.5Citeron: monte.
L. 2, 71.7Bacco è iddio del vino, e fu figliuolo di Giove e di Semelè, figliuola di Cadmo, re di Tebe; e Ercule fu figliuolo di Giove e d'Almena tebana; sì che amenduni furono di Tebe.
L. 2, 72.7Cadmo fece Tebe e funne re.
L. 2, 73.6le case sante: cioè i templi.
L. 2, 74.2Asopo è un fiume presso a Tebe.
L. 2, 74.7urna: vaso. - di Lieo: cioè di Bacco.
L. 2, 75.1all'ombre: all'anime.
L. 2, 78.3a l'olfato: cioè all'odorato.
L. 2, 79.8estrutti: cioè ordinati. - id.: Soliensi anticamente fare certi monticelli di legne, come noi diciamo oggi cataste, ordinate in certi modi; e questo monte di legne, così ordinato, si chiamava rogo; poi vi poneano su diversi ornamenti, secondo la qualità e possibilità di chi 'l facea e di colui per cui si facea; poi sopra tutto questo ponevano il corpo morto e mettevano fuoco nelle legne; e come era acceso, non si chiamava più rogo, ma pira; e tanto il facevano ardere, che del corpo si faceva cenere e quella sepellivano.
L. 2, 81.4urne: vasi.
L. 2, 81.6Argo: città.
L. 2, 83.6poco: cioè piccolo.
L. 2, 92.6onusti: carichi. - commilitoni: cavalieri.
L. 2, 95.4le frondi di Pennea: cioè la corona dello alloro.
L. 2, 96.4reina: Ipolita.
L. 3, 1.1Iunone fu moglie di Giove, e ebbe sommamente in odio i Tebani; e questo era per gli adulterii da Giove, suo marito, commessi con le donne tebane, sì come con Semelè, di cui ebbe Bacco, e con Almena, di cui ebbe Ercule.
L. 3, 1.3regione: quale sia la regione di Marte si vedrà appresso, dove assai interamente si discrive.
L. 3, 1.6di Cupido: cioè d'Amore.
L. 3, 2.2de' Tebani: cioè d'Arcita e di Palemone.
L. 3, 2.4insani: cioè pazi.
L. 3, 2.6a le mani: cioè a battaglia.
L. 3, 2.8a l'un: cioè ad Arcita.
L. 3, 4.5Vener: dea.
L. 3, 4.7eletto: da Venere.
L. 3, 5.1Febo, salendo, etc. Vuole qui l'autore discrivere che stagione era allora dell'anno, quando Arcita e Palemone s'innamorarono d'Emilia, e dice che era dal mezo aprile al mezo maggio; e questo mostra per discrizioni de' pianeti in cielo, e massimamente del sole, il quale dice che era con quello umile animale che trasportò Europa, cioè col Tauro, col quale egli sta nel soprascritto tempo. E la favola dell' essere Europa stata trasportata dal tauro è questa: Agenore, re di Fenicia, aveva una figliuola bellissima, la quale aveva nome Europa, la cui bellezza sappiendo Giove e piacendogli forte, si trasformò in forma d'uno bellissimo tauro, e andonne là dove questa giovane era con altre compagne; e quivi si mostrò sì mansueto e sì bello, che a queste giovani e massimamente ad Europa piacque, e venne volontà d'averlo, e accostoglisi, e vedendolo così mansueto lo prese per le corna, e dopo molto avere veduta la sua mansuetudine, vi salì suso; il quale quando si sentì adosso costei sì come egli disiderava, incontanente cominciò a correre verso il mare, e costei, per tema di non cadere, ad attenersi alle corna; ultimamente si mise in mare, e notando ne la portò in Creti, e quivi ebbe di lei più figliuoli. E cominciando da quella isola, e andando a diritto verso tramontana e da tramontana girando inver ponente, e poi da ponente tornando a diritto verso levante, infino alla sopradetta isola, volle che da costei fosse nominata Europa; e così ancora si chiama. E quello tauro, nel quale convertito s'era, trasportò in cielo, e fecelo l'uno dei XII segni del sole, ponendolo in quella parte nella quale veggiamo il sole da mezo aprile infino a mezo maggio. - Febo: Febo, il sole. - li suoi cavalli: che tirano il carro suo.
L. 3, 5.2l'umile animale: cioè il segno che si chiama Tauro.
L. 3, 5.5e con lui: cioè col Tauro.
L. 3, 5.6de' passi etc.: cioè de' gradi.
L. 3, 5.8Amon: cioè Giove. - in Pisce: in quel segno. - d'Amon, che 'n Pisce etc. Volendo dimostrare il cielo essere ottimamente disposto a fare altrui innamorare, dice che Giove, il quale è pianeto benivolo, era in Pisce, cioè in uno segno del cielo così chiamato, nel quale Giove ha più di potenzia che in alcuno altro a bene e paceficamente operare. E chiamalo Amone, cioè montone, perciò che gli antichi scrivono che essendo Bacco in Libia a combattere e non trovando acqua, pregò Giove, suo padre, che gli mostrasse dove egli dovesse trovare acqua; e fatto il priego, gli apparve innanzi un montone e menollo ad una fonte, il quale montone i Libiani dissero ch'era stato Giove, e sempre l'adorarono in forma di montone, chiamandolo Amone, il quale in latino viene a dire montone.
L. 3, 9.6fando: cioè facendo.
L. 3, 12.2l'orizzonte: l'orizonte è quella parte del cielo la quale ci pare che sia congiunta con la terra.
L. 3, 14.6Citerea: cioè Venere.
L. 3, 16.3Fetonte fu figliuolo di Febo e di Climene. Il quale Febo, sì come nel principio di questo libro è mostrato, fu ferito da Amore per una vergine chiamata Diana, che poi si convertì in alloro.
L. 3, 17.8l'altro: strale.
L. 3, 20.5quel fiero arcieri: cioè Amore.
L. 3, 24.3mi veggo qui imprigionato: cioè incatenato e stare in priegione.
L. 3, 25.2gli argomenti esculapii. Esculapio fu sommo medico, in tanto che i poeti fingono che egli con sughi di sue erbe ritornò in vita Ipolito, figliuolo di Teseo, il quale era, e rimaso appiccato ad alcuna parte di quello, tirato da' cavalli in qua e in là tra le pietre e tra' bronconi del bosco, tutto fu sbranato; li quali brani raccolti insieme da Esculapio, gli ricongiunse, e lui ritornò in vita. questo Esculapio fu d'Epidauro e fu figliuolo d'Appollo e d'una ninfa chiamata Coronide.
L. 3, 25.3il qual: Esculapio.
L. 3, 25.5poi ch'Apollo, sentita etc. Apollo, cioè Febo, come in più parti dinanzi è detto, fu sommamente innamorato di Danne, figliuola di Penneo, e da questo amore non si seppe né si poté con la virtù delli sughi delle sue erbe medicare né guarire, come che egli ogni altro uomo guerisse, e tutte le conoscesse, e fosse iddio della medicina.
L. 3, 25.6i sughi mondani: dell'erbe.
L. 3, 25.8medela: medicina.
L. 3, 27.2Scrivono i poeti che Eolo è iddio de' venti, e dicono che egli gli tiene rinchiusi sotto uno sasso in certe caverne di Cicilia, e quando vuole che vadano atorno, apre loro, e essi furiosamente escono fuori: così uscivano i sospiri del petto de' due nuovi amanti. E dico sicule, cioè ciciliane.
L. 3, 27.3-4le basse: la terra. - e le superne parti: cioè l'aere.
L. 3, 27.5delle parti più interne: cioè del cuore.
L. 3, 27.8la piaga: d'amore.
L. 3, 28.1costei: cioè Emilia.
L. 3, 28.5l'omei: che aveva prima tratto Palemone.
L. 3, 29.4arguta: cioè alta.
L. 3, 32.5Cupido: Amore.
L. 3, 32.8ella: piacea.
L. 3, 33.2lede: offende.
L. 3, 33.4della sua mistura: cioè del veleno.
L. 3, 33.5l'uno: membro.
L. 3, 33.8aumentando: accrescendo.
L. 3, 34.3e a ciascun etc.: erano palidi e magri.
L. 3, 35.7colui il sa etc.: che sono io.
L. 3, 36.7queste cose: cioè i pensieri di queste cose.
L. 3, 37.6il fior etc.: cioè Emilia.
L. 3, 38.5versi misurati: sonetti e canzoni.
L. 3, 40.7e canta etc.: pone qui il suono per lo canto, perciò che Apollo suona meglio che alcuno altro.
L. 3, 43.2Ariete è uno de' XII segni del sole e Libra è uno altro. Sta in Ariete il sole da mezo marzo infino a mezo aprile, e in questo tempo tutto il mondo si rifà bello di frondi, di fiori e d'erbe. In Libra sta da mezo settembre infino a mezo ottobre: in questo tempo non solamente si seccano tutte le frondi, ma caggiono tutte degli alberi, sì che Libra toglie al mondo quella bellezza che Ariete gli aveva data.
L. 3, 44.4e 'l popol d'Eol
L. 4, 1.2-5Orione è uno segno in cielo, e le Pliade sono stelle poste nel segno del Tauro; questi due, cioè Orione e le Pliade, cominciano a vedersi in oriente, poi che il sole è coricato, del mese d'ottobre, quando le piove, i venti e i malvagi tempi cominciano, per che antico proverbio è l'Orione con le pliade recare malvagio tempo. E perciò, volendo mostrare l'autore essere pessimo tempo, dice che orione e le Pliade ciò che potevano operavano, e con loro Eolo, iddio de' venti.
L. 4, 10.5di Dite: d'inferno.
L. 4, 12.6Boezia è uno paese in Grecia, come è Toscana in Italia, nella quale Boezia è la città di Tebe.
L. 4, 12.7Parnaso: monte.
L. 4, 13.3Anfione fu re di Tebe, e, secondo che i poeti fingono, egli sonava sì dolcemente, che al suono della sua cetera li monti circustanti, dispartendo da loro le pietre, fecero le mura a Tebe.
L. 4, 14.3Semelè: figliuola di Cadmo.
L. 4, 14.4-5a quel che etc.: cioè a Giove.
L. 4, 14.7Iuno: moglie di Iove. - Almena: moglie d'Anfitrione e madre d'Ercule.
L. 4, 14.8che doppia notte etc. Almena fu moglie d'Anfitrione, il quale essendo andato allo studio e menato seco uno suo fante, che aveva nome Geta, Iove s'innamorò d'Almena, e mandò Mercurio in terra, e fecegli mettere una voce per la contrada d'Anfitrione, che Anfitrione tornava; la quale cosa udendo Almena, lieta della tornata del marito, si rifece ancora più bella che non era, e sollecitamente l'aspettava; per che una mattina presso al dì, essendo Anfitrione giunto ad uno porto presso a Tebe, Giove, presa la forma d'Anfitrione e a Mercurio fatta pigliare quella di Geta, se ne andarono alla casa d'Almena; la quale, credendo che quegli fosse veramente il marito, lietamente il ricevette, e insieme se ne andarono al letto. E Giove, a ciò che avesse più spazio di stare con Almena, fece ritornare la notte indietro, tanto che ella fu, da quella ora che egli entrò ad Almena, così grande, come se intrato vi fosse la sera; per che appare che furono due notti, come che una sola paresse. In questa notte così raddoppiata, ingravidò Almena di Giove, e poi dopo nove mesi partorì Ercule; e questo vuole dire l'autore: «che doppia notte etc.». Amfitrione tornò poi quando fu fatto dì, essendosi Giove partito e senza avvedersi alcuno dello inganno di Giove Amfitrione []. - plena: cioè gravida.
L. 4, 15.1Dionisio: re di Tebe. -
L. 4, 15.4de' popoli etc.: vinti da Bacco, figliuolo di Semelè.
L. 4, 16.1Laio: re di Tebe e padre d'Edippo.-
L. 4, 16.2Edippo: re di Tebe. - i figliuoli: Etiocle e Pollinice -
L. 4, 16.3il fuoco graio: cioè greco, perciò che greche furono le donne, come di sopra è mostrato, che misero fuoco in Tebe. -
L. 4, 16.4li nostri duoli: di noi tebani
L. 4, 16.5il primaio: fuoco
L. 4, 16.6Iunon: dea. - dunque che vuoli etc.: quasi dica: - Avuta n'hai ogni vendetta che disiderare si può, poi che dopo tutti gli altri nostri danni, le femine, non che altri, ci hanno arsa la città nostra. -
L. 4, 17.3Agenore: il quale fu padre di Cadmo, che fece Tebe, del quale Cadmo erano discesi Palemone e Arcita.
L. 4, 18.2da quella: da Tebe.
L. 4, 18.3Corinto: città.
L. 4, 18.5Mecena: contrada.
L. 4, 18.8Menelao: re.
L. 4, 19.4quel ch'era etc.: cioè l'essere di reale sangue.
L. 4, 19.6portava: sosteneva.
L. 4, 20.4del suo intendimento: cioè d'Emilia.
L. 4, 20.6Egina: isola.
L. 4, 20.7Pelleo: re, padre d'Acille.
L. 4, 21.1Quivi sperava etc.: perciò che Egina è forse LX miglia presso ad Attene.
L. 4, 21.6con la sua brigata: cioè co' suoi famigliari.
L. 4, 21.8la terza mattina: partito da Mecena.
L. 4, 22.2suoi: famigliari.
L. 4, 22.3del re: Pelleo.
L. 4, 25.6prava: malvagia.
L. 4, 27.4Né credo ch'Erisitone etc. Erisitone fu disprezatore delle forze degli iddii, il quale per dispetto di Diana fece tagliare una quercia la quale era consacrata a Diana; di che Diana turbata, gli mise sì fatta fame adosso, che, primieramente manicatosi ciò ch'egli aveva e non potendo torsi la fame, vendé una sua figliuola, e avendo mangiato ciò che del prezo aveva potuto comperare, non avendo più che mangiare, divenne magrissimo, e ultimamente morì di fame. Così magro dice che divenne Penteo.
L. 4, 28.6le come: i capelli. - irsute: levate in su.
L. 4, 29.1La voce etc.: cioè non parlava così baldanzoso come solea.
L. 4, 31.1i dolenti fati: Fati sono le disposizioni divine, le quali sono liete e dolenti chiamate, secondo che colui di cui si parla lieta o dolorosa cosa riceve.
L. 4, 31.2costui: Arcita.
L. 4, 32.6mite: dolce.
L. 4, 33.5essa: barca.
L. 4, 40.2commiato prese: dal re Pelleo.
L. 4, 40.3e 'nver di quella: d'Atene - soletto: sanza alcuno suo famigliare.
L. 4, 41.4ora li torna etc.: in quanto non lo lascia riconoscere altrui.
L. 4, 41.8sotto altro aspetto: che il primo, ch'era bello.
L. 4, 42.2are: altari.
L. 4, 42.6memorare: ricordare.
L. 4, 43.1O luminoso Iddio: cioè il sole.
L. 4, 44.2armento: bestiame.
L. 4, 44.3lauree: d'alloro. - censo: cioè riccheza.
L. 4, 44.6are: altari.
L. 4, 46.1Sì come te etc.: Fu Febo innamorato d'una figliuola d'Ameto, re di Tesaglia, la quale non potendo altrimenti avere, si trasformò in pastore, e posesi col detto re, e stette con lui guardandogli il bestiame suo, in così fatta forma, sette anni.
L. 4, 46.3Anfrisio: fiume.
L. 4, 46.4Ameto: re di Tesaglia.
L. 4, 46.5il possente signore: cioè Amore.
L. 4, 46.7mandato: comandamento.
L. 4, 47.2e 'l nuovo nome: cioè Penteo.
L. 4, 47.5la mia rabbia: d'amore.
L. 4, 49.8seconde: prospere.
L. 4, 54.1Maggior letizia etc. Pandione, re d'Attena, aveva due figliuole, delle quali l'una aveva nome Progne e l'altra Filomena; e avendo maritata Progne a Tereo, re di Trazia, avvenne che Progne, avendo voglia di vedere la sirocchia, mandò tereo per lui. Il quale, come la vide bellissima, subitamente innamorò di lei; e non volendola Pandione, ch'era già vecchio, mandare in Trazia, perciò che altro né figliuolo né figliuola avea, tanto e con prieghi e con pianti lo stimolò Tereo, che egli gli concedette di grazia che egli la menasse. Di che Tereo fu oltre modo allegro; e entrato con lei in mare, non a casa sua la menò, ma in uno bosco ad una casa di suoi pastori, e quivi la sforzò. Il che Filomena sostenendo impazientemente, il minacciò di dirlo a Progne; per la qual cosa Tereo le trasse la lingua, e lasciolla quivi imprigionata, e tornò alla moglie vestito di nero, dicendo che Filomena era morta in mare. Dopo alquanto tempo Filomena raccamò sopra una peza di panno lino lettere, le quali raccontavano tutto ciò che Tereo fatto l'avea, e mandollo a Progne. Progne non fece sembiante d'averne sentito nulla, ma aspettò il tempo de' sacrifici di Bacco, li quali le donne facevano di notte in boschi e in luoghi solitarii; e venuto quel tempo, Progne, di notte, faccendo sembiante d'andare sacrificando a Bacco, andò nel bosco dove era in prigione Filomena, e, rotta la casa, la trasse fuori e menollane nascosamente seco; e avendo nell'animo di fare una gran vendetta di questa cosa, e non sappiendo di che farsela maggiore, uccise uno picciolo figliuolo che avea nome Iti, che avuto aveva di Tereo, e cosselo e diedelo mangiare a Tereo. Di che quando Tereo s'accorse, correndo loro dietro per ucciderle, Progne diventò rondine e Filomena usignuolo, e Iti diventò pettorosso e Tereo becchipuzzola.
L. 4, 55.3abile: disposto.
L. 4, 55.4per tale obietto: quale è l'amadore.
L. 4, 55.7non le dispiace: che altri l'ami.
L. 4, 55.8colui: che ama lei.
L. 4, 56.7deforme: sozo.
L. 4, 58.5scaggia: infermità.
L. 4, 59.7la reina: Ipolita.
L. 4, 59.8la fantina: Emilia.
L. 4, 62.1Esso: Penteo.
L. 4, 70.3ella: cioè Emilia.
L. 4, 70.8pruova: Emilia.
L. 4, 72.8da Titon: cioè dal sole.
L. 4, 73.1Filomena: cioè l'usignuolo.
L. 4, 73.2La novella di Tereo è scritta due carte davanti a questa distesamente.
L. 4, 73.3polo: il cielo. serena: chiara.
L. 4, 73.6lavoro sì bello etc.: come è il cielo.
L. 4, 73.8Citerea: Venere.
L. 4, 73.8-74.1vedendo chiarezza: perciò che è quella stella che volgarmente è chiamata la stella Diana.
L. 4, 75.3Febo: sole.
L. 4, 75.4dea: Venere.
L. 4, 75 5figliuol: Amore.
L. 4, 77.6lutto: pianto.
L. 4, 77.7Febo: sole. - e tu, Febo, etc.: perciò che Febo è iddio della sapienza.
L. 4, 77.8cheta: cioè nascosta.
L. 4, 78.2metteva in nota: cantando. - lo amante: Arcita.
L. 4, 78.7del signor: di Teseo.
L. 4, 80.2moti: movimenti.
L. 4, 80.5le vilissime: genti.
L. 4, 80.6in esse: cose.
L. 4, 81.4città di Bacco: Tebe.
L. 4, 81.7altrui: di Creonte.
L. 4, 82.5quivi: in prigione.
L. 4, 83.4le catene: cioè la prigione.
L. 4, 83.5delle qua': catene.
L. 4, 84.7Pelleo: re.
L. 4, 85.2cacciai via: da me.
L. 4, 85.3e qui: in Atene.
L. 4, 10.8quando starà la luna: che sempre si muove e è mossa.
L. 5, 12.8nascosto: cioè imprigionato.
L. 5, 13.2da cieco Edippo etc.: Edippo fu figliuolo di Laio, re di Tebe, e di Iocasta; la quale essendo gravida, trovò Laio che colui che nascerebbe il dovea uccidere, per che comandò che o figliuolo maschio o femina che Iocasta facesse, fosse morto. Nacque Edippo, il quale, secondo il comandamento di Laio, fu dato a due sergenti che l'uccidessero: costoro, mossi a compassione del fanciullo, non l'uccisero, ma, foratili i piedi, l'appiccarono ad uno albero e raportarono che morto l'aveano. Uno pastore del re Polibo, ch'avea nome Forba, il trovò, e, spiccatolo, il portò al signor suo, il quale, non avendo figliuolo, il nutricò come figliuolo e nominollo Edippo. Costui cresciuto e udendo che figliuolo non era di Polibo, volle sapere chi fosse il padre; e andando in sul monte Parnaso per domandarne nel tempio d'Apollo, iddio della indivinazione, entrò in una città chiamata Focis; nella quale cominciatasi una briga e Laio framettendosi di spartirla, Edippo l'uccise, non conoscendolo; e poi prese Iocasta, sua madre, per moglie, e ebbene due figliuoli, Etiocle e Pollinice, e due figliuole, Antigona e Ismene. Poi, riconosciuto la madre il figliuolo e il figliuolo la madre, ebbe Edippo tanto dolore di ciò che avvenuto era, che egli si cacciò gli occhi e misesi a stare in una caverna: e questa fu la «lunga notte», cioè la cechità. Quivi essendo pessimamente trattato da' figliuoli, cominciò a pregare Tesifone, che è l'una delle tre Furie infernali, che tra loro mettesse scandalo e briga, e così fu fatto: e come ella entrata nel petto de' due fratelli vi mise briga, così entrata nel petto di Palemone vi generò la discordia che seguita, che fu tra lui e Arcita.
L. 5, 17.3-4il volo che Dedal etc.: Dedalo fu di Creti, e fu ingegnosissimo uomo; il quale insieme con uno suo figliuolo che aveva nome Icaro, fu messo in prigione da Minòs, re di Creti, perché aveva trovato che per ingegno di costui Pasife, sua moglie, era stata ingravidata da uno toro del quale s'era innamorata. E non vedendo Dedalo via donde potere uscire di prigione se non per aere, fece a se medesimo un paio d'ali e un paio ne fece al figliuolo, e così volando uscirono di prigione.
L. 5, 18.4di tanti: quanti guardavano.
L. 5, 24.7cioncato: bevuto.
L. 5, 29.3e 'l gran Chiron. Chirone Aschiro fu uno centauro, il quale fu maestro d'Achille, e fu trasportato in cielo, e fattone quel segno il quale noi chiamiamo Sagittario, nel quale mostra qui che era la luna, la quale per ciò si dice che conforta il gielo, perciò che di sua natura è fredda e umida.
L. 5, 29.4-5il conforta: cioè la luna.
L. 5, 29.7e quasi piena etc. Cenìt è quel punto in cielo, dal quale se una linea si movesse, la quale cadesse giù diritta a corda, verrebbe appunto sopra il capo nostro. Il mezo cerchio è uno cerchio il quale divide il cielo in due parti equali, delle quali l'una è verso levante, l'altra inverso il ponente; e chiamasi il cerchio del mezodì e della mezanotte, perciò che, come il sole viene sopra quelle, così è sempre mai mezodì, e quando vi vengono le stelle, le quali si lievano allora che il sole si corica, così è appunto mezanotte. Dice adunque che in questo cerchio era la luna, non per mostrare che mezanotte fosse, ma per dare a vedere che la luna era nel mezo del cielo.
L. 5, 30.1l'ebbe rimirata: cioè la luna.
L. 5, 30.3- O di Latona etc.: Scrivono i poeti che Latona fu bellissima donna, della quale Giove innamorato e avuto a fare di lei ebbe due figliuoli, Appollo e Diana, cioè la luna, la quale è chiamata inargentata sì perché li suoi raggi paiono d'ariento a petto a quegli del sole, li quali paiono d'oro, o vero la chiama inargentata dal suo effetto, perciò che la luna è quel pianeto il quale genera l'ariento.
L. 5, 30.7in questo: cioè in farmi lume.
L. 5, 30.8nell'altro: di che io ti priegherò.
L. 5, 31.1Io vado tratto etc. Qui sono da vedere due cose: primieramente chi fosse Tifeo, a presso chi fosse Pluto e come rapisse la luna, alla quale Palemone parla. E primieramente è da sapere, secondo che i poeti scrivono, che Tifeo fu un gigante, il quale volendo contrastare a Giove, iddio del cielo, come gli altri giganti, Giove il fece prendere e distendere in terra, e posegli sopra il capo un monte ch'è in Cilicia, il quale volgarmente è chiamato Mongibello, e in su l'un braccio gli pose un altro monte di Cicilia chiamato Peloro, e in su l'altro un altro monte chiamato Pacchino, e in su le gambe gli pose un monte chiamato Appenino. E dicono che questo Tifeo alcuna volta, operando tutta sua forza, si scuote e ingegnasi di levare; nel quale scuotersi li monti che gli sono posti adosso e la terra circustante triema, e questo tremare è quello che noi chiamiamo tremuoto. Pluto, secondo i poeti, è iddio del ninferno; il quale sentendo una volta forte tremare la terra, e in alcuna parte veggendola sì aprire che alcuna luce apparve in inferno, e sappiendo che questo avveniva per lo muovere di Tifeo, detto di sopra, dubitando di quelle apriture, venne su nel mondo; e andando procurando come l'isola di Cicilia fosse fondata e forte, gli venne veduta in prato una bellissima giovane, chiamata Proserpina, figliuo' di Giove e di Cerere; la quale sommamente piacendogli, subitamente la rapì e portossenela in inferno, e fecela sua moglie. Cerere, trovatasi meno la figliuola, pianse molto, e ricercolla molto, e ultimamente saputo che Pluto l'aveva rapita, si dolfe a Giove di questa rapina; per che Giove volle che Pluto la rendesse. Pluto disse, poi essere non poteva altro, egli era acconcio di renderla, ove ella non avesse mangiato in inferno alcuna cosa, perciò che, se mangiato avesse, rendere non si potea. Cercossi e trovossi che ella avea mangiata una melagranata; onde vedendo Giove che di ragione non si poteva riavere, per consolare Cerere, fece di fatto che ella stesse mezo l'anno in inferno col marito, e 'l mezo si venisse a stare con Cerere, sua madre: e così fa. E acciò che io non sponga ogni parte della favola, che saria troppo lungo, è da sapere che questa Proserpina è la luna, la quale sta in mezo l'anno in inferno, cioè sotto terra in parte che noi non la possiamo vedere, e mezo l'anno sta sopra terra, cioè in parte che noi la possiamo vedere; perciò che chi considererà bene e misurerà dirittamente i tempi della luna, apertamente vedrà noi non poterla in tutto il lunare vedere, se non forse la metà del tempo che il lunare dura: questo, adunque, quello amore il quale Palamone tocca che fu da Plutone portato alla luna.
L. 5, 31.4iscarsi: piccoli.
L. 5, 32.2Chi fosse Leandro, fu mostrato su di sopra nel primo libro. - i lacerti: i bracci.
L. 5, 31.3padre tuo: Giove.
L. 5, 31.7l'avversario: cioè Arcita.
L. 5, 35.1Febea: cioè la luna. - id.: La luna è chiamata Febea, perciò ch'è sorella di Febo.
L. 5, 42.6ammirandi: maravigliosi.
L. 5, 57.1I primi nostri etc. Vuole qui mostrare Arcita che tutti li suoi predecessori, discesi di Cadmo, facitore e re primo di Tebe, abbiano fatta mala morte, e così convenire fare a loro due che rimasi n'erano, cioè a Palemone e a sé. E dice primieramente di quelli «che nacquero de' denti seminati» etc.: a che è da sapere che avendo Giove in forma di toro, come davanti dicemmo, rapita Europa, figliuola d'Agenore, re di Fenici, Agenore comandò a Cadmo,suo figliuolo, che andasse cercando d'Europa, sua sorella, e mai a lui senza lei non ritornasse. Cadmo, non potendola ritrovare, non osando tornare senza lei al padre, si posò là dove fu poi Tebe; e vogliendo cominciare a fare la detta città, ordinò sacrificii a Giove; e tra più volte mandò più suoi compagni per acqua fresca ad una fonte ivi vicina, de' quali non tornandone niuno, v'andò egli e trovò che uno serpente, che era allato alla fonte, gli aveva tutti uccisi. Il quale Cadmo uccise, e, trattigli i denti, gli seminò, de' quali nacquero molti uomini armati; li quali, come nati furono, cominciarono a combattere insieme, e tutti fra loro s'uccisero, fuori che cinque li quali poi furono insieme con Cadmo a fare la città di Tebe.
L. 5, 57.6Atteon disbranaro etc. Atteone fu bellissimo giovane, e nepote di Cadmo. Questi, andando un dì con molti suoi cani cacciando, s'avenne in uno bosco ad una fonte, nella quale per avventura Diana, dea della castità, avendo insino a quella ora cacciato, per rinfrescarsi s'era spogliata ignuda, e bagnavavisi; la quale, vedendo che da Atteone era stata veduta ignuda, turbatasi forte e vergognandosene, prese dell'acqua con mano e gittolla nel viso ad Atteone, dicendo: - Va, e, se puoi, dì che tu m'abbi veduta ignuda -. Atteone subitamente si convertì in cerbio, il quale i suoi cani medesimi, non conoscendolo, l'uccisono e isbranarono tutto.
L. 5, 57.7e Atamante etc. Atamante fu re di Tebe e marito d'una figliuola di Cadmo, chiamata Ino, al quale Tesifone, una delle tre furie infernali, per comandamento di Giunone entrò per sì fatta maniera adosso, che egli impazò; e veggendo questa sua donna in mezo di due piccioli figliuoli che di lui avea venire verso di sé, gli parve che fosse non donna, ma una leonessa con due leoncini, per che, subitamente corse verso di loro, prese l'uno de' figliuoli, ch'avea nome Learco, e percossegli il capo al muro, e ucciselo. Ino, veggendo la furia d'Atamente suo marito, prese in collo l'altro figliuolo, chiamato Melicerte, e seguendola costui, si fuggì e venne sopra un balzo che era sopra il mare, e di quello si gittò e insieme col figliuolo in braccio affogò.
L. 5, 58.1Latona uccise etc. Anfione fu re di Tebe e marito di Niobe, della quale aveva XIIII figliuoli, VII maschi e VII femine. Questa Niobe, veggendo le genti andare a fare sacrificio a Latona, madre d'Appollo e di Diana, cominciò loro dire male e a disprezare Latona, e diceva che essi farieno molto meglio a fare sacrificio e onore a lei che a Latona, perciò che ella aveva XIIII figliuoli, dove Latona non aveva che due. Di che Latona turbata, se ne dolfe a' figliuoli, gli quali incontanente scesi con gli archi loro in uno bosco vicino ad uno prato, nel quale Niobe si diportava con tutti questi suoi XIIII figliuoli, in poca d'ora, saettando, Apollo uccise li VII maschi, e Diana le VII femine.
L. 5, 58.4arder fé Semelè etc. Semelè fu figliuola di Cadmo, e molto amata da Giove; e essendo gravida di lui, Giunone in forma d'una vecchierella andò un dì a lei, e, intrata in novelle seco, l'adimandò se Giove l'amava molto. Semelè rispose che credeva di sì; a cui Giunone disse: - Vuoi tu conoscere se egli t'ama quanto egli dice? Ora il priega che egli si congiunga teco nel modo che egli si congiugne con Giunone: se egli il fa, allora potrai dire che egli sommamente t'ami -. Semelè così fece; di che Giove, per lo saramento che fatto avea, non potendolo indietro tornare, la fulminò; laonde ella arse e tornò in cenere.
L. 5, 58.5e qual d'Agave etc. Penteo fu figliuolo d'Agave, figliuola di Cadmo, il quale faccendo beffe d'uno chiamato Aceste, il quale raccontava molte cose miracolose della deità di Bacco e similmente de' sacrificii che al detto Bacco si faceano, avvenne che andando Agave con le sirocchie e con più altre persone a' detti sacrificii fare, Penteo per impedirgli si parava davanti, il quale non Penteo, ma un porco salvatico parendo alla madre e a tutti gli altri, subitamente dalla madre fu assalito e, aiutata dalle sirocchie e dagli altri che quivi erano, tutto fu sbranato.
L. 5, 58.7e simile d'Edippo etc. Chi fosse Edippo, e come egli uccidesse il padre, e come prendesse poscia sua madre per moglie, e avessene più figliuoli, distesamente è detto di sopra, vicino al principio del secondo libro.
L. 5, 59.3il fuoco fé etc. Detto è di sopra, vicino al principio del secondo libro, che Etiocle e Pollinice, fratelli e figliuoli d'Edippo, s'uccisono insieme; a' quali, poi che furono morti, per fare loro onore della sepoltura venne Argia, figliuola del re Adrasto e moglie di Pollinice, da Argo, e di notte, avendo tanto cerco fra' corpi morti, nel campo che ella aveva ritrovato Pollinice, piangendo sopra di lui, sopravenne Ismena, sirocchia di Pollinice; e riconosciutesi amendue, come meglio poterono, aiutate dalla loro compagnia, fecero un gran fuoco e miservi entro i due fratelli morti, cioè Etiocle e Pollinice; li quali sì tosto come entro vi furono, la fiamma e tutto il fuoco si divise in due parti, quasi non volessero ardere in uno medesimo fuoco; la quale cosa fu assai evidente dimostramento dell'odio che portato s'avevano in vita, poi che morti recusavano d'essere insieme. E questo dice: «il fuoco fé testimonianza d'elli» etc.
L. 5, 59.5Creonte: re di Tebe.
L. 5, 59.6molto lodare: perciò che non gli fé avere vittoria sopra Teseo. Bacco: dio del vino.
L. 5, 59.8del teban sangue: cioè di Cadmo.
L. 5, 62.2Appollo surgente: il sole che si levava.
L. 5, 62.3Fauni: iddii de' boschi. - Driade: dee degli alberi.
L. 5, 62.7Priapo: dio degli orti.
L. 5, 88.5Cupido: Amore.
L. 5, 88.7l'un: Penteo. - Egina: isola.
L. 5, 88.8l'altro: Palemone.
L. 5, 92.5-6per colui pietà etc.: Rapì Teseo nella sua giovanezza Elena, figliuola di Tindaro, la quale fu poi rapita da Paris; ma la madre di Teseo la rendé a Castore e a Polluce, suoi fratelli, senza essere ella stata tocca da Teseo: per che gli fu cotale ingiuria perdonata.
L. 5, 96.4altrettale: cioè di schiatta reale.
L. 5, 96.5la reina: Ipolita.
L. 5, 96.6imperiale: cioè signorile.
L. 5, 97.6a te: Arcita.
L. 5, 96.7teatro: che sia teatro è mostrato di sopra.
L. 5, 98.1di fore: del teatro.
L. 5, 98.3l'altro: il cacciato.
L. 5, 99.1mal sol: cioè troppo caldo.
L. 5, 99.2Noto: vento il quale è chiamato Ostria.
L. 5, 99.3Zeffiro: vento chiamato Ponente.
L. 5, 99.4aurora: l'alba.
L. 5, 99.5gloriosa: cioè bella.
L. 5, 99.7costor: Arcita e Palemone. - raccolto: udito.
L. 5, 103.1Febo era già etc. Dimostra qui l'autore di che stagione dell'anno era e quale ora del dì, quando Palemone e Arcita si misero a tornare con Emilia ad Atene; e dice che era di state, perciò che il sole era in Cancro, nel quale egli sta da mezo giugno infino a mezo luglio; e dice che era ora di mezodì, perciò che quando che 'l sole era salito a mezo il cielo e Cenìt è alto quanto può più salire. - L'animale che tenne Garamante si è il granchio; e è nota la favola in cotal forma: Giove partitosi di Creti per andarsene in Africa ad Atalante, in Libia, avvenne che egli per lo caldo, che era di giugno, si pose a riposare alla riva d'un fiume chiamato Oragada; dove stando, vide ivi presso una bellissima giovane, il cui nome era Garamante, la quale subitamente amò; e andando per prenderla, come ella il vide, volle fuggire, e già era mossa, quando uno granchio, presala con l'una delle bocche per lo minore dito del piè, sì forte la strinse, che ella per lo duolo ristette, né prima si poté levare il granchio dal piè, che Giove la sopragiunse, e tra per amore e per forza avuto a fare di lei, ne generò uno figliuolo, il quale ebbe nome Giarba e fu re de' Getuli; e perciò che per beneficio di quel granchio l'aveva giunta, preso il granchio, il trasportò in cielo e poselo in quella parte dove allora era il sole, e divenne quel segno che noi chiamiamo Cancro.
L. 6, 14.1Il primo venne etc. Venendo Adrasto, re d'Argo, con altri re in servigio di Pollinice, suo genero, ad assediare Tebe, pervennero nel regno di Ligurgo in una parte chiamata Nemea. Quivi essendo il caldo grande e non trovando acqua, per avventura coloro che cercando andavano trovarono in uno giardino Isifile, la quale aveva in guardia un piccolino fanciullo di Ligurgo, chiamato Ofelte. E essendo da costoro domandata dove acqua potessero trovare, ella rispose loro di mostrarla, e, posto il fanciullo tra l'erbe e' fiori in uno prato, si mise loro innanzi e menogli ivi presso ad uno fiume chiamato Langia. E poi che tutto l'esercito ebbe bevuto, significò al re Adrasto e a' compagni chi fosse e quello che avvenuto l'era per adietro. Quindi, ricordatasi del fanciullo che tra l'erbe avea lasciato, corse a lui e trovollo morto, perciò che il fanciullo s'era addormentato, e passando fra l'erbe un grandissimo serpente, menando la coda in qua in là, senza vedere il fanciullo, gli avea tale dato in su la testa, che l'aveva ucciso. Della morte di questo fanciullo portava ancora bruno Ligurgo e ancora ne piagnea.
L. 6, 15.4di seme di formiche etc. Essendo Eaco, padre di Pelleo, di cui qui si fa menzione, re d'Egina, avvenne che una pistolenzia d'infermità e di mortalità nacque sì grande in Egina, che quasi niuna persona vi rimase. La qual cosa Eaco con gran dolore sostenendo, gli avenne che dormendo egli, gli parve vedere una quercia, il cui pedale e li cui rami gli pareva che fossero pieni di formiche, e parevagli dire: - Oh! Se tutte quelle in uomini si convertissono, il mio regno sarebbe ristorato -. Il quale disiderio, dagl'iddii esaudito, venne ad effetto, perciò che tutte quelle formiche si convertirono in uomini, li quali abitarono e riempierono Egina, e chiamaronsi Mirmidoni, perciò che in greco la formica si chiama «mirmidon»; e questo vuol dire: «che si rifeo di seme di formiche» etc.
L. 6, 17.3micanti: risplendenti.
L. 6, 17.8termodontiaca: di quel paese così chiamata. - bipenne: questa è accetta con due tagli.
L. 6, 18.5fé sospirare: per la sua bellezza.
L. 6, 19.1-4Cefalo d'Eolo, Foco, Telamone, Agreo epidauro, Flegiàs di Pisa, Alcone sicionio: tutti furono i compagni di Pelleo, e nobilissimi giovani.
L. 6, 19.3epidaurio: cioè di Durazo.
L. 6, 19.4Pisa: di Romania.
L. 6, 20.2dionei. Venere è chiamata Dione, e i colombi sono uccelli di Venere e da lei sono chiamati dionei, de' quali sono molti in Nisa, cioè in quella contrada così chiamata. la cui principale città ha nome Alcatoe.-Niso: re.
L. 6, 20.4Alcatoe: città.
L. 6, 20.7guardando quel capello etc. Questo re Niso si dice ch'avea in capo un capel porporino, il quale era stato fatato: mentre l'avesse, non potea perdere il regno suo, e per ciò il guardava bene.
L. 6, 21.2di Trenarea: di quella contrada. - Agamenone: re. -
L. 6, 21.5sé già degno etc.: ch'e' fu fatto generale imperadore di tutto l'esercito de' greci.
L. 6, 22.4rilucenti: dorati.
L. 6, 23.2Menelao: re.
L. 6, 24.5Venere: dea.
L. 6, 24.6lui: cioè Menelao.
L. 6, 25.4gli avesse il cigno etc. Leda fu moglie di Tindaro re, e fu bellissima donna, della quale innamorato, Giove, trasformato in cecero o cigno che vogliàn dire, le venne innanzi cantando dolcemente: laonde ella, invaghita di lui, il prese e se nel menò in casa. Quivi Giove ebbe a fare di lei, di che si generarono due vuova; delle quali due vuova, dell'uno nacque Castore e Polluce, bellissimi e valorosi giovani, de' quali qui si parla; dall'altro nacquero Clitemestra, che fu poi moglie d'Agamenone, e Elena, che poi fu moglie di Menelao e rapita da Paris.
L. 6, 26.1lernei: greci.
L. 6, 27.1nemeo: di quella selva.
L. 6, 27.2tirinzio: di quel paese.
L. 6, 27.3al padre: Ercule.
L. 6, 27.4avea sentito: quello leone di cui era stato quel cuoio.
L. 6, 27.7Strimon: nome propio. - Diomede: re.
L. 6, 27.7-8Diomede fu re di Trazia, e fu crudellimo uomo, perciò che egli chiunque gli capitava a casa uccidea, e dava i corpi morti a mangiare a suoi cavalli ferocissimi, li quali egli avea. La cui crudeltà saputa da Ercule, andò in Trazia, e ucciso questo re e gran parte de' suoi cavalli, ne menò in Grecia Strimone, di che qui si ragiona, il quale sempre ritenne quella fierezza di mangiare gli uomini quando giugnere n'avesse potuto alcuno.
L. 6, 27.8mangiator: cioè quel cavallo.
L. 6, 28.6si fer sentir di Silla etc. A dimostrare il romore che faceva Strimone, tocca qui l'autore la favola di Silla e la verità nascosta sotto la favola. Fu adunque Silla una bellissima giovane di Cicilia, la quale fu sommamente amata da Glauco, iddio marino; il quale Glauco essendo molto amato da Circe, figliuola del Sole, e per l'amore il quale Glauco portava a Silla veggiendosi Circe da lui disprezare, con suoi incantamenti andò e contaminò uno luogo nel quale Silla si soleva bagnare. Per la qual cosa, come Silla v'entrò, subitamente si sentì prendere da due cani marini, de' quali ciascuno trangugiò l'una delle gambe di lei e la coscia infino all'anguinaia, e così la tirarono in mare, forte latrando, là dove ella fu trasmutata in uno scoglio, il quale ancora si chiama Silla; né mai per ciò si partirono i cani, anzi ancora s'odono alcuna volta abaiare, come se Silla loro volesse uscire di bocca. E come l'autore appresso tocca, nel vero Silla è uno scoglio vicino della Cicilia, il quale in quella parte dove il mare agiugne è molto cavernoso, e per ciò quando Scilocco soffia, e il mare si muove impetuoso e entra per le caverne di questo scoglio, e nello entrare si rompe, e rompendosi risuona per quelle caverne a guisa che fossero molti cani che abaiassero: e tale romore quale egli fa, cotale dice che il faceva il cavallo di Cromis, cioè Strimone.
L. 6, 29.1Oetalia: provincia di Grecia.
L. 6, 29.3Ippodomo: nome propio.
L. 6, 29.7calidonio: cioè di quella contrada.
L. 6, 30.1Pilos: città. - Nestor: re.
L. 6, 31.8più li fu larga: era ricco.
L. 6, 32.2in piatte: cioè erano inarientate le piatte del ferro.
L. 6, 34.1Ciclopi sono chiamati gli Ateniesi da uno re il quale ebbero, che fu chiamato Ciclopo, overo Cicropo.
L. 6, 35.1Evandro: re d'Arcadia. - Evandro etc. Evandro fu re d'Arcadia, la quale l'autore chiama qui Nonacria perciò che in essa sono nove monti, e perciò la chiama sterile perché è brutto terreno. Fu Evandro, secondo che i poeti scrivono, figliuolo di Mercurio e di Carmenta, nobilissima e savia donna, concetto in su uno monte d'Arcadia, chiamato Cilleno.
L. 6, 35.2di colui: cioè di Mercurio.
L. 6, 35.7essendo ancora etc.: ché poi ne fu cacciato.
L. 6, 36.5libistrico: di quella selva così chiamata.
L. 6, 37.1lunati: cornuti a modo di luna.
L. 6, 37.2limbi: orli. - circuite: atorniate.
L. 6, 37.3in cinghiar: cioè nelle pelli de' cinghiari.
L. 6, 38.1armi: omero.
L. 6, 38.2Uno scudo etc. Secondo che nelli poetici libri si può vedere, gli antichi Greci non usavano di portare nelli loro scudi alcuno segno, sì come oggi si porta, anzi vi portavano istorie della loro nobiltà: e così mostra qui l'autore che faceva Evandro, per dimostrare che di Mercurio fosse stato figliuolo.
L. 6, 38.3Atlanciade: Mercurio. nel qual pareasi Atlanciade etc. Atlanciade è patronimico di Mercurio, perciò che Mercurio fu figliuolo di Giove e d'una figliuola d'Atalante.
L. 6, 38.4fatto, Argos etc. Giove amò una giovane, la quale ebbe nome Io, figliuola d'Inaco, e essendo un dì con lei s'avide che Giunone, avendo sentito questo fatto, veniva là ove egli erano, per sopragiugnerlo con lei. Per la qual cosa Giove subitamente trasmutò la giovane in una vacca: di che Giunone avvedutasi, chiese a Giove questa vacca. Giove, non potendolo acconciamente disdire, gliele donò, e Giunone la diede a guardare ad uno suo pastore il quale avea nome Argo, e aveva cento occhi co' quali non dormiva mai se non con due occhi, cioè, come due n'avevano dormito e destavansi, e egli ne dormivano altri due, sì che sempre ne vegghiavano novantotto. Increscendo a Giove che questa giovane fosse in forma di vacca e così guardata, mandò Mercurio in terra e dissegli che facesse sì che gliele togliesse. Mercurio, presa forma e abito d'uno pastore, s'andò a stare con Argo, e cominciò sì dolcemente a sonare una sampogna, che Argo s'adormentò con tutti e cento gli occhi. Il che veggendo Mercurio subitamente l'uccise e tolsegli la vacca; e Giunone, vedendo il pastore suo morto, il convertì in uno paone, e i cento occhi ch'egli aveva nella testa gli pose nella coda. E Mercurio punse questa vacca per modo che ella n'andò correndo insino in Egitto, e quivi ritornò nella sua prima forma. E questo è quello che l'autore dice che era dipinto nello scudo d'Evandro.
L. 6, 38.7Geta: Come e perché Mercurio divenisse Geta, è mostrato di sopra dove si parla della generazione d'Ercule.
L. 6, 38.8del padre:di Giove.
L. 6, 39.1Erse: Eravi ancora etc.: Herse [].
L. 6, 41.2ancora le guance etc.: non era barbuto, sì era ancora giovane.
L. 6, 42.1Adone: Mirra fu figliuola di Cinara, e innamorossi di lui, e fatto sembiante d'essere un'altra femmina, giacque con lui, e ebbene questo Adone, il quale Venere sommamente amò.
L. 6, 42.6del seme etc. Era una raza di cavalli in Grecia ottimi, li quali li Greci dicevano essere stati procreati da Nettunno, iddio del mare.
L. 6, 44.1E il duca narizio: cioè Ulisse.
L. 6, 44.2Laerte: re, padre d'Ulisse.
L. 6, 44.7Diomede: figliuolo che fu di Tideo.
L. 6, 45.1Pigmaleone: re.
L. 6, 46.2il gnosiaco re: cioè Minòs - dittea: Creti ha più nomi, sì come Gnosia e Dittea.
L. 6, 46.5Androgeo: questo Androgeo, figliuolo di Minòs, essendo poi, dopo queste cose, ad Atene in istudio, vi fu ucciso.
L. 6, 46.6lernea: cioè greca.
L. 6, 47.1Radamante: fratello di Minòs.
L. 6, 47.2Sarpedone:fratel di Minòs.
L. 6, 48.2i regni etc.: cioè il mare. - di Nereo: cioè di Nettuno, iddio del mare.
L. 6, 48.3e come Giove etc.: come Giove in forma di toro rapisse Europa, figliuola del re Agenore, è detto di sopra.
L. 6, 48.4onde nasceo: Minòs.
L. 6, 48.5e' liti: cioè di Creti.
L. 6, 48.6ditteo: cioè di Creti.
L. 6, 48.7la casside: cioè l'elmo.
L. 6, 48.8lucea della paterna stella: portava Minòs per cimiero la stella di Giove.
L. 6, 50.5né biasimarono il focoso etc. Essendo dopo queste cose stato ad Attene ucciso Androgeo, figliuolo di Minòs, re di Creti, Minòs per vendicare la morte del figliuolo andò sopra gli Atteniesi e sopra gli amici loro con grandissimo esercito. E tra gli altri amici degli Atteniesi il qual egli offese, fu Niso, del quale di sopra è detto, re di Nisa: costui assediò Minòs in Alcatoe, sua città: e mentre che egli stava allo assedio, Silla, figliuola di Niso, vedendolo da una torre della città, s'innamorò di lui, e desiderando di compiacerli si pensò di trarre al padre uno capello purporino, il quale mentre egli l'aveva non poteva perdere la terra; e così fece, e trattogliele, il portò a Minòs, laonde Minòs prese la città e uccise Niso; e dispiacendogli ciò che Silla aveva fatto, la fece gittare della nave; ma gl'iddii la convertirono in allodola, e Niso in ismerlo. Ora dice qui l'autore che coloro li quali si ricordavano d'avere veduto Minòs così bello e così visto come in Atene era venuto, non tenevano a maraviglia se Silla s'era innamorata di lui e se ella aveva tradito il padre per avere l'amore di Minòs, etc.
L. 6, 51.1bistone: Bistonia è una provincia sotto tramontana, nella quale ha fierissimi uomini e forti.
L. 6, 52.1Alfeo: fiume.
L. 6, 52.3Ida piseo: cioè di Pisa, la quale è una città in Grecia, alla quale corre d'intorno uno fiume chiamato Alfeo. E di questa Pisa vennero coloro che fecero Pisa ch'è in Toscana.
L. 6, 52.6I giuochi olimpiaci si facevano di cinque in cinque anni: chiamati olimpiaci perché in Olimpo, monte di Macedonia, si faceano.
L. 6, 53.1nel corso leggiere: della leggerezza che qui pone l'autore che avea questo Ida, scrive Virgilio di Camilla, e quindi fu tolto ciò che qui se ne scrive.
L. 6, 53.3da Partico o Cidone: Partici e Cidoni sono due maniere di gente, ciascuna ottima arciera.
L. 6, 54.2crucciato: turbato per fortuna.
L. 6, 55.1Ameto: re di Tesaglia.
L. 6, 55.5in forma etc.. Di sopra è detto come Febo, innamorato d'una figliuola d'Ameto, transformato in pastore, guardò sette anni gli armenti d'Ameto.
L. 6, 56.1Foloèn: Foloèn e Irim furono due cavalli, della raza discesi d'uno cavallo che si chiamò Pegaso, del quale nel principio di questo libro dicemmo, il quale Pegaso fece col piè il fonte castalio, come di sopra si dice; per ciò dice qui: «il quale da il castalio simigliando», cioè da Pegaso.
L. 6, 57.1Ematici: Tesaglia è altressì chiamata Emazia e perciò dice qui con gli Ematici, cioè Tesalici.
L. 6, 58.1Boezia è una parte di Grecia, della quale è la città di Tebe.
L. 6, 59.1i Dircei: cioè i Tebani.- id.: sono i Tebani chiamati Dircei da una fonte, la quale è presso a Tebe, chiamata Dirce.
L. 6, 59.2fuggiti: quando Tebe fu prese.
L. 6, 59.5Ismeneo: è uno fiume presso a Tebe.
L. 6, 59.6Citeron: è uno monte.
L. 6, 59.8Elicona: monte.
L. 6, 60.1Esopo: fiume.
L. 6, 60.2Egina fu figliuola d'Esopo, la quale Giove rapio, e ebbe di lei Eaco, padre di Pelleo e avolo d'Accille; il quale Esopo, per ciò che pericolosissimamente crescie alcuna volta, fingono i poeti che egli crucciato allora s'ingegna d'agiugnere al cielo per vendicare la sua ingiuria da Giove fattagli della figliuola.
L. 6, 60.3sincero: chiaro.
L. 6, 60.5Antedon: città.
L. 6, 60.7de' signor: d'Arcita e di Palemone.
L. 6, 61.1Cefiso: fiume.
L. 6, 61.2Narcisso fu figliuolo di Cefiso, e fu bellissimo giovane e grandissimo cacciatore, e di più belle giovani, che di lui s'erano innamorate, s'aveva fatto beffe senza volerle udire o vedere o amare. Avvenne un dì che, avendo egli, e per la stagione che era calda e per la fatica durata, grandissimo bisogno di rinfrescarsi e di riposo, s'abatté in una valle nella quale era una chiarissima fonte. Quivi, non avendo egli mai né in ispecchio né in altro veduto se medesimo, facendosi col viso sopra la fonte forse per bere, vide nell' acqua la sua effigie stessa, la quale gli parve sì bella, che, credendo che fosse una giovane che dentro vi fosse, s'innamorò di se medesimo, né mai di su quella si partì, che egli vi morì, e fu dagl'iddii convertito in un fiore violetto, il quale ancora si chiama narcisso: e per questo non poté essere con gli altri gentili uomini ad Attene.
L. 6, 61.3tespiaci: cioè di quella contrada chiamata Tespia.
L. 6, 62.1Chi fosse Leandro e come morisse è detto di sopra: è vero che, poi che affogato fu, i delfini, così morto, il sospinsero al lito di Sesto, dove Ero, sua donna, dopo molto pianto, il fece sepelire.
L. 6, 62.7né' suoi: uomini.
L. 6, 63.1Chi Erisitone fosse, e come di fame morisse e perché, è detto di sopra.
L. 6, 63.6Ceres: dea delle biade.
L. 6, 65.7egeo: re d'Atene.
L. 6, 67.5regione: d'Atene.
L. 6, 67.6così fatto tesoro: come era Emilia.
L. 6, 68.1'l suo: d'Emilia.
L. 6, 68.4quantunque: cioè di tutto il mondo.
L. 6, 68.6probi: cioè valorosi.
L. 6, 69.8non potean sentire: Arcita e Palemone per indovinamento.
L. 6, 70.8da' fini amadori: cioè da Arcita e da Palemone.
L. 6, 71.1Pallade, dea della sapienzia, e Nettunno, iddio del mare, fecero la città d'Attene, la quale fatta ciascuno voleva nomare a sua guisa. Di che sendo tra loro la questione grande, vennero a questa composizione, che ciscuno di loro battesse con una verga la terra, e quale, secondo il giudicio di Giove, producesse più nobile cosa, colui, come gli piacesse, la nominasse. Nettunno adunque percosse con la sua verga la terra, la quale percossa subitamente produsse un cavallo; Pallade similmente la percosse, e subitamente nacque uno ulivo. Di che Giove disse che Pallade la dovesse nominare, perciò che quello che della sua percossa era nato, cioè l'ulivo, significava pace e tranquillità, dove il cavallo nato dalla percossa di Nettunno significava guerra. Nominolla adunque Pallade Atene, la quale tanto vuole dire in latino quanto cosa immortale.
L. 7, 2.2labdacii: greci. - eminente: alto, sopra tutti.
L. 7, 2.4più umilemente: più bassi.
L. 7, 4.8palestral gioco: Palestrale giuoco era che gli uomini si solevano sopra le carni vestire un cuoio strettissimo e morbido, nel quale niuno altro pertugio si vedea se non per me' gli occhi, acciò che veder potesse, e per me' la bocca, acciò che potesse spirare; poi così vestiti s'ugnevano tutti o d'olio o di sevo, e quindi si prendevano a guisa di coloro che fanno alle braccia; e era reputata gran forza e gran destreza quella di colui che alcuno altro poteva o mettere in terra o tener fermo. E in questo cotale giuoco entravano alcuna volta le donne; e elena, anzi che fosse moglie di Menelao, essendo ancora pulcella, intrata in questo giuoco, come che molto chiusa fosse, pur fu conosciuta da Teseo e rapita da lui, come di sopra brievemente si toccò.
L. 7, 5.1Lernea: Grecia.
L. 7, 5.2achivi: greci.
L. 7, 8.8pur d'un sangue etc.: cioè tutti siamo Greci.
L. 7, 9.2larisseo: greco. - id.: Larissa è una città di Tesaglia, dalla quale i Greci sono, secondo l'usanza poetica che dalla parte spesso nominano il tutto, chiamati Larissei.
L. 7, 9.4come al seme etc.: Di sopra è mostrato come i denti del serpenti ucciso da Cadmo e da lui seminati, ne nacquero uomini armati, li quali fra sé s'uccisero.
L. 7, 12.5bipenni: acette.
L. 7, 23.6rorati: innaffiati.
L. 7, 24.3al sol etc.: perciò che non vedeano il sole.
L. 7, 24.5agli orgogliosi etc.: Scrivono i poeti che la Terra partorì i giganti, li quali come da Giove e da Marte vinti fossero per forza d'arme è scritto di sopra.
L. 7, 25.3per quella pietate etc.: Scrivono i poeti che giaccendosi Marte con Venere, la quale egli amava sopra ogni altra cosa, il Sole se ne avvide e disselo a Vulcano, iddio del fuoco,il quale era marito di Venere. Per la qual cosa Vulcano, essendo ingegnosissimo fabro, acciò che egli vedesse se ciò era vero, fece una rete di ferro fortissima e fecela sì sottile che appena si discernea; poi la tese intorno al letto suo, in guisa che chiunque v'entrava rimaneva preso. Laonde avvenne che un giorno, non essendo egli a casa, Venere e Marte, sanza avvedersi della rete, se ne entrarono ignudi nel letto, nel quale Vulcano tornando gli trovò, e mostrògli a tutti gl'iddii, li quali vedendo ciò se ne risono; ma Marte, volendosi levare, non poté per la rete nella quale si trovò preso. Alla fine, di questa cosa increbbe a Nettunno, iddio del mare; per che egli pregò tanto Vulcano, che egli ruppe la rete e lasciògli andare.
L. 7, 27.1per lo santo foco: cioè per l'amore che tu portasti a Venere.
L. 7, 27.3palestral gioco: Detto è di sopra che sia il giuoco palestrale, e bene che questo non debbia essere così fatto, parla l'autore al modo poetico, li quali non curano in uno medesimo modo chiamare diverse cose, solo che in sé abbiano in alcuno atto alcuna similitudine, come è questo a quello.
L. 7, 28.6offensione etc.: cioè non se gli aveva ancora mai né rasi né tonduti.
L. 7, 29.1Era allor etc.: Vuole per questo mostrare l'autore Marte allora essere ozioso quando a lui giunse l'orazione d'Arcita, perciò che gli uomini d'arme, quando non hanno a fare alcuna altra cosa, fanno forbire l'armadura, o raconciare selle, o simili cose.
L. 7, 29.4quando d'Arcita etc.: Sì come tra due signori li quali sieno l'uno da l'altro lontano, sono molte volte gli ambasciadori mezani a fare sapere a l'uno la intenzione dell'altro, così è tra noi e Iddio la orazione; e perciò qui l'autore la finge avere forma di persona acciò che possa dire quello che intende, perciò che dal farla persona prende conseguentemente cagione al disegnare la casa di Marte, sì come cosa da questa orazione veduta.
L. 7, 30.1ne' campi trazii etc. In questa parte discrive l'autore la casa di Marte, intorno alla quale sarebbero da considerare tritamente molte cose, chi ordinatamente volesse disporre; ma perciò che per innanzi assai leggiermente s'è proceduto, così qui spegnendo sommariamente passeremo. E acciò che più ageviolmente la sposizione si comprenda, dice l'autore che intende dimostrare qui IIII cose. La prima si è la qualità del luogo dove è la casa di Marte; la seconda si è come sia fatta la casa di Marte; la terza si è chi sia nella casa di Marte; la quarta si è di che cosa sia ornata la casa di Marte. Dice adunque primieramente che la casa di Marte è in Trazia, in luoghi freddi e nebulosi e pieni d'acqua e di venti e di ghiacci, salvatichi e pieni d'alberi infruttuosi, e in luoghi ombrosi e inimici del sole e pieni di tumulto. Ad intelligenzia della qual cosa è da sapere che in ciascun uomo sono due principali appetiti, de' quali l'uno si chiama appetito concupiscibile, per lo quale l'uomo disidera e si rallegra d'avere le cose che, secondo il suo giudicio, o ragionevole o corrotto ch'egli sia, sono dilettevoli o piacevoli; l'altro si chiama appetito irascibile, per lo quale l'uomo si turba o che gli sieno tolte o impedite le cose dilettevoli, o perché quelle avere non si possano. Questo appetito irascibile si truova prontissimo negli uomini ne' quali è molto sangue, perciò che il sangue di sua natura è caldo, e le cose calde per ogni picciolo movimento leggiermente s'accendono; e così avviene che gli uomini molto sanguinei subitamente s'adirino, come che alcuni con grandissima forza di ragione e ricuoprano la loro ira. E perciò che sì come in altra parte ponemmo, nelle regioni fredde gli uomini sono più sanguinei che altrove, pone qui l'autore il tempio di Marte, cioè questo appetito irascibile, essere in Trazia, la quale è provincia posta sotto la tramontana e molto fredda, nella quale sono li uomini fierissimi e battaglievoli e iracundi per lo molto sangue. Nebuloso dice che è, a dimostrare che l'ira offuschi il consiglio della ragione; il quale intende più giù per lo raggio del sole, il quale dice che la casa di Marte caccia da sé. Per lo ghiaccio intende la fredeza dell'animo dell'adirato, il quale, vinto da questo accendimento d'ira, diviene crudele e rigido e senza alcuna carità. Per li guazi intende le lacrime le quali per isdegno molte volte gli adirati gittano. Dice similemente che ella è in una selva; per la quale intende li segreti cernimenti di nuocere che fanno talvolta gli adirati. E per l'essere la selva sterile, intende gli effetti dell'ira, li quali non sono solamente toglitori de' frutti delle fatiche degli uomini, ma guastatori di quegli. E quinci viene che in così fatta selva non ha né pastore né bestia, cioè che l'adirato non regge né sé né saluti altrui. È adunque l'abitazione di Marte in sì fatto luogo come brievemente è dimostrato. Seguita a vedere la seconda cosa, cioè come sia fatta questa abitazione overo casa di Marte. E dice che ella è tutta d'acciaio risplendente e ha le porte di diamante e le colonne di ferro: per l'acciaio intende la dureza della ostinazione dell'adirato, e questa mostra che sia la copritura della casa, perciò che dice poi che le colonne sono di ferro; e questo acciaio dice che riverberando caccia da sé la luce del sole, e meritatamente, perciò che, se questo acciaio s'ammollisse tanto che lasciasse passare dentro la luce del sole, cioè il sano consiglio della ragione nella mente dell'adirato, ella non sarebbe più casa di Marte, cioè di guerra e di tribolazione, ma di pace. E non solamente a questa ostinazione il tetto d'acciaio fa fuggire la divina grazia che di sopra viene, cioè il salutevole consiglio della ragione, ma ella ha le porte di diamante, acciò che dentro non passi nessuna umana persuasione, la quale possa o piegarla o amollirla, e è sostenuta da colonne di ferro, cioè da non rompevoli proponimenti. E sono in questa casa molte genti, le quali sì come terza cosa vegnono da essere dimostrate. Dice adunque che in questa casa di Marte sono gl'Impeti dementi, i quali dice che uscirono fuori della porta, a dimostrare che il primo atto dell'uomo adirato sia l'impeto, perciò che, sì come noi veggiamo, gli adirati subitamente corrono all'arme o vanno adosso altrui, e chiama questi impeti dementi, cioè pazi, sì come veggiamo che sono. Apresso dice che v'è il cieco Peccare, il quale è effetto dell'impeto, perciò che chi corre sanza diliberazione ragionevole a fare alcuna cosa, ciecamente pecca. Dice che v'era ancora ogni Omei, cioè ogni maniera di guai; e ciò è assai ragionevole, ché dalle cose pazamente fatte è di necessità seguire guai o a chi ingiustamente le riceve o a chi si riconosce ingiustamente averle fatte. Appresso pone che v'erano l'Ire, rosse come il fuoco, nella quale cosa esprime l'apparenza dell'adirato, il quale generalmente nella prima vista veggiamo arrossare, e dice l'ire, in numero plurale, a dimostrare che due maniere d'ira sono, e ciascuna fa arrossare l'adirato: l'una si è l'adirarsi senza ragione, e questa è viziosa e è quella di che qui si parla; l'altra può essere ragionevole, sì come il turbarsi d'alcuna cosa non giustamente fatta,e questa riceve il consiglio della ragione in riprendere e in fare ammendare quella cotale cosa mal fatta; e vuole l'autore costei essere nella casa di Marte, perciò che da questa sono nate e possono nascere tutto dì molte giuste guerre. Similemente vi pone la Paura, la quale suole molto sotto entrare negli adirati, poi che alquanto si sono raffreddati, o vogliamo dire ne' guerreggiatori, quando non si veggiono succedere le cose come nelle 'mprese l'avisavano; e dice che questa Paura era pallida, perciò che noi veggiamo li paurosi pallidi, e la cagione è per lo sangue che è ricorso dentro al cuore che teme. Dice ancora che vi sono i Tradimenti co' ferri occulti, e le 'nsidie, cioè gli aguati, con giusta apparenza, le quali sono cose pertinenti agli effetti che nascono dell'ira, cioè le guerre. E èvvi la Discordia co' ferri sanguinosi, la quale similmente è degli effetti dell'ira, come che molti dicano l'ira nascere dalla discordia. Dice che v'è ogni Differenza, cioè ogni maniera di quistione e di riotta. Dice ancora che ogni luogo v'è strepente, cioè risonante, d'aspre Minaccie e di Crudele Intenza, cioè garimento, i quali,come noi conosciamo apertamente, sono atti d'adirati. Oltre a questo dice che v'è la Virtù tristissima; per questa intende la corporale forza, la quale, quando indebitamente s'adopera nelle morti e nelle fedite degl'innocenti, è tristissima virtù, e povera, cioè senza alcune degne di lode. Appresso dice che v'è l'alegro Furore, il quale senza fallo noi veggiamo in ciascuno atto di colui che ingiustamente è adirato, perciò che tutti sono furiosi; allegro il chiama, perciò che con impio animo e con romore e con pompa si corre alle 'mprese furiosamente. Dice appresso che v'è la Morte armata e lo Stupore, quasi due fini delle guerre nata dall'ira, perciò che o nell'armi si muore, essendo dagli armati ucciso, o, rimanendo vivo, s'ha ammirazioni delle gran cose avvenute da piccioli principii, sì come molte volte abbiamo veduto avvenire. Quinci procede l'autore a dimostrare la quarta cosa, cioè di che sia ornata la casa di Marte, cioè il tempio. E dice che ogni altare v'è copioso di sangue, non di bestie come agli altri iddii quando si facea loro sacrificio s'uccidevano, ma di sangue umano sparto nelle battaglie; e questo pone, e ancora l'altre cose che seguono, a dimostrare li crudeli fini che hanno l'ire non mitigate dalla ragione. Dice similemente: ogni altare di Marte luminoso etc.: quali siano gli altri ornamenti assai chiaro apparisce. Nondimeno so che assai più cose e meglio sopra questa materia si potrebbono dire; lasciole a coloro che con più diletto partitamente le vorranno ancora raguardare e scrivere, perciò che a me basta, scrivendo questo ad instanzia di donne, averne detto quello che qui appare. iberni: cioè sempre freddi.
L. 7, 30.2agitati: stimolati.
L. 7, 30.3nimbi: nuvoli.
L. 7, 30.6agroppati: aghiacciati.
L. 7, 32.2questa: orazione.
L. 7, 32.3pulio: pulito.
L. 7, 32.5abborreva: schifava.
L. 7, 32.6entrata: del tempio.
L. 7, 32.7etterno: cioè che non vien meno per la sua dureza.
L. 7, 33.1costei: cioè questa orazione.
L. 7, 37.2guastati: dalle fedite.
L. 7, 37.4elati: superbi.
L. 7, 37.8si veda Marte etc.: cioè l'ardore dell'ira.
L. 7, 38.2Mulcifero: cioè Vulcano.
L. 7, 38.2-4La favola di Marte e di Venere e di Vulcano è qui poco dinanzi distesamente scritta; e è chiamato Vulcano Mulcifero, perciò che amollisce il ferro, sì come noi veggiamo: Vulcano, cioè il fuoco, fa il ferro ch'è duro, scaldandolo,tenero, che l'uomo ne fa ciò che vuole.
L. 7, 38.3Citerea: Venere.
L. 7, 38.5Il quale: Marte.
L. 7, 38.6colei: l'orazione.
L. 7, 39.1questa: orazione d'Arcita.
L. 7, 39.5iddio: cioè Marte.
L. 7, 39.7le porte: del tempio.
L. 7, 40.1Li fuochi: fatti da Arcita.
L. 7, 40.2e diè la terra etc.: per la venuta di Marte.
L. 7, 40.5le cui armi: cioè della imagine di Marte.
L. 7, 40.6dolce: piacevole.
L. 7, 42.2fummare: sacrificando.
L. 7, 42.5Citerea: Venere.
L. 7, 42.7vittime: sacrifici.
L. 7, 43.2bella dea: Venere. - Vulcano: idio del fuoco.
L. 7, 43.3s'allegra: cioè con la festa. - il monte Citerone: in su questo monte è adorata Venere.
L. 7, 43.5Adone: figliuolo di Cinara e di Mirra.
L. 7, 44.6iddio: Amore.
L. 7, 45.4dea: Venere. - lontan: lungo.
L. 7, 46.6lontana: lunga.
L. 7, 48.3e di mortine: come si fa oggi alle feste.
L. 7, 50.1Come d'Arcita etc. Di sopra è mostrato quale sia la cagione per che l'autore dà certa forma all'orazione, e però qui non curo di replicarlo. E sì come davanti ha disegnata la casa di Marte, così qui intende di disegnare quella di Venere; e come che egli non si curi in porre e la qualità del luogo dove è la casa e le cose che sono pertinenti alla detta casa ordinatamente e successivamente, nondimeno si possono esse considerare ordinatamente per chi vuole, e discernersi qui posta la qualità del luogo, dove è la detta casa, chi sieno quelli che abitano detta casa e che forme e che ufici abbiano, come sia fatta la casa e quali siano gli ornamenti della detta casa. È da vedere adunque primieramente della qualità del luogo. Il quale dice l'autore che è nel monte Citerone, fra pini etc., come nel testo appare. Ad evidenzia della quale cosa è da sapere che come di sopra, dicendo Marte consistere nello appetito irascibile, così Venere nel concupiscibile. La quale Venere è doppia, perciò che l'una si può e dee intendere per ciascuno onesto e licito disiderio, sì come è disiderare d'avere moglie per avere figliuoli, e simili a questo; e di questa Venere non si parla qui. La seconda Venere è quella per la quale ogni lascivia è disiderata, e che volgarmente è chiamata dea d'amore; e di questa disegna qui l'autore il tempio e l'altre cose circustanti ad esso, come nel testo appare. Discrive adunque l'autore questo tempio di Venere esser nel monte Citerone, per due cose: l'una, perché di fatto vi fu, perciò che il monte Citerone è vicino a Tebe, e sopra quello facevano i Tebani in certi tempi dell' anno solennissima festa, e offerevano molti sacrifici ad onore di Venere; la seconda cosa si è per la qualità del luogo, la quale è molto conforme a Venere, perciò che è regione molto temperata di caldo e di freddo, come assai chiaro si vede da chi bene consedera; perciò che quelle parti di Grecia nelle quali è il monte Citerone non sono troppo sotto tramontana né troppo verso mezodì, ma quasi tra l'uno e l'altro; e questa temperanza negli atti venerei è molto richesta; perciò che, se noi riguardiamo bene, uno uomo il quale sia di frigida natura, o sia per accidente ancora freddo, non può sanza gran difficultà a quello atto pervenire per le virtù attive dal freddo impedite. Similmente colui o che è di natura troppo caldo, o è per accidente o di soperchio vino o di fatica riscaldato, ha sì resolute le attive virtù, che esercitare non si può in cotale atto. È adunque necessaria la temperanza a cotale esercizio, per la qual cosa meritatamente in temperato luogo pone l'autore il tempio di questa dea. E perciò che varie cose possono i troppo frigidi provocare a cotale atto, e similmente li troppo caldi riducere a debita temperanza, discrive qui l'autore assai cose nelle quali sono queste forze. Egli dice che il luogo era pieno di pini, il frutto de' quali, usandolo di mangiare, ha mirabilissime forze a provocare quello appetito, secondo che i fisici vogliono; e oltre a ciò, pone in più segreta parte con Venere Bacco e Cerere, per li quali due s'intende il bere e il mangiare: le quali cose, nelle preziose vivande e ne' buoni vini debitamente usate, risuscitano, in qualunque l'usa, mirabilemente cotale appetito. Appresso pone che il luogo era a vedere bellissimo, e che quivi si vedeano conigli, cervi, passere, colombi, e ultimamente donne scalze scinte danzare. Le quali cose, alcune per li loro effetti, sì como i conigli e le passere e' colombi, incitano molto, veduti da' libidinosi; e alcune dalli loro abiti e atti, sì come le donne scalze e scinte e danzanti. E oltre a ciò, in più segreta parte discrive Venere ignuda, la quale veduta ha maravigliosa forza. Oltre a questo, dice v'erano bellissimi fiori e mortine: questi hanno a confortare l'odorato, e massimamente la mortine, la quale scrivono i poeti essere albero di Venere, perciò che il suo odore è incitativo molto. Odevi ancora canti e istrumenti, le quali cose hanno forze da cacciare via ogni malinconia, la quale, sì come cosa da frigidi omori mossa, è forte avversa agli effetti di Venere. Dice similemente il luogo essere ombroso e pieno di fontane. Per l'ombre vuole intendere due cose: l'una per lo rinfrescamento opportuno a' troppi caldi, e per questo ancora le fonti; l'altra per la qualità del luogo che richeggiono gli effetti di Venere, i quali vogliono agio e buio: il che similemente dimostra quando disegna il luogo dove Venere dimora. E poi che egli ha disegnato quelle cose le quali generalmente possono, secondo le forze naturali, provocare a l'atto venereo ciascuno, disegna quelle le quali provocano alcuni, li quali noi chiamiamo volgarmente innamorati. E queste pone in forme di persone, e ponle di diverse maniere, perciò che alcune ne pone naturali e sì come cagioni eccitative. E queste sono: Vagheza, la quale dice che è la prima che si truova nello 'ntrare di questo luogo di Venere; per la quale intende quello disiderio naturale il quale ciascuno uomo o donna ha di vedere e di possedere o acquistare più tosto le belle e le care cose che l'altre; e questa Vagheza è quella che tira i giovani alle feste e nelli luoghi ove donne sieno adunate, acciò che tra molte n'elegga alcuna, secondo il suo giudicio più degna del suo amore; e ancora di queste eccitative: Bellezza, Giovaneza, Leggiadria, Gentileza, Piacevolezza, e simiglianti. Alcune ne pone quasi confermative dello appetito eccitato per le sopradette: tra le quali pone Cupido, il quale noi volgarmente chiamiamo Amore. Il quale amore volere mostrare come per le sopradette cose si generi in noi, quantunque alla presente opera forse si converrebbe di dichiarare, non è mio intendimento di farlo, perciò che troppa sarebbe lunga la storia: chi disidera di vederlo, legga la canzone di Guido Cavalcanti Donna mi priega, etc., e le chiose che sopra vi fece Maestro Dino del Garbo. Dice adunque sommariamente che questo amore è una passione nata nell'anima per alcuna cosa piaciuta, la quale ferventissimamente fa disiderare di piacere alla detta cosa piaciuta e di poterla avere; al quale fervore disegnare, perciò che egli non può essere senza gravissime punture, generalmente ciascuno che di lui parla dice che egli è armato di saette. Altri vogliono per queste saette intendersi il suo subito e penetrativo entramento; le quali si possono prendere. Dice adunque che Cupido fabricava queste saette, alla perfezione delle quali v'agiugne tre: cioè Voluttà e Ozio e Memoria. Voluttà dice che le tempera in una fonte; ove è da sapere che Amore prese per moglie una giovane, la quale fu chiamata Psice, e ebbe di le' una figliuola, cioè questa Voluttà; per la quale Psice intende qui l'autore la speranza, la quale quante volte viene o dimora con amore nella mente dello innamorato, cotante volte generano questa figliuola, cioè Voluttà; la quale s'intende qui per uno diletto singulare che l'anima sente dentro a sé, sperando d'ottenere la cosa amata; e questa cotale dilettazione è quella che tempera le saette d'Amore, cioè che le fa forti a potere bene passionare il cuore; e temperale nella fonte della nostra falsa estimazione, quando per questa dillettazione, nata d'amore e di speranza, giudichiamo che la cosa piaciuta sia da preporre ad ogni altra cosa o temporale o divina. Ma perciò che queste cose dette non si possono senza ricordamento della cagione d'esse e senza spazio di tempo fermare, perciò agiugne Memoria e Ozio a ferrare queste saette, fabricate dal fervore d'amore e temperate dalla dilettazione intrinseca, nata dalla speranza. E chi non sa che se non ci ricordasse e della forma e degli atti della cosa piaciuta, che noi non la potremmo amare? E similemente se noi pure ce ne ricordassimo e fossimo da molte e varie faccende impediti, questo piacere non si potrebbe fermare nella mente, anzi si passerebbe e darebbe luogo agli altri affari? Dunque e Memoria e Ozio danno perfezione a questa cotale passione. Oltre a queste, pone l'autore certe cose accidentali, le quali sono induttive allo effetto del disiderio nato da questa passione: e sì come Adorneza, perciò che per l'essere ornato molte volte l'amante viene in piacere della cosa amata. Appresso pone Affabilità, la quale è graziosissima cosa alle persone intendenti. poi pone Cortesia, la quale non senza cagione dice del tutto essere perduta, perciò che pochi sono coloro li quali sieno o sappiano essere cortesi: questa cortesia ha grandissime forze in acquistare amore e grazia d'altrui, e sanza fallo molti altri difetti ricuopre. Ancora dice che v'erano l'Arti magiche, le quali con varie trasformazioni spaventano, e con forze di diversi incantamenti inducono molte volte e gli uomini e le donne ad amare ciò che, se quelle non fossero, non amerebbono. Eravi Ardire, il quale giova molto ad ottenere quello che si disidera; e chiamalo folle, perciò che ardire rade volte, o non mai, può venire da savio consiglio; e il savio consiglio non concede mai altrui se non quello di che vede il fine; ma delle cose che l'uomo ardisce è incerto che ne dee seguire: vero è che di questo Ardire che qui s'intende è più propio nome Temerità. Dice ancora che v'erano Lusinghe e Promesse e Arte, le quali cose variamente e in varii tempi possono, come coloro sanno che già l'hanno provato. Appresso queste, pone l'autore che v'era Pazienzia, senza la quale niuna speranza potrebbe durare, né per conseguente avere effetto niuno amore; e questa dice che era pallida: e ragionevolmente, perciò che pazienzia non ha luogo se non là dove pene e angoscie sono; le quali, come noi dalla esperienza veggiamo, fanno dimagrare e impallidire chi gli sostiene. Dice ancora che madonna Pace v'era, a dimostrare che i disideri che per forza s'hanno non sono da dire amorosi, perciò che gli amorosi richeggiono pari concordia dell'una parte e dell'altra. E poi che ha infino a qui senza distinzione alcuna mostrate queste cose, mostra di che fosse il tempio di Venere; e brievemente dice che tutto era di rame; e dentro vi mette certe cose le quali quasi avegnono a chiunque dentro al tempio entra, come apresso si scriverà. Le ragioni per le quali dice il tempio esser di rame, sono queste: primieramente, perché dal pianeto di Venere nascie il rame e l'ottone, li quali uno medesimo metallo sono in genere, come che in ispezie abbiano alcuna diversità; e qui è da prendere quello che dice rame, per rame e per ottone. Appresso è da sapere, il rame o ottone che vogliamo dire, avere tre singulari propietà: la prima è che egli salda e congiugne e allega ogni altro metallo, sì come per esperienzia si vede o, se non tutti, la maggior parte; la seconda si è che l'ottone, esendo pulito, luce come oro; la terza è che egli ha soavissimo suono; le quali tre cose sono negli effetti di Venere, perciò che per la sua influenzia tutti i congiugnimenti naturali a procreare alcuna cosa, e massimamente dove congiugnimento bisogni, per lei si fanno. Appresso, sì come quello pare oro e è vilissimo metallo, così i congiugnimenti, prima che provati sieno, paiono dovere avere in sé somma dilettazione, dove, dopo il fatto, si truovano pieni di grave amaritudine. Oltre a questo, ha soavissimo suono; per lo quale ottimamente si comprende, se ne' fatti di Venere è alcuna dolceza, quella consistere più nel ragionare che nell'operare. E questo basti avere detto del tempio. Dentro al quale pone uno tumolo di sospiri, e da questi dice essere nutricati i fuochi posti sopra gli altari bagnati di lagrime: e queste cose dice mosse da Gelosia. In che vuole l'autore intendere non nascere prima i sospiri né venire le lagrime, che l'uomo sia dentro al tempio, cioè innamorato e tocco da gelosia; perciò che i sospiri di chi ama, senza essere geloso, sono leggieri e le più volte piacevoli; ma gelosia porge amarissime sollecitudini e infinite, le quali e sospiri e lagrime e angosciosi guai tirano spesse volte fuori de' petti de' gelosi: come coloro sanno che il pruovano o che provato l'hanno. E queste angoscie sono le fiamme le quali ardono sopra gli altari di Venere, cioè ne' cuori di coloro che al servigio d'amore con poca fortuna si sono dati. Dice ancora l'autore che in quel tempio Priapo, iddio degli orti, tenea sommo luogo in quello abito etc. Ove è da sapere che, secondo che i poeti scrivono, essendo più iddii ad una certa festa, e quivi avendo fatto certi loro tabernacoli e albergandovi, v'erano tra gli altri una dea chiamata Vesta, la quale era bellissima giovane, e eravi il sopradetto Priapo, il quale, vedendo la belleza di costei, invaghito di lei, appostò là dove ella doveva la notte dormire; e venuta la notte, lucendo la luna, Priapo tutto ignudo si levò e andonne tacitamente al luogo dove Vesta dormiva, e essendo già disposto per entrarle allato, avenne per isciagura che uno asino, sopra il quale Sileno, vecchio balio di Bacco, era venuto e giacevasi presso là dove Vesta dormiva, cominciò a ragghiare sì forte, che Vesta e molti altri si destarono. La quale veggendosi, per la luna che luceva, presso Priapo, e conoscendo quello per che veniva, cominciò a gridare; laonde Priapo cominciò a fuggire verso il suo tabernacolo, ma non poté sì prestamente fuggire che da tutti non fosse veduto così ignudo: per la quale cosa sempre fu poi la sua imagine posta ignuda in ogni parte. Il quale l'autore dice che era in questo tempio figurato così ignudo; e vuole per questo disegnare quale sia la cagione alle femine da amare, con ciò sia cosa ch'egli nel discrivere della forma di Venere mostri l'affezione degli uomini. E per ciò pone Priapo in più aperta parte che Venere, perché gli uomini curano meno che le loro occulte parti sieno dalle femine vedute che le femine non fanno. Questo detto, procede l'autore a mostrare alcuni ornamenti del tempio. E primieramente dice vi vide ghirlande di varii fiori; per le quali intende il brieve diletto di coloro alli quali è, secondo il loro disiderio, bene avenuto d'avere amato. Seguentemente dice vi vede archi tolti a' cori di Diana; ove è da sapere che Diana appo gli antichi era dea della castità e non riceveva in sua compagnia altra femina che vergine, e dicevano gli antichi che l'esercizio di costei e delle sue seguaci era solamente ne' boschi e in cacciare, a dimostrare che chi vuole interamente servare la sua castità, dee fuggire in quanto può ogni umano consorzio, e similemente l'ozio; perciò che queste due cose, se bene si comprende ciò che di sopra è detto, sono grandissime cagioni di cadimento ne' lacciuoli di Venere. Solevano adunque quelle vergini le quali seguivano Diana andare con gli archi alle caccie; e già ne furono assai vinte da Amore, le quali, lasciato di seguire Diana, seguirono Venere; in testimonianza delle quali vittorie, pone qui l'autore vedersi nelli templi di Venere appiccati gli archi di quelle che vinte furono. E ponne qui d'alcuna, cioè di Calisto. Fu questa Calisto una bellissima giovane d'Arcadia, la quale aveva botata a Diana la sua virginità, e seguivala per li boschi cacciando; della quale Giove s'innamorò; e veggendola un giorno in uno bosco sola, si transformò nella sembianza di Diana, e fecelesi incontro. Calisto, credendo che costui fosse Diana veramente, si levò suso e andò verso lei e, secondo la loro usanza, si basciarono insieme; di che Giove più infiammò e, trascinatala in parte segreta del bosco, si giacque con lei. Di che ella ingravidò, ma nondimeno, quanto più poté, celò questo inganno fattole da Giove. Alla fine, bagnandosi un giorno Diana e avendo fatto spogliare lei e altre delle sue vergini perché la lavassero, videro il corpo di costei grande e conobbero ch'ella era pregna; di che subitamente costei con gran vergogna fu cacciata da loro. E essa partorì uno figliuolo, il quale fu chiamato Arcas. La qual cosa Iuno conoscendo, discese in terra e trasmutolla in orsa. Poi essendo cresciuto questo Arcas, e andando un dì a cacciare, scontrò la madre, e non conoscendola la volle saettare; ma Giove, avendo misericordia di lei, subitamente convertì Arcas in orsa, e trasportonne l'una e l'altra in cielo: e chiamasi l'una Orsa Maggiore e l'altra Orsa Minore, nella coda della quale è quella stella che noi chiamiamo Tramontana. Dice adunque che l'arco di costei è in quel tempio. E ancora dice che vi sono le tre pome della fiera Atalanta e l'armi dell'altra altiera Atalanta. Della prima Atalanta è la storia così fatta: Ceneo, re d'Arcadia, ebbe una figliuola bellissima, il cui nome fu Atalanta, la quale più che alcuna altra persona correva velocemente. Costei con alcuno iddio si consigliò se ella si dovesse maritare o no: fulle risposto che ella fuggisse di maritarsi, ma che pure alla fine, male per sé, si mariterebbe. Per la quale cosa costei, acciò che niuno la dimandasse per moglie, pose uno cotale patto: che chiunque la volesse per moglie, dovesse correre a pruova con lei; e se egli corresse più di lei, l'avesse; se ella corresse più di lui, che quello cotale che fosse da lei vinto, fosse ucciso. Per la quale pruova, non potendola alcuno vincere, più giovani furono morti. Alla fine uno giovane, il quale era bellissimo e gentile uomo, avendo molto biasimato coloro li quali per avere costei per moglie si mettevano a tale pericolo, la venne a vedere, e, vedutala, sommamente gli piacque; di che egli disse di volere correre con lei; ma ella, vedendolo così bello, ne cominciò ad avere compassione e a pregarlo che egli non si mettesse a quello pericolo. Alla fine Ipominès disse del tutto che pure volea correre, laonde ella disse di farlo. Ma prima che corressero, Ipomenès divotamente pregò Venere che l'aiutasse e dessegli vittoria; per li cui prieghi Venere subitamente se ne andò in Cipri, in uno suo giardino, dove era uno melo il quale faceva le mele d'oro, e colsene tre molto belle, e recolle ad Ipomenès, e insegnogli come fare dovesse con esse. Furono adunque Ipomenès e Atalanta in su il corso, e cominciarono a correre; e dopo alquanto, veggendosi Ipomenès avanzare, gittò l'una di queste tre mele, la quale come Atalanta la vide, subitamente la corse a ricogliere; e in questo spazio Ipomenès le 'ntrava innanzi; e veggendosi ragiungere, gittò la seconda, e poi la terza; le quali mentre che Atalanta penò a racogliere, Ipomenès pervenne prima di lei al termine posto; e così l'ebbe per moglie. Ma poco la godeo, perciò che per la grande allegreza che ebbe d'averla vinta, gli uscì di mente di ringraziarne Venere; laonde ella si turbò, e andandose ipomenès con Atalanta a casa sua, mise loro un sì fatto fuoco adosso, che non poterono sostenere d'andare insino a casa loro, anzi se ne entrarono in uno tempio di Cibele, madre degl'iddii, e in quello si giacquero insieme; di che Cibele turbata gli convertì in leoni. Sono adunque quivi queste tre pome a rendere testimonianza di questa vittoria. La seconda istoria è questa: avendo quegli di Calidonia onorati tutti gl'iddii con sacrifici, fuori che Venere, Venere, essendosene sdegnata, mandò in calidonia un porco cinghiare grandissimo, il quale guastava tutte le biade. Per la qual cosa Meleagro, figliuolo d'Oeneo, re di Calidonia, ordinò una grandissima caccia, e invitovvi tutti i nobili giovani di Grecia; ma tra gli altri vi venne d'Arcadia una giovane bellissima la quale aveva nome Atalanta e era delle vergini di Diana, della quale Meleagro s'inamorò. E avendo egli, secondo l'usanza de' cacciatori, proposto che chi prima il ferisse avesse la testa, avvenne che costei il ferì primieramente d'una saetta; laonde, essendo poi il porco morto, Meleagro le presentò la testa; dal quale beneficio o forse dalla belleza di Meleagro presa, costei giacque con lui e ebbene uno figliuolo bellissimo sopra tutti gli altri uomini, il quale ebbe nome Partenopeo, che poi fu ucciso a Tebe, come davanti è mostrato. Poi che l'autore ha mostrati in parte gli ornamenti del tempio, i quali erano in alcune cose, sì come archi e armadure, mostra che egli ancora era ornato di dipinture, le quali dipinture ancora rendevano testimonianza delle vittorie di Venere. E dice che istoriata v'era Semiramìs e i suoi fatti. Questa Semiramìs fu moglie di Nino, re degli Assirii, e morto il marito, veggendosi di lui uno solo figliuolo similemente chiamato Nino e questo essere fanciullo e per sembiante più atto alle cose veneree che al regimento del regno, ella in sé ritenne la signoria e fece in fatti d'arme maravigliose cose e ampliò molto il regno lasciatole dal marito. Ma come che in altro fosse valorosa donna, fu nondimeno di tanto venereo fuoco accesa, che vedendo Nino, suo figliuolo, bellissimo giovane, si condusse a giacere seco e a tenerlo tra le sue damigelle nascosto; e per gelosia che alcuna d'esse non giacesse seco, fece a tututte brache, le quali infino a quel tempo non erano state per alcuna persona né vedute né usate. Ultimamente scoprendosi per lungo uso di questo suo peccato, e sentendo ella che tra la gente in vituperio di lei se ne ragionava molto, per torre via questo vituperio, fece una legge, che in atto di lussuria fosse a ciascuno licito ciò che gli piacesse. Questo adunque era quivi di Semiramìs istoriato. Eravi ancora la istoria di Piramo e di Tisbe, la quale fu in questa guisa: Piramo fu uno bello giovanetto di Bambillonia, il quale amava sommamente una giovane fanciulla, sua vicina a muro a muro, la quale aveva nome Tisbe; e essendo questi due giovani da' loro padri ristretti in casa per maniera che l'uno non poteva vedere l'altro, avvenne un giorno che quegli di casa Piramo e similmente quegli di casa Tisbe andarono ad una gran festa la quale si faceva fuori della città, e lasciarono soli in casa questi due giovinetti. Di che, avendo l'uno voglia di vedere l'altro, avvenne che Tisbe vide una fessura nel muro che era tra la casa sua e quella di Piramo, per la quale essa sottilmente riguardando, e non veggendo nulla, fece tanto che ella si fece sentire a Piramo, il quale di presente corse là, e per lungo spazio si ragionarono insieme, e poi molte volte celatamente vi ritornarono. Alla fine essendo loro gravosa cosa lo stare in così fatta vita, ordinarono insieme un dì d'ingannare, la notte seguente, coloro che guardavano gli usci delle loro case, e d'uscirne fuori e di ritrovarsi insieme; e proposero che quale di loro prima uscisse fuori, aspettasse l'altro ad una fonte, la quale era in uno bosco fuori di Bambillonia, sotto ad uno grandissimo moro gelso. E fatto questo proponimento, venuta la notte, Tisbe uscì nascostamente di casa prima che Piramo e andossene alla fontana, come avevano proposto; e stando quivi ad aspettare Piramo, lucendo la luna chiarissimamente, vide per aventura venire una leonessa, la quale aveva divorato uno animale e veniva a bere; di che costei subitamente spaventata, lasciato quivi un mantello che recato aveva adosso e uno suo velo, subitamente si fuggì ivi presso alla sepoltura del re Nino, la quale era in quello bosco. La leonessa, venuta alla fontana, bevé e, bevuto che ella ebbe, si cominciò a forbire il muso sanguinoso sopra quello mantello e sopra 'l velo che Tisbe v'aveva lasciati, e, forbendosi tutti gl'insanguinò e stracciò, e partissi. Né passò guari che Piramo giunse quivi, il quale, come vide il mantello e 'l velo sanguinosi e stracciati, riconoscendogli, pensò che alcuna fiera avesse quivi uccisa e divorata Tisbe; di che con gravissimo dolore e con lagrime e con pianto una spada la quale aveva portata, se la mise per lo petto e uccisesi. Della quale fedita il sangue sampillò sì forte fuori e sì alto, che gli toccò quelle more gelse, le quali tutte infino a quel tempo erano state bianche; laonde elle subitamente diventarono vermiglie. Tisbe, rassicurata, dopo alquanto spazio tornò alla fonte, e avendo gli occhi al moro, e vedendole vermiglie, dubitò non quella fosse un'altra fonte e non quella la quale andava cercando; e già volendosi partire per cercare altrove, sentì sotto il moro Piramo il quale ancora per lo duolo della fedita palpitava; di che ella tutta stupefatta guardò e conobbe che quegli era Piramo; laonde ella veggendolo a quello partito e conoscendo la cagione della sua morte, dopo molti ramarichii e doloroso pianto, trattagli la spada dal petto e chiamatolo molte volte, e egli, già essendo per morire, aperti gli occhi, la riguardò, dopo il quale raguardamento essa senza indugio si lasciò col petto cadere sopra la spada e così s'uccise: e amenduni poi furono insieme sepelliti in uno sepolcro. Queste così gran forze di Venere dice l'autore che erano quivi dipinte. Dice apresso che vi vide similemente dipinto Ercule in grembo a Iole; la cui novella è così fatta. Ercule, avendo vinto una provincia, la quale è in Grecia, che si chiama etolia, e cacciatone Eurico re, s'innamorò sì forte d'una giovane che aveva nome Iole, figliuola del detto Eurico, che, dimenticata Deianira sua moglie, si mise a starsi con questa Iole. La quale conoscendo l'amore che Ercule le portava, gli fece porre giù la pelle del leone, la quale egli rigidissimo uomo sempre portava adosso, e in luogo di quella il fece vestire di porpora, e fecegli pettinare i capegli, e portare l'anella in dito, e ultimamente il fece filare. Appresso dice v'era dipinta Biblis dietro a Cauno. Biblis fu sirocchia carnale di Cauno, e furono figliuoli di Mileto e di Ciane. Questa Biblis innamorò forte di Cauno suo fratello, il quale per una lettera mandatagli da lei conobbe questo amore; per la qual cosa turbatosi, si partì di casa sua e cominciò a fuggire costei; ma essa il seguio infino a Carra: quivi vinta dal dolore, si convertì in fonte. Alcuni dicono che ella s'impiccò per la gola. Queste istorie e forse molte altre testimonianti le forze di Venere vedute dalla orazione di Palamone, dice l'autore che l'orazione pervenne al luogo là dove era Venere. Nella quale parte, a chi bene ogni cosa considera, disegna assai bene la vita voluttuosa nella quale si possono dire tutti coloro li quali, dopo lungo amare, o con arte o con ingegno o con ispesa pervenuti sono alli loro piaceri e in quegli perseverando dimorano. Dice adunque che Venere era nella più segreta parte del tempio, alla guardia della quale parte sedeva Riccheza: dove vuole intendere, voluttuosa vita senza riccheza non potersi avere né lungamente seguire. Poi dice il luogo essere oscuro; e questo perciò è perché coloro li quali adoperano male, odiano la luce. Quindi disegna la belleza di Venere, la quale dice essere a giacere, in parte nuda e in parte d'una porpora sì sottile coperta, che appena niente nasconde di quelle parti che cuopre. Per lo giacere intende l'oziosità la quale è ne' voluttuosi, e il vivere molle; per la belleza di Venere, la quale sappiamo essere cosa labile e caduca, intende il falso giudicio de' voluttuosi, il quale da verissime ragioni leggierissimamente si convince e mostrasi vano. per la parte ignuda di Venere intende l'apparenza delle cose, le quali attraggono gli animi di coloro la cui estimazione non può passare all'essistenzia; per quella parte di Venere che sotto la sottile copertura appare, intende di mostrare quale sia l'occulta estimazione di quegli che alle cose apparenti si prendono, perciò che questi cotali, veggendo un bel viso ad una donna, incontanente con la stimazione transcorrono a credere che le parti celate da' vestimenti abbiano in sé alcuna belleza e dolceza più che quelle d'una che abbia meno bello il viso; e quasi le pare loro vedere, como che eglino poi, essendone la sperienzia testimonia, tutte, e le belle e le non belle, truovino fatte ad uno modo. Dice appresso che dall'uno lato le sedeva Bacco, iddio del vino, e Cerere, dea delle biade; per li quali due intende la gulosità la quale sommamente seguono i voluttuosi. Dice ancora che ella teneva Lascivia per mano: in che intende di dimostrare, l'opere de' voluttuosi non solamente in lussuria consistere, ma ancora in lascivia; la quale lascivia intende essere il basciare, il toccare e il cianciare e 'l motteggiare e l'altre sciocchezze che intorno a ciò si fanno. Il luogo essere odorifero è di necessità a' perseveranti così fatte cose, con ciò sia cosa che essendo l'atto di sé fetido, se l'odorato con odori non si riconfortasse, di leggiere s'impedirebbe lo stomaco e 'l cerebro, e per conseguente tutta l'altra operazione. Per lo pomo, il quale dice Venere avere in mano, vuole dimostrare la stolta elezione di quegli che così fatta vita ad ogni altra prepongono. Ed è la storia di quel pomo cotale: avendo Pelleo, figliuolo d'Eaco, tolta per moglie Tetis, dea del mare, invitò alle noze Giunone e Pallade e Venere; la quale cosa la dea della discordia ebbe forte per male, in quanto ella come quelle altre non v'era stata chiamata; e perciò, per vendicare la 'ngiuria che di ciò le pareva ricevere, essendo le tre dee a tavola, Discordia occultamente gittò tra loro un pomo d'oro, nel quale era scritto: «Questo sia della più degna di voi tre». Le dee il presero, e, veduta la scritta, ciscuna il voleva, dicendo sé essere più degna che l'altre. Venute adunque a quistione, vollero rimettere il giudicio in Giove; Giove nol volle prendere, ma disse loro che elle andassero a Paris, nella selva Ida, il quale era ottimo giudice. Andarono dunque le tre dee a Paris e dissergli la loro quistione e le loro ragioni; e oltre a ciò, Giunone, sì come dea delle riccheze e de' regni, gli promise, se egli desse il pomo a lei, di farlo il più ricco e il maggiore signore del mondo. Pallas, dea della sapienza, gl'impromise, se a lei il desse, di fargli avere intera conoscenza di tutte le cose; Venere, dea d'amore, gli promise, se a lei il desse, di fargli avere l'amore della più bella donna del mondo: laonde Paris il diede a lei, e ella gli fece avere l'amore d'Elena, la quale rapì a Menelao. Per la quale riavere, tutti i Greci vennero ad assediare Troia, tra' quali venne Accille, figliuolo di Pelleo e di Tetis, e fuvvi ucciso, e così fu vendicata la 'ngiuria la quale si reputava avere ricevuta da Pelleo la dea Discordia, perciò che come l'altre dee non era stata invitata alle noze. Questo adunque è il pomo il quale l'autore dice che Venere teneva in mano. E questo basti avere detto del luogo e del tempio di Venere, e dell'altre cose circustanti ad esso.
L. 7, 50.5di Citerea: di Venere.
L. 7, 71.2co' corni pien etc. Ercule combatteo con uno fiume chiamato Acheloo, il quale, mutandosi in diverse forme per la divina potenzia che in lui era, e in tutte essendo da Ercule soperchiato, alla perfine si mutò in uno toro, col quale Ercule combattendo, gli strappò l'uno de' corni dalla fronte, e donollo alle ninfe della contrada, le quali lo 'mpievano di fiori e d'incensi e d'altre cose da fare sacrificii, quante volte sacrificare voleano: dalle quali tornò in usanza appo gli antichi di portar ne' corni l'offerte.
L. 7, 72.5di fontano liquore: d'acqua di fontana.
L. 7, 73.2di quella dea: di Diana.
L. 7, 73.4nebula: di polvere o d'altro.
L. 7, 73.8rorando: innaffiando.
L. 7, 74.1quercia cereale: Cereale quercia è quella che fa le ghiande, e è così chiamata da Cerere, dea delle biade, perciò che le ghiande furono usate in luogo di biada da' primi uomini; e corononne Emilia il tempio di Diana e sé, perciò che Diana è dea de' boschi, ne' quali, come noi veggiamo, nascono le quercie.
L. 7, 74.4grasso: perché cola come fosse pieno d'olio.
L. 7, 74.7due roghi etc.: che cosa sia rogo è detto di sopra, ma non è però da intendere qui che ella facesse due roghi come quegli sopra li quali si ponevano per ardere i corpi morti, ma fece due piccioli monticelli di legne di pino a guisa che si fanno i roghi.
L. 7, 75.2e quel di vino etc. Discrive qui in parte il modo che si soleva servare dagli antichi quando volevano responso d'alcuna cosa futura.
L. 7, 76.1bidenti: cioè con due lattaiuoli.
L. 7, 76.5battenti: ne' cuori.
L. 7, 77.2Plutone è iddio de l'inferno.
L. 7, 77.4olocausti: sacrifici.
L. 7, 79.2lustratrice: cioè cercatrice.
L. 7, 79.4vengiatrice: vendicatrice.
L. 7, 79.5Chi fosse Atteon è detto di sopra. È vero che alcuni dicono che egli fu saettato da Diana, allora che egli divenne cervio: e questa oppinione mostra di tenere qui l'autore.
L. 7, 79.7dal tuo nervo: cioè dalla corda dell'arco.
L. 7, 80.3triforme etc. È questa dea in cielo chiamata luna e ha quella forma la quale noi veggiamo; e in terra è chiamata Diana, dea della castità, e allora si figura con l'arco e col turcasso a guisa di cacciatrice; in inferno si chiama Proserpina, e allora si figura come reina perciò che è moglie di Plutone, iddio e re d'inferno.
L. 7, 81.2a la faretra: cioè al turcasso.
L. 7, 81.4se s'aretra etc.: cioè se alle cose state per adietro riguarda.
L. 7, 81.7nostro voler etc.: quando in Scitia uccisono i maschi loro, come di sopra si dice.
L. 7, 82.5de' giovinetti: di Palemone e d'Arcita.
L. 7, 83.1i fati: cioè la divina disposizione.
L. 7, 83.2La legge giunonica è la matrimoniale, perciò che Giunone è dea de' matrimonii.
L. 7, 83.5ad altrui etc.: cioè a Teseo.
L. 7, 84.1Coloro etc.: sì come Palemone e Arcita.
L. 7, 88.6il cor etc.: le vergini di Diana.
L. 7, 88.7infaretrato: cioè co' turcassi.
L. 7, 89.6di questo coro: cioè di questo luogo.
L. 7, 90.2di Diana: cioè di quella imagine di Diana ch'è detto di sopra, che Emilia avea posta sopra l'altare.
L. 7, 90.4di quelle: del coro di Diana.
L. 7, 90.6di quella: cioè di Diana.
L. 7, 91.4Qui dimostra l'auctore in questi due fuochi quale dovesse essere il fine de' due amanti, cioè di Palemone e d'Arcita; e dice che il primo, cioè quello che in nome di Palemone era stato acceso, dice che si spense e poi si raccese, dove intende Palemone prima perdendo dovere perdere la speranza d'Emilia, e poi per lo raccendersi mostra lui riprendere la perduta speranza per lo caso mortale il quale avvenne ad Arcita; per lo secondo fuoco acceso a nome d'Arcita, dimostra il miserabile e lagrimoso accidente e la morte d'Arcita.
L. 7, 93.6ogni stella fu fuggita: cioè fu fatto dì.
L. 7, 94.2Febea: cioè la luna. - palida: impalidisce la luna quando il sole si viene levando.
L. 7, 94.5la luce: cioè il sole.
L. 7, 94.6-8vedendo accompagnato: era il Sole nel segno de' Gemini, e perciò si levava il Tauro prima di lui, e in esso era l'Aurora, la quale precede sempre il levare del Sole.
L. 7, 94.7del celeste bue: cioè di Tauro.
L. 7, 94.8amica: del Sole. - Titonia: cioè da l'Aurora.
L. 7, 97.3ispumanti: schiumosi.
L. 7, 97.4da chi etc.: cioè da ragazi.
L. 7, 99.1L'aula grande: cioè la corte reale.
L. 7, 100.6i duecento: cioè li cento di Palemone e li cento d'Arcita.
L. 7, 101.3Libero è Bacco, iddio del vino, al quale quando i Tebani sacrificano fanno grandissimo romore.
L. 7, 101.5la dircea: cioè la Tebana. - al chino: de' monti.
L. 7, 101.6più sottani: cioè più bassi.
L. 7, 102.1Essi: Palemone e Arcita.
L. 7, 102.4con lor: con Palemone e con Arcita.
L. 7, 103.2alli due scudieri: a Palemone e Arcita.
L. 7, 104.5-6Cioè era già sesta o presso, perciò che in quella stagione, cioè verso l'uscita di maggio, il dì è xviii ore o presso, il terzo delle quali è presso a sei.
L. 7, 110.4miri: maravigliosi.
L. 7, 110.6Arenarii sono uomini i quali fanno un certo giuoco molto crudele sopra l'arena. - diri: crudeli.
L. 7, 111.1Egeo: re.
L. 7, 112.1lernei: greci.
L. 7, 112.5del ponente: del teatro.
L. 7, 114.3Decurione è il capitano di X uomini.
L. 8, 1.2Il sonare tireno è quello della tromba, e chiamalo tireno perciò che in Tirenia, cioè in Toscana, fu trovato.
L. 8, 1.6con questi: d'Arcita. - con que': di Palemone.
L. 8, 2.5di schiera equale: cioè di cento e cento.
L. 8, 3.1Qui per mostrare che il suono fosse grande nello scontrare di queste due schiere, pone l'autore molti esempli di gran romori.
L. 8, 3.3quanto: romore.
L. 8, 4.1né saria stato: così grande.
L. 8, 4.2Lipari, Mongibello, Strongolo, Vulcano sono isole vicine alla Cicilia, le quali tutte o feciono o fanno per forza di solfo grandissimo fuoco con grandissimo romore.
L. 8, 4.5Chi fosse Tifeo è mostrato dinanzi.
L. 8, 6.1Appenino è un monte, il quale va per mezza Italia infino al faro di Messina, e credesi che già fosse una cosa con un monte chiamato Peloro, il quale è in Cicilia, ma poi per tremuoti essersi così divisi come si veggiono.
L. 8, 9.1Dicono i poeti che Mongibello è la fucina di Vulcano, fabro di Giove.
L. 8, 9.2sicani: cioè ciciliani.
L. 8, 10.5in danno: in quanto si davano a' compagni medesimi.
L. 8, 10.7Pegaso era il nome il quale Arcita aveva dato a' suoi, secondo che s'usa nelle battaglie.
L. 8, 11.1Asopo era quello che aveva dato Palemone.
L. 8, 11.5vibrava: brandiva.
L. 8, 13.1Elicona: monte.
L. 8, 13.2Ismeneo: fiume.
L. 8, 13.6il teumesio etc.: cioè di Teumesia.
L. 8, 15.3bipenne: accetta.
L. 8, 15.4pio: pietoso.
L. 8, 15.8al frate: cioè ad Artifilo.
L. 8, 16.6amenduni: cioè Arcita e a Palemone.
L. 8, 16.7all'infernali iddii: cioè in inferno.
L. 8, 18.2: andò.
L. 8, 18.4e ida Peritoo: scontrò.
L. 8, 21.8ch'elli era etc.: perciò che Polluce, dopo la sua morte, fu deificato per la sua vertù.
L. 8, 25.4e fece etc.: Polluce e Castore furono fratelli d'Elena, e andando a Troia con gli altri Greci, si perdé la nave nella quale erano; per la qual cosa li Greci finsero che Giove ne gli avesse trasportati in cielo, e fattone uno segno che si chiama Gemini. E per questo non furono nell'assedio di Troia.
L. 8, 26.3insani: pazzi.
L. 8, 27.8lui: cioè Iolao.
L. 8, 51.1Foloèn: cavallo.
L. 8, 56.8Pindar: monte.
L. 8, 57.2Permesso: monte.
L. 8, 63.1rissa: zuffa.
L. 8, 63.2'l gioviale uccello: l'aquila.
L. 8, 63.3parvi:piccioli. - tene: la serpe. - nati: figliuoli.
L. 8, 63.4quella: l'aquila.
L. 8, 63.6questi: la serpe.
L. 8, 63.8li presi: figliuoli dell'aquila.
L. 8, 67.5solerte: sollecita.
L. 8, 67.8perito: savio.
L. 8, 69.5e' Pegasei: cioè quegli d'Arcita.
L. 8, 72.3Ossa: monte.
L. 8, 74.1-5Come quegli d'Egina si rifacessero di seme di formiche, e perciò chiamati Mirmodoni, è detto di sopra, de' quali Mirmodoni fu questo Giapeto; e l'albero fatale fu la quercia, veduta nel sogno da Eaco re.
L. 8, 74.5veloce: tosto.
L. 8, 74.6Eaco: re.
L. 8, 75.2Calidonio: fiume.
L. 8, 80.1Anteo fu un gigante in Libia, e fu figliuolo, secondo che i poeti scrivono, della Terra; col quale Ercule andò a provare le sue forze, e faccendo con lui alle braccia e vincendolo, come egli l'aveva gittato in terra, così Anteo, stanco, subitamente dalla terra sua madre ripigliava le forze, le quali per istancheza perdute avea, e rilevavasi. Di che avvedendosi Ercule, avendolo forte stancato, nol gittò più in terra, ma se lo levò in su il petto, e tanto lo strinse che l'uccise.
L. 8, 87.5imbragacciato: intriso.
L. 8, 94.4attonita: stordita.
L. 8, 94.5marzial: guerriera.
L. 8, 99.6ploro: pianto.
L. 8, 100.3a l'are: agli altari.
L. 8, 100.5ascoltati: i miei mali.
L. 8, 100.6dell'altro: cioè del bene. - piagnendo: ascolteranno.
L. 8, 102.5Andromeda fu figliuola di Cefeo e di Casiopia, e per l'opere della madre fu giudicata da Giove Amone che ella fosse legata ad uno scoglio in mare, acciò che quivi fosse divorata da una grande e crudele fiera marina che ivi usava: e così fu fatto. La quale cosa sentendo uno valoroso giovane chiamato Perseo, figliuolo di Giove e di Danne, n'andò là e con l'aiuto di Pallade, dea della sapienza, uccise la fiera marina, e liberò Andromeda, e tolselasi per moglie.
L. 8, 102.8dal coro marino: da la dea Pallade.
L. 8, 103.1Borea rapio Orizia, figliuola d'Euristeo.
L. 8, 103.3Come Pluto rapisse proserpina in Cicilia, è mostrato di sopra.
L. 8, 103.5Orfeo fu di Trazia, e fu uno de' migliori sonatori del mondo; e avea per moglie una bellissima giovane chiamata Erudice. La quale, andando un dì per uno prato cogliendo fiori, fu morsa da una serpe nel calcagno, e morissi. Di questo si dolfe lungamente Orfeo, e molti prieghi ne porse agl'iddii del cielo per riaverla; da' quali veggendo che ascoltato non era, prese la cetera sua e andossene alla porta de l'inferno, e quivi cominciò sì dolcemente a sonare, che tutti gli uficiali d'inferno lasciarono stare di fare gli ufici loro e cominciarono ad ascoltare il suono d'Orfeo, sì che tutte l'anime stavano per questa cagione in pace. Di che maravigliandosi Plutone, mandò a sapere quello che Orfeo adimandava, e udito che egli rivoleva la moglie, acciò che li suoi uficiali facessero li loro ufici, comandò che gli fosse renduta, ma con questa legge, che egli non la dovesse riguardare infino a tanto che egli non fosse con essa sopra la terra tornato, e se la guatasse, la perdesse da capo e più non la dovesse radomandare. Per che Orfeo, presala per mano e menandola appresso di sé, essendo già presso all'uscire fuori della terra, non potendosi più tenere, si volse indietro e guatolla, e subitamente la perdé
L. 8, 105.7Chi fosse Atalanta e come Ipomene vinta e acquistata fosse, è mostrato di sopra.
L. 8, 106.6di qual: parte.
L. 8, 107.1Pegaseo: il nome dato a' suoi da Arcita.
L. 8, 107.3Rifeo: monte di Trazia.
L. 8, 107.5Asopo: Asopo fu il nome dato a' suoi da Palemone.
L. 8, 110.2dire: crudeli.
L. 8, 111.8attrito: stanco.
L. 8, 112.8e con parole etc.: Qui finge l'autore, Marte in forma di Teseo dir villania ad Arcita: dove niuna altra cosa intende, se non che ad Arcita riposantesi venisse in pensiero che da Teseo veduto fosse starsi, e che da lui, così vedendolo, potessero essere dette cotali parole chenti nel testo si dicono, le quali egli immaginando, subitamente sé e poi li suoi raccese alla battaglia.
L. 8, 114.4mira: maravigliosa.
L. 8, 117.5augusti più: cioè maggiori e più apparenti.
L. 8, 119.6Foloèn: cavallo. - quel di Tesaglia: Ameto.
L. 8, 119.8Asopii: di Palemone.
L. 8, 120.4-5solea mangiar: detto è di sopra che il cavallo di Cromis fu di quegli di Diomede, re di Trazia, il quale gli avevca usati a mangiare uomini.
L. 9, 1.1il doloroso fato: cioè la dolorosa provedenza di Dio per Arcita.
L. 9, 1.2a lui: ad Arcita.
L. 9, 1.3elato: levato.
L. 9, 2.1Sovra l'alta arce etc.: cioè sopra la maestra rocca d'Atene.
L. 9, 2.2costoro: Arcita e Palemone.
L. 9, 2.3fra sé dell'ordine etc.: il quale fu che Marte desse ad Arcita la vittoria, sì come per lo effetto appare, e Venere desse la donna a Palemone.
L. 9, 2.8fornita etc.: cioè avuta ha Arcita la vittoria.
L. 9, 3.7Amica: Venere.
L. 9, 4.1Ell'avea: Venere.
L. 9, 4.2Dite: è una città in inferno così chiamata.
L. 9, 4.3al re nero: cioè a Plutone.
L. 9, 4.4di quella. città di Dite.
L. 9, 4.5furie: infernali. - alti: cioè grandi.
L. 9, 4.6Erinis: furia.
L. 9, 4.7a questa: cioè ad Erinis.
L. 9, 5L'autore, in questa parte, da quello che avvenne prese cagione alla sua fizione, cioè alla composizione fatta tra Marte e Venere, de' quali ciascuno volle servire colui il quale pregato l'avea; perciò che, come di sopra si legge, Marte in forma di Teseo sollecitò Arcita alla vittoria e spaventò quegli di Palemone, per la qual cosa Arcita vinse: ora, a volere mostrare che Venere abbia operato a fare che Palemone avesse Emilia, introduce lei ad essere cagione della morte del vittorioso Arcita, acciò che, morto lui, Emilia rimanga a Palemone; e, come nel testo si legge, il cavallo d'Arcita adombrò e ersesi e ricaddegli in su il petto. Certissima cosa è le bestie adombrare per alcuna spaventevole cosa la quale loro pare vedere; ma quello che egli si veggano, overo vedere si credono, niuno il sa. Finge adunque l'autore essere stata Erinis, l'una delle infernali furie, quella che spaventò il cavallo, e disegnala forte spaventevole a vedere, acciò che più renda scusata l'animosità del cavallo; e dice lei essere stata infernale furia, per lo doloroso effetto che seguì dello adombrare del cavallo, che fu la morte d'Arcita. E come detto è di sopra, dice costei mandata da Venere similemente, perciò che per lo adombramento del cavallo seguì poi quello di che Palemone aveva pregata Venere, cioè che Emilia fosse sua, come ella fu.
L. 9, 5.1costei: Erinis. - ceraste: serpenti. - crinita: capelluta.
L. 9, 5.2idre: serpenti.
L. 9, 5.3Elisso: fiume.
L. 9, 5.4le quai: serpi. - lambenti: leccanti.
L. 9, 5.6le: ad Erinis.
L. 9, 5.7la: Erinis. - Dea: Erinis.
L. 9, 5.8scuriata: ferza.
L. 9, 6.1La cui venuta: d'Erinis. - d'orrore: di spavento.
L. 9, 6.4né il perché etc.: perciò che non la vedeano.
L. 9, 6.8cardini: cioè arpioni.
L. 9, 7.3giù nel campo: dove si combattea.
L. 9, 7.7per ispavento etc.: adombrò.
L. 9, 10.5-6onde etc.: il cuore.
L. 9, 10.8si porta: morto.
L. 9, 12.2Bellona è dea dell'armi, sirocchia di Marte.
L. 9, 18.1tabefatto: cioè imbrattato.
L. 9, 19.4visto: veduto.
L. 9, 25.6che' regni neri: l'inferno.
L. 9, 29.4il Pincerna di Giove etc.: Scrivono i poeti che Giunone, moglie di Giove, mangiando un giorno lattughe salvatiche ingravidò, e poi partorì una figliuola, la quale ebbe nome Ebe. Costei come fu grande, la mise la madre a servire della coppa davanti a Giove. Avvenne un giorno che essendo a tavola Giove con più altri iddii, portandogli Ebe da bere, ella sdrucciolò e cadde, in maniera che ella mostrò ogni cosa a Giove e agli altri, per che Giove la privò dell'oficio, e in suo luogo sustituì Ganimede, bellissimo giovane e figliuolo di Laumedonte, re di Troia: del quale egli ancora fece uno segno in cielo il quale si chiama Aquario. Questo segno, a questa ora che l'autore disegna qui, montava sopra l'orizonte orientale; per che a chi intende astrologia si dimostra ch'egli era vicino al farsi sera. La quale cosa ancora l'autore dimostra più chiaro nelle seguenti parole, dove dice: «il Pesce bino di Venere» etc., il quale Pesce bino sagliendo sopra l'orizzonte occidentale, recava seco in quella stagione le stelle, cioè la notte nella quale le stelle si veggiono: e seguita questo segno de' Pesci, sagliendo sopra l'orizzonte orientale, il segno d'Aquario. Ma da vedere è perché dica il Pesce bino di Venere: ove è da sapere che al tempo che i giganti combatterono con gl'iddii, Tifeo gigante perseguitò molto Venere, la quale, paurosa di lui, con Amore in braccio, il quale era piccolo fanciullo ancora, fuggendolo pervenne ad Eufrate fiume, e quivi tra le cannuccie nate in su la riva si nascose. Avvenne che soffiando il vento in queste cannuccie, elle cominciarono a suonare, di che la paura crebbe a Venere che quello suono non fosse de' nemici che sopravenissero; per che ella pietosamente cominciò ad invocare l'aiuto delle ninfe di quella contrada, laonde subitamente apparvero due pesci, sopra li quali ella e 'l figliuolo saliti valicarono il fiume; in merito del quale servigio ella gli trasportò in cielo e fecene quel segno del sole che si chiama Pesce.
L. 9, 29.7polo: cioè cielo.
L. 9, 31.4passato fu da quello etc.: Fetonte fu figliuolo del Sole e di Climenès, al quale essendo rimproverato che egli non era figliuolo del Sole, ramaricatosene alla madre, ella il menò alla casa del Sole, dove ricevuto dal padre, domandò di grazia di potere menare il carro della luce, il quale il padre avendogliele promesso e non potendogliele disdire vel mise suso; il quale come pervenne in quella parte del cielo dove è il segno dello Scorpione, impaurito di lui, abandonò i freni de' cavalli che tiravano il carro della luce, per la qual cosa i cavalli, usciti del cammino usato, salirono più alto che non dovevano e cossero tutto il cielo nella fine del segno di Libra e nel principio di Scorpione: e ancora si chiama quella parte del cielo dagli astrologi Via combusta. Poi discesero i detti cavalli verso la terra, e quella tutta riarsero, e seccaronsi li fiumi e le fonti, di che la terra porse prieghi a Giove che di ciò la dovesse aiutare; per li quali prieghi Giove fulminò Fetonte, e egli così fulminato cadde nel Po, dove poi dalle sirocchie fu sepellito, e fu da loro posto l'epitaffio, cioè il titolo sopra la sepoltura.
L. 9, 34Qui disegna l'autore l'ordine antico il quale si soleva servare nel menare de' triunfi.
L. 9, 34.4gli avversarii: d'Arcita.
L. 9, 35.4de' suoi: d'Arcita.
L. 9, 36.7toraca: coraza. - balteo: cinto.
L. 9, 37.2l'arnese: l'armadura.
L. 9, 37.3botato: da Arcita.
L. 9, 38.5: Arcita. - quelle armi: di Palemone.
L. 9, 41.2zita: pulcella.
L. 9, 41.3spase: aperte.
L. 9, 41.4la coppia gloriosa: d'Arcita e d'Emilia.
L. 9, 43.3lernea: greca.
L. 9, 44.3Giunone: dea.
L. 9, 44.4Giove: dio.
L. 9, 44.8le piace: a Giunone.
L. 9, 46.4bruno: turbato.
L. 9, 46.5Acheronte: fiume d'Inferno.
L. 9, 47.1Ne' colli lor etc.: non erano incatenati.
L. 9, 57.5il quale: divino intelletto.
L. 9, 71.6là dove Anfiorao etc. Quando Adrasto con gli altri re greci andarono in servigio di Pollinice allo assedio di Tebe, Anfiorao, il quale era ottimo augure, cioè preveditore delle cose future, s'avide che se egli v'andasse, mai non tornerebbe a casa, e per ciò si nascose né si fidò d'altra persona che d'Erudice, sua moglie. Onde, andandolo Adrasto e gli altri re greci cercando e non potendolo trovare, avvenne che Argia, moglie di Pollinice, avendo cinta una bellissima e ricca cintura, n'andò un giorno a domandare Erudice, la quale, vedendo quella cintura e invaghitane, disse che se ella le volesse donare quella cintura, ella lo 'nsegnerebbe. Argia gliele donò, e ella lo 'nsegnò. Dice adunque l'autore che così bella fu la cintura data a palemone da Emilia come quella che Argia diede ad Erudice. - latitante: cioè nascoso.
L. 9, 72.5saette lizie: di quella contrada.
L. 9, 73.5Vulcan: dio del fuoco.
L. 9, 73.7con un gran pin etc.: cioè una asta overo lancia di pino.
L. 9, 75.2Cupido: Amore.
L. 9, 75.5esse: armi.
L. 10, 1.1il gran nido di Leda: cioè il cielo stellato. - Leda: chi fosse Leda è mostrato di sopra.
L. 10, 1.2luci: stelle.
L. 10, 1.3Se bene si riguarda nelle cose precedenti, la battaglia scritta fu di maggio, e allora sono le notti vicine alla loro maggiore piccoleza, la quale è a mezo giugnio.
L. 10, 1.5all'altezza etc.: cioè ad essere meza.
L. 10, 2.5pirra: pirra e rogo sono una medesima cosa, ma chiamasi rogo anzi che sia acceso, e poi che è acceso si chiama pirra. - ciaschedun: re.
L. 10, 2.6a' suoi: servidori.
L. 10, 3.5lici: quivi.
L. 10, 4.1l'urne: cioè i vasi.
L. 10, 4.7a ciascuno: de' morti.
L. 10, 4.8uno: de' morti.
L. 10, 5.1tuba: tromba.
L. 10, 5.3e' 'ntorniarle: le pire.
L. 10, 5.4ciascuna: pirra.
L. 10, 5.5d'arme etc.: secondo il costume loro.
L. 10, 5.7e dier voce etc.: cioè cominciarono il pianto.
L. 10, 6.4a Giove Stigio: cioè a Plutone re d'inferno.
L. 10, 6.5pio: pietoso.
L. 10, 6.6que': morti.
L. 10, 6.8per altrui: cioè per Palemone e per Arcita.
L. 10, 7.2i corpi lor donati: cioè di que' morti che vi furono su posti.
L. 10, 7.3li qua': fuochi.
L. 10, 7.4mortificati: spenti.
L. 10, 7.5candenti: biancheggianti.
L. 10, 7.6furon messe: le ceneri.
L. 10, 7.7pia: pietosa.
L. 10, 7.8del tempo perso: cioè della notte.
L. 10, 8.1Mostrato è di sopra come i figliuoli e le figliuole di Niobè per la sua superbia fossero uccisi da Apollo e da Diana, figliuoli di Latona. Li quali furono XIIIJ, e ciascuno fu dalla madre, cioè da Niobè, messo per sé in una urna, e poi portati in Sifilone; e poi che da Niobè sepeliti furono, ella si trasformò in uno sasso. E così mostra che XIIIJ fossero coloro che in quella battaglia morirono.- Sifilone: città.
L. 10, 8.3della sua: cioè di Niobè. - alta: cioè superba.
L. 10, 8.4urne: vasi.
L. 10, 8.5si trasmutò: Niobè.
L. 10, 8.6di quivi: del teatro.
L. 10, 8.7quelli: uomini.
L. 10, 8.8elli: vasi.
L. 10, 9.4el tempo tenebroso: cioè la notte.
L. 10, 11.3Itmon: medico.
L. 10, 11.4Epidauria: contrada.
L. 10, 12.5Giove: idio.
L. 10, 12.7puote: Giove.
L. 10, 13.2Esculapio: dio de la medicina.
L. 10, 13.4Appollo: dio della medicina.
L. 10, 13.5il ghiaccio: il freddo.- 'l foco: il secco.
L. 10, 13.7esso: Arcita.
L. 10, 14.5all'etterna prigione: in inferno.
L. 10, 14.6Dite: la città d'inferno.
L. 10, 14.8di qua: nel mondo.
L. 10, 15.6attiche: ateniesi.
L. 10, 17.8al passo etc.: cioè alla morte.
L. 10, 18.4la giovane donna: Emilia.
L. 10, 18.6infinito: cioè non compiuto.
L. 10, 18.2-6pensando etc.: non era giaciuto con lei, il che molti stoltamente estimano fine d'amore.
L. 10, 18.8Giove: dio.
L. 10, 19.5le pene: in inferno.
L. 10, 20.1Creonte: re di Tebe.
L. 10, 20.3a fronte: incontro.
L. 10, 20.5non isponte: non di mia voglia.
L. 10, 20.7festi: facesti. - guardare: in prigione.
L. 10, 21.3li nostri ben: cioè le nostre possessioni.
L. 10, 21.6in pria: che ci pigliassi.
L. 10, 21.7sorte: cioè parte.
L. 10, 23.1El: Amore.
L. 10, 24.1diede: Amore.
L. 10, 24.2nome stran: cioè Penteo.
L. 10, 25.1Come Febo servisse Ameto è detto di sopra.
L. 10, 26.4consunto: consumato.
L. 10, 27.3fato: divina disposizione.
L. 10, 29.2che tu etc.: nel boschetto, quando combattevano.
L. 10, 29.4nota: conosciuta.
L. 10, 30.1tra l'ombre: tra l'anime.
L. 10, 30.8lui: Palemone.
L. 10, 32.2che Lachesìs etc. Scrivono i poeti tre essere le fate nelle mani delle quali la generazione, la vita e la morte sia di ciascuno che vive; e fingono queste tre così delle dette tre cose operare come fanno le femine che filano, cioè che prima pongono sopra la rocca il lino; poi filano quanto basta il lino, come il lino viene meno, sconocchiano. Così l'una di queste tre fate, la quale è nominata Cloto, inconocchia la rocca, cioè compone la creatura nel ventre della madre; appresso la seconda, ch'è chiamata Lachesìs, fila, cioè mena la vita di colui che nascie; la terza, la quale è chiamata Antropòs, sconocchia, cioè finisce la vita di colui che è nato e vivuto. Dice adunque qui Teseo ed Arcita, per confortarlo, che Lachesìs ha sì poco tirato il filo, cioè sì poco filato, che ancora non è verisimile che ella debba troncare il filo e sconocchiare, cioè che «ancora se' sì giovane che così tosto non dei di ragione morire».
L. 10, 32.6Alimeto: medico.
L. 10, 32.7Itmon: medico.
L. 10, 33.2luce: vita.
L. 10, 39.7ella: cioè Giunone.
L. 10, 40.2suoi: di Giunone.
L. 10, 40.1-2In quella entrata etc.: sì come uomo che prendeva moglie, e ella è dea de' matrimonii.
L. 10, 40.5lasciato etc.: cioè lasciatomi pur tre dì stare con Emilia, sì come marito con moglie dee stare.
L. 10, 41.1l'è: a Giunone.
L. 10, 41.3degli avoli: cioè de' re tebani passati.
L. 10, 41.7e facci ch'io etc.: cioè mi facci tosto sepellire. Credevano gli antichi niuna anima potere trapassare il fiume d'Acheronte, che è il primo fiume di ninferno, infino a tanto che il corpo non fosse sepellito.
L. 10, 48.8Antropòs: cioè la morte.
L. 10, 49.2di tanto sangue: quanto è stato il tebano.
L. 10, 49.3mia: moglie.
L. 10, 49.4tua: moglie.
L. 10, 49.5ne' l'uficio etc.: cioè che io ti chiuda gli occhi etc.
L. 10, 49.7la tua prole etc.: cioè i tuoi figliuoli. - gli chiuderete: gli occhi, la bocca e 'l naso.
L. 10, 50.4per età lunga: cioè per vecchieza.
L. 10, 50.6i ben: cioè Emilia. - guadagnati: da te.
L. 10, 50.8che' fati: cioè la divina disposizione.
L. 10, 51.2il che s'avien: ch'io muoia.
L. 10, 52.4Achivi: greci. - dircei: tebani.
L. 10, 52.6lernei: greci.
L. 10, 56.1Gli spiriti visivi: cioè per li quali si vede.
L. 10, 56.2a lui: ad Amore.
L. 10, 56.7Esso: Amore.
L. 10, 57.1io: Amore.
L. 10, 57.2di quella: cioè d'Emilia.
L. 10, 58.8a lui: ad Arcita.
L. 10, 65.6l'aure traendo: cioè spirando.
L. 10, 69.1Acate: uno giovane parente di Teseo, cos' chiamato.
L. 10, 69.5innata: cioè non nata.
L. 10, 69.6al nostro sangue: delle donne amazone. - Citerea: Venere.
L. 10, 70.1Questa: Venere. - del primo operare: d'avermi tolto Acate.
L. 10, 73.8non credo etc.: quasi dica: - Io te l'avrei detto dinanzi -.
L. 10, 76.3Erinis: furia infernale.
L. 10, 79.2lui: cagion di morte.
L. 10, 80.8celebe: cioè senza marito.
L. 10, 81.7felice: io.
L. 10, 82.3prenderolli: da te.
L. 10, 82.4li quai: basci.
L. 10, 84.3ella: Emilia.
L. 10, 86.6allor che Febo etc. Atreo e Tieste furono fratelli carnali e re di Mecena in Grecia. Tieste innamorò della moglie d'Atreo e ebbene due figliuoli; la qual cosa sentendo Atreo, non potendolo uccidere, il cacciò dal regno, col quale fuggirono i due figliuoli. Dopo alquanto tempo disiderando Atreo di fare più fiera vendetta della ingiuria fattagli da Tieste, mandò dicendo a Tieste che egli volea paceficarsi con lui e ritornarlo nel regno. E dopo molte novelle, Tieste, il quale era in esilio e in miseria, si recò a credere alle parole d'Atreo, e, fidato da lui, tornò in Mecena, dove Atreo amichevolmente e con gran festa il ricevette. Poi la mattina seguente nascosamente uccise i due figliuoli di Tieste e feceli cuocere, e in sul fare del dì, secondo la costumanza loro, fece apparecchiare da mangiare a Tieste, e fecegli porre innanzi questi suoi figliuoli smembrati e cotti; e quando ebbe mangiato, gli manifestò che egli aveva mangiati i figliuoli. Mentre questo male si facea, il sole si cominciò a levare; il quale, già venuto sopra la terra e veduto il peccato commesso da Atreo, subitamente si tornò indietro; e dove doveva il dì venire, venne la notte: la qual cosa fu a' Greci grandissimo turbamento e gran dolore e pianto generalmente a tutti. Cotale adunque dice l'autore che era nella presenzia d'Arcita, quando da Emilia prese gli estremi basci.
L. 10, 87.1Essa: Emilia.
L. 10, 87.3lui: Arcita.
L. 10, 87.5'l Menalo colle: è un monte in Arcadia.
L. 10, 87.6Ariete: segno del sole.
L. 10, 88.8desolati: sconsolati.
L. 10, 89.1Nove fiate etc.: cioè nove dì erano passati.
L. 10, 89.3d'Esperia: di Spagna.
L. 10, 89.6nel tempo etc.: cioè la notte.
L. 10, 90.2litare: cioè sacrificare. Era oppinione degli antichi che Mercurio avesse a trarre l'anime de' corpi e quelle portare dove gli piacesse.
L. 10, 90.4amen: dilettevole.
L. 10, 90.7olocausti: sacrifici.
L. 10, 90.8decenti: convenevoli. fausti: degni.
L. 10, 91.5nuovo:fresco.
L. 10, 91.5-6di bidente gregge: cioè pecore con due lattaiuoli.
L. 10, 91.6ara: altare. pia: pietosa.
L. 10, 91.7così fatto iddio: come è Mercurio.
L. 10, 92.2questi: nuvoli.
L. 10, 93.1l'ara: l'altare.
L. 10, 93.5con voce trasmutata: cioè più dolente.
L. 10, 94.1iddio: cioè Mercurio.
L. 10, 94.6are: altari.
L. 10, 95.2Eliso è uno luogo dilettevole, nel quale, secondo l'oppinione degli antichi, stavano l'anime di coloro che erano stati valenti e buoni uomini, senza avere meritato d'essere iddii.
L. 10, 95.4dell'aura morta: cioè dello 'nferno.
L. 10, 96Queste istorie, che qui si toccano, sono tutte scritte di sopra, dove Arcita combatte con Palemone nel boschetto.
L. 10, 96.2dircei: tebani.
L. 10, 96.3Cadmo: re.
L. 10, 96.4baccei: di Bacco.
L. 10, 96.6colei: cioè Agave.
L. 10, 97.3la prole: i figliuoli.
L. 10, 97.4 uccisi: come Edippo.
L. 10, 97.7 uccisi: come Etiocle re.
L. 10, 97.8 occupai: come Creonte.
L. 10, 98.1l'aspra crudeltate: quando non lasciava dar sepoltura a' morti.
L. 10, 99.1tra' neri spiriti: cioè tra' dannati.
L. 10, 99.2pio: pietoso. - iddio: Mercurio.
L. 10, 101.4Acheronte: fiume d'inferno.
L. 10, 102.6prava: malvagia.
L. 10, 103.5ella: la forza.
L. 10, 103.6guidate: l'armi.
L. 10, 106.5Pelleo: re.
L. 10, 106.7Egina: isola.
L. 10, 107.7nell'etterna fornace: cioè nel fuoco infernale.
L. 10, 108.5pudici: onesti.
L. 10, 110.8e': essi.
L. 11, 1.4ver la concavità etc.: Ogni corpo voto ha concavità e convesso: concavità si chiama la parte dentro, convesso si chiama quella di fuori.
L. 11. 1.6le stelle ratiche: cioè i pianeti. - ammirava: cioè con ammirazione guatava.
L. 11, 1.8suoni ascoltando etc.: Certi filosofi tengono che il cielo nel suo volgere faccia dolcissimo suono, il quale noi qua giù non possiamo udire.
L. 11, 2.1in giù: verso la terra.
L. 11, 2.3globo: mondo.
L. 11, 2.6al loco: cioè ad Atene.
L. 11, 2.7il suo corpo: morto.
L. 11, 3.2lernea: greca.
L. 11, 6.5transuto: morto.
L. 11, 6.8bruno: turbato.
L. 11, 7.2la moglie: Ecuba.
L. 11, 7.3il comperato Ettore: Poi che Accille ebbe ucciso Ettore, ricomperò Priamo da lui a peso d'oro il corpo morto d'Ettore.
L. 11, 7.8attiche: atteniesi.
L. 11, 8.6in desolazione: cioè in isconforto.
L. 11, 9.6bianca: canuta.
L. 11, 10.1Ma come etc.: cioè Egeo.
L. 11, 12.6scinde: divide.
L. 11, 13.8l'uficio funerale: cioè il mortoro.
L. 11, 14.6area: aia. - da tal colto: cioè da tale oficio.
L. 11, 15.1un feretro: una bara.
L. 11, 15.4di quello: drappo d'oro.
L. 11, 15.7incoronato etc.: sì come vittorioso.
L. 11, 16.7quando li sette etc.: Detto è di sopra come per la superbia di Niobè fossero uccisi i suoi XIIIJ figliuoli. - Anfione: re.
L. 11, 16.8fur morti: da Apollo e da Diana.
L. 11, 18.2l'antico suol etc.: Quando le selve si tagliano, si fa vedere il terreno di quelle al sole.
L. 11, 18.6Ofelte fu figliuolo del re Ligurgo e, come di sopra è detto, fu morto da uno serpente, essendo Isifile, sua balia, andata a mostrare l'acqua alli re greci che andavano ad assediare Tebe; al quale Ofelte, per consolazione di Ligurgo suo padre, fecero li detti re fare uno maraviglioso e grande rogo, e fecerli grandissimo onore appresso.
L. 11, 18.8più d'Arcita: che d'Ofelte.
L. 11, 19.1Essa: selva.
L. 11, 19.2e' bracci: i rami. - come: le foglie. - liete: verdi.
L. 11, 19.3quelle: foglie.
L. 11, 19.5Acaia: Grecia. - telo: scure o altro da tagliare si vuole intendere, come che telo propriamente sia saetta.
L. 11, 19.6sete: cioè appetito.
L. 11. 19.7n'aveva avuta: d'offenderla.
L. 11, 19.8tenean: i paesani.
L. 11, 20.3ninfe: dee delle fonti.
L. 11, 20.4fauni: dii de' campi. - permutati etc.: cioè durati meno di lei, e rinnovati.
L. 11, 20.8e degli antichi suoi: alberi.
L. 11, 21.3covil: di bestia.
L. 11, 21.7in quel: bosco.
L. 11, 22.1faggi: alberi.
L. 11, 22.2tigli: albori. - ferrati: perché se ne fanno lancie.
L. 11, 22.3i fier coraggi: de' cavalieri.
L. 11, 22.5né si difeser etc.: cioè dall'esser tagliati.
L. 11, 22.6esculi: alberi. - caonii: albori.
L. 11, 22.7durante: perciò che non perde foglie.
L. 11, 22.8bruma: freddo. - cerro: albore.
L. 11, 23.1orni: albori.
L. 11, 23.2ilici: albori.
L. 11, 23.3tasso: albore.
L. 11, 23.4e' frassini che' etc.: fannosene lancie le quali alcuna volta entrano ne' corpi umani.
L. 11, 23.6cedro: albero. - lontani: cioè molti. non sentì etc.: che non invecchia.
L. 11, 23.8unito: cioè barbicato.
L. 11, 24.1l'audace abete: albore; dice audace, perciò che la prima nave che passò il mare fu fatta di tavole d'abete; e perciò che grandissimo ardire fu quello di chi prima navicò, chiama audace la nave, ponendo il contenente per colui ch'è contenuto, secondo la usanza poetica.
L. 11, 24.2pin: albore.
L. 11, 24.4corilo: albore. - bicolore: cioè di due colori, cioè verde e sanguigno.
L. 11, 24.5mirto: mortine - l'alno etc.: L'alno è uno albero che non suga acqua, e perciò è ottimo a fare navi: per che dice ch'è amico del mare, sì per le navi che se ne fanno che continuo stanno in mare, e sì perché elli non suga l'acqua del mare.
L. 11, 24.7palma: albore.
L. 11, 24.8e l'olmo che di viti etc.: perciò che in su gli olmi si soleano mandare le viti. - olmo: albore.
L. 11, 25.3intanto: cioè allora.
L. 11, 25.5Pan: dio. - id.: Pan è iddio de' pastori, e perciò è chiamato arbitro dell'ombre perché sotto l'ombre gli pastori diffiniscono tutte le loro quistioni.
L. 11, 25.6semidio: Semidii sono quegli iddii li quali abitano in terra e non in cielo, sì come le ninfe e' fauni.
L. 11, 26.3-5Quando li giganti vollero torre il cielo a Giove, sì posero essi cinque monti l'uno sopra l'altro, li quali Giove tutti fece cadere, sì come ancora appare dintorno a Tesaglia, la quale è in mezzo d'essi.
L. 11, 27.3maggio: maggiore ch'alcun degli altri che seguono.
L. 11, 27.4fu: il secondo suolo.
L. 11, 27.7pitturato: dipinto.
L. 11, 27.8e questo suolo: secondo.
L. 11, 28.1Sopra di questi: due suoli fatti.
L. 11, 29.1la sommità: cioè il quarto suolo.
L. 11, 29.2in ostro tirio: è un pesce del cui sangue si tingono i drappi.
L. 11, 29.3mira: maravigliosa.
L. 11, 29.8col morto corpo: d'Arcita.
L. 11, 30.4Ecco fu una ninfa nel monte Parnaso, la quale quante volte Giove fosse con alcuna femina e Giuno sopravenisse per trovarlo, tante lei teneva in parole infino a tanto che Giove a grande agio si fosse potuto partire. Di che Giunone aveggendosi, la permutò in quella voce che risuona nelle valli poi che altri ha gridato; e volle che, sì come ella molto parlava dinanzi che domandata fosse, così non parlasse mai se non quando altri avesse parlato: e così fa.
L. 11, 30.5lugubre: piagnevole.
L. 11, 30.7crine: capello.
L. 11, 32.1Achivi: greci.
L. 11, 32.2a l'aula: alla corte reale.
L. 11, 32.6quell'anima dolente: d'Arcita.
L. 11, 34.2Come Atteone, mutato in cervio, fosse da' suoi cani sbranato, è detto di sopra.
L. 11, 34.3la sua turba: de' cani.
L. 11, 35.2per lui: per Arcita.
L. 11, 35.3delle sue armi: cioè d'Arcita.
L. 11, 35.5l'esuvie: le spoglie. - de' suoi primi nati: cioè de' suoi antichi di Tebe.
L. 11, 35.7faretre: turcassi.
L. 11, 35.8sue veste: d'Arcita.
L. 11, 36.2di costui: d'Arcita.
L. 11, 36.3gli ornamenti da regno: la corona e lo scettro.
L. 11, 36.4lui: Arcita
L. 11, 36.6a colui: ad Arcita.
L. 11, 36.7lo scettro: la verga reale.
L. 11, 36.8del suo rogo: cioè d'Arcita. dona: Teseo.
L. 11, 37.1Achivi: greci.
L. 11, 38.2il feretro: la bara.
L. 11, 38.8il miserabil letto: dove era il corpo d'Arcita.
L. 11, 39.1La qual: pirra.
L. 11, 39.6pressa: calca.
L. 11, 40.6più debole sesso: cioè donne.
L. 11, 40.7e essa in mano: Era usanza anticamente che colui che più atteneva al morto, o la moglie se egli l'avea, portava il fuoco da accendere il rogo e mettevavelo entro, e chiamavasi fuoco ferale.
L. 11, 42.2le prime tede etc.: Solevano le donne entrare nelle camere de' novelli sposi con uno legno, chiamato teda, acceso in mano, il quale ora Emilia non nella camera d'Arcita, come sperava, ma ad accendere il rogo il porta.
L. 11, 43.7le voci funeral etc.: Pelopo fu re di Grecia, il quale primieramente diede a' Greci l'ordine del piagnere i morti e de' canti che nel pianto si fanno.
L. 11, 44.5la spina: il pruno.
L. 11, 44.6succise: cioè di sotto tagliate: le quali, come sentono il sole, incontanente cascano.
L. 11, 44.7semiviva: tramortita.
L. 11, 45.3le quai etc.: quando la sposò.
L. 11, 45.4gli accolse: gli ragunò.
L. 11, 45.6altri: Ipolita.
L. 11, 45.7Te': O Arcita.
L. 11, 46.2muta: mutola.
L. 11, 47.2la barba etc.: secondo la greca usanza, che per dolore si tagliano la barba e' capelli.
L. 11, 47.3sopra Arcita: cioè sopra il corpo.
L. 11, 47.6litati: in sacrificio dati.
L. 11, 47.7are: altari.
L. 11, 48.3militari: cavalleresche.
L. 11, 49.1istrepivan: scoppiavano.
L. 11, 49.4più ricca: cioè maggiore. - diventava: la fiamma.
L. 11, 50.1crepitavano: scoppiavano facendo rumore.
L. 11, 50.4sudava d'oro: perché si fondea.
L. 11, 50.7in esse: fiamme.
L. 11, 51.1le cratere: cioè i vasi.
L. 11, 51.5e' maggiori Greci: cioè li re e' principi.
L. 11, 51.7dagli occhi torli: che non vedesse.
L. 11, 52.5sua: d'Arcita.
L. 11, 52.6bruna: dolorosa.
L. 11, 52.7delle quai:schiere. - de' Greci maggiori: de' principi.
L. 11, 53.3diro: crudele.
L. 11, 54.4con le palme etc.: battendosi.
L. 11, 54.8lutti: pianti.
L. 11, 55.1essi: delle sette schiere.
L. 11, 56.2balteo: cinto.
L. 11, 56.6toraca: coraza.
L. 11, 56.8falli: ad Arcita.
L. 11, 57.2Vulcan: il fuoco.
L. 11, 57.5soporava: spegneva.
L. 11, 57.7l'ombre: della notte.
L. 11, 59.2molti giuochi etc.: secondo l'antico costume.
L. 11, 59.3i re: greci.
L. 11, 59.4-5Il primo giuoco fu di correre a piè: in questo ebbero l'onore questi due, Ida e Castore. - Ida: pisano.
L. 11, 60.3per uno: a ciascuno.
L. 11, 60.4u': dove.
L. 11, 60.6di Pallade etc.: Negli ornamenti di questi cavalli dati ad Ida e a Castore pone l'autore che fossero o dipinti o forse tessuti in modo di storie tutti gli onori di Pallade, e primieramente pone quello del nominare Attene, il quale di sopra si scrive.
L. 11, 60.7i Cicropi: cioè gli Atteniesi.
L. 11, 60.8V'era il palude etc. In Asia è una palude, la quale si chiama Tritone, dove una vergine, chiamata Minerva, primieramente abitò, e quivi trovò l'arte del filare la lana e di tessere i panni. Questa Minerva e Pallade sono una medesima, e fu poi questa Pallade da quello padule dove prima abitò chiamata Tritonia.
L. 11, 61.1Vedeasi ancora etc. Dicono alcuni che questa Minerva, cioè Pallas, dimorando allato alla soprascritta palude, delle cannuccie, le quali nascevano nella palude, primieramente compose le sampogne. Altri dicono che, poi che i giganti furono vinti e uccisi dagl'iddii e li loro corpi furono consumati dalla terra, che, essendo sole l'ossa rimase, avvenne un dì che Pallade vide per uno osso stato di gamba entrare il vento, e sentì che uscendone sufolava; di che ella il prese, e, agiuntovi alcune cose, ne fece una sampogna: e da questo ebbero le sampogne il primo cominciamento. - fistule: sampogne.
L. 11, 61.2ella: Pallas.
L. 11, 61.3poi con Aragne etc. Aragne fu una giovane di bassa condizione, la quale fu ottima maestra di tessere, intanto che ella osava vantarsi d'esserne migliore maestra che Pallade; laonde Pallade, presa forma d'una vecchiarella, andò a lei e cominciolla amichevolmente a riprendere, dicendole che ella non faceva saviamente di volersi aguagliare agl'iddii,non che farsi maggiore. Di che Aragne le disse villania; onde Pallade subitamente si trasformò nella sua vera forma e dissele se ella voleva tessere a pruova con lei. Aragne, vergognandosi d'essersi vantata e non ritenere lo 'nvito fatto da Pallas, disse di sì. Fece adunque ciscuna di loro la sua tela: quella di Pallas fu più bella; il che veggendo Aragne per dolore s'impiccò per la gola; ma Pallade non sofferse ch' ella morisse, anzi la convertì in ragnolo, il quale, non avendo la sua arte dimenticata, ancora tesse, come noi veggiamo.
L. 11, 61.4e di Vulcano Vulcano, iddio del fuoco, chiese a Giove Pallade per moglie. Quella il rifiutò per marito; di che Giove gli concedette che egli, se potesse, prendesse di lei ogni piacere. Di che Vulcano, volendola un dì sforzare, fu sì da lei percosso in terra, che egli si guastò l'anca, e sempre poi andò sciancato. - Vulcan: dio del fuoco. - l'Oebalio: cioè Castore. - 'l Pisano: cioè Ida.
L. 11, 62.1Ma poi nell'unta etc.: che giuoco sia quello de la palestra, è mostrato di sopra.
L. 11, 62.3il feo: quel giuoco.
L. 11, 62.4Elena: moglie di Menelao. - e ben lo seppe Elena: come Elena fosse rapita da Teseo nel giuoco della palestra, è detto di sopra.
L. 11, 62.5: quivi. - Egeo: re.
L. 11, 62.7nel quale vedeasi etc. Marsia fu ottimo suonatore, intanto che egli presunse di volere sonare a pruova con Apollo; e furono insieme a questo acordo, che colui che vincesse facesse de l'altro ciò che gli piacesse. Vinse Apollo, e fece scorticare Marsia, il quale, così scorticato, fu dall'iddii convertito in uno fiume, il quale ancora si chiama Marsia.
L. 11, 63.1Vedeasi: Apollo. - Fitonte: serpente. - Vedeasi appresso etc. Fitone fu un grandissimo serpente, il quale Apollo con le sue saette uccise.
L. 11, 63.2l'ombre: dell'alloro.
L. 11, 63.3Parnaso: monte. - sopra Parnaso etc. Scrivono i poeti le Muse essere nove ottime cantatrici e abitare allato ad una fonte la quale è in sul monte Parnaso, e quivi cantare loro versi; nel mezo delle quali dicono che Appollo siede e suona mentre elle cantano.
L. 11, 64.1Poi al cesto Quello che cesto si sia non abbiamo oggi assai chiaro; ma credo io sia uno bastone al quale siano appiccate palle di piombo, con le quali l'uno percuote l'altro di coloro che vi giuocano, e è pericoloso e mortal giuoco. In questo vinse Polluce Ameto, re di Tesaglia.
L. 11, 64.2avanzato: vinto.
L. 11, 64.3Ameto: re di Tesaglia.
L. 11, 64.6il quale aveva: cioè Polluce.
L. 11, 64.8ammirandi: maravigliosi.
L. 11, 65.1In essi: nappi. - In essi con non poca etc. Eran in questi nappi intagliate le XII fatiche d'Alcide, cioè d'Ercule; delle quali qui di due solamente fa menzione. La prima è che essendo egli ancora picciolo fanciullo nella culla, Giunone, sua matrigna, mandò due serpi ad ucciderlo, le quali due serpi Ercule, così piccolo come era, prese e uccise. La seconda si è del leone, il quale egli nella selva chiamata Nemea uccise.
L. 11, 65.2Alcide: Ercule. - cuna: culla.
L. 11, 65.4mandate: da Giunone.
L. 11, 65.6bruna: ombrosa.
L. 11, 65.8sue: d'Ercule.
L. 11, 66.2con Sarpedone al desco etc. Desco era una palla ritonda, la quale a quel tempo essi usavano di gittare e in pinta e in volta, come oggi si gittano le pietre: in questo Evandro vinse Sarpedone.
L. 11, 66.4Egeo: re.
L. 11, 66.6Su vi sedea etc. La forma di Pan, dio d'Arcadia, era questa: [].
L. 11, 68.1Li giuochi olimpiaci si facevano ad onore di Giove, ma qual fosse la propia forma di questi giuochi e di quegli che seguono non abbiamo: e chi era in questi vincitore era coronato d'ulivo.
L. 11, 68.3Li giuochi fizii si facevano ad onore di Febo, e chi era vincitore di quegli era coronato d'alloro. - pennei: d'alloro. - mai: cioè rami.
L. 11, 68.4Li giuochi nemei si facevano ad onore d'Ercule, e chi era vincitore di quegli era coronato d'appio.
L. 11, 68.5Li giuochi stimii [].
L. 11, 68.7Li giuochi cereali si faceano ad onore di Cerere, e chi era vincitore era coronato di frondi di quercia.
L. 11, 69.3mira: maravigliosa.
L. 11, 69.4elevato: alto.
L. 11, 70.6da tal: maestro.
L. 11, 70.8d'esso: d'Arcita.
L. 11, 71.1nel primo canto: del tempio.
L. 11, 71.2di Scizia: di quella contrada.
L. 11, 71.3achive: greche. - il tristo pianto: quando si dolevano di Creonte a Teseo.
L. 11, 71.5quasi sentia etc.: sì propie parevano dipinte.
L. 11, 71.6l'operatore: il dipintore.
L. 11, 71.7ciascheduna: donna. - v'era conosciuta: sì erano appropiati li visi di quelle.
L. 11, 72.1Ismeno: fiume di Tebe.
L. 11, 72.2Asopo: fiume di Tebe. lito: ripa.
L. 11, 72.3corpi morti: nelle bataglie d'Etiocle e di Pollinice.
L. 11, 72.6era circuito: il sito di Tebe.
L. 11, 72.8vedea: dipinto. - Creonte: di cui si dice di sopra.
L. 11, 73.4visi vedeano: dipinti.
L. 11, 73.7v'era: dipinto.
L. 11, 73.8per lui: cioè per Teseo.
L. 11, 74.1-2si vedean: dipinti - fuggire: poi che Creonte fu sconfitto e morto.
L. 11, 74.3pareanvisi: nelle dipinture.
L. 11, 74.5achive: greche.
L. 11, 74.6con diversi stuoli: quando misoro fuoco in Tebe.
L. 11, 74.8le corpor: de' loro mariti.
L. 11, 75.1quella: Tebe.
L. 11, 75.2v'era: dipinto.
L. 11, 76.3visi vedeva: dipinto.
L. 11, 76.5si vedeano: dipinti.
L. 11, 77.1la giovinetta: Emilia.
L. 11, 77.2in su li nuovi albori: cioè nell'aurora.
L. 11, 77.7chi li mirava: così dipinti.
L. 11, 78.1Vedeansi: dipinti.
L. 11, 78.7vedevasi: dipinto. - arrivare: Arcita.
L. 11, 79.4vi si vedeva: dipinto.
L. 11, 79.6el: Arcita.
L. 11, 79.8se n'andava boschetto: Arcita.
L. 11, 80.6el: Arcita.
L. 11, 81.1v'era: dipinta.
L. 11, 81.2Alimeto: medico.
L. 11, 81.3quivi: in prigione.
L. 11, 81.6fleto: pianto.
L. 11, 81.8nel tempo oscuro: di notte.
L. 11, 82.1vedeasi: dipinto. - sceso: Palemone.
L. 11, 82.5ciascuno: Ancita e Palemone.
L. 11, 83.1si vedea: dipinta.
L. 11, 83.4vedeavisi: dipinti.
L. 11, 83.5-6partuta l'avea: la battaglia.
L. 11, 83.6-7e come li riconobbe: vi si vedea.
L. 11, 84.1Vedeanvisi: dipinti. - Dircei: Tebani.
L. 11, 84.3lernei: greci.
L. 11, 84.5vi si vedevano: dipinti. - colei: Emilia.
L. 11, 84.6le 'nsegne: vi si vedeano dipinte.
L. 11, 85.1Eranvi: dipinti.
L. 11, 85.2milizia: cavalleria.
L. 11, 85.5vi si vedeva: dipinto.
L. 11, 85.8v'era: dipinto.
L. 11, 86.1vi si parea: dipinta.
L. 11, 86.2Imeneo: dio delle noze.
L. 11, 86.5vi si vedea: dipinto.
L. 11, 87.1il feretro: la bara. - di sopra: portato.
L. 11, 87.2si vedea: dipinto.
L. 11, 87.3gli egregi: i nobili.
L. 11, 87.7si vedeva: dipinto.
L. 11, 87.8il corpo: d'Arcita.
L. 11, 88.1sua: d'Arcita.
L. 11, 88.2gli: a Palemone. - uscì di mente: di fare dipignere. - segnata: dipinta.
L. 11, 86.3fati: la disposizione di Dio.
L. 11, 86.4non fosse ricordata: quella caduta sventurata.
L. 11, 86.6entrata: quella caduta.
L. 11, 86.8il giovane: Arcita.
L. 11, 89.2el: cioè Palemone.
L. 11, 89.4le trierterie: i sacrifici mortori.
L. 11, 89.5estinto: morto.
L. 11, 90.4urna: vaso. - sita: posta.
L. 11, 91.1me: urna.
L. 11, 91.3qui: in questo tempio.
L. 11, 91.4lui: Arcita.
L. 11, 91.6può: Arcita. - Qual se': tu, amadore che qui leggi. - io fui: cioè io Arcita.
L. 11, 91.8ti guarda: tu, amante.
L. 12, 1.2queste cose: dette di sopra.
L. 12, 1.5essa: Emilia.
L. 12, 2.4luci: occhi.
L. 12, 3.2avvenimento: d'Arcita.
L. 12, 3.3con lui: con Teseo. - adunati: ragunati.
L. 12, 4.3esso: Palemone.
L. 12, 4.5lui: Teseo.
L. 12, 4.6esso: Teseo. - con quanti: baroni.
L. 12, 5.4erette: atente.
L. 12, 6.5di quel etc.: cioè di Dio.
L. 12, 7.7perenni: perpetui.
L. 12, 7.8nuovi: fiumi.
L. 12, 8.6e questa: vecchieza.
L. 12, 9.3il modo: del morire.
L. 12, 9.8né l'alma etc.: per morire più in un luogo che in un altro.
L. 12, 10.1Del modo: del morire.
L. 12, 10.4alcuno etc.: sia ucciso.
L. 12, 10.5in qual : modo.
L. 12, 10.7Acheronte: fiume d'inferno. - a ciaschedun: omo.
L. 12, 11.4in quel: uomo.
L. 12, 11.5'n quel: uomo.
L. 12, 11.8contingenti: cioè per morte d'uomo.
L. 12, 13.4conceder: di piagnere.
L. 12, 13.5dopo quel: pianto.
L. 12, 14.4copioso: cioè grande.
L. 12, 15.3gramo: dolente.
L. 12, 17.5mo': ora.
L. 12, 18.1esso: Arcita. - ultimamente: quando venne a morte.
L. 12, 18.3Foroneo: re di Lacedemona.
L. 12, 18.4ne donò: a noi Greci.
L. 12, 18.7el: cioè Arcita.
L. 12, 19.5de' due già detti: cioè di Palemone e d'Emilia.
L. 12, 21.8che n'ha balia: di farlo essere.
L. 12, 22.4postergato: cioè lasciato adietro.
L. 12, 22.5il dover: cioè il piagnere.
L. 12, 23.4tra lor: cioè tra la volntà e la ragione.
L. 12, 23.6il che s'avien: che 'l dolor vinca.
L. 12, 23.7il guarderò: il dovere.
L. 12, 24.1tante infamie: perciò che, come in molti luoghi di sopra si può leggere, li Tebani in diversi atti fecero molte soze cose.
L. 12, 24.6nel reame molosso: è in quelle contrade ove è Durazo.
L. 12, 26.5quella: cioè Giunone.
L. 12, 27.2questo: che io amassi Arcita.
L. 12, 27.4sua: d'Arcita.
L. 12, 28.3prescrisse: impose.
L. 12, 28.4fosse mia: Emilia.
L. 12, 28.8di lui: d'Arcita.
L. 12, 29.4già molto etc.: quando gli dicea che non piagnesse, riconfortandolo.
L. 12, 28.6Penteo: cioè Arcita.
L. 12, 30.1ciò che dicevamo: cioè di prendere Emilia per moglie.
L. 12, 30.7quel: che l'avea primo tolta. - el: cioè il fratello rimaso vivo.
L. 12, 34.7signor: Teseo.
L. 12, 35.1Citerea: Venere.
L. 12, 35.2delli cui cori: di Diana. - il numero minore: scemandone Emilia.
L. 12, 35.4dell'altra: cioè di Venere. - maggiore: agiugnendovi Emilia.
L. 12, 36.1ombra: anima.
L. 12, 36.8spento: morto.
L. 12, 37.3signore: Teseo.
L. 12, 38.6l'ansiava: la faticava.
L. 12, 38.7el: Teseo.
L. 12, 39.6ombra: anima.
L. 12, 40.3allor che etc.: quando uccisero i maschi loro, come è detto di sopra.
L. 12, 40.5contravenire: a' boti fatti a Diana.
L. 12, 40.6sua: di Diana.
L. 12, 41.1di quelle: botate.
L. 12, 41.4Acate: che morì.
L. 12, 41.5l'altro: male.
L. 12, 42.2lo farei: d'esser sua moglie, acciò che egli morisse e tu rimanessi senza nemico.
L. 12, 52.1sante donne: Muse.
L. 12, 52.1-2Mostrato è di sopra come Anfione con la dolcezza della sua cetara mosse i monti a chiudere Tebe di mura. Ove è da intendere che la dolcezza della sua cetara fu la forza della sua eloquenzia, la quale mediante le Muse sì ordinò, che elli, parlando ornatissimamente, indusse gli uomini della contrada a fare le mura di Tebe. E queste Muse invoca qui l'autore, dovendo disegnare la bellezza di Emilia.
L. 12, 57.5eminente: elevato.
L. 12, 58.1tumorose: cioè grasse o enfiate.
L. 12, 58.6e questa: mistura colorita. - dipinta: cioè lisciata.
L. 12, 61.5eminente: rilevato.
L. 12, 61.6de' pomi: delle poppe.
L. 12, 61.7avean: le poppine.
L. 12, 63.3celata: cioè ch'è sotto i panni.
L. 12, 63.4colui: Palemone.
L. 12, 64.2tre volte cinque: quindici. - Appollo: il sole.
L. 12, 64.1-3Né era partimento: aveva XV anni.
L. 12, 64.3donde etc.: quando nacque.
L. 12, 65.4suppremo: grandissimo.
L. 12, 65.6al postremo: a l'ultimo.
L. 12, 67.8Elena: sua moglie.
L. 12, 68.4li: quivi.
L. 12, 68.6Imeneo: dio delle noze.
L. 12, 68.8Giunone: dea de' matrimonii.
L. 12, 69.1ara: altare.
L. 12, 69.5gnara: sciocca.
L. 12, 71.6mire: maravigliose.
L. 12, 72.2Orfeo: fu ottimo sonatore.
L. 12, 72.4Museo: fu ottimo sonatore.
L. 12, 72.6Lino: gran maestro di musica. - Anfion: re.
L. 12, 72.8Caliopè: Musa.
L. 12, 77.4sette volte etc.: giacque Palemone VII volte, la notte, con Emilia.
L. 12, 77.5promesso avea: quando pregò Venere, dovendo il dì seguente combattere con Arcita, come di sopra appare.
L. 12, 77.4Citerea: Venere.
L. 12, 79.5impetto: incontro.
L. 12, 81.1-3già due fiate etc.: erano passati due mesi.
L. 12, 81.2la sorella etc.: la luna.
L. 12, 81.6amena: dilettevole.
L. 12, 82.6Penteo: per Arcita.
L. 12, 83.7quel etc.: cioè Emilia.
L. 12, 84.1Poi che le Muse etc.: cioè poi che si cominciò per volgare a dire in rima.
L. 12, 84.4in onesto parlare: come in canzoni morali.
L. 12, 84.5in amoroso: in canzoni e sonetti d'amore.
L. 12, 84.7di Marte: cioè di battaglie.
L. 12, 84.8lazio: latino. - id.: lazio s'intende qui largamente per tutta Italia.
L. 12, 85.2non solcate mai etc.: cioè, che mai in rima non è stata messa, prima che questa, alcuna istoria di guerre.
L. 12, 85.4infimo: basso.
L. 12, 85.5tra gli altri: libri.
L. 12, 85.8materia dando etc.: d'onorare, quando che sia, te.
L. 12, 86.1E però etc.: cioè se' pervenuto al fine di quello che cominciasti.
L. 12, 86.3in essi: porti.
L. 12, 86.4le vaghe etc.: non diciam più.
L. 12, 86.5e le ghirlande etc.: cioè gli onori.
L. 12, 86.7lodando l'Orsa etc.: I marinari navicano al segno della tramontana, la quale, come di sopra ho mostrato, è nella coda della minore Orsa; così l'autore in questo suo navicare, cioè nel comporre di questo libro, ebbe per Orsa, cioè per fermo segno, una sua donna, ad onore e piacere della quale egli il compose; e perciò che ella, sì come vero segno, l'ha condotto a buono porto, dice al libro suo e a sé queste ultime parole: «lodando l'Orsa» etc..