Boezio, Della filosofica consolazioneAlberto della PiagentinaConsiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto Opera del Vocabolario ItalianoIl Boezio e l'Arrighetto nelle versioni del Trecento, a cura di Salvatore Battaglia, Torino, UTET, 1929, pp. 3-209.Boezio, Della filosofica consolazioneAlberto della Piagentina13321322ALtosc.fior.fil. 1322-1332
Prologo rubr.Prolago del volgarizzatore sopra il libro di Boezio della filosofica consolazione.
PrologoHic adinvenit omnem viam disciplinae, et dedit illam. Ieremias capit. tertio. Però che la nostra cognizione - velata dalla corporea tela - a dicernere la veritade de' singulari effetti e le loro cagioni per se medesima è insofficiente e poca - a la qual cosa la dottrina particulare grandemente l' aiuta; e con ciò sia che questa nostra momentanea e transitoria vita (e massimamente a chi viver diletta dal suo principio con regola di ragione) non basti a perfettamente invenire e contemplare le particulari cagioni delle singule cose, e poi ad esse elette esercitare; datoci è modo in ciò - di laude dignissimo - da quello eccellente e famoso Seneca morale, in una pístola a Lucillo, che comincia: Aliquis vir bonus; nella quale lui, e per conseguente noi tutti, induce e ammaestra ad eleggerci un uomo, la cui vita, costumi ed atti siano a noi di così vivere esemplo. Cotale uomo non dae la popolesca greggia, che bruta pasce solo cibo terreno; nè nella pompa dell' usurpata gentilezza si truova, la quale i vilissimi infangati di fangosa libidine e a vana cupidigia solo attenti, con falso nome di gentilezza mantella; chè costoro son quelli, di cui dice Ieremia (capitolo predetto): Habitaverunt super terram, viam autem disciplinae nescierunt, neque intellexerunt semitas eius, neque susceperunt eam filii eorum; e facie eorum longe facta est. Dove dunque si truova? Chi 'l cerca? Per certo tra que' pochi gloriosi sollerti ed equanimi, i quali la umana spezie, del divino raggio dotata, alzata dalle cose basse conservano, a cui el Poeta Fiorentino nel secondo canto del Paradiso parla, quando dice: «Voialtri pochi, che drizzaste il collo Per tempo al pan de li Angeli, del quale Vivesi qua, ma non si vien satollo». Tra' quali il predetto profeta nelle proposte parole avendo schiusi i miseri da essere schifati, ci mostra ad occhio chi è questo uomo singulare e in vertudi universale, cui eleggere dobbiamo nostro maestro, - dicendo hic: cioè costui, che il presente libro - che per le mani abbiamo - compuose, ha trovata ogni via di disciplina, e halla data. Costui per certo è il nostro intento; costui è quello sole che, col raggio del suo infinito lume, ciascun sentiere di nostra vita rende senza ombra e caliggine chiaro. Qui troverrà il giusto, che e a cui qualunque si renda; qui il prudente, con che occhi e considerazioni il preterito col futuro e presente misuri; qui il forte, che nella prosperità caro, e nell' avversità vile, e in converso, ritegna; qui il temperato, ordine vedrà di sobria vita. Costui dico è lo illustrissimo e sommo autore nominato Boezio, per cui a tanta nostra utilità ci chiama e grida il detto profeta con la proposta parola, a seguire l' orme del suo passeggiare in questo mare salso della cura mondana, spezialmente col pulito specchio del verace e sovran libro, che infra molti compuose, della Filosofica Consolazione; el quale, io naufragato, e sanza legno che mi levi, percosso dal secco vento che vapora la dolorosa ruota che m' ha sommerso, rivolgendo nell' animo - affaticato per le severe e disumane persecuzioni - memoria spessa di tanto famosissimo autore in tribulazione posto e consolarsi, ho redutto di gramatica in volgare, a utolitade de' volgari che sanza lettera hanno intrinseco abito virtuoso. Ficca dunque, lettore, l' occhio dell' intelletto, e cerni; ficca le labbra, e ciba l' approvata dottrina di tanto autore, acciò che dietro a tali orme passeggi. E perchè più chiara sia la sua midolla, la istoria di Teodorigo re de' Gotti - di diverse croniche ricolta - riconterò; perciò che, quella cognosciuta, appariranno alcune cose di considerazione e memoria degne: cioè, in che tempo questo chiaro e sublime autore fiorì; per che cagione questo libro compuose; sotto che persecutore e con che meriti, sciolto del carcer presente, abbia la gloria dell' etternitade acquistata. Adunque, come racconta Freculfo, vescovo di Lissona - nel quinto libro de' Tempi, il quale dalla natività del Nostro Signore infino alla morte del sovran dottore san Gregorio distese; Teodorigo, partito della provincia d' Ungaria ad acquistare altre sedie e soggiogare le terre vicine, alle quali era venuto, risedette con l' oste degli Ostrogoti nella Romanía bassa. In quello tempo teneva lo 'mperio d' Oriente Zenone; il quale l' anno di grazia quattrocento settantasei avea cominciato. Costui, cognosciuta la prosperitade di Teodorigo, con ambasciata proferendogli molti beneficii, che a lui non tardando venisse, mandò. Teodorigo, niente temendo, venne alla città reale, dove, dall' imperadore benignamente ricevuto e magnificamente alzato, fu fatto consolo ordinario; e non solamente questo, ma dallo imperadore meritò sua statua essere a cavallo allogata innanzi alla reale. Intra queste cose, Teodorigo, sotto lo 'mperio di Zenone accompagnato, e di beni molti appo lui abondante, con ciò fosse che la sua gente, ch' era nella Romanía bassa, udisse non esser ben disposta e ordinata, elesse più tosto, al modo usato, con l' esercito suo in esercizio e fatica menar la sua vita, che con ozio usare i beni del reame romano. Adunque seco deliberato, con parole riverenti dal principe domandato commiato, con speranza d' acquisto di nuova gente a gloria della imperial maestade (avvegna che ciò allo imperadore grave paresse, ma al suo volere assentendo), di molti onorevoli doni meritato, si partì con la licenzia imperiale. Teodorigo dunque con la gente de' Gotti, che a lui consentiro, tenne inverso Italia e per le vicinanze d' Ungaria; e per ricrear l' esercito, s' accampò e risedette alcun tempo presso a Negroponte, assaliti i confini di Vinegia. Poi, Odoneacro con armata forza d' oste contra lui venne, il quale ne' campi di Verona fu da Teodorigo sconfitto. Odoneacro in Ravenna fuggendo, ed assediato da Teodorigo, il terzo anno dell' assedio costretto ad arrendersi, fu morto. Teodorigo dunque, ucciso Odoneacro, tutta Italia conquistò, e per consiglio dello imperatore, quasi come regnatore dell' una e dell' altra gente - cioè della romana e de' Goti - prese vestimento reale: e con ciò fosse che tutto in pace possedesse, dell' amistà di Franceschi desideroso, la figliuola di Lodovico re di Francia per matrimonio si congiunse. Morto Zenone, ricevette lo 'mperio Anastagio l' anno di grazia CCCCLXXXXIII. In questo tempo, Boezio uomo consolare in Italia risplendea, il quale in defensione della cattolica Fede molti libri fece, sì come il libro di Trinitade, il quale a Simaco patricio di Roma, suocero suo, scrisse. A Giovanni, diacono, scrisse diversi libri - cioè: Del modo di predicare - il quale usano i predicatori, nella Trinità delle persone; del Processo delle buone creature da Dio, il quale dell' Edomade intitolò; anche della Fede Cristiana; anche delle due nature e una persona di Cristo, dove l' errore dell' uno e dell' altro, cioè di Nestorio e d' Utico, pienamente confuse. Nelle scienze che usano i secolari compuose eziandio diversi e molti libri. Questo Boezio è commendato da Teodorigo re in una sua pístola, la quale nel libro di Cassiodoro si legge; nella quale li scrive così: «Te di molta dottrina abondante essere sì abbiamo cognosciuto, che l' arti, che volgarmente gl' ignoranti esercitano, nella fontana medesima delle discipline abbi bevuto. Così, dilunge stando, nelle scuole degli Ateniesi hai studiato; e sì a' cori de' palliati la toga mescolasti, che la dottrina de' Greci hai fatta romana. Imparato hai con che profondità la speculativa con le sue parti si consideri, con che ragione l' attiva con la sua divisione s' impari, riducendo a' discesi di Romulo ciò che i Cicropidi feciono al mondo singulare. Nelle tue translazioni i pitagorici musici si leggono italiani; Nicomaco arismetrico, Euclide geometro sono uditi romani; Plato teologo, Aristotile loico con voce quirinale disputano; Archimenide meccanico eziandio a' Ciciliani hai renduto; e qualunque discipline e arti la feconda Grecia compuose per uomini singulari, ora da l' autore di sua loquela Roma ha ricevuto; i quali di tanta luciditade di parole hai fatti chiari, con tanta perspicacità di lingua hai fatti lucidi, ch' egli avrebbon potuto la tua opera alla loro antiporre». Poco poi Boezio alla tirannia di Teodorigo contrastando, da lui fu in sbandimento mandato, e nella città di Pavia impregionato. Nel quale tempo di tanta sua avversitade, a recreare lo spirito suo e degli altri, che per troppa tristizia non si disgittassono, compuose il libro di Consolazione presente. Morto Anastagio, imperò Iustino l' anno di grazia DXVIIII; il quale - come dice la Martiniana - imperadore cristianissimo essendo, statuì, che dovunque fossono chiese d' eretici, si consecrassono alla religione cattolica. La qual cosa con ciò sia che Teodorigo re, d' eresia ariana insozzato, in Italia avesse udito, mandò Giovanni papa e altri uomini consolari in Costantinopoli, minacciando, che se Iustino agli ariani le chiese non restituisse, tutti i cristiani in Italia con coltello ucciderebbe. I quali da Iustino onorevolmente ricevuti, alle preghiere del papa e degli altri ambasciadori avendo compassione a la morte de' cristiani, a le chiese degli ariani soprassedette. Costoro nel viaggio dimorando, Teodorigo, stimolato da rabbia d' iniquitade, Boezio senatore, prima sbandito, fece strangolare nel terreno melanese; le cui reliquie giacciono nella chiesa di monaci di Pavia. Ma Giovanni papa con gli altri che mandati aveva a Iustino, tornati a lui a Ravenna, in pregione forte fece morire. Simaco eziandio, patricio - come recita il predetto Freculfo vescovo - nulla cagione precedendo, in Ravenna ha fatto morire; ed elli percosso dall' ira divina, ivi medesimo di morte subitana morì l' anno trigesimo del suo regno. Di cui racconta san Gregorio nel quarto libro del Dialogo, che nell' ora della sua morte ad uno romito nell' isola di Liparo apparve scinto e scalzo, con le mani legate, in mezzo di Giovanni papa e di Simaco patricio, da' quali nella vicina isola di Vulcano fue gittato. Ben dunque dice di Boezio dirittamente Ieremia profeta, nella proposta parola: Hic adinvenit omnem viam disciplinae, et dedit illam; nelle quali parole si notano le quattro cagioni principali di questo libro, che usate sono domandarsi ne' principii delli altri libri, cioè la cagione efficiente, materiale, formale e finale. La cagione efficiente di questo libro si mostra in quello pronome dimostrativo ad occhio, hic; cioè, costui autore di questo libro, Boezio, il quale fu uomo di Roma gentile, e nel Sanato onorevole e pregiato. La cagione materiale di questo libro si mostra quando dice omnem viam disciplinae, imperciò che qui si tratta di disciplinare sì chiunque vive in prosperitade, che le cose vili non reputi care, come di consolare chi in istato di miseria si riputa per cose temporali perdute, pensando che le cose iguali a' meriti non procedano; il cui contrario dimostra, provando, che secondo il giudicio divino, che non falla, a' buoni guiderdoni e a' rei pene debite sono rendute: sì che ciascuno in persecuzione caduto, riducendo a memoria le ragioni di Boezio, potrà dir col Salmista nel salmo: Iudicia Domini vera iustificata in semetipsa. La cagione formale si tocca quando dice adinvenit; che in ciò dimostra la forma perfetta insieme unita; la quale secondo considerazione è doppia, cioè la forma del trattato, il quale difinisce, divide, ricoglie e pone esempli; e la forma del trattare, che è il processo del libro, diviso in libri e versi e prose, dove s' induce modo disputativo; nel quale la Filosofia s' induce a domandare e difinire consolando, e Boezio a rispondere e notare; dalla cui filosofica dolcezza qualunque informati, ricevuto l' effetto di piena consolazione, e ne' loro errori illustrati, diranno con Isaia profeta, nono capitolo: Habitantibus in regione umbrae mortis, lux orta est eis. La cagione finale di questo libro si mostra quando dice: et dedit eam; imperciò che la sua finale intenzione è di disciplinare e producere l' animo dell' uomo a quella letizia la quale nella speranza della etterna beatitudine è cagionata; la quale beatitudine sta nella vista del volto divino, dal cui etterno fonte ogni allegrezza s' attigne, di cui ci parla Isaia nel duodecimo cantico: Hic haurietis aquas in gaudio de fontibus Salvatoris. Queste cose così vedute, chè l' altre assai sono manifeste, securo venire si puote al testo, il quale comincia così.
Prologo, expl.Qui è compiuto il prolago.
L. 1 inc.Qui comincia il libro primo di Anizio Mallio Torquato Severino Boezio - exconsolo ordinario, patrizio - de la Filosofica Consolazione, redutto in volgare; nel quale s' induce Boezio di consolazione bisognoso, lamentante, e la Filosofia inquirente la cagione e consolante. Traslatato di gramatica in volgare da maestro Alberto fiorentino nella prigione di Vinegia, negli anni MCCCXXXII.
L. 1, 1Io, che compuosi già versi e cantai Con studio fiorito, son costretto Di scriver canti di tristizia e guai. Ecco le laceranti nel mio petto Muse mi dittan ora, e la mia faccia Bagnan con veri pianti e con effetto Di versi di miseria, che mi straccia D' ogni conforto; ma almen costoro, Che non venisson dietro alla mia traccia, In nostra compagnia facendo coro, Non ha vincer potuto alcun tremore, O ver paura, che sia fatta loro. Perchè essendo nel glorioso fiore Di me felice e di mia giovanezza, Non obliate del tenero amore, Consolan ora con la lor dolcezza I tristi fati di me invecchiato, Ch' io provo, rovinato dell' altezza. Vien la vecchiezza in tempo non pensato, Sospinta ed affrettata dallo sprone D' avversità e mutabile stato. E questa età cotal di ciò cagione S' appropria il dolor con lei congiunto, Ed io provo, oimè! tal congiunzione. I canuti capelli innanzi al punto Di vera senettute sono sparti Per lo mio capo d' ogni calor munto. E la cascante e vizza in molte parti Inaridita pelle trista triema Nel corpo vôto di calore e d' arti. Quella morte è felice, che non scema La vita ne' dolci anni, e se chiamata In tempi dolorosi, non cilema. Aimè! lasso me! come indurata, Con sorde orecchie costei vilipende I miseri, da cui è disiata! E' lamenti de' tristi non intende, E niega chiuder gli occhi lagrimosi Questa crudele, che tanto m' offende! Quando ne' transitorii miei riposi E mutabili ben fortuna dava Favor, che mi tenea tra' gloriosi, Poco men l' ora della morte prava Il capo mi sommerse; ma aguale Che l' avversa fortuna sì mi grava, Col volto suo fallace, non le cale Punto di me, e la misera vita Dimoranze prolunga per mio male. Perchè, amici, in la vita fiorita Tante volte vantaste me beato? La voce vostra rimane schernita. Colui che cade, non ha fermo stato.
L. 1, cap. 1Quando meco queste cose tacito ripensava e la lagrimosa lamentanza con lo stile scrivea, sopra 'l mio capo essere stata una femmina da me è veduta, di volto molto da riverire, con occhi ardenti e - oltre la comune possanza degli uomini - chiari, con colore vivo e di non compreso vigore; la quale, avvegna che si fosse piena di tempo, che in nullo modo paresse di nostra etade, la sua statura era di discrezione mutabile, perciò che ora sè alla comune misura degli uomini concedeva, ma ora toccare 'l cielo con l' altezza del sommo capo pareva; la quale con ciò sia che più avesse il capo levato, quel medesimo cielo passava e degli uomini ragguardanti vaneggiava la vista. I suoi vestimenti erano di sottilissimi fili, con sottil artificio di non disleghevole materia perfetti, i quali poi, sì come ella ciò manifestando cognobbi, con le sue mani avea tessuti; la bellezza de' quali,come le fummose imagini suole imbrunire alcuna oscuritade di vecchiezza in negligenzia avuta oscurata avea. Nella strema e bassa lor parte P greco, ma nell' altra e soprana, T si leggeva; e tra l' una e l' altra lettera, a modo di scala, scaglioni alcuni disegnati pareano, per li quali dalla più bassa si montasse alla soprana. Ma questa vesta aveano le mani d' alcuni violenti squarciata, e le particelle tolte da quella, le quali ciascuno avea potuto. La man destra di costei libri, e la sinistra verga reale portava. La quale come vide le poetiche Muse presenti stare al nostro letto, e a' miei pianti parole dittare, un pochetto commossa e infiammata, con acceso volto disse: «Chi ha permesso venire queste sceniche puttanelle a questo infermo, le quali i suoi dolori non solamente non riparerebbono di rimedii alcuni, ma di dolci veleni in sopra ciò lo nutricherebbono? Queste sono quelle le quali, con le non fruttuose spine de' desiderii, la biada abondevole de' frutti della ragione affogano, e le menti degli uomini ad infermitade avvezzano, non le liberano. Ma se alcuno dilungi da abito di scienza, sì come usato al vulgo, a voi traessono le lusinghe vostre, men gravemente riputerei da sostenerlo, perciò che in lui niente saria di nostra opera danneggiato, ma costui negli studi di Elea e di Accademia nutricato. Ma andate maggiormente, o dolci sirene, in morte sbandite, e lui colle mie arti e scienzie a curare e a sanare mi lasciate». Così quel coro ripreso, gittò il volto più tristo alla terra, e confessando con rossore la vergogna, fuor della porta uscì. E io, il cui vigore in lagrime sommerso era scurato, e non potea cognoscere chi questa femmina fosse, di tanta imperiale autoritade mi maravigliai; e abbassati e fitti gli occhi alla terra, quel che costei per innanzi facesse, ad aspettare tacito cominciai. Allora quella più dipresso vegnendo, nell' estrema parte del mio letto sedette, e ragguardando il volto mio di pianto grave e alla terra per tristizia gittato, con questi versi della turbazione di nostra mente fece lamento:
L. 1, 2Aimè! come la mente attuffata Nel basso strabocchevole profondo, Sta impigrita, di virtù privata; E lasciata la luce del giocondo Proprio lume, che le dà natura, Rovina fuor in tenebre del mondo, Cotante volte, quante in dismisura Cresce per vanità da' terren venti Venteggiata, la nocevol cura. Costui ne' calli celesti lucenti Libero per addietro andar usato Pe' cieli aperti a lui splendienti, I lumi dicernea del sol rosato E le costellazioni della luna Frigida, da noi illuminato; E certificata avea ciascuna Stella decliva per varie spere, Con nover, nè ignota gli era alcuna; Ed era usato di cercar le vere Cagioni perchè il sonante vento Turba del mar le salse acque mere; E spirto qual rivolga il firmamento, O ver perchè la stella di levante Surga per ricader, cercava attento; E chi la primavera verzicante Temperi sì, che i fioretti novelli La terra adornan con allegre piante. Ed era usato cercar chi sia quelli, Che dà che l' autunno ubertoso Abonda d' uve e di frutti belli; E le cagion rendeva virtuoso Della natura occulta; e ora giace Voto di lume, tutto tenebroso, Col collo incatenato, e al fallace Mondo è costretto di chinare il volto, E ogni forza nostra in lui si tace. Aimè, che vilitade lo m' ha tolto!
L. 1, cap. 2«Ma di medicina è tempo, non di lamentanza». E allora con tutti i lumi in me attesa, disse: «Or non se' tu quegli il quale, del nostro latte nodrito e coi nostri alimenti notricato, eri scampato in forza d' animo virile? Certo noi t' abiavamo tal' armi donate, che, se tu prima non l' avessi gittate, ti difenderebbon con non vinta fermezza. Or cognoscimi tu? perchè taci? per vergogna, o vero per maraviglia se' taciuto? Più volentieri vorrei per vergogna; ma, com' io veggio, maraviglia t' ha soppresso». E con ciò fosse che non solamente tacito, ma sanza lingua al postutto e mutolo mi vedesse, mosse leggiermente sovra 'l mio petto la mano e disse: «Niente è di pericolo; di dimenticanza è passionato: comune infermità delle menti schernite. Un pochetto è obbliato, agevolmente si ricorderà se certamente prima noi avrà conosciuto: la qual cosa acciò che possa lievemente, forbiamo i lumi suoi per nuvola delle cose mortali oscurati». Questo disse, e raccolta la vesta in crespe, asciugò gli occhi miei abondanti di pianto.
L. 1, 3Allora, via la notte discacciata, M' abbandonâr le tenebre, e 'l vigore Ritornò primo con la luce usata; Sì come quando da molto furore D' impetuosi venti son le stelle Involte in nebbia, e non danno chiarore, E 'l fermamento sta, che porta quelle, Di nubile e di piova ripentina Celando a noi le sue cose belle, E 'l sol nasconde sua faccia divina; Nè le stelle nel cielo ancor veggendo, Sovra la terra la notte dichina. Costei se 'l forte Boreas giugnendo Verberi, l' aere di Tracia mandato, Il chiuso dì dal caligo partendo, Risplende Febo, e di lume adornato Gli ammiranti occhi fiere col suo raggio Di varii colori intorneato, E corre nel diritto suo viaggio.
L. 1, cap. 3Non altrimenti distrutte le nebbie della tristizia, il cielo attinsi, e mente a conoscere la faccia del medico ricevetti. Adunque, poichè gli occhi in lei ebbi rivolti e lo sguardo ficcai, cognobbi la mia nutrice Filosofia, con la cui famiglia dalla mia adolescenza sono usato. «E perchè - dissi io - tu in queste solitudini del nostro sbandimento, o mastra di tutte virtudi, dal sovrano cardine discesa, venisti? acciò, forse, che tu con false colpe meco colpevole sii infestata?». - Ed ella: «O figliuol mio di latte, abbandonere'ti io sì che 'l carico, che per invidia del mio nome hai portato - la fatica teco comunicata - non partissi? Certo, alla Filosofia non era licito scompagnato l' andamento dello innocente abbandonare. Temere' io la mia accusa, e quasi nuova cosa avvenuta, spaurirei? Giudichi tu ora di prima appo gl' improbi costumi essere con pericoli la sapienzia lacerata? Or non combattemmo noi in gran battaglia appo gli antichi, innanzi l' età del nostro Plato, col folle ardire della stoltizia? E, lui vivendo, il suo maestro Socrate iniustamente meritò vittoria di morte, me presente. La cui ereditade con ciò fosse che la epicura e stoica schiera, e ancor altri - ciascun per la sua parte - rapinare si sforzassono, e me gridando e contrastando, sì come in parte di preda, tirassono, la vesta - che con le mie mani m' avea tessuta - squarciarono, e levate da lei pezzuole alcune, credendo me tutta loro averla conceduta, si partirono. Ne' quali perciò che certe orme dell' abito nostro si vedeano, la imprudenzia - opinando coloro essere miei famigliari - molti della volgare moltitudine in errore rivolse. E se tu la fuga d' Anassagora, nè 'l veleno di Socrate nè i tormenti di Zenone, perciò che sono cose peregrine, non hai conosciuto, i settatori di Canio, di Seneca e di Sorano, de' quali nè invecchiata è la memoria nè corrotta, conoscere potesti; i quali null' altra cosa menò in morte, se non che, di nostri costumi ordinati, dagli studi degl' improbi parevano straniati. Adunque nulla è perchè ti debbi maravigliare, se in questo mar salso di vita siamo con circonsoffianti tempestadi commossi, perciò che questo è necessario a noi, a' quali massimamente è proposto a' pessimi dispiacere; de' quali avvegna che di gran novero sia l' esercito, nondimeno è da esser dispregiato, perciò che da duce nullo si regge, ma solo mattamente da discorrente errore con frequenza è rapito. Il quale se alcuna volta contro noi schiera ordinando, più possente s' è levato, la nostra guida le copie sue nella rocca ricoglie; ma quelli circa 'l rapire i disutili carichetti s' occupano, e noi disopra ci beffeggiamo de' rattori delle vilissime cose, securi da tutto il furioso tumulto, e con quella fortezza guerniti la quale alla stoltizia non è licito di passare».
L. 1, 4Qualunque sia con l' animo composto, Tien sotto i piedi il superbio fato, E ragguardando con fermo proposto L' una fortuna e l' altra, non piegato, Ha potuto tener dritta la faccia, Non vinto e da nessuna dominato; Costui non rabbia di mare, o minaccia, Che dal fondo rivolto caldo mova, Commoverà dalla verace traccia; Nè Vesevo per rompitura nova, Donde suoi fuochi faccia fuori uscire, Di lui commover vincerà la prova; O ver folgore usato di ferire L' eccelse torri, ne' temperati anni, Aprendo contra lui tutte sue ire. Perchè i miser di crudel tiranni Si maraviglian, perchè furiosi Si mostran con bugiardi e falsi inganni? Acciò che tu non speri invan riposi,spaurischi di vana paura, Ricerca l' ira di non poderosi. Ma non fermo qualunque fuor misura, Oltre modo spaventa o ver disira, Non è costante e da ragion si fura, E lo scudo ha gittato e 'nvan si gira, Mosso del luogo suo, dov' era fermo, E la catena annoda, che poi 'l tira In basso fondo sanza alcuno schermo.
L. 1, cap. 4«Or senti tu, diss' ella, queste cose, o ver discorron nell' animo tuo? Or se' tu come l' asino al suon della cetera? Perchè piagni? perchè lagrime spandi? Confessami i tuoi peccati, non li nascondere. Se tu aspetti utile del medico, e' si conviene che la fedita discuopri». - Ed io allora - in forze virili l' animo raccolto - dissi: «Deh! or abbisogna ancor con più ammonizione esser mostrata? non è per se stessa assai manifesta l' asprezza della fortuna a noi crudele? Or non t' ha mossa niente la faccia del luogo? È qui l' armario de' libri, il quale nella nostra casa tu medesima t' avevi certissima sedia eletta? nel quale spesse volte riposandoti meco, della scienza delle divine cose e umane chiaramente ragionavi? Cotale era l' abito, e cotale era il volto, quando teco cercava le cose di natura occulte? quando la via delle stelle col raggio mi dimostravi? quando i nostri costumi e la ragion del vivere ad esemplo del celestiale ordine informavi? Ecco: questi meriti riportiamo, a te servendo? Tu certamente questa sentenzia con la bocca di Plato santamente ordinasti: le repubbliche esser beate, se studiosi di sapienza le reggessono, o vero i loro rettori in sapienzia studiare avvenisse. Tu con la bocca di lui stessa ammonisti, questa esser cagione necessaria a' savi di pigliar disiderosamente ad amministrare la republica, acciò che i reggimenti delle cittadi lasciati agl' improbi e scellerati, a' buoni non dessono pestilenza o ver morte. Questa autorità seguitando - la qual da te aveva imparata negli studi segreti - di trasportarla in atto dell' amministrazione publica disiai. Tu e Iddio, che t' ha posta nelle menti de' savi, testimon sete, che nullo studio, se non il comun bene di tutti, all' ufficio del magistrato m' ha menato. Indi furono con gli uomini rei gravi e dismisurate discordie, e tanto fu libera la mia coscienza, che, per difendere la ragione, l' offensione de' più possenti è sempre da me dispregiata. Quante volte Congiugasto forza faccendo nelle ricchezze di debole qualunque, contrapponendomi, rimossi! quante volte Triguilla, della real casa preposto, da la cominciata e già fatta ingiuria al postutto cacciai! quante volte i miseri - i quali con infinite calunnie la non punita avarizia de' barbari tormentava - opposta a' pericoli l' autoritade, difesi! Mai nullo mi tirò da la ragione ad ingiuria. Delle fortune di provinciali, sì da private rapine sì da piuviche gravezze conculcate, non altrimenti che quelli che ciò sostenevano, mi dolsi. Con ciò sia cosa ch' al tempo dell' acerba fame, grave e dismisurata coenzione di biada fosse imposta, e in danno grande e 'n povertade della provincia di Campagna paresse, battaglia contr' al prefetto del Pretorio per ragione della comune utilitade ricevetti; e cognoscendolo il re, lo contesi, e che la coenzione non si riscuotesse convinsi. Paolino uomo consolare, le cui ricchezze i can di palagio già per isperanza e per superbia aveano divorate, dalle loro aperte mascelle agognanti ritrassi. E acciò che la pena della innanzi iudicata accusa non punisse Albino uomo consolare, all' odio di Cipriano accusatore me opposi. Deh! or non par che io abbia contra me assai inasprite discordie? Ma appo gli altri più essere securo doveva, il qual per amor di giustizia niente appo i cortigiani, perchè più fossi sicuro, mi riservai. Ma da quali accusatori percossi siamo, intendi: de' quali Basilio dal servigio reale discacciato, ad accusare il nostro nome, per necessità dell' altrui avere, è costretto. Ma Opilio e Gaudenzio, con ciò sia che per ingiurie molte e fraudi andare in esilio real sentenzia avesse iudicato, e con ciò sia che non vogliendo ubbidire, si difendessono con difensione di sacri templi, e questo dal re fosse conosciuto, ordinò, che se infra certo scritto dì della città di Ravenna non si partissono, segnati con bolle nella fronte fossono discacciati. Che dunque pare a questa severitade da cotal gente fare potersi fede? E certo, in quel dì accusando costoro, l' accusa del nostro nome è ricevuta. Ciò le nostre arti così hanno meritato? o fece coloro giusti accusatori la condannagion premessa? Così se dell' accusata innocenzia niente la fortuna si vergognò, la viltà degli accusatori almeno in vergogna esser le doveva. Ma la somma di che peccato siamo ripreso, domandi? È detto, noi aver voluto il Senato esser salvo. Il modo desideri? l' accusatore, che le scritture non portasse con le quali il Senato reo di maestà si facesse, avere impedito siamo incolpato. Che dunque, o maestra, iudichi? negheremo noi il peccato, acciò che in vergogna non siamo? Anzi confesseremo ch' io volli, nè mai di ciò voler mancherò; ma l' opera dell' impedire l' accusatore cesserà. Or aver desiderata la salute di quello ordine chiamerò io illicito? Colui co' suoi giudicii di me, che questo mi fosse illecito avea fatto. Ma la imprudenzia, sempre a sè bugiarda, i meriti delle cose non può mutare, nè a me (per decreto di Socrate) arbitro esser licito aver occultata la verità, o ver conceduta la bugia. Ma questo come sia, al tuo giudicio e a' savi lascio da essere stimato. L' ordine della qual cosa e la verità, acciò che a' futuri non si possa nascondere, con scrittura eziandio alla memoria ho raccomandato. Che delle composte lettere falsamente, con le quali la libertà romana avere sperata son ripreso, dir che s' appartiene? la fraude delle quali aperta si sarebbe palesata, se a noi la confessione di quelli accusatori (la qual cosa in ogni fatti ha grandissime forze) usar fosse licito stato. Che più libertà si può sperare? Dio lo volesse che alcuna si potesse! Certo io avrei risposto con la parola di Canio, il quale - con ciò sia cosa che da Gaio Cesare, figliuol di Germanico, della coniurazione contra lui fatta esser consapevole detto fosse - rispose: Se io, tu non l' avresti saputo. Nella qual cosa non sì la tristizia i nostri sensi ha impigriti, che io mi lamenti che gli spietati contra la verità cose scelerate hanno ordinate; ma quelle cose, - le quali hanno ordinate e sperate - aver compiute, grandemente mi maraviglio; perciò che voler le cose rie forse che è per nostro difetto, ma potere contra la innocenzia quelle cose, che qualunque scelerato ha concepute, ciò Dio ragguardando, è simiglievole a mostro. Onde non con ingiuria un de' tuoi famigliari domandò: Se Dio è, onde il male? e se non è, onde il bene? Ma licito sia stato a' malvagi uomini (i quali di tutti i buoni e del Senato il sangue domandano), noi eziandio, il quale contrastare pe' buoni e per lo Senato vedevano, andare aver voluto in perdizione; or meritavamo noi questo medesimo da' Padri? Secondo ch' io credo, tu ti ricordi, che tu presente dirizzavi tutti i miei detti e fatti. Ricorditi, che a Verona, - con ciò fosse che il re, desideroso della comune morte, peccato di maiestà danneggiata, - contra Albino per accusazione apposto - a tutto l' ordine del Senato trasportare si sforzasse, - con quanta sicurtà di mio pericolo difesi la innocenzia dell' universo Senato? Tu sai, queste cose me con verità profferere, e in nulla mia laude essermi giammai vantato; perciò che in alcuno modo scema il segreto della coscienza, che si loda, quante volte alcun vantando il fatto, di fama riceve pregio. Ma la innocenzia nostra, che uscimento abbia ricevuto tu 'l vedi: per guiderdon di vera virtude, di falsa fellonía pene portiamo. E di quale scelleratezza confession manifesta ebbe così i giudici in concordia, che alcuno almeno l' error dello 'ngegno umano, o vero la condizione di fortuna incerta a' mortali, non piegasse? Se infiammare i sacri templi aver voluto, se sacerdoti con dispietato coltello strangolare, se a' buoni uomini aver morte ordinata fossimo incolpati; nondimeno il presente confesso e convinto avrebbe la sentenzia punito; ora quasi cinquecento migliaia di passi dilungi rimossi, e non difesi - studiosamente con dismisura nel Sanato - a morte e proscrizione siamo condannati. O meritevoli, di simile peccato nullo potuto essere convinto! la dignitade ed innocenzia del qual peccato, quelli eziandio che accusaron, cognobbono: la quale acciò che per mescolanza d' alcuna scelleratezza annerassono, per la grandezza della dignitade hanno mentito, me avere la coscienzia con sacrilegio insozzata. Certo tu, a noi congiunta, ogni cupiditade delle cose mortali della sedia del nostro animo discacciavi, e sotto gli occhi tuoi a sacrilegio non era licito aver luogo, perciò che tu distillavi agli orecchi miei e a' pensieri continuamente quello pittagorico detto: Servi a uno Dio, e non a Dii. si conveniva prendere aiuto di vilissimi spiriti a colui, il quale tu in questa eccellenza componevi, che simigliante a Dio mi facessi. In sopra a ciò, la coniuge, la innocente casa, la compagnia degli onestissimi amici, il suocero Simaco eziandio santo, e igualmente in atto da essere riverito, difendono noi da ogni sospezione di tale peccato. Ma, o cosa illicita! coloro pigliano da te, o Filosofia, fede di tanto peccato, e per questo paravamo essere al malificio prossimani, che ripieni delle tue discipline, siamo di costumi informati. Adunque non è assai, niente avermi giovato la tua riverenzia, se oltre ciò tu per la mia offesa non sii lacerata. E ancor eziandio a' nostri mali questo s' aggiugne, che la stimazione de' plusori, non i meriti delle cose, ma la fine di fortuna ragguarda, e quelle cose solamente essere giudica provedute, le quali la felicità commenda. Per la qual cosa avviene che la prima buona stimazione tutti i disventurati abandona. O che romori popolari, quante multiplicate e discordanti sentenzie! e' mi pesa di raccordarmene. Pur questo avrò io detto: ultimo incarico esser dell' avversa fortuna, che quando a' miseri alcuno peccato s' impone, quelle cose che sostengono, son creduti avere meritate. Ed io da tutti i beni discacciato, di dignitadi spogliato, per stimazione insozzato, ho sostenuto per beneficio tormento; e parmi vedere le inlicite case degli uficiali scellerati, di letizia e d' allegrezza abondanti, e qualunque altro soprastante con nuove fraudi d' accuse; i buoni giacere a terra distesi per paura del nostro pericolo; e qualunque libidinoso, per la impunitade ardire la fellonía, e con guiderdoni essere incitati ad affliggere gl' innocenti, non solamente di sicurtà, ma eziandio di difension privati. Adunque mi piace di gridare:
L. 1, 5O Creator dello stellato mondo, Il qual triunfi nella sedia etterna, E con impeto giri il ciel ritondo, E strigni con la forza tua superna A certa legge osservar le facelle, Sì che la luna per te si governa, Che ora chiara con le corne belle Piene di fiamme al fratello opposta, Faccia col lume suo minor le stelle; E or col corno oscuro sia più tosta A 'mpalidire, e a perdere il lume, Che 'l sol quando di presso a lei s' accosta; E ch' Espero che, poi che sotto 'l fiume D' occeano il sol nasconde il viso, Raggia, per cui vigore il freddo tume, Muti l' usanza da Febo conquiso, Levandosi con lui in oriente, E palido ci cela il vago riso. Tu costrigni la luce splendiente Di verno a far più corta dimoranza Col freddo, c' ha le foglie tutte spente. Tu, quando il caldo della state avanza, L' ora notturne parti e fa'le corte, Dando di bene a ciascuno speranza. E tua virtude sovr' ogni altra forte, Tempera l' anno in variati atti, Sì che le foglie, che ha Boreas morte, Renda Zaffiro, con fermi suoi patti, E' semi, sparti a' raggi d' Arturo, Sirio secchi, già gran biade fatti. Nè lascia sanza l' ordine maturo, Dalla tua legge etterna ma' isciolta, Cosa movuta dal tu' atto puro; Tutte le cose con rancura molta Governi, e solo degli atti umani Schifi di raffrenar la vita stolta; Perchè fortuna tanti effetti vani Versa, soppressando l' innocenti Con pena meritoria a' profani? E' costumi perversi son vincenti, E' rei con la potenza loro estorta Calcan de' buoni i colli pazienti. Ogni chiara virtude è quasi morta, Ovver nascosa sotto oscuritade, E 'l peccato del rio il giusto porta. Niente spergiurata iniquitade, O froda di bugia colorata Nuoce a costoro, o lor malvagitade. Ma, come piace, con la testa alzata Usan lor forza, sanza metter freno A volontade alcuna scellerata. E si rallegra lor folle veleno A' sommi re malvagi soggiacere, Per lacerare qual potesse meno. O Signor di misericordie intere, Ragguarda in terra tu, che patto fermi Tra ogni cosa con concordie vere; A noi, che semo sanza te inermi, E siam non parte vil delle tu' opre, Deh manda alcun riparo de' tuo' schermi; Però che l' onda salata ci copre Col vento di fortuna in questo mare, La qual crudele contra noi si scopre. Rettore etterno, costrigni l' amare Tempeste rapinose, e con quel zelo Ferma le terre umane; e non mancare, Chè tu reggi le stelle del tuo cielo».
L. 1, cap. 5Queste cose da poi che col dolor continuato ebbi latrate, ella dal piacevole volto, per mio lamento niente commossa, disse: «Con ciò fosse cosa ch' io ti vedessi tristo e lacrimoso, incontanente te misero e sbandito cognobbi; ma come questo sbandimento fosse lontano, se 'l tuo ragionamento non l' avesse palesato, i' nol sapeva. Tu, molto dilungi dalla patria, certamente non se' discacciato, ma hai errato; e se tu maggiormente scacciato stimar ti vorrai, tu te medesimo piuttosto hai discacciato; imperciò che questo di te a nullo sarebbe licito stato. Che se tu ti ricordi di che patria tu se' natío, la qual non come quella degli Atteniesi, per addietro, con imperio di moltitudine si regge, ma da uno segnoreggiatore e un re il quale d' abondanza di cittadini, non di discacciarli, s' allegra; co' freni del quale esser menato, e alla giustizia ubbidire, è somma libertade. Or non sa' tu quella antichissima legge della tua cittade, per la quale è ordinato, contra colui non esser ragione di sbandimento, il quale volesse in quella fondar sedia? Perciò che a chi dal suo muro e fortezza è contenuto, nulla paura s' impone di meritare d' essere sbandito. Ma qualunque in quella abitare fosse mancato, parimente manca di meritare. Adunque me non tanto di questo luogo, quanto la tua faccia commuove; nè i parieti dell' armario, ornati d' avorio e di vetro, maggiormente che la sedia della tua mente richieggo, nella quale non i libri, ma quello che a' libri fa pregio, le sentenzie de' miei libri per addietro collocai. E tu per certo de' tuoi meriti circa il ben comune vere cose, ma per la moltitudine d' esse da te procedute, poco dicesti. Della falsitade e onestade delle contra a te poste cose, da tutti cose conosciute rammemorasti. Delle scelleratezze e fraudi degli accusatori con istrettezza per certo passartene dirittamente pensasti, acciò che queste cose tutte meglio e con maggiore abondanza dal volgo, quelle riconoscendo, siano spesseggiate. Riprendesti anche grandemente il fatto dello ingiusto Senato; eziandio della nostra criminazione ti se' doluto; della danneggiata fama il danno hai pianto; ultimo dolore contra la fortuna hai sgridato, e lamentato ti se', i doni a' meriti equali non essere compensati. Nella fine del crudel canto tuo, che la pace - che regge il cielo - le terre reggesse, preghiere facesti. Ma perciò che gran tumulto d' affetti t' ha posseduto, dolore, ira e tristizia diversamente ti distraggono, ora di quella mente - che tu se' - dimorando, a te ancor non si convengono i più forti rimedii. Adunque a poco a poco useremo i rimedii più lievi, acciò che quelle cose - che per discorrenti turbazioni in enfiatura sono indurate - a forza di medicina più aspra ricevere con più leggiere toccamento inteneriscano».
L. 1, 6Quando la stella di Cancro gravosa Riscalda troppo co' raggi solari, Allor di seme chi copia ubertosa Prestata a' solchi del render avari, Dalla fede di Cerere è schernito, I frutti delle querce tegna cari. E non voler cercar nell' iemal sito Per tôr viole il bosco porporino, Chè 'l campo triema da Aquilon ferito. E se ti piace voler coglier vino Da' tralci, nol cercar di primavera, Ch' a ciò non è allor voler divino: Chè Bacco serba la sua fede intera Ad autunno, a cui i suoi doni Ha conceduto, e allor gli spera. Iddio verace con gli effetti buoni I tempi segna, ordinando quelli A' propri uficii, e nessun ne tencioni. Nè vuol che da sua legge si rubelli Alcuna cosa, mescolando effetti In altro modo, ch' abbia composto elli. Così se avviene, che alcun si getti Per via strabocchevole, lasciando L' ordine certo, aver non aspetti Allegro fine d' alcun suo dimando.
L. 1, cap. 6«Primamente, adunque, ti contenti tu, ch' io con alcune pochette domande lo stato della tua mente cognosca e tenti, acciò che qual sia il modo della tua cura intenda?». - E io a lei: «All' arbitrio tuo domanda quel che ti piace, e io risponderò al tuo volere». - Ed ella allora: «Pensi tu, questo mondo esser menato da disordinati e fortuiti casi, ovvero alcun reggimento a lui esser di ragione?». - E io: «Per certo, in nullo modo stimerei, che così certe cose da fortuito disordine si movessono; ma il Creatore Dio soprastare a l' opera sua cognosco; nè mai sia stato dì, che da questa sentenzia di verità mi discacci». - Ed ella: «Così è; perciò che questo poco dinanzi cantasti, e gli uomini solamente esser fuori della cura divina ti compiagnesti, e dell' altre cose che per ragione non fossono rette, niente eri commosso. Ma grandemente mi maraviglio perchè, in così salutevole sentenzia collocato, languischi. Ma cerchiamo più profondamente. Io penso che ti manchi non so che. Dimmi: perciò che da Dio il mondo esser retto non dubiti, con che reggimenti eziandio e' sia retto cognosci tu?». - E io: «Appena la sentenzia della tua domanda dicerno, non ch' io possa rispondere alle cose che cerchi». - Ed ella: «Or hammi ingannato mancare alcuna cosa, per la quale, come mancando la fortezza del muro, nell' animo tuo infermità di perturbazione sia sottentrata? Raccorditi tu, che sia il fine delle cose e a che final parte intenda la intenzione della natura tutta?». - E io risposi: «Ben l' avea udito, ma la tristizia ha la memoria oscurata». - Ed ella: «Sai onde tutte le cose siano procedute?». - E io: «Sollo, ed esser Dio» - le risposi. - Ed ella: «Come può essere che, conosciuto avendo il principio, qual sia il fine delle cose tu non sappi?». - Ma questi son costumi delle perturbazioni, e hanno questa potenzia: che muover l' uomo possan di luogo, ma divellerlo e a loro tutto stirparlo non possano. Ma che tu mi risponda questo, vorrei. «Ricorditi tu esser uomo?». - «Che è, diss' io, ch' io non me ne ricordi?». - Ed ella: «Che cosa l' uomo sia potresti o no profferere?». - E io: «Domandi tu questo, se io sappia me essere animale ragionevole mortale? sollo, e questo me esser confesso». - Ed ella: «Niuna altra cosa te essere hai conosciuto?». - E io: «Niente, già cognosco». - Ed ella: «Della tua infirmitade grandissima cagione: che altra cosa tu sii, mancato hai ad aver cognosciuto; per che pienissimamente la ragione del tuo langore, o ver la via di riconciliare la tua sanitade, ho trovato. Imperciò che tu per dimenticanza di te medesimo se' confuso, sbandito e spogliato de' propi beni esser ti dolesti. E perciò che tu non sai qual sia il fine delle cose, gli uomini rei e malvagi esser felici reputi. E perciò che tu hai dimenticato con che reggimenti il mondo si governi, queste mutazioni di fortuna discorrere stimi sanza rettore. Per certo, queste son cagioni non solamente d' infermitade, ma eziandio mortali. Ma grazie rendo all' Autor di salute, che la natura del tutto ancor non t' ha abbandonato. Abbiamo grandissimo argomento di tua salute - cioè la vera sentenzia del governo del mondo, che quello non a disordine di casi, ma a divina ragione suddito credi. Adunque di niente temere. Già di questa picciolina favilla calor vitale in te risplende; e perciò che de' più fermi rimedii usare ancor non è tempo; e che questa natura è delle menti, che quando elle gittano le vere, di false oppenioni si vestono, dalle quali la nata caliggine delle perturbazioni il vero sguardo confonde; questa temperatamente con leggieri e mezzani medicamenti tenterò di sottigliare, acciò che, rimosse le tenebre delle fallaci affezioni, possi cognoscere lo splendore della luce verace.
L. 1, 7Le stelle chiuse sotto nebbia scura Non posson lume radiar nel mondo, Perchè l' opposta nuvola le fura. E se Ostro trovando il mar giocondo, Torbidi l' onda, che di ciò s' attrista, Col fango rivolgendo il gran prefondo, Non è possente allor la nostra vista Di cognoscer in esso alcuna cosa, E chi più l' occhio ficca, meno acquista. E 'l fiume, discorrente sanza posa, Resta dal corso suo, se grave sasso S' oppone, e 'l suo viaggio far non osa. Così, stu vuoli 'l vero, onde se' casso, Con chiarezza vedere, e il vero calle Disiri ripigliar con dritto passo; Volgi a ciascuna allegrezza le spalle, Scaccia la speranza e la paura, E con tristizia non dormire in valle. La occupata mente in cotal cura È nubilosa e legata con lacci, Che porta seco lor mala natura: Ond' io ti priego che da lei ti spacci».
L. 2, cap. 1Dopo queste cose un poco tacette; ma poichè 'l mio attender con taciturnità temperato cognobbe, così disse: «Se al postutto le cagioni e l' abito della tua infermitade i' hoe conosciuto, tu languisci per affetto e desiderio della prima fortuna. Costei, a te mutata - secondo le tue parole - hae rivolto lo stato dell' animo tuo. Io cognosco gl' inganni di questo prodigio di fortuna esser di molte forme; e infino allora con coloro i quali si sforza di schernire, usa lusinghevole dimestichezza, infino che con intollerabile dolore confonda costoro, cui sanza speranza abbandona. La natura, i costumi e 'l merito della quale se tu rammemori, te in lei alcuna cosa bella non avere avuto nè perduto cognoscerai. E secondo ch' io giudico - riducerti questo a memoria, non molto mi sarà faticoso, perciò che tu solevi con parole virili costei presente e lusinghevole discacciare, e con sentenze da nostra informazione ritratte, lei perseguitavi. Ma ogni subita mutazione delle cose avvien quasi non sanz' alcuno discorrimento degli animi; e così è seguíto che tu un pochetto dalla tua tranquillità sii dipartito. Ma egli è tempo che tu attinghi e gusti alcuna cosa dolce e gioconda, la quale mandata a le interiora, a più forti beveraggi la via apparecchi. Sia con noi dunque la dolcezza di rettorica, la quale allora per diritto calle procede quando i nostri ordinamenti non abbandona, e con costei la musica, della nostra famiglia servente, canti or più lievi ed or più gravi modi. O uomo, che è quello che t' ha gittato in tristizia e in pianto? cosa nuova, credo, e disusata vedesti. Pensi tu la fortuna in verso te esser mutata? tu erri. Questi son sempre suoi costumi, e questa è sua natura: ella piuttosto - con la sua mutabilitade circa te - ha osservato in sè la sua propria fermezza. Cotale era quand' ella ti lusingava, quand' ella co' diletti della falsa felicità ti scherniva. Tu hai conosciuto della cieca fortuna i volti dubbiosi; e quella che ancora agli altri si vela, tutta al postutto a te s' è palesata. Se tu lei appruovi, usa i suoi costumi, e non ti lamentare; se la sua perfidia abbomini, dispregia e discaccia la 'ngannatrice con nocivo e mortal giuoco. Quella medesima che ora t' è cagione di tanta tristizia, essere ti dovrebbe stata cagione di tranquillitade, perciò ch' ella t' ha lasciato; la qual non abbandonata, nullo può esser sicuro. Or istimi lei preziosa felicitade, che ha da partire? Or ètti cara la fortuna presente sanza fede di dimoranza e donatrice di tristizia, fatta la dipartenza? Che se ella per volontario arbitrio ritener non si puote, e miseri gli uomini fa fuggendo; che è la fuggitrice altro che un indizio di futura miseria? Non basta solamente quel ch' è posto innanzi gli occhi ragguardare; il fine delle cose la prudenza misura. E questa medesima mutabilitade nell' uno e nell' altro fa le minacce della fortuna non da temere, nè le lusinghe da disiare. Alla fine, con iguale animo si convien che tu porti qualunque cosa è tra' confini di fortuna, con ciò sia cosa che una volta tu abbi sotto 'l suo giogo il collo sommesso. E se tu vorrai dello stare e del partire imporre legge a colei, cui spontaneamente tu t' hai eletta per donna, non sara' tu iniurioso, e con impazienza aspreggerai quella fortuna, la qual tu non possi cambiare? Se tu commettessi al vento le vele - non dove la voglia volesse, ma dove 'l vento sospignesse, seresti menato. Se tu seminassi i campi, gli abbondevoli e doviziosi anni con gli sterili insieme compenseresti. Tu ti desti a reggere alla fortuna; e' si conviene ch' a' costumi della donna tu obbedischi. Ma tu ti sforzi di ritenere il forte movimento della girante ruota? O sciocchissimo sopra tutti i mortali! s' ella comincia di star ferma, ella manca d' esser fortuna.
L. 2, 1Costei quando con man superba gira Sue vicistadi, or su or giù correndo, Se stessa a modo d' Euripo tira: I re, da temer già, sottopognendo, E alto su levando da viltade L' umile e basso, fallace mentendo. Questa, ripiena d' ogni vanitade, Sorda non cura de' miseri pianti, Vota d' amore e nuda di pietade. E indurata schernisce gli affranti Dalla sua rota, e più con beffe ride Quant' ha più fatto col suo mal ploranti. Così giucando sue volte malfide, Prova mostrando a' suoi gran maraviglia, Quando, cui ora avversitade uccide, Col felice commuta, e lui sottiglia.
L. 2, cap. 2Ma io vorrei teco alcune poche cose con parole della fortuna medesima esaminare. Adunque tu, s' ella domanda ragioni, attendi. Perchè tu, uomo, con continue lamentanze colpevole mi fai e rea? che iniuria t' abbiam fatta? che tuoi beni t' abbiam tolti? Dinanzi a qual giudice tu vuogli, della possessione delle ricchezze e delle dignitadi meco contendi; e se alcuna di queste cose propria esser d' alcun mortale mostrerai, io - essere state tue quelle che raddomandi - concederò. Quando te la natura del ventre della madre produsse, nudo e povero di tutte le cose ti ricevetti, con le mie ricchezze ti favoreggiai e benigna largamente con favor nutricai (la qual cosa ora di noi t' ha fatto impaziente), di tutte le cose che son di mia ragione con abbondanza e con isplendore t' adornai. Agual mi piace ritrarre la mano: tu hai già grazia come l' altrui cose aver usato. Non hai ragione di lamento, come al postutto tue cose abbi perdute. Perchè dunque piagni? nulla da noi violenza t' è fatta. Le ricchezze, gli onori e tutte cotal cose son di mia ragione. Le fanti la lor donna cognoscono, meco vegnono e, me partendo, si partono. Io t' affermo arditamente, che se quelle cose che tu ti lamenti aver perdute, fossono state tue, in nullo modo l' avresti perdute. Or sarò io sola vietata d' usar mia ragione? Al cielo è licito producere lucidi dì, e que' medesimi nascondere sotto le notti oscure. All' anno è licito la faccia della terra or di fiori e di frutti adornare, e or con piove e con freddo confondere. Ragione è del mare ora con agguagliata bonaccia lusingare, e or con discorrimenti e tempeste spaurire. Legherà noi la insaziabile cupidità degli uomini a costanza da' nostri costumi strana? Questa è nostra forza e natural podestade; con questo giuoco continuo trastulliamo; la rota con volubile ritondezza giriamo; le bassezze con l' altezze, l' altezze con le bassezze mutare ci rallegriamo. Monta, se ti piace, ma con questo patto, che quando la ragione del nostro gioco richiederà di discendere, iniuria non riputi. Or non sapevi tu i nostri costumi? Non sapevi tu, Creso re de' Lidi, poco dinanzi a Ciro spaurevole, incontanente poi miserabile alle fiamme del fuoco sommesso, dalla piova - dal ciel mandata - difeso? Or ha' tu dimenticato, Paolo avere sparte lagrime pietose sopra le miserie del re di Persia da lui preso? Che altro piagne il clamore delle tragedie, se non la fortuna, che rivolge i reami felici con non discreta percossa e con incerto avvenimento? E tu giovanzello non imparasti, nel sogliar di Giove giacer due dogli, l' uno pien di bene e l' altro di male? Che dirai, se più largamente della parte del bene hai bevuto? che, se non tutta da te son partita? che, se questa mia mutabilitade ti cagione di sperare cose migliori? Ma per amor di ciò d' animo non mancare, e nel reame comune a tutti collocato, non desiderar di vivere con propria ragione.
L. 2, 2Se quanta rena il commosso mare Da veloci discorsi in terra versa, O ver quanto nel ciel nover appare, Quando la notte sopra terra è persa, Di stelle splendienti 'n coro adorno, E nulla sia da eclissi sommersa; Tante ricchezze spanda col pien corno La dea Copia e la larga mano Iscarsa non ritragga in alcun giorno; Non perciò mai l' appetito umano Cesserà pianger con miser lamento, Famato ancora dell' aver mondano. E avvegna che Dio riceva attento I desiderii e prodigo spanda In abbondanza l' oro quanto vento, E' cupidi d' onore in alta banda Di gloria coroni, nulla al tutto Sarà ogni acquistato, e ciò che manda; E la rapacità crudel, distrutto Ciascun don, manifesta un' altra gola Aperta, piena di bramoso lutto. Qual dunque fren la strabocchevol mola Della cupidità, che non ha fondo, Di tutt' i ben divoratrice sola, Potrà guidare a certo fin nel mondo, Con ciò sia che più la sete cresca, Quanto più ha? Nessuno, i' ti rispondo. Chi di paura di perder s' invesca, E povero gemendo esser si crede, Più ogni volta l' inopia rinfresca, Nè ricco in alcun tempo mai si vede.
L. 2, cap. 3Con queste, adunque, parole se per sè fortuna parlasse, per certo che contradir non avresti. E se alcuna cosa è, con la quale tua lamentanza a ragion difendi, che tu la proferi si conviene, e noi ti daremo luogo di dire». Allora io: «Belle cose son queste per certo, e unte di mèle di dolcezza di rettorica e di musica; allor solamente quando s' odono, dilettano; ma a' miseri è più profondo sentimento del male. Adunque, quando queste cose sonar mancano agli orecchi, la fitta tristizia l' animo grava». - Ed ella: «Così è, disse. Questi perciò ancora non sono i rimedii della tua infermitade, ma sono alcuni refrigerii verso la cura del dolore ancor contumace, perciò che quelli rimedii che passino al profondo, moverò quando fia tempo; ma per amore di ciò stimar te misero non volere. Or ha' tu dimenticato il novero e 'l modo della tua felicitade? Io taccio che, privato di padre, la cura d' uomini sommi ti ricevette; ed eletto in parentado di principe della cittade e - quella cosa che è preziosissima generazione di propinquitade - prima ad esser caro che prossimo cominciasti. Chi non predicherà te felicissimo con tanto splendor di suocero? con tanta onestade di moglie? con tanta opportunità di maschi figliuoli? Io trapasso (chè trapassar mi piace) le ricevute dignitadi comuni nella tua giovanezza, a' vecchi negate; e mi diletta di venire alla singulare grandezza della tua felicitade. Se alcun frutto di cose mortali peso alcuno di beatitudine porta, potrà la memoria di quella luce con quanta si voglia gravezza de' contrastanti mali spegnersi? Quando parimente due tuoi figliuoli consoli a casa esser menati sotto abbondanza di padri e sotto allegrezza della plebe vedesti; quando essi nella corte sedendo nelle sedie curuli, tu, arengatore della laude reale, gloria d' ingegno e di facundo parlar meritasti; quando nel teatro, in mezzo di dui consoli, l' aspettar della confusa moltitudine con triunfale largizione saziasti? Tu desti, secondo ch' i' credo, alla fortuna parole, quand' ella ti addolcisce, quando con le sue ricchezze ti favoreggia. Dono, quale a nullo privato mai avea prestato, portasti. Vuo' tu con la fortuna fare ragione? Agual primamente con occhio livido t' ha guardato. Se 'l novero e 'l modo de' lieti e de' tristi consideri, ancor te felice negar non potrai. E se perciò te felice e fortunato esser non stimi, chè quelle cose che parevano liete fuggirono, non è cosa perchè te misero reputar debbi, imperciò che quelle cose che ora si credono triste, trapasseranno. Or se' tu venuto in questa transitoria abitazion di vita, ora di prima subito e peregrino? Fa' tu oppinione, che alle cose umane alcuna constanzia sia, con ciò sia cosa che l' uomo medesimo spesse volte subita ora dissolva? E se alcuna rara fede alle cose fortuite è, almeno l' ultimo dì di vita è una morte della stante fortuna. Che dunque riputi che monti, che ella fuggendo te, o tu, partendoti, lasci lei?
L. 2, 3Quando, col carro da quattro cavalli Guidato, per lo cielo il sole arrossa Il mondo tutto per monti e per valli, Allor la stella perde ogni sua possa E 'mpallidisce oscurata nel volto, Dalle fiamme di Febo ripercossa. Quando il bosco il fiato ha raccolto Del tepido Zaffir, ride fiorito Del fior ch' egli ha da primavera sciolto; Poi è dal nubiloso Ostro ferito, E partesi da lui la sua biltade, E delle spine si riman vestito. E raggia il mare con tranquillitade, Spesse volte, sanza muover onde; Poi si rivolge in dura tempestade, Se Aquilone la muove, che confonde Ogni agguaglianza sua e sua chiarezza: Così 'l secondo al primo non risponde. Se dunque 'l mondo ha sì poca fermezza Nella sua forma, se 'n tante maniere Si varia, non servando in sè certezza, Credi alle fortune, o uom, leggiere, Che discorrenti son? credi al finito Ben, che a fuggir ha gambe di levriere? Egli è con legge eterna statuito, Che nulla cosa, la qual sia creata, Posseggia in alcun modo fermo sito. Or vedi se tua mente è ingannata».
L. 2, cap. 4Ed io allora: «O nutrice di tutte virtudi, vere cose rammemori,posso negare il velocissimo corso di mia prosperitade. Ma questo è quello che me, raccordando, maggiormente cuoce; perciò che in ogni avversità di fortuna la più disavventurosa generazione di ria ventura si è essere stato felice». - Ma ella: «Il tormento che tu di falsa oppinione sostieni, alle cose non puoi riputare; perciò che se questo nome vano di fortuita felicitade ti muove, licito è che tu computi meco come di moltissimi beni e grandissimi tu abbondi. Adunque - se quello che in ogni giudicio di tua fortuna preziosissimo possedevi, per sguardo divino, ancora non danneggiato nè corrotto t' è conservato - potrai tu, ritegnendo ciascune cose migliori, di disavventura con ragione lamentarti? Certo, e' vive sano - quella preziosissima adornezza della generazione umana, e quel che tu non vile comprerresti con pregio di vita - Simaco suocero tuo, uomo composto tutto di sapienza e di virtudi; e sicuro delle sue iniurie, delle tue si compiagne. Vive la moglie tua d' ingegno modesta, e d' onestade di pudicizia splendiente, e - acciò che le sue dote brevemente conchiuda - simiglievole al padre; e vive a te solo, di questa vita odiosa, e per te solo lo spirito serba; e in questa una cosa la tua felicitade essere scemata almen concederò: per desiderio di te con lagrime s' oscura e con dolore. Perchè racconterò io i figliuoli consolari, nella cui fanciullesca etade simiglianza dell' avolo e del paterno ingegno riluce? Adunque, con ciò sia che special cura sia a' mortali di ritener la vita, o te felice, se i ben tuoi cognosci, a cui abbondano eziandio aguale quelle cose, che niuno dubita in vita esser più care! Per che secca le lagrime. Non è ancora infino all' ultimo la fortuna odiosa, nè contra te troppo forte potenza si leva, quando si tengono ancora l' ancore ferme, le quali non sofferano che ti manchi consolazione del tempo presente, e del futuro speranza». - E io allora: «E ch' elle siano ferme priego, perciò che quelle con fermezza stando, come che le cose si vadano, natando scamperemo. Ma quanta bellezza sia mancata a' nostri adornamenti tu 'l vedi». - Ed ella: «Alquanto abbiamo l' animo tuo promosso, s' ancor non ti pesa di tutta la tua fortuna. Ma le tue delizie sostener non posso, chè tu mancare alcuna cosa a tua beatitudine - così pien di pianto e così angoscioso - ti lamenti: chè, chi è di sì composta e ordinata felicitade, che da alcuna parte con la qualità del suo stato non combatta? Angosciosa cosa è la condizione de' beni umani; la quale, o ver tutta mai non pervegna, o ver mai perpetua non stea. A costui la ricchezza abbonda, ma il vile sangue gli è a vergogna. Costui la gentilezza fa cognosciuto e notabile; ma nell' angoscia delle cose famigliari rinchiuso, esser vorrebbe più tosto non cognosciuto. Colui dell' uno e dell' altro abbondevole, la vita piagne solitaria di moglie. Colui di nozze felice, di figliuoli orbato, all' altrui erede le ricchezze nutrica. L' altro di figliuoli rallegrato, per li peccati del figliuolo e della figliuola lagrima tristo. Perciò niuno agevolmente con la condizione di sua fortuna si concorda. A tutti è dentro alcuna cosa, che 'l non esperto non sa e che l' esperto teme. Aggiugni ancora: il senso di ciascuno felicissimo è dilicatissimo, e, se tutte le cose a volontà non obbediscono, disusato d' ogni avversitade, per piccolissime qualunque cose strabocca. Molto son picciole quelle cose che a' fortunatissimi la somma di beatitudine tolgono. Come molti pensi che siano coloro i quali prossimi al cielo si giudicherebbono, se delle reliquie della tua fortuna parte piccolissima lor toccasse? Questo medesimo luogo, che tu chiami sbandimento, è patria agli abitanti; perciò niente è misero, se non quanto tu lo reputi; e, in contrario, ogni fortuna è beata per agguaglianza dell' animo che la porta. Chi è colui felice, che quando darà all' impazienza mano, lo stato suo mutar non desideri? Oh, come di molte amaritudini la dolcezza della umana felicitade è bagnata! la qual se eziandio a chi l' usa, essere paia gioconda, almeno che quando vuole non si fugga, ritener non si può. Chiaro è adunque quanto sia misera la beatitudine delle cose mortali, la qual nè appo gli equali d' animo perpetua dura, nè tutta agli angosciosi diletta. Perchè dunque, o mortali, cercate di fuori la felicitade in voi dentro riposta? Errore e ignoranza vi confonde. I' ti mostrerrò brievemente la radice della somma felicitade. È alcuna cosa a te più preziosa di te medesimo? Niente, risponderai. Adunque se tu sarai in te medesimo ben composto, tu possederai quello che tu nè mai perder vorrai, nè la fortuna tôrre lo ti potrà. E acciò che tu cognoschi in queste fortuite cose non potere beatitudine stare, così piglia: Se la beatitudine è sommo ben della natura che vive per ragione, nè è sommo bene quello che in alcun modo può esser tolto; perciò che per eccellenza avanza quello che perder non si possa, manifest' è, che la mobilità di fortuna a beatitudine ricevere non possa bastare. Ancora, colui cui tira questa caggitoria felicitade, o sa o non sa quella esser mutabile. Se nol sa, che beata fortuna può essere con cechitade d' ignoranza? Se lo sa, di necessitade è che tema di perder quello che potersi perder non dubita; per la qual cosa la continua paura non lo lascia esser felice. O vero, se lo perderà, d' averlo in negligenzia e non curarlo riputa? E così, per certo, molto è picciol bene quello che con igual animo si porti perduto. E perciò ch' io so, che tu se' colui a cui è fatta fede e in cui è fermato per molte dimostrazioni, le menti degli uomini in nullo modo esser mortali; e con ciò sia che chiaro è, la fortuita felicitade del corpo finirsi per morte: dubitar non si può (se costei tôr la beatitudine puote) che ogni generazione di cose mortali in miseria di morte non discorra alla fine. E se noi sappiamo molti aver domandato il frutto di beatitudine non solamente con morte, ma eziandio con dolori e tormenti, in qual modo far può beati la vita presente, la qual non fa miseri, trapassata?
L. 2, 4Chi vuol sua casa fondar proveduto, Secura, perdurabil e costante, E non temer soffiar di vento arguto, E di schifar disira il minacciante Mar pauroso con l' onde correnti, Che 'l fondamento farebbe vacante; Gli eccelsi monti schifi, dove i venti Son poderosi, e in secca rena Non si fatichi ficcar fondamenti. Chè Ostro contra que' non si raffrena, Anzi con ogni forza gli dicrolla, Infin ch' a basso lor superbia mena. E queste, se onda corrente le 'nmolla, O secche si disgiungon, il lor peso Gittano a terra di lor seggia solla. Così stu vuoli non essere offeso Da' venti di fortuna o dal su' mare, Nè dalle sue percosse esser conteso, Ricorditi la sedia tua fondare In sasso umíle, non al ciel levato, Nè troppo basso lo voler cercare. Ch' avvegna dio che 'l vento col suo fiato Mescoli 'l mare, e tuoni rovinoso, Tu in quiete ferma collocato, Dentr' alla tua fortezza con riposo Tranquilla vita menerai serena, E schernirai ogni vento ritroso, Nè l' aer temerai, nè di mar piena.
L. 2, cap. 5Ma imperciò che già in te i rimedii delle mie ragioni discendono, da usare i più forti un pochetto riputo. Dimmi: avvegna che i doni di fortuna non fossono caggitorii e transitorii, che cosa è in essi, che o vostra mai far si possa, o ragguardata e considerata non invilisca? Sono le ricchezze per vostra o per loro natura preziose? Che è di lor più tosto prezioso, o l' uso o la forza della raccolta pecunia? Certo, queste spandendole più che ragunandole, meglio risplendono. L' avarizia fa sempre gli uomini odiosi, e la larghezza chiari. Che se rimanere non puote in alcuno quello che in altrui si straporta, allora è la pecunia preziosa, quando, traslatata in altri per usanza di dono, si manca di possedere. Ma se questa, quanta n' è intra tutte le genti, appo uno si raccolga, fa di sè tutti poveri gli altri. Vedi la voce, che tutta parimente l' udire di molti riempie; ma le vostre ricchezze in molti non posson passare, se non minuzzate: la qual cosa fatta, è di necessitade che elle facciano poveri cui abbandonano. O povere e strette ricchezze, le quali tutte a' più avere non è licito, e a ciascuno sanza povertà degli altri non vegnono! Tira gli occhi vostri lo splender delle gemme? Se alcuna cosa speziale è in questo splendore, delle gemme è quella luce, non degli uomini; le quali, che gli uomini con maraviglia desiderando le cerchino, grandemente mi maraviglio. Che è sanza movimento d' anima, o vero congiugnimento di membri, che all' animata e ragionevole natura bello debbia parere? le quali, avvegna che dall' opera del lor fattore e da lor distinzione alcuna cosa traggano d' estrema bellezza, per amor di ciò infra la vostra eccellenza collocate, in niun modo meritano vostra maraviglia. Or vi diletta bellezza de' campi?». - E io: «Perchè no? ell' è bellissima parte del bellissimo mondo; così ci rallegriamo della faccia del mare sereno; così 'l cielo, le stelle, la luna e il sole con maraviglia guardiamo». - Ed ella: «Deh! or tóccati alcuna di queste cose? or ardisci tu dello splendore di alcuna di cota' cose gloriarti? Or se' tu ornato della varietà de' fior di primavera? o la tua abbondanza moltiplica in frutti staterecci? Perchè se' rapito da vane allegrezze? perchè i beni di fuori abbracci per tuoi? La fortuna non farà mai esser tuoi quelli che la natura ha da te fatti strani. I frutti delle terre sanza dubbio son debiti agli alimenti degli animali. Ma se tu vuoli 'l bisogno di quel che basta alla natura compiere, nulla cosa è per la quale abbondanza di fortuna domandi, perciò che di poche e di piccolissime cose la natura è contenta. La cui sazietade se costrigner vorrai con cose soperchie, o non allegro sarà quel che v' avrai messo, o ver nocivo. Riputi tu bella cosa risplender con variate vesti? delle quali se allo sguardo è alcuna graziosa bellezza, o ver la natura della lor materia, o ver lo 'ngegno con maraviglia guarderò dell' artefice. Or fatti lung' ordine di famigliari esser felice? i quali se siano di costumi viziosi, carico mortale è alla casa, e grandemente al signore inimichevole; ma se son buoni, in che modo l' altrui probitade s' annovera tra le ricchezze tue? Per le quali tutte cose chiaramente si mostra, nullo di quelli esser tuo bene, che tra' ben tuoi riputi; ne' quali se niente è di desiderosa bellezza, che è perchè, que' perduti, ti dogli, o ritegnendoli ti rallegri? Che se per natura son belli, questo a te che appartiene? chè questi per sè, dalle tue ricchezze dispartiti, sarebbon piaciuti. E non perciò son preziosi, che vennono nelle ricchezze tue; ma perciò che preziosi parevano, tra le tue ricchezze annoverargli maggiormente volesti. Perchè con tanta abbondanza di fortuna desiderate? Credo che voi cercate con copia il bisogno cacciare. Certo, per questo il contrario v' avviene; chè di più aiuto si abbisogna a difender la varietade della preziosa masserizia. E vero è questo detto: coloro avere bisogno di molte cose, che molte cose posseggono; e, per contrario, di piccolissime, chi l' abbondanza sua con necessità di natura, non con soperchietà di larghezza misura. Così non è a voi alcun proprio o natural bene, che nelle cose di fuori e da voi dispartite i ben vostri cercate? Così la condizione delle cose è rivolta, che 'l divino animale - per merito della ragione - altrimente non paia risplendere, se non con possessione di ricchezza sanza anima? E tutti gli altri animali son delle lor cose contenti: e voi, con la mente a Dio simiglianti, con desiderio ornamento dell' eccellente natura pigliate dalle cose bassissime, e non guardate quanta ingiuria al Creatore vostro facciate. Egli ha voluto, la generazione umana a tutte le cose terrene soprastare; e voi la vostra dignitade rinchiudete infra cose bassissime e vili. Che se 'l bene di qualunque è più prezioso che colui di cui egli è, quando voi giudicate esser vostri beni le cose vilissime, a loro per vostra stimazione vi sottomettete: la qual cosa sanza colpa non v' avviene. Questa, per vero, è la condizione dell' umana natura, che allora solamente tutte l' altre cose avanza, quand' ella si cognosca; e allor fra le bestie sia redutta, se di sè cognoscere mancherà: chè a tutti gli altri animali è natural cosa sè medesimi non cognoscere, ma agli uomini viene ciò con vizio. Deh! come largamente è palese questo vostro errore, che potersi ornare alcuna cosa con ornamenti strani stimate! perchè ciò far non si può. Perchè se alcuna delle sopraposte cose riluca, quelle cose si lodano che sopraposte sono; ma quello, con questo coperto o ver velato, nondimeno nella sua sozzezza perdura. Io niego quello esser bene, che avendolo noccia. Or ment' io di questo? No certo, dirai. E veramente le ricchezze a' posseditori d' esse spesse volte hanno nociuto; con ciò sia cosa che ciascun reo colui solamente riputa dignissimo, il qual d' oro o ver di gemme abbondi; e perciò è più dell' altrui desideroso. E tu eziandio, che ora sollecito temi l' aguta punta e 'l coltello, se nel sentiere di questa vita foss' intrato povero viandante, dinanzi da' ladroni canteresti. O chiara beatitudine delle ricchezze mortali, che conquistate avendole, manchi d' esser sicuro!
L. 2, 5O ben avventurosa prima etade, Che della fè de' campi contentava, Nè era data a carnalitade! Costei, quando la fame la gravava, Soleva contentare 'l suo digiuno Di ghiande, che la quercia verde dava. E imparato non aveva alcuno De' don di Bacco, col mèl temperato E spezie molte, far beveraggi' uno. La seta non tignevan con ornato Conchilio preso tra Tirii predoni, E l' erba fresca del ridente prato Dava lor letto per ogni stagioni; Il fiume chiaro mesceva da bere Nella lor sete con fluenti doni. Al solar raggio, che con caldo fiere, Faceva scudo l' altissimo pino, Che verzicante dava l' ombre nere. Non conosceva viaggio marino,nuovi liti aveva ancor cercato Alcun di lor con merce peregrino. In queta pace aveano il loro stato. Allor la battaglievole trombetta Taceva, nè aveva ancor sonato. Nè odio acerbo, nè crudel vendetta I campi tinti avea col sangue umano, Nè era forbit' arme ancor eletta. Deh! o perchè il nemico e profano Furor, sanza veder nel sangue frutto, All' arme prima volle metter mano? Deh! or volesse que' che regge tutto, Che 'l vano tempo, che si gira aguale, Fosse ne' primi costumi redutto. Ma il cupido amor china pur l' ale Con vana cupidigia a' ben dannosi, Ardendo ognor di fuoco più mortale. Omè! chi fu colui, che prezïosi Tesori d' oro, di gemme e d' argento Prima cavò de' lor luoghi nascosi? Tesori no, ma periglioso vento.
L. 2, cap. 6Ma delle dignitadi e potenzie che dirò, le quali voi, ignoranti della vera dignitade e podestade, al cielo agguagliate? Le quali se in alcuno malvagio cadranno, quali incendi, sospinti da fiamme infernali, qual diluvio tante rovine diedono? Certo - come te arbitro raccordare - il romano consolare imperio, il quale era stato principio di libertade, i vostri antichi, per la superbia de' consoli, desiderarono di spegnere; i quali per la superbia medesima in prima tolsono della cittade il nome reale. Ma se alcuna volta (la qual cosa diviene di rado) a' probi uomini le dignitadi siano concedute, che in loro altro piace, che la probitade di chi l' usa? Per la qual cosa segue, che alle virtudi dalle dignitadi onor non viene, ma alle dignitadi dalle virtudi. Che è questa vostra desiderabile e chiara potenza? Non considerate voi, o terreni animali, a cui voi soprastare siate veduti? Deh! se tu vedessi un topo che s' acquistasse ragione e podestà sopra gli altri, a quanto ridere saresti mosso? Che più debole cosa che l' uomo puo' tu trovare, se il corpo ragguardi? il quale spesse volte morsi di mosche, o ver segreto intramento di qualunque vermicello uccide. In che modo potrà alcuno usar ragione in alcuno altro, se non solamente nel corpo, e in quello ch' è infra 'l corpo, dico nella fortuna? Or signoreggera' tu di niente l' animo libero? La mente ferma, e con ragione seco accostata, rimovera' tu dello stato del proprio riposo? Con ciò fosse che un tiranno pensasse di costrignere con tormenti un libero uomo a manifestare i compagni della contra lui fatta coniurazione, colui la lingua con morso si ricise, e nella faccia la gittò del tiranno crudele: e così i tormenti, che 'l tiranno materia di crudeltà riputava, il savio uomo gli fece materia di virtude. Che è che alcuno in altrui possa fare, che egli da altrui non possa sostenere? Busiride, secondo che abbiamo compreso, usato di uccidere gli osti suoi, da Ercole suo oste fu poi morto. Regolo romano molti cartaginesi presi in ligami avea costretti, e incontanente lui vincitore alle catene de' vinti le mani concedette. Or pensi tu dunque esser alcuna cosa la potenza dell' uomo, il qual non può fare che quello - che puote in altrui - altri in lui non possa compiere? Ancora più: se a queste dignitadi e podestadi fosse alcuno naturale e proprio bene, a niuno pessimo mai verrebbono; imperciò che le cose avverse non si sogliono insieme accompagnare. La natura schifa che le cose contrarie non si congiungano. Adunque, con ciò sia che non sia dubbio i pessimi spesse volte di queste dignitadi possedere, quello eziandio è chiaro: quelle non esser buone cose, le quali sofferano co' pessimi accostarsi. La qual cosa di tutti i doni di fortuna si puote degnamente stimare, i quali a qualunque reo con abbondanza pervengono. De' quali eziandio questo riputo da considerare, che nullo dubita esser forte colui a cui e' vede fortezza; e chiunque ha velocitade, manifesto è esser veloce. Così la musica i musici, la medicina i medici, e la rettorica i rettorici fa. Perciò che la natura fa quel ch' è proprio di ciascuna cosa, nè si mescola con effetti di cose contrarie, ma spontaneamente le cose contrarie discaccia. Per certo, le ricchezze non possono spegnere la insaziabile avarizia; nè la potenza farà ben composto colui, cui libidini viziose con non disleghevoli catene tengono stretto; e la conceduta dignitade a' rei, non solamente non gli fa degni, ma piuttosto gli manifesta e col vizio gli dimostra indegni. Perchè questo così avviene? È perchè voi vi rallegrate, e le cose - che altrimente in loro stesse sono - chiamate con falsi nomi, i quali leggieramente con l' effetto di quelle cose medesime nella lor falsitade si riprendono. Adunque nè quelle - ricchezze, nè quella - potenza, nè quella - dignitade, si puote appellare con ragione. Alla fine, quel medesimo di tutta la fortuna conchiudere è licito, nella quale niente da desiderare e niente avere di bontade di natura è manifesto, la qual nè a' buoni sempre s' aggiugne, e a cui sarà stata congiunta, non fa buoni.
L. 2, 6Veduto abbiam di ciò esemplo vero, Quanta ruina dal tiranno scese, Che arse Roma sotto 'l suo impero: Tagliò 'l senato, che mai non l' offese, E per aver più sola signoria, Contra 'l fratel con morte man distese. Costui, crudel sovr' ogni fiera ria, Di sangue sparto bagnò 'l corpo caro Della sua madre con la mano impía, tinse 'l volto suo di pianto amaro, Veggendo il luogo donde l' avea Iove Tirato col suo raggio caldo e raro; Anzi, più fiero ricercava dove Compiuto avea lo 'mbusto tenerello Del dilicato corpo in mesi nove. E nondimen costui, tanto flagello A' buoni essendo, con verga reale Reggeva 'l mondo, con poco, rubello. Dal punto donde 'l sol nascendo sale, Infin dove nasconde la sua luce, Che non la cerne più occhio mortale; E quanto l' Orsa, che seco conduce Le sette stelle gelide, comprende, Dove 'l lume solar poco riluce, E quanto Noto violento accende La secca rena col caldo rovente, Che dalla zona torrida discende, Costui reggeva l' universa gente. cotanta potenza di Nerone Di trarlo di sua rabbia fu possente. Omè quanto pericol si ripone, Dove l' iniquo coltello e perverso Con tossico crudele si compone, E ogni atto virtuoso sta sommerso!».
L. 2, cap. 7E io allora così dissi: «Tu medesima sai, la larghezza delle cose mortali poco noi aver segnoreggiato, ma desiderato abbiamo materia in ben reggere le cose, acciò che la virtù tacita non invecchiasse». - Ed ella: «Certo, quest' è una cosa la quale puote allettar le menti eccellenti per natura, ma non produce ancora alla strema mano con perfezione di virtudi: cioè il disiderio di gloria, e nella repubblica d' ottimi meriti chiara fama; la quale quanto sia sottile e vota di ciascun peso, così considera. Ogni larghezza della terra, come con astrologhe demostrazioni hai conosciuto, contiene ragione di punto per rispetto allo spazio del cielo; cioè se alla celeste grandezza si conferisca, al postutto si giudichi niente aver di spazio. Di questa ancora così piccoletta regione nel mondo - siccome, Tolomeo ciò provando, imparasti - appena la quarta parte s' abita da animali da noi conosciuti. Da questa quarta, se quanto i mari e paduli occupano, e quanta la region diserta e secca si distende, col pensiero suttrarrai, appena agli uomini per abitare aia strettissima rimarrà. In questo dunque uno piccolissimo punto rinchiuso e circuito, di profferere nome e di dilatar la fama pensate? E che cosa ampia e magnifica ha la gloria, rinchiusa in così piccioli e stretti termini? Aggiugni ancora più: che in questo circuito di brieve abitacolo molte nazioni abitano, di lingua, di costumi e di ragioni di tutta la vita strane; alle quali sì per asprezza dell' andare, sì per la diversità delle favelle, sì per la disusanza del trafficare insieme, non solamente la fama degli uomini singulari, ma eziandio delle cittadi non può venire. Nella età di Marco Tullio, com' egli in alcun luogo significa, ancor non avea la fama della romana repubblica il monte Caucaso trapassato, e sì era ella allora adulta, e nel fior del suo vigore, a' Parti e agli altri di que' luoghi paurosa. Vedi dunque come sia stretta, come soppressata la gloria, la quale dilatare e distendere v' affaticate? Or dove la fama del nome romano non potè passare, passerà la gloria d' un singulare uomo romano? Che è ancora, che i costumi delle genti diverse, e gli statuti intra lor variamente discordano, sì che appo altri sarà giudicato la cosa degna di laude, e appo altri di tormenti e pene? Onde avviene, che se ad alcuno nome di fama diletta, in molti popoli il suo nome proferendo, in nullo modo conduce. Sarà dunque della discorsa gloria ciascun contento, e infra' termini d' una gente quella chiarissima immortalità di fama fia costretta? Ma quanti molti chiarissimi uomini ne' lor tempi ha spenti la dimenticanza povera degli scrittori! avvegna che poco pro' facciano le scritture, le quali la lunga e oscura vecchiezza soppressa co' suoi autori. Ma a voi pare di stendere immortalitade, quando del futuro tempo la fama pensate. Che se agl' infiniti spazi della eternitade pertratti, che hai che della lunghezza del tuo nome t' allegri? Imperciò che se di dimoranza d' un momento con diecimila anni si faccia comparazione, perciò che l' uno spazio e l' altro è diffinito; almeno - avvegna che piccolissima - ha alcuna porzione. Ma questo medesimo novero d' anni, e 'l suo qualunque multiplicato, alla non terminata lunghezza comparar non si può. Nelle cose finite sarà insieme alcuna proporzione, ma del finito e non finito nulla già mai esser potrà convenienza. Così avviene, che ciascuna fama di lungo tempo, se colla smisurata eternità si ripensi, non piccola, ma nulla del tutto esser parrà. Ma voi, se non a' romori vani e a' popolari orecchi, dirittamente fare non sapete, e lasciata l' eccellenza della coscienza e della virtude, aspettate guiderdone de' sermonetti altrui. Odi come in questa levitade d' arroganza uno schernì un altro: chè, con ciò sia che uno cominciato avesse ad asperare con parole villane uno che non ad uso di vera virtù, ma a gloria superba falso nome di filosofo s' aveva vestito, e aggiugnesse sè già sapere se questi fosse filosofo, se le fatte ingiurie leggiermente e con pazienza sostenesse: costui un pochetto pazienza prese, e ricevuta la villania, quasi aggrandendosi, disse: Già alla fine cognosci me esser filosofo? E colui troppo strettamente: Lo conosceva, se ti fussi taciuto. Deh! or perchè è appo gli uomini eccellenti di queste cose sermone, i quali domandano gloria con virtude? Che è, che a costoro s' appartenga di fama, dopo il risoluto corpo con morte suprema? Imperciò che se gli uomini muoiono in tutto (la qual cosa credere niegano le nostre ragioni), nulla è la gloria al postutto, con ciò sia che al postutto non sia colui, di cui esser si dica. Ma se la mente di buona coscienza dal terreno carcere risoluta, libera il cielo domandi - non dispregia colui ogni fatto terreno, la qual, godendo il cielo, sè essere spogliata delle cose terrene si rallegra?
L. 2, 7Qualunque cerca gloria mondana Con la mente sfrenata, e crede quella Esser ben sommo, con credenza vana, L' altezza guardi dell' aria bella, E la grandezza del ciel, e poi come La terra è stretta, poca e poverella. E peseragli di tal preso nome, Che solamente il nido terreno Empier non può con tutte le sue chiome. Deh! perchè i superbi sanza freno Invan si sforzan dal giogo mortale Tirare 'l collo, a cui 'l poder vien meno? Avvegna che la fama le sue ale In popoli diversi batta e stenda, Qualunque in cotal potenza sale, E la sua casa adornata risplenda Di chiara lode, di pregio e valore, E tutto 'l mondo sua fama comprenda, La morte spregia ogni gloria e onore, E l' umil e l' eccelso capo infossa, E al grande adegua qualunque è minore. Dove son ora di Fabricio l' ossa? Dov' è or Bruto cotanto valente? Dov' è or Cato rigido, e lor possa? La fama lor, che fu tanto eccellente, Disegna il nome lor, così famoso, Con poca scritta ed a poca gente. Perchè cerchiam parlare specioso? E' son pur morti, e in tal punto vene Qualunque nasce, basso o glorïoso. Adunque a terra ignoranza vi tiene, Nè fa la fama esser conosciuto, Chè le memorie discorron terrene. E se voi riputate esser potuto Menar la vita più lunga con vento, Che sia da nome mortal proceduto; Quand' egli avrà il dì di dietro spento Nome cotale e tal fama ch' avete, Deh! sta' un poco a quel ch' io dico attento: Una seconda morte sostenete.
L. 2, cap. 8Ma acciò che tu non riputi ch' io faccia contra la fortuna inespugnabile battaglia, dico che alcuna volta avviene, che ella fallace appo gli uomini ha merito; allora, cioè, quando ella s' apre, quando la fronte scuopre, e suoi costumi palesa. Forse ancora ciò ch' io dico non intendi. Maravigliosa cosa è quella che dire desidero, e perciò appena posso con parole la mia sentenza spiegare. Certo, io son d' oppinione, che più l' avversa fortuna che la prospera giovi. Perciò che quella sempre mente, quando con spezie di felicitade lusinghevole paia; questa sempre è vera, quando sè non ferma con mutazioni dimostra. Quella inganna, costei ammaestra. Colei prospera le menti di chi l' usa; quella lega con bugia sotto spezie di beni; costei col conoscimento di falsa felicitade le scioglie. E così tu vedi quella sempre ventosa, discorrente, e di sè stessa non conoscente; costei sobria, presta e per esercitazione d' avversitade prudente. Alla fine, la felice dal vero bene con le sue lusinghe disvia; l' avversa spesse volte a' veri beni riducendo, con l' uncino ritira. Or riputi tu questo da estimare tra le menome cose, che quest' aspra e paurosa fortuna le menti de' fedeli amici t' ha discoperte? Costei i coperti volti e dubbiosi de' compagni t' ha cerniti; partendosi, i suoi si tolse, i tuoi t' ha lasciati. Essendo, secondo che parevi, fortunato e intero, quanto avresti queste cose ricomprate? Ma or lascia di lamentar le ricchezze perdute: tu hai - quello che è sopra prezio - amici trovato.
L. 2, 8L' Amor che 'mpera in cielo e quaggiù regge, Con l' arte mossa dall' eterno Siri, Le cose lega con sì fatta legge, Che 'l mondo l' anno variato giri, Con ferma fede i tempi trasmutando, Nè per tal volger mai nessun s' adiri; Che gli elementi l' un l' altro in pugnando Osservin patto ne' loro veri effetti, E godan la virtù lor operando. Il sol correndo co' destrieri eletti Produca nel suo tempo il rosato, Col suo carro dell' oro, e non s' affretti. La luna, poi che sarà scurato, Guidi la notte col suo roteare, E cotal esercizio le sia grato. Che l' onde sue il profondo mare Costringa a certo termine, contento Di non potersi in terra dilatare. Costui se' freni del suo reggimento Abbandonasse, verrebbe a tenzone Ciò ch' ora di concordia sta attento. E 'l mondo, che con bella condizione Di loro è ordinato fedelmente, Sarebbe combattuto ogni stagione. Costui congiugne i popoli e la gente Con amistade amabile e santa, Da cui chi si diparte, mal si pente. Costui d' onesti amori e casti ammanta Il sacro matrimonio, e con intero Diletto fede tra' compagni pianta. O ben felici gli uomini, se 'l vero Amor, che regge lo splendido cielo, Reggesse loro! chè cotal impero Rompe ciascuno di difetto velo».
L. 3, cap. 1Già ell' avea il suo canto finito, quando - desideroso di udire, e maraviglioso, ancora con gli orecchi levati - la dolcezza del verso m' avea fermato; e così poco poi dissi: «O somma consolazione degli animi affaticati, quanto con la maturitade delle tue sentenze, e con la iocundità del ben cantare m' hai confortato! sì che già queste cose udite, me esser non iudichi disiguale pe' colpi di fortuna! Adunque i rimedii, che un poco più agri esser dicevi, non solamente non temo, ma, desideroso d' udire, grandemente domando». Allor colei: «Io lo senti', disse, quando le parole nostre tacito e attento pigliavi, e quando l' abito della tua mente aspettai, o vero - che è più vero - io medesima in perfezione ridussi. Cotali son per certo i rimedii che restano, che gustandoli mordano, ma dentro ricevuti ci addolciscano. E dove tu di' esser desideroso d' udire, oh, con quanto desiderio arderesti, se dove menarti intendiamo cognoscessi!». - E io: «Dove?». - Ed ella: «Alla vera felicitade, la quale il tuo animo sogna: e occupato all' immagini il viso, quella veder non puoi». - E io allora: «Deh! fallo, ch' io te ne priego, e qual quella vera sia, sanza tardar mi dimostra». - «Farollo, diss' ella, volentieri per tua cagione; ma quella che è da te più cognosciuta, prima disegnare con parole e informare mi sforzerò, acciò che, quella veduta, quando in contraria parte chinerai gli occhi, possi cognoscere il segno di beatitudine vera.
L. 3, 1Chi vorrà la sua terra seminare, Anzi che 'l nuovo seme entro vi metta, De' frutti vecchi la farà spogliare, E della felce e spine i campi netta, Acciò che Cerere abbondante caggia In bella biada, e la sua forza metta. Più dolce pare 'l mèle a chi assaggia L' amaro innanzi, e dopo l' aere tinta Più bella nel seren la luce raggia. Poi che la stella dietro s' ha sospinta La notte, la mattina il sol ridendo Cavalca per l' eclittica sua cinta. Tu così prima i falsi ben cernendo, Di sotto 'l giogo tira i colli presi, E i ben veri, che mostrar t' intendo, Ti sien nel petto con più frutto appresi».
L. 3, cap. 2Allora un poco gli occhi chinati alla terra, e quasi come nella stretta sedia della sua mente raccolta, così cominciò: «Ogni sollecitudine de' mortali, la qual usa la fatica de' moltiplici studii, per diverso calle certamente procede, ma nondimeno ad un fine di beatitudine si sforza di pervenire, ciò è al bene; il quale acquistato, niente più desiderar si possa. Il quale per certo è sommo bene di tutti i beni, e tutti gli altri beni in sè contegnendo; a cui se alcuna cosa mancasse, sommo bene esser non potrebbe, perciò che rimarrebbe di fuori cosa che desiderar si potesse. Chiaro è, dunque, la beatitudine essere stato perfetto con ragunamento di tutti i beni. Questo, come dicemmo, per diverso sentiero tutti i mortali si sforzano d' acquistare; imperciò che nelle menti degli uomini è naturalmente una fitta cupiditade di vero bene; ma lo sviato errore gli guida a' beni falsi. Altri de' quali, sommo bene esser credendo di niente abbisognare, che di ricchezze abbondino, s' affaticano. Altri, ben giudicando esser quello che sia di reverenza dignissimo, si sforzano esser da reverire da' loro cittadini con onori acquistati. Sono di quelli, che sommo bene in somma potenza costituiscono: costoro, o vogliono essi medesimi regnare, o d' accostarsi a chi regna si sforzano; e altri, a cui sommo bene pare chiaritade di fama: questi con atti di pace o di battaglia, di distendere glorioso nome s' affrettano. Molti il frutto di ben sommo misurano con allegrezza e con letizia: costoro felicissima cosa riputano nelle volontadi corporee allargarsi. Sono eziandio di quelli, che i fini di queste cose e le cagioni l' un con l' altro permutano: ciò è, che le ricchezze per potenza e per volontadi desiderano; o vero, che la potenza o per cagion di pecunia o per profferere suo nome domandano. In queste, dunque, e cotali altre cose si versa la intenzione degli atti e de' desiderii umani: come nobilitade e favor di popolo, che par concedere alcuna chiarezza; moglie e figliuoli, che si domandano per grazia d' allegrezza. E gli amici, che sono generazione santissima, non s' annoverano in fortuna, anzi in vertude. L' avanzo, o per cagion di potenza si piglia, o di dilettanza. Già è pronto, che i beni del corpo a que' di sopra si riferiscono: chè la forza e la grandezza pare prestar potenza; la bellezza e la leggerezza, gloria; la sanità, volontade. Nelle quali tutte cose solo desiderarsi beatitudine è chiaro; perciò che 'l bene che ciascuno sopra gli altri domanda, questo esser giudica sommo bene. Ma il sommo bene esser la beatitudine abbiamo diffinito. Per la qual cosa iudica quello stato esser beato, il quale ciascuno sopra tutti desidera. Hai dunque innanzi agli occhi quasi proposta la forma della felicitade umana: ricchezze, onori, potenza, gloria e volontadi. Le quali sole considerando Epicuro, conseguentemente esser sommo bene la volontade del corpo sì costituì, chè tutte l' altre cose paiano all' animo allegrezza conferire». Ma agli studii degli uomini torno: l' animo de' quali - avvegna che con memoria oscurata - nondimeno raddomanda sommo bene, ma come l' ebrio, che a casa per quale sentiere ritorni non sa. Che or paion costoro errare, i quali si sforzano di niente aver bisogno? Certo, non è altro che possa beatitudine compiere, che 'l copioso stato di beni, dell' altrui non avendo bisogno, ma a se medesimo sofficiente. Ma discorron dal vero costoro, i quali riputano che sia ottimo bene esser dignissimo con onor di reverenzia? No, perciò che non è vil cosa e da dispregiare quella, che quasi la 'ntenzione di tutti i mortali d' acquistar s' affatica. Ora intra' beni non è da noverar la potenza? Perchè è da essere stimato infermo e sanza forze quel che a tutte l' altre cose soprasta? Or la gloria è da essere attribuita a niente? Ma negar non si può, che ogni cosa che sia eccellentissima, questa eziandio pare esser chiarissima. La beatitudine non esser angosciosa, nè trista, nè a dolori e a molestie sottoposta, che appartiene di dire, quando nelle menome cose quel si desidera, che avere e usare diletti? Ma queste sono quelle cose, che acquistar gli uomini vogliono; e per questa cagione le ricchezze, le dignitadi, i regni, la gloria e la volontade corporea desiderano, che per esse a sè sofficienza, reverenza, potenza, solennitade e letizia credono che vegnano. Bene è adunque quel che con sì diversi studi gli uomini domandano: nel quale quanta sia la forza di natura leggiermente si mostra, chè, avvegna che varie e partite sentenze siano, nondimeno consentono in amare fine di bene.
L. 3, 2Quante redine regga la natura Con sua potenza, e come proveduta Con leggi ferme il mondo tutto cura, E ogni avverso volentier rifiuta, Con nodo indissolubile legando Le cose tutte a fine proveduta, Mi piace in versi proferer cantando Con lente corde, e tu gli orecchi attesi Tieni al mio dir, altrove non pensando. Avvegna che i leon cartaginesi Portin gran tempo il collo incatenato, Sotto la forza umana stando presi, E 'l cibo prendan dagli uomini dato, E teman le percosse del bastone Del lor maestro, di batterli usato; Se gusteranno in alcuna stagione Del sangue caldo, e straccin co' denti A bestia alcuna viva il pelliccione; Gli animi queti e a pace contenti, Rugghiando con la prima lor fierezza, Spezzeranno i legami violenti. E 'l primo lacerato dall' asprezza Dell' ire lor rabbiose fia il gramo, Che li domava con dimestichezza. E che l' uccella cantatrice in ramo, In bellissima gabbia 'mpregionata, Presa a qualsivoglia che sia amo, Con dolci beveraggi sia studiata, E a pasto piacevol con diletto Da vaga cura degli uomini usata; S' ella volando poi in sull' alto tetto, Vedrà del bosco l' ombra grazïosa, Avrà ogni esca e cibo in vil dispetto. Batterà l' ali per l' aria spaziosa, E nella selva verzicante, trista Del preso cibo, allegra si riposa. La verga, la cui cima il ciel acquista, E forza violenta in giù l' accascia, Arco faccendo di sua dritta lista, Se 'l piegator da sua forza la lascia, Al cielo allegra incontanente dritta Compie suo corso libera d' ambascia. Nell' onde d' Oceáno il sol si gitta, E per occulto calle in Oriente Torna da mane, non con luce fitta. Tutte le cose volontariamente Cercan lor corso e, allegrate in quello, Fan lor virtude ognora più possente. Nè ordine a natura suo ribello Osserv' alcuna, se non il verace, Che le conduce a suo fine bello, Il mondo conservando in vera pace.
L. 3, cap. 3Voi, o terreni animali, avvegna che con sottil immagine, nondimeno il vostro principio sognate, e quel vero fine di beatitudine, avvegna che non con chiaro, con alcuno almen pensiero ragguardate: e perciò vi mena al vero bene la naturale intenzione, ma da quello moltiplice errore vi ritrae. Chè considera se per quelle cose, per le quali gli uomini acquistar beatitudine riputano, possono pervenire al destinato fine; perciò che se la pecunia, o ver gli onori, o l' altre cota' cose alcuna cosa deano, a cui niente di bene paia mancare; noi per certo confesseremo, per acquisto di quelle alcuni esser fatti felici. Ma se questo fare non possono che promettono, e di più beni hanno bisogno, non si comprende in lor manifestamente spezie di falsa beatitudine? Primamente te, il quale poco innanzi di ricchezze abbondavi, domando: «Tra quelle abbondantissime ricchezze, per qualunque ingiuria conceputa, angoscia l' animo tuo in tempo alcuno non confuse?». - E io: «Per certo raccordarmi non posso, me mai essere stato d' animo libero, che d' alcuna cosa sempre non sia tormentato». - Ed ella: «Non, perchè o mancava che mancar non vorresti, o perchè alcuna cosa vi era, che esservi non avresti voluto?». - E io: «Così è», dissi. - Ed ella: «Di quello abbisogna ciascuno, che desidera». - «Abbisogna», dissi. - Ed ella: «Chi ha d' alcuna cosa bisogno, non è a sè in ciascuna sua parte sofficiente». - «No», diss' io. - «Tu, diss' ella, questa insofficienza, pieno di ricchezze, sostenevi?». - E io: «Che è che no?». - Ed ella: «Le ricchezze dunque far non possono alcuno sofficiente che di niente abbisogni; e questo era quello che promettere parevano. Certo, io riputo questo esser da considerare massimamente, che la pecunia di sua natura non abbia alcuna cosa, che tolta esser non possa contra volere di coloro da' quali è posseduta». - E io: «Confessolo». - Ed ella: «che è perchè tu non lo confessi, con ciò sia che continuamente il più forte al men possente contra voglia suttragga? Imperciò che, onde vengono le lamentanze in palagio, se non che per forza o per fraude le contravvoglia tolte pecunie si raddomandano?». - «Così è», dissi. - Ed ella: «Abbisognerà dunque di fuori di domandata difensione ciascuno, con la quale la sua pecunia difenda?». - E io: «Questo chi negherà?». - Ed ella: «Certo, di ciò non avrebbe bisogno, se la pecunia non possedesse, la qual perder potrebbe». - E io: «Dubitar ciò non si può». - Ed ella: «In contrario adunque è la cosa discorsa, imperciò che le ricchezze, le quali sofficienti fare si riputavano, fanno piuttosto bisognosi d' altrui aiuto. Che modo è, per lo quale con le ricchezze si cacci 'l bisogno? Or non possono i ricchi aver fame? non possono aver sete? non sentono il freddo i membri degli abbondanti di pecunia? Ma tu dirai: Egli è a' ricchi con che la fame sazino, con che il freddo e la sete discaccino. Ma in questo modo per certo il bisogno consolare si puote, tôrre sì al postutto non si puote; perciò che se questa necessitade, bramosa sempre e alcuna cosa domandante, con ricchezze non si adempie, di necessità rimane quello che si possa compiere. Io mi taccio che alla natura minima cosa basta, e all' avarizia niente è assai. Perchè, se le ricchezze il bisogno rimuover non possono, e quelle proprio bisogno a loro costituiscono, che è perchè crediate che quelle sofficienza possano prestare?
L. 3, 3Benchè l' avaro ricco con profondo Novero d' oro raguni ricchezza, Che le voglie non empie qui nel mondo, E 'l collo fregi con grande adornezza Di pietre e bacche, che nel rosso mare Retrova chi 'n cercarle vi s' avvezza, E faccia i campi larghi lavorare Con cento aratri, la bramosa voglia Di più volere non potrà cessare. E quando avviene che la morte 'l coglia Con una febbricella, che l' accascia Sotterra, d' ogni cosa lo dispoglia, E le ricchezze lui, ed ei lor lascia.
L. 3, cap. 4Ma le dignitadi fanno onorabile o da essere avuto in reverenza a cui provengono? Or è questa forza ne' magistrati e negli offici, che mettano virtudi nelle menti di chi gli usa, e i vizi discaccino? Certo non cacciare, ma piuttosto sogliono palesare la malvagitade: per la qual cosa avviene, che noi indegniamo quelle spesse volte agli uomini rei esser venute. Onde Catullo, Nonio, avvegna che nella sedia sedesse curule, nondimeno appella zembuto. Non vedi tu quanta vergogna a' rei le dignitadi aggiungano? Certo, men si manifesterà la loro indegnitade, se di niuni onori chiariscano. Or tu eziandio a tanti tuoi pericoli aggiugner potesti, che tu riputassi con Decorato reggere il magistrato, con ciò sia che in lui ragguardassi mente di malvagissimo leccone e falso rapportatore? Noi non possiamo per gli onori giudicare degni di reverenza coloro, cui noi iudichiamo degli onori essere indegni. Ma se alcuno di sapienza dotato vedessi, potrestilo tu di reverenza, o ver di quella ch' egli è sapienza dotato, riputare indegno? No. È dunque la dignitade nella propria virtude, la quale al postutto in coloro, con cui sarà congiunta, la virtude infonde: la qual cosa perchè i popolari onori far non possono, è chiaro lor non aver propria bellezza. In che questo è da cognoscere maggiormente: che se per quella cosa è alcuno più vile, per la quale egli è più da' più dispregiato, con ciò sia che la dignità non possa fare da esser riveriti coloro, cui ne' lor vizi palesa, molto fa più gl' improbi dispettevoli. Ma non sanza merito di pena, perciò che gl' improbi pari cambio rendono alle dignitadi, le quali maculano con la loro sozzura. Ma acciò che tu cognoschi la vera reverenza per queste ombre di dignitadi non poter avvenire, così comprendi. Se alcuno, usato avendo moltiplice consolato, per avventura verrà nelle barbare nazioni, or farallo tal onore da reverire a' barbari? Certo, se questo fosse alle dignitadi natural guiderdone, in niuno modo cesserebbe dal suo officio in ciascun luogo, e tra qualunque genti, sì come 'l fuoco in ogni terra mai di scaldar non manca. Ma perciò che questo non propria forza, ma la fallace oppinione degli uomini lor l' annoda, vane diventano incontanente che a coloro vegnono, che quelle esser dignità non istimano. E questo così tra le nazioni strane: ma tra coloro appo cui elle son nate, durano elle perpetue? Certo la prefettura nel tempo addietro gran potestade era, ora è nome vano; e 'l soldo de' sanatori è grave soma. Grande era molto per addietro chi aveva cura della biada del popolo; ora, che è più vile che quella prefettura? Perciò che, come poco innanzi dicemmo, quel che niente ha di propria bellezza, per oppinion di chi l' usa, ora splendore riceve, e ora lo perde. Se adunque esser da riverire le dignitadi far non possono; se per macula degl' improbi insozziscono, se per mutazione di tempo mancano di risplendere, se per istimazione delle genti inviliscono; che è, ch' elle abbiano in loro di disiderosa bellezza, non che ad altrui la prestino?
L. 3, 4Avvegna che 'l crudel Nerone acerbo Di porpora e di gemme s' adornasse, Più in ciascuna lussuria superbo; Sempre invidiato la sua vita trasse, Benchè co' vizi suoi scelerati Imperial dignitade accompagnasse. Costui, malvagio, ne' tempi passati Dava le sedie curuli insozzate A' Padri, meno in ciò d' onor fregiati. Deh, or chi quelle dignità beate Riputerà con l' intelletto intero, Le quali son da miseri donate? Certo, chi 'l crede, non giudica vero.
L. 3, cap. 5Or i reami e la famigliarità de' regi può fare altrui possente? Che è che no, quando la lor felicità perpetualmente dura? Certo, piena è la vecchia etade e la novella d' esempli di que' re, che la felicitade in miseria mutarono. Oh chiara potenza, la quale a conservazione di stessa non si truova efficace! Che se questa podestà de' regni è autore di beatitudine; se d' alcuna parte mancherà, non iscema la felicità, e importa miseria? Perciò che, benchè largamente gli umani imperi si distendano, di necessitade è più genti lasciarsi, le quali ciascun de' regi non signoreggi. Per quella parte che la podestà beatificante manca, entra la impotenza che fa miseri. Adunque in questo modo è di necessitade essere a' regi di miseria maggior parte. Lo esperto tiranno della fortuna de' suoi pericoli, la paura del regno assomigliò con la paura del pendente coltello sopra 'l capo. Che è dunque questa potenza, la quale i morsi delle sollecitudini scacciare, la quale le punture delle paure schifare non puote? E quelli che vorrebbono vivere sicuri, e non possono, di potenza si gloriano? Or giudichi tu possente, cui tu vedi volere quel che non può compiere? Iudichi tu possente chi 'l suo lato guernisce di masnadieri? il quale coloro cui egli impaurisce, più teme? il quale, acciò che possente si mostri, nelle mani de' servi si dà? Che dirò io de' famigliari de' re, con ciò sia che que' medesimi regni pieni di tanta debolezza io dimostri, i quali la potenza reale - spesse volte intera, spesse volte discorsa - atterra? Nerone, Seneca - suo famigliare e maestro - costrinse ad eleggere arbitraria morte. Antonino gittò tra i gladii de' soldati Papiniano, lungo tempo possente tra' cortigiani reali. Certo, l' uno e l' altro volle alla sua potenza rinunziare; de' quali Seneca anche le sue ricchezze dare a Nerone, e in vita solitaria sbandito andar s' ingegnò; ma quella gravezza della potenza premendo costoro, che doveano rovinare, niuno compiè quel che volle. Che è dunque questa potenza, la quale que' che l' hanno, temono, e non vogliendola tu avere, non sii sicuro, e quando lasciar la desideri, schifar non puoi? Or son di ciò difensione gli amici, i quali non la virtude, ma la fortuna concilia? Ma colui cui la felicità fa amico, la disavventura fa inimico. E qual pestilenza è più a nuocere efficace, che l' inimico dimestico?
L. 3, 5Chi vuol veracemente esser possente, In prima domi gli animi suoi fieri, E ogni vizio cacci della mente. Non sottometta il collo a' lusinghieri Iscellerati vizi, nè col freno Di libidine guidi i suoi voleri. Perciò ch' avvegna che temute sieno In India ed in Tile le tue leggi,passin tuo volere in più o meno; Non potrai muover però de' lor seggi Le lamentanze misere, e la cura Mossa da' tristi e fragili scheggi, I qua' non fanno la vita sicura Di chi s' appoggia a loro vanitade, Da cui ogni potenza ragion fura, Nè 'l non poter s' appella podestade.
L. 3, cap. 6Ma la gloria come è spesse volte fallace, e come sozza! Onde non con iniuria quel tragico disse: La gloria in migliaia d' uomini nulla esser altro, che grande enfiamento d' orecchi. Perciò che molti da false oppinioni del vulgo spesse volte hanno tolto grande nome; della qual cosa che più sozza cosa si può pensare? perciò che que' che sono falsamente lodati, di necessitade è che dalle lor lode sieno svergognati. Le quali glorie, eziandio se con meriti sieno acquistate, che perciò aggiugneranno alla coscienza del savio, il quale il suo bene non con romore popolare, ma con verità di coscienza misura? Che se questo medesimo nome aver con fama disteso par bella cosa, segue che non averlo disteso si iudichi sozza. Ma, come poco dinanzi io trattai, di necessitade è essere più genti, a cui la fama d' un uomo non può pervenire: segue che cui tu stimi glorioso, nella prossima parte di terra sanza gloria sia iudicato. E tra queste cose la gloria popolare degna di ricordanza non riputo, la quale per iudicio non perviene, nè mai ferma perdura. E come vano, come transitorio sia il nome di gentilezza, già chi nol vede? Che se a chiarezza si riferisce, d' altrui è la chiarezza; perciò che la gentilezza pare una loda che da' meriti de' parenti viene. E se il lodare fa esser chiaro, di necessitade è che que' siano chiari, che son lodati; per che te splendiente l' altrui chiarezza non farà, se da te la tua propria non avrai. E se alcuno bene è nella gentilezza, questo arbitro esser solo, che a' gentili paia esser necessitade imposta, che dalla gentilezza de' maggiori non disviino.
L. 3, 6Ciascuna schiatta degli uomini in terra Da un principio nasce ed è produtta, E una chiave sola gli disserra: Un re, un padre creator di tutta Quanta si vede natura, o si pensa; Ed ei la regge, per cui è costrutta. Costui a Febo diede luce accensa, E alla luna i corni, e diè le stelle Al ciel con la potenzia sua immensa. L' anime solo dalle sue man belle Create, e sottoposte alla ragione, Ne' membri uman rinchiude, e poi le svelle. Gli uomini tutti la sua provvisione Creò gentili. Perchè vi vantate Dunque d' antichi, o di vostra nazione? Se i principii vostri ben guardate, E Dio, che è di tutti creatore, Nullo è che vile con ragion stimiate, Se non colui che con falso errore L' origine suo proprio abbandonando, A' vizi sottomette il nobil core, Libidinosamente scellerando.
L. 3, cap. 7Or che dirò io delle volontadi del corpo, il cui desiderio pieno è d' angoscia, e la sazietà di penitenza? Quante infermitadi, quanti non portevoli dolori, quasi come un frutto di malvagitade di chi l' usa si sogliono ne' corpi riferire? il movimento de' quali che cosa abbia d' allegrezza non so. Ma i fini esser tristi delle volontadi corporee, chiunque delle sue libidini ricordar si vorrà, intenderà. Le quali se posson beatificare, niente è di cagione perchè le pecore non siano da esser dette beate, la intenzion delle quali a compiere ogni corporale appetito s' affretta. Per certo, onestissima allegrezza sarebbe quella della moglie e de' figliuoli; ma troppo fuor di natura è detto, non so qual padre, aver trovati i figliuoli crudeli tormentatori: de' quali come sia angosciosa qualunque condizione non è bisogno ammonire te altra volta esperto, e ora angoscioso. Nella qual cosa la sentenza del mio Euripide appruovo, il quale, chi non ha figliuoli, dice per disavventura esser felice.
L. 3, 7Ogni carnal volontade e diletto Tormenta per istinto naturale Qualunque l' usa, e rende tristo effetto. Simile all' ape, che con fervide ale All' arnie corre, e 'l mel ivi nasconde, E poi si fugge con corso altrettale. Costei con dilettanza non risponde, Anzi con morsi d' amaro potere I cuor, percossi prima, poi confonde, E di grama tristizia gli rifiere.
L. 3, cap. 8A niuno è dubbio, che queste disvievoli vie non sono a beatitudine pervenire, nè menare alcun possono dove promettono. Ma di quanti mali elle sieno impacciate mostrerrò brevemente. Perchè ti sforzerai tu a pecunia ragunare? a colui che l' ha la rapirai. Risplender vuogli con dignitadi? pregherai con umilità a chi le dà; e tu, che andare innanzi agli altri desideri per onore, con bassezza di domandare invilerai. Or potenza desideri? sottoposto alle 'nsidie e a' pericoli soggiacerai. Gloria domandi? per qualunque luoghi aspri tirato, manchi d' esser sicuro. Vita carnal menerai? deh, or chi non ischifa d' esser servo delle vilissime e fragilissime cose del corpo? Ma quelli che sopra a loro i beni del corpo desiderano, come con piccola, come con fragile possession si sforzano! Or potrete voi gli elefanti di grandezza, i tori di fortezza, i tigri di leggerezza avanzare? Guardate lo spazio del cielo, e la grandezza, la fortezza e la prestezza, e alcuna volta lasciate di guardare le cose vili con maraviglia. Il qual cielo per certo non è più per sè, che per la ragione con la qual è retto, da esser maravigliato. Ma la bellezza della forma del corpo come transitoria è! come veloce! e più fuggitiva, che la mutabilità de' fiori di primavera! Chè, come Aristotile disse, se gli uomini usassono occhi di lupo cerviere, sì che il loro vedere qualunque corpo opposto passasse, quel corpo d' Alcibiade nella sua superficie bellissimo, ragguardate le brutte interiore, parrebbe sozzissimo. Adunque, vederti bello non fa la tua natura, ma l' infermitade degli occhi che guardano. Ma estimate quanto volete i beni del corpo, quando sappiate questo, qualunqu' è di grande maraviglia, potersi dissolvere con picciol caldo di febbre di tre giorni. Delle quali tutte cose è licito questo ricogliere in somma: che queste cose (che dare quel che promettono non possono, nè per ragunamento di tutti i beni son perfette) non - come quasi alcun sentiere - a beatitudine menano; nè in alcun modo fanno quelle altrui beati.
L. 3, 8Omè qual ignoranza cieca svia Per torto calle gli uomini a cercare Quel che ciascun per natura disia! Voi non andate per voler trovare Negli alberi oro, nè cercate in vite Le gemme, quando vi volete ornare; Nè nell' altezze de' monti salite A prender pesci con amo adescato; Nè le salvagge capre ed espedite Nel mar Tirreno nullo ha mai cacciato. E voi, che conoscete la partenza Dell' onde, quando 'l mar fosse turbato, E in quali acque è buon pescare a lenza Il tenace morone, e dove abonda La perla cerca vostra diligenza; E sapete trovar sotto qual onda Il color rosso di conchigli eletto, Che le porpore tigne, si nasconda. Ma dove sia il vostro ben perfetto Non sostenete di voler sapere; O stolti e ciechi del vero intelletto! Voi vi credete in terra possedere Quel sommo ben, che solo in ciel s' accatta: Beffeggiato riman vostro volere. Padre, che reggi l' angelica schiatta, Che poss' io impetrar, che fosse degno Salutar premio d' esta gente matta? Che con fatica molta e con disdegno Ricchezze acquisti molte e grande onore, In ciò mettendo tutto 'l suo ingegno; Acciò che cognoscendo il falso errore Delle mondane vanità, si sciolga Con penitenza dal lor folle amore, E 'l volto poi a' veri ben rivolga.
L. 3, cap. 9Per addietro, la forma della bugiarda felicitade basti esser mostrata; la quale se chiaramente ragguardi, segue l' ordine per innanzi qual sia la verace mostrare». - E io: «Certamente lo veggio, nè per le ricchezze sofficenza, nè pe' regnami potenza, nè reverenza per dignitadi, nè chiarezza per gloria poter avvenire». - Ed ella: «Or eziandío le cagioni perchè così sia hai compreso?». - E io: «Quasi come per sottil fessura lo mi par vedere, ma da te cognoscerle più apertamente vorrei». - Ed ella: «Di ciò è ragion prontissima; imperciò che quello che è semplice e non diviso per natura, l' umano errore disparte, e dal vero e perfetto bene al falso e imperfetto riduce. Or arbitri tu colui che di niente abbisogni, aver bisogno di potenza?». - Ed io risposi: «No». - Ed ella: «Dirittamente rispondi; perciò che se alcuna cosa è che in alcuna parte sia di potenza più debole, in questa è di necessitade esser bisogno l' altrui aiuto». - «Così è», diss' io. - Ed ella: «È dunque, della sofficienza e della potenza, una e medesima natura». - E io: «Così pare». - Ed ella: «Ma quello che sia di condizion cotale, cioè sofficiente e potente, iudichi tu da essere dispregiato; o vero il contrario, esser dignissimo per reverenzia di tutte le cose?». - Ma io: «Nè questo per certo dubitar si può». - Ed ella: «Aggiugniamo dunque alla sofficienza e alla potenza la reverenza, sì che queste tre cose esser una giudichiamo». - E io: «Aggiugniamo, chè noi vogliamo confessare il vero». - «Ma che, diss' ella, iudicherai tu questo sofficientissimo, potentissimo e degnissimo essere oscuro e vile, o vero d' ogni gloria chiarissimo? E in ciò considera che colui - che di niente aver bisogno e che potentissimo e che dignissimo esser d' onore è conceduto - aver bisogno di chiarezza non paia, la quale a sè non possa prestare, e per questo in alcuna parte esser più vile». - E io: «Non posso, risposi, che, come questo è, così eziandío esser glorioso, non confessi». - Ed ella: «Seguita dunque, che la chiarezza dalle tre sopradette cose esser niente differente confessiamo». - «Seguita», diss' io. - Ed ella: «Adunque quello che di niente dell' altrui ha bisogno, che con le sue forze tutte le cose possa, che sia chiaro e da reverire, or non sarà eziandio allegrissimo?». - E io: «Ma, onde a costui entri tristizia alcuna, non mi posso pensare». - Ed ella: «Per la qual cosa, se le sopradette cose ferme staranno, necessario è confessare questo cotale essere di letizia pieno. Necessario è eziandio, per quelle medesime ragioni, che della sofficienza, della potenza, della chiarezza, della reverenza e dell' allegrezza i nomi siano diversi, ma la sustanzia in alcun modo non divisare». - E io: «Di necessitade è», risposi. - Ed ella: «Ma questo, che è uno e semplice per natura, la perversitade umana disparte; e quando della cosa che non ha parte, acquistar parte si sforza, nè la parte, la quale è nulla, nè quella intera, la qual non desidera, acquista». - E io allora: «In che modo lo dividono gli uomini?». - Ed ella: «Colui che le ricchezze, per fuggire la inopia, domanda, di potenza niente s' affatica; vile e oscuro piuttosto essere vuole; molti eziandío corporali desiderii naturali si toglie, acciò che la pecunia ragunata non perda. E in questo modo non avviene sofficienza a colui, cui la potenza abbandona, cui la molestia pugne, cui la vilitade dispregia, cui nasconde la solinga oscuritade. Ma chi solo potenza desidera, gitta le ricchezze, dispregia le volontadi corporali, e l' onore di potenza voto, e anche la gloria vilipende. E a costui, come molte cose manchino, tu lo vedi. Perciò che segue, che alcuna volta povero abbisogni, che d' angosce sia morso; e con ciò sia che discacciar questo non possa, eziandio (quel che massimamente desiderava) manca d' esser potente. Simigliantemente ragionare degli onori, della gloria e delle volontà corporali è lecito; imperciò che, con ciò sia che ciascuna di queste cose sia quel medesimo che sieno l' altre, qualunque di queste alcuna - senza l' altre - domanda, per certo quel che desidera non gli segue». - E io: «Che dirò io dunque, se alcuno tutte queste cose insieme desideri d' acquistare?». - Ed ella: «Per certo, che la somma beatitudine voglia; ma troveralla egli in queste cose, che noi dimostrammo non poter dare quel che promettono?». - E io: «Mainò». - Ed ella: «In queste cose, dunque, le quali paion concedere alcune singulari cose degli umani desiderii, in niuno modo è beatitudine da cercare». - E io: «Confessolo, dissi, e nulla cosa dir si puote più vera». - Ed ella: «Hai dunque e la forma della falsa felicitade e le cagioni. Rivolgi ora lo sguardo della mente nel contrario; imperciò che ivi la verace, la qual promettemmo, incontanente vedrai». - E io: «Per certo questa eziandío al cieco è chiara, e poco dinanzi la dimostrasti, quando d' aprire la cagion della falsa, opera davi; perciò che, se io non sono ingannato, quella è vera e perfetta felicitade, la quale sofficiente, potente, da esser da reverire, glorioso e letizioso faccia. E acciò che tu cognoschi me con l' animo aver atteso, quella che l' una di queste cose può dare veracemente - perciò che tutte sono una medesima - esser piena beatitudine sanza dubbio cognosco». - Ed ella: «O mio nutrito, beato te per questa oppinione, se questo aggiugni!». - E io: «Che?». - Ed ella: «Riputi tu in queste mortali e transitorie alcuna cosa essere, che dar possa questo cotale di beatitudine stato?». - E io: «Mainò, riputo; e questo da te, sì che più non si desideri, è mostrato». - Ed ella: «Dunque queste cose o sono imagini di vero bene, o vero alcuni imperfetti beni paiono dare a' mortali; ma dare il vero bene e perfetto non possono». - E io: «Consentolo», dissi. - Ed ella: «Perciò che tu hai cognosciuto qual sia la vera, e qual falsa infinga, con bugia, vera beatitudine; ora resta che, onde questa vera domandar possi, cognoschi». - E io: «Già lungamente ciò con desiderio attendo». - Ed ella «Come al nostro Plato nel Timeo piace, nelle menome cose il divino aiuto si dee chiamare: ma ora, che giudichi fare, acciò che la sedia di quel sommo bene trovare meritiamo?». - E io: «Da chiamare il Padre di tutte le cose; il quale lasciando, dirittamente nullo principio si fonda». - Ed ella: «Dirittamente rispondi», disse. E incontanente così cantò:
L. 3, 9Padre celeste, che 'l mondo governi Con la ragione, che da te produce La provedenza de' tuoi seggi eterni; Seminatore e sollecito duce Del cielo e della terra, e ciò che cigne La chiarità della produtta luce; La tua etternità 'l tempo costrigne Muover da sè con misurato moto, Che giammai d' ubbidirti non s' infigne. Tu stabile e costante, non con moto, Tutte le cose muovi a certo segno, Da cui error ciascuno sta remoto. Te, a comporre l' ordinato regno Della materia sanz' ordin, non strinse Cagion di fuori o estrinseco 'ngegno; Ma sola forma - che in te si cinse Col tuo principio - di somma bontade A tanta degnazione aver ti vinse. Tu sanza invidia, pien di caritade, Produci tutto all' esemplo sovrano, Dipinto ch' è nella tua deitade. Tu, bel sopra ciascun pensiero umano, Il mondo bello avendo nella mente, Formato l' hai da quel niente strano, E lo costrigni ch' ordinatamente Perfetta in sè contegna ogni sua parte; Ed egli a tal voler sempre consente. Tu gli elementi leghi con bell' arte, A proporzione di noveri estensi, Ch' a certa concordanza gli comparte; Sì che col freddo il calido conviensi, E 'l liquido col secco osserva pace, Congiunti a' nostri corporei sensi; E che gravezza la terra non face Più sotto stare, e che puro foco Non sia di più altezza mai rapace. Tu l' anima mezzana nel suo loco Pel ciel distendi di natura trina, Che tutto move, come assai e poco. La qual con la potenza tua divina Il ciel con doppio movimento regge, Sì ch' a sinistro e a destro gli china; E ritornando in sè con bella legge Corre, e circonda la mente profonda, E simil movimento al cielo elegge. Tu l' anime concedi in forma monda E le vite minori agli animali Con cagion pari, ch' a ciascun seconda, Dispognendo 'l vigor dell' immortali, Degne del cielo e a te le ritiri. O beato Signor, che tanto vali, Dona l' effetto de' nostri desiri, Da' che la mente s' aguzzi a cercare Il sommo ben che tu di sopra giri; E trovato 'l tuo raggio fa' fermare In te il viso del vero intelletto, Nè lo lasciare in altra parte errare. Discaccia la caligine del petto Della terrena gravezza, e rischiara Col tuo splendore ogni fusco concetto. Chè tu se' luce sovr' ogni altra chiara, Tu se' a' buoni tranquillo riposo, Tu ti dimostri a chi vederti appara. Principio se' d' ogni don grazioso, Sostenitor di ritta via, e duce; Termine sei d' ogni fin glorioso; Da te in te ogni potenza luce.
L. 3, cap. 10«Imperciò, adunque, che qual sia la forma del bene imperfetto, qual eziandío del perfetto hai veduto; ora mi pare da dimostrare in che questa perfezione di felicitade sia costituita. Nella qual cosa questo prima arbitro da cercare, se alcuno cotale bene - che in te poco dinanzi hai diffinito - possa essere in alcuna cosa, o no; acciò che vana imagine di pensiero, sanza la verità della supposta cosa, non c' inganni. Ma che cotal ben sia, e sia questo come una fontana di tutt' i beni, non si può negare. Imperciò che ogni cosa ch' è detta imperfetta, questa, per mancamento della perfetta, imperfetta si mostra. Per la qual cosa segue, che se in alcuna maniera di cose alcuna paia esser imperfetta, in quella medesima maniera esser alcuna cosa perfetta sia necessario. Perciò che, tolta via la perfezione, onde quello che è imperfetto sia stato, mostrar non si puote in alcun modo. Imperciò che la natura non prese principio dalle cose manche e non compiute; ma dalle intere e perfette procedendo, in queste streme e non fruttuose discorre. Perchè, se alcuna imperfetta felicitade di bene fragile poco dinanzi esser dimostrammo, alcuna esser soda e perfetta dubitar non si puote». - E io: «Fermissimamente e con molta veritade, quel ch' è il vero, è conchiuso». - Ed ella: «Ma dove abiti questa perfetta, così considera. Dio, principe di tutte le cose, essere bene appruova la comune concezione degli animi umani; perciò che, con ciò sia che niente miglior di Dio si possa pensare, quello del quale niente è migliore, bene esser chi dubita? Ma così la ragione dimostra Dio esser bene, che in lui perfetto bene esser congiunga; che se cotal non sia, principe di tutte le cose esser non potrà, perchè sarà alcuna cosa soprastante a lui, che ben perfetto posseggia, la qual prima, o ver più antica esser paia. Che tutte le cose perfette, prima che le men perfette furono, è chiaro. Dunque, acciò che la ragione in infinito non si prolunghi, è da confessare, Dio esser pienissimo di sommo e perfetto bene. Ma il perfetto bene esser la somma beatitudine costituimmo. Adunque la vera beatitudine esser nel sommo Dio è necessario». - E io: «Ben lo comprendo, nè è che in alcun modo contradir si possa». - Ed ella: «Io ti priego che tu guardi, come santamente e inviolabilmente tu appruovi questo che dicemmo: Dio esser pienissimo di ben sommo». - «Come?», diss' io. - Ed ella: «Sì che questo padre di tutte le cose, quel sommo bene, del quale esser pieno si dimostra, o vero tu non presumi credere aver ricevuto di fuori, o ver così naturalmente, quasi come tu pensi, la sustanzia di Dio che ha e della avuta da lui beatitudine esser diverse. Perciò che, se di fuori ricevuto lo riputi, più soprastante colui che avrà dato, che colui che avrà ricevuto, puoi stimare. Ma noi confessiamo costui, cioè Dio, essere dignissimamente eccellentissimo sopra tutte le cose. Che se per natura è Iddio sommo bene, ma è diverso per ragione: con ciò sia che di Dio principe delle cose parliamo, infinga chi può, chi ha queste cose diverse congiunte. Poi, quel che è da qualunque cosa diverso, non è quel medesimo dal qual s' intende esser diverso. Onde quel che per sua natura è diverso dal sommo bene, non è sommo bene: la qual cosa di Dio pensare è illicita, al qual niente è soprastante. Imperciò che natura di nulla cosa potrà esser migliore, che 'l suo principio; perchè quel che è principio di tutte le cose, eziandío sommo bene esser per sua sustanzia, con verissima ragione ho conchiuso». - E io: «Dirittamente è conchiuso», risposi. - Ed ella: «Ma il sommo bene esser la beatitudine è conceduto». - E io: «Bene è così». - Ed ella: «Adunque Dio esser quella beatitudine necessario è confessare». - E io: «Alle proposte cose prime contrastar non posso, e questo a quelle esser conseguente cognosco». - «Or guarda, diss' ella, se per questo quel più fermamente s' appruovi, cioè, che due sommi beni, i quali tra loro siano diversi, esser non possono. Imperciò che de' beni che discordano, è chiaro non esser l' uno quel che l' altro; per che nè l' uno nè l' altro potrà esser perfetto, con ciò sia che l' altro all' uno e l' uno all' altro manca. Ma quel che non è perfetto, non esser ben sommo è manifesto: in niuno modo dunque i beni che sono sommi, esser possono diversi. Ma la beatitudine e Dio esser ben sommo abbiamo ricolto: per che di necessitade è, quella esser somma beatitudine, che sia somma divinitade». - E io: «Nè più vera cosa che questa, nè per ragionamento più ferma, nè più degna che Dio, si può conchiudere». Ed ella: «Come i geometri sogliono le cose proposte dimostrare, avendo alcuna cosa da dir brieve, la quale porismate chiamano; così io, sopra questo, quasi come corollario ti darò. Imperciò che, perchè gli uomini per acquisto di beatitudine si fanno beati, e la beatitudine è quella stessa divinitade; per acquisto di divinitade farsi beati è manifesto. Ma come per acquisto di giustizia giusti, e di sapienza savi si fanno, così per la divinitade acquistata farsi dii per ragion simile è necessario. Adunque ogni beato è Dio: ma, per certo, per natura solo uno, ma per participazione niente vieta esser più dii». - E io: «Bello è questo, e prezioso porismate, o ver corollario, qual piuttosto vuoli chiamarlo». - Ed ella: «Per certo, niente è di questo più bello, che a queste cose annodare la ragione conforta». - E io: «Che domanda hai?». - Ed ella: «Con ciò sia che la beatitudine molte cose paia contenere, se tutte queste cose una, come un corpo di beatitudine, con alcuna varietà di parti congiunga, o ver sia alcuna di loro che la sustanzia di beatitudine compia, e a questa l' altre tutte si riferiscano?». - E io: «Vorrei, risposi, che questo con commemorazione di quelle cose facessi palese». - Ed ella: «Non giudichiamo noi la beatitudine esser bene?». - E io: «E sommo, risposi». - Ed ella: «Che tu aggiunghi questo a tutti - cioè sommo - è licito; perciò che quella medesima beatitudine è somma sofficienza, quella è somma potenza: la reverenzia e la chiaritade, e la corporea volontade esser beatitudine si giudica. Che dunque stimi da dire: questi tutti beni - sofficienza potenza e l' altre - come membri alcuni di beatitudine sono, o al bene - come a capo - tutti si riferiscono?». - E io: «Intendo, dissi, che tu proponi da cercare; ma che tu costituischi, d' udire desidero». - Ed ella: «Di questa cosa così prendi lo cognoscimento discreto. Se tutte queste cose membri di beatitudine fossono, per certo tra sè insieme diviserebbono; perciò che questa è natura delle parti, che diversi membri uno corpo compongano. Ma queste tutte cose essere una medesima, sono mostrate. Dunque membri non sono; altrimenti parrà la beatitudine esser d' un membro congiunta: che far non si può». - E io: «Questo non è dubbio; ma io aspetto quel che resta». - Ed ella: «Ma al bene tutte l' altre cose riferirsi è palese. Che perciò la sofficienza si domanda, perchè bene esser si giudica; perciò la potenza, chè questa bene esser si crede; quello medesimo della reverenza, della chiaritudine e allegrezza considerare è licito. Adunque la somma e la cagione di tutte le cose desiderabili è bene; imperciò che quello che nè in fatto nè in somiglianza alcun bene non contiene, desiderare in niuno modo si puote; e, in contrario, eziandío quelle cose che per natura buone non sono, purchè esser paiano, quasi com' elle siano veri beni, si desiderano. Onde segue, che la bontade, come somma e radice, si creda essere cagione del desiderio di tutte le cose; e quello, per cui cagione alcuna cosa si domanda, massimamente pare esser desiderato. Come se per cagion di salute alcuno voglia cavalcare, non tanto il modo del cavalcare desidera, come l' effetto della salute. Adunque, con ciò sia che tutte cose per amore di bene si domandino, quelle cose da tutti non si desiderano più che 'l medesimo bene. Ma quello per che tutte l' altre cose si desiderano, esser beatitudine concedemmo: perchè così la beatitudine solo si cerca. Onde chiaramente appare, una medesima sustanzia esser della beatitudine e del bene». - E io: «Niente veggio, perchè alcun possa non consentire». - Ed ella: «Ma Dio e la vera beatitudine una cosa medesima esser mostrammo». - E io: «Così è», dissi. - Ed ella: «Securamente conchiudere è licito, eziandío la sustanzia di Dio essere in quello medesimo bene, e non altrove.
L. 3, 10Venite qua, o tutte genti prese Dalla vaghezza del mondo fallace, Che tien le menti alle vil cose attese. Qui negli affanni vostri avrete pace; Quest' è il porto tranquillo e quïeto; Quest' è refugio a' miseri verace. Non ciò che Tago di molt' oro lieto, Ed Ermo con la ripa rilucente, E 'l propinquo Indo al calido pianeto, Che col suo corso veloce e corrente Mescola insieme con le perle bianche Le verdi gemme, e prender le consente, Donan, potrebbon con tutto 'l mondo anche Chiarir le menti, ma con molta brama Le fan per voglia ingorda ancor più stanche. Chè tutto questo a che 'l voler vi chiama, In bassa terra e vile è nutricato; Deh, che vil cosa posseder v' affama! Ma dove 'l canto mio v' ha invitato, È 'l lume di splendor, col quale è retto, E vive il ciel così glorificato. Costui scaccia ogni nebbia del petto, E spegne ogni rovina tenebrosa, Che d' ignoranza scuri l' intelletto. Chi 'n questa luce splendida si posa Con vera conoscenza, avrà per nulla Quella del sol, ch' è sì maravigliosa; E sol con quest' altezza si trastulla».
L. 3, cap. 11- E io: «Consento, dissi, tutte le dette cose, e tutte sono di fermissime ragioni annodate». - Ed ella allora: «Quanto pregio, disse, stimerai, se tu cognoscerai che cosa quel ben sia?». - E io: «Infinito prezzo, se m' avvenisse insieme cognoscer Dio, il quale è Bene». - Ed ella: «Per certo queste cose verissimamente paleserò con ragione. Stean pur ferme quelle cose che poco innanzi son conchiuse». - E io: «Ferme staranno». - Ed ella: «Non mostrammo noi quelle cose, che da' più si desiderano, perciò veri beni e perfetti non essere, perchè tra sè insieme si discordano? e con ciò sia che a l' un l' altro mancasse, pieno e assoluto bene dar non potere? ma allora farsi Bene, quando come in una forma ed efficienza si ricolgono; sì che quella medesima che è sofficienza, sia potenza, reverenza, chiaritade e allegrezza; ma se una cosa medesima non siano, niente avere per che s' annoverino tra le cose che si desiderano?». - E io: «Dimostrato è, nè dubitar si puote in modo alcuno». - Ed ella: «Quelli dunque non sono Bene, i quali discordano; ma quando cominciano ad essere una cosa, son Bene: or acciò che questi siano Bene, non avviene per acquisto d' unitade?». - E io: «Così pare». - Ed ella: «Ma ogni cosa che è bene, concedi tu esser bene per participazione di bene, o no?». - E io: «Bisogno è che sie». - Ed ella: «Adunque quel medesimo esser unitade e bene per simile ragione concedi; e una medesima sustanzia è di quelle cose, delle quali naturalmente non è l' effetto diverso». E io: «Negare non lo posso». - Ed ella: «Ha' tu cognosciuto dunque ogni cosa così lungamente stare e aver essere, come lungamente sia una; ma morire e dissolversi insieme, quando d' esser una mancherà?». - E io: «In che modo?». - Ed ella: «Sì come negli animali, che quando l' anima e 'l corpo in uno si congiungono e permangono, questo cotale animale è chiamato; ma quando questa unitade, dell' uno e dell' altro per dispartimento, si dissolve, chiaro è che l' animale muore e che più animale non è. Ed eziandío il corpo, quando in una forma per congiunzione di membri permane, pare umana spezie; ma se le parti del corpo distribuite e partite torranno l' unitade, manca d' esser quel ch' era. E in questo modo a chi tutte le cose ricercherà, sarà manifesto, ciascuna cosa avere suo essere quand' ella è una; ma, quando una esser manca, morire». - E io: «A me, più cose considerando, altro non pare». - Ed ella: «Or è dunque alcuna cosa, in quanto naturalmente adoperi, la quale abbandonato il desiderio dell' essere, desideri venire a morte e corruzione?». - E io: «Se io consideri gli animali che hanno alcuna natura di volere e di non volere, nullo ne trovo che non costringendolo di fuori alcune cagioni, gitti la intenzione dell' essere e volontariamente alla morte corra; perciò che ogni animale s' affatica di difender sua salute, e la morte rifiuta. Ma che dell' erbe e degli alberi, che delle cose sanza anima consenta, dubito al postutto». - Ed ella: «Certo, non è perchè di questo possi dubitare, con ciò sia che le erbe e gli alberi veggi in prima nascere ne' luoghi che con lor si convengono, dove in quanto possa la lor natura, tosto morire e seccar non si possono. Imperciò che altre ne' campi e altre nascono nelle montagne, altre portano i paduli, e altre a' sassi s' accostano, dell' altre è fruttuosa la sterile rena, le quali se in altri luoghi alcuno trasportar si sforza, si seccano. La natura dà a ciascune cose quel che si conviene; e quando possano nel loro essere permanere, di non morir s' affaticano. Perchè è che tutte, quasi come sotterra fitta la bocca, traggono gli alimenti per le radici, e per le midolle la forza spandono e la corteccia? Che è che ciascuna cosa che è mollissima, sì come la midolla, dentro sempre come nella sedia si nasconde, ma di fuori con una fermezza di legno, e poi la corteccia incontra la intemperanza del cielo, quasi del male schermo, a difender s' oppone? Ma quanto è già la diligenza della natura, acciò che tutte le cose con semi moltiplicati siano dilatate! i quali semi moltiplicati non solamente a tempo di permanere, ma eziandío di generazione perpetua, esser quasi come uno artificio di perpetua perduranza, chi non sa? Quelle cose eziandío, che si credon sanz' anima, non desiderano ciascune per ragion simigliante quel ch' è suo? Perchè la leggerezza tira le fiamme in su, e 'l peso di sotto la terra depreme, se non che questi luoghi e movimenti si convengono a ciascun singularmente? Ancora, quella cosa ch' è amica a qualunqu' altra, quella conserva; sì come le cose che sono inimiche, corrompono. Chè già s' accostano quelle cose che son dure, sì come le pietre, fermissimamente alle lor parti, e che con agevolezza non siano dispartite contrastano. E quelle che son liquide, come l' aria e l' acqua, agevolmente a chi le parte fanno luogo, ma tosto in que' luoghi onde sono divise, ricorrono. Ma il fuoco schifa d' essere segato. Noi non favelliamo ora de' volontari movimenti dell' anima che cognosce, ma della naturale intenzione trattiamo: sì come è, che le prese esche sanza pensiero smaltiamo, che nel sonno lo spirito meniamo, ciò non sappiendo. Perciò che negli animali eziandío l' amor dell' essere e permanere, da volontà dell' anima non viene, ma da principii di natura. Chè spesse volte, ciò costrignendo cagioni alcune, la volontade abbraccia la morte, la quale la natura con paura schifa; e in contrario, quella cosa per che la diuturnità delle cose mortali perdura - cioè il modo del generare, il quale la natura sempre desidera - la volontà alcuna volta costrigne. che questa caritade e amor a sè medesimo non da movimento d' anima, ma da naturale intenzione procede. Perciò che la provedenza divina diede alle cose create questa grandissima cagione di durare in essere: che, in quanto possono, naturalmente di permanere desiderino. Perchè nulla cosa è, per la quale tu possi dubitare, tutte le cose che sono, desiderare naturalmente costanzia di permanere, e la morte schifare». - E io: «Or confesso, me sanza dubbio dicernere quelle cose, che dinanzi mi pareano incerte». - Ed ella: «Ma quella cosa che d' essere e permanere desidera, desidera d' esser una: chè togliendo via questo, a nulla cosa l' essere permarrà». - E io: «Vero è». - Ed ella: «Dunque tutte le cose esser una desiderano». - E io: «Consentito l' ho». - Ed ella: «Dimostrato abbiamo unitade esser quel medesimo ch' è bene». - E io: «Così è», dissi. - Ed ella: «Dunque tutte le cose desiderano bene; il quale discriver così t' è licito: quello essere bene che da tutti si desidera». - E io: «Niuna cosa più vera si può pensare; perciò che tutte le cose o a niente si riferiscono e, come disordinate d' un capo, sanza rettore discorreranno; o vero, se alcuna cosa è, alla quale tutte l' altre universalmente traggono, questa sarà ben sommo di tutt' i beni». - Ed ella: «O mio nodrito, troppo mi rallegro: tu hai con la mente ferito in mezzo della veritade; ma in questo t' è manifestato quel che poco dinanzi non cognoscer dicevi». - E io: «Che?». - Ed ella: «Qual fosse il fine di tutte le cose. Questo è desso per certo quel che da tutti si desidera; il quale, perciò che questo esser bene abbiamo diffinito, bisogno è che noi confessiamo esser bene il fine di tutte le cose.
L. 3, 11Chi vuol profondamente il ver cercare E sanza inganno trovarlo, rivolga La luce in sè col dritto imaginare. E' lunghi movimenti in sè ricolga, Quasi in figura di cerchio tornando Sopra ciascuno, e loro nodi sciolga; L' animo dentro suo ammaestrando Di posseder per suoi veri tesori Ciò che di fuor cognosce investigando. E quel che prima copria con errori L' oscura nebbia di falsa ignoranza, Gli lucerà come 'l sol fa di fuori. Chè 'l corpo grave di dimenticanza Non spegne della mente il lume al tutto, Chè l' abito riman ferma speranza, Però che seme di verace frutto Dentro nel cuore rinchiuso s' accosta, Il qual si sveglia per dottrina instrutto. Che perchè da te vuoi certa risposta Spontaneamente alle domande, Dove ragion con ordine è supposta? Se non perchè nel cuor con vigor grande Vive radice di vero perfetto, Che dottrinata la sua virtù pande. Che se Plato non parla con difetto Nella sua Musa, ciascun impacciato Nella memoria d' alcun suo effetto, Se poi lo 'mpara, è ricordar chiamato».
L. 3, cap. 12Allora i' dissi: «A Plato largamente consento, perciò che queste cose già la seconda volta mi commemori: in prima, perciò che per la gravezza corporea, poi quando per la gravezza della tristizia soppressato la memoria perdei». - Ed ella allora: «Se le prime cose concedute ragguardi, nè quel di lungi sarà dalla tua ricordanza, che tu già non saper confessasti». - E io: «Che?». - Ed ella: «Con che reggimenti il mondo si governi». - E io: «Ben mi ricordo aver confessata la mia ignoranza: ma quel che tu adduchi, avvegna che già io lo veggia, nondimeno da te più chiaramente udir lo desidero». - Ed ella: «Questo mondo esser retto da Dio, poco dinanzi da dubitar non riputavi, e ciò ancora non arbitro che riputi». - E io: «Nè da dubitare esser già mai riputerò; e a ciò con che ragioni io sia menato, sporrò brievemente. Per certo, questo mondo di tanti contrari e parti diverse non sarebbe in uno convenuto, se non fosse uno che le cose congiugnesse così diverse; ma le congiunte, la diversità delle nature discordevole scompagnerebbe e divellerebbe, se non fosse uno il quale, quel ch' egli ha tessuto, insieme contenesse. così certo ordine di natura procederebbe, nè i movimenti così disposti con luoghi, con tempi, con effetto, con spazii e con qualitadi spiegherebbe, se non fosse uno che queste varietadi di mutazioni, egli stabile, disponesse. Questo, qualunque è, per lo quale le cose fatte permangono e son mosse, col vocabulo usato da tutti nomino Dio». - Ed ella allora: «Con ciò sia che tu così senti, piccola opera riputo restarmi, acciò che composto di felicitade sano e salvo la patria riveggi. Ma quelle cose che noi proponemmo ragguardiamo. Non annoverammo noi nella beatitudine la sofficienza, e consentimmo quella medesima beatitudine essere Dio?». - E io: «Sì per certo». - Ed ella: «Adunque a governare il mondo di niuno aiuto di fuori abbisognarà: altrimenti, se d' alcuno abbisogni, piena sofficienza non avrà». - E io: «Così è di necessitade». - Ed ella: «Dunque per sè solo tutte le cose dispone». - E io: «Per certo, negar non si puote». - Ed ella: «E Dio esser bene sommo è dimostrato». - E io: «Ben me ne ricordo». - Ed ella: «Adunque per bene tutte le cose dispone, se per sè regge ogni cosa colui che esser bene abbiamo consentito; e questi è sì come un governo, per lo quale la mondana artificiositade stabile e incorrutta si serva». - E io: «Largamente lo consento; e questo poco innanzi te dover dire, avvegna che con sottile sospezione, cognobbi». Ed ella disse: «Ben lo credo, perciò che già, sì com' io arbitro, più apertamente vegghiando a dicernere le vere cose gli occhi rivolgi; ma quello ch' io dirò, non è allo sguardo men palese». - E io: «Che?». - Ed ella: «Con ciò sia che Dio tutte le cose con reggimento di bontade governare per ragion sia creduto, e quelle tutte medesime cose, sì come io ho mostrato, per naturale intenzione corrano al bene; or puossi dubitare ch' elle non sieno volontariamente rette, e al volere del disponente sì come convegnendosi - e contemperate - al rettore spontaneamente si convertano?». - E io: «Così è di necessità; perciò che non esser beato il reggimento parrebbe, se fosse il giogo di recusanti, non salute degli ubbidienti». - Ed ella: «Nulla è dunque, che servando la natura, contradire a Dio si sforzi». - E io: «Nulla». - Ed ella: «Or se si sforzi, gioveragli alla fine alcuna cosa contra colui, il quale per ragione di beatitudine esser potentissimo abbiamo conceduto?». - E io: «Al postutto niente gli gioverebbe». - Ed ella: «Non è dunque alcuna cosa che a questo ben sommo voglia o ver possa contrastare?». - E io: «Non arbitro». - Ed ella: «È dunque sommo bene quel che regge tutte le cose fortemente e soavemente le dispone». - E io allora: «Oh quanto, - non solamente quelle cose che ora conchiuse sono, somma delle ragioni, ma eziandío molto maggiormente queste parole, le quali tu usi, - mi dilettano, intanto che alla fine alla mia stoltizia, lacerante le gran cose, pesa di sè alcuna volta». - Ed ella: «Ha' tu compreso nelle poetiche favole, i giganti il cielo laceranti, e come la benigna fortezza, sì come fu degno, gli dispose? Ma vuo' tu che noi percotiamo insieme per congiunzione queste ragioni? forse per questo cotale ripercuotere alcuna favilla di veritade distillerà». - E io: «Al tuo piacere». - Ed ella: «Dio essere onnipotente niuno ha dubitato». - Ed io: «Al postutto nullo, che sia di mente sana, lo dubiti». - Ed ella: «Ma colui che tutte le cose puote, nulla cosa è che non possa». - E io: «Nulla». - Ed ella: «Or puote Dio far male?». - E io: «Mainò». - Ed ella: «Dunque il male è niente, con ciò sia che colui non lo possa fare, che niente non puote». - E io: «Deh, or scherniscimi tu, tessendo con ragione non spieghevole laberinto, nel quale ora onde tu eschi entri, e ora onde se' intrata eschi? Or pieghi tu cerchio maraviglioso di divina simplicitade? Perciò che poco innanzi alla beatitudine cominciando, quella dicevi esser ben sommo, la qual esser nel sommo Dio ragionavi; e quello medesimo Dio esser sommo bene e piena beatitudine dimostravi, onde niuno esser beato, se parimente non fosse Dio, conchiudevi. Poi quella forma di bene, di Dio e di beatitudine dicevi esser sustanzia; e quello esser uno, e quel medesimo bene ammaestravi che da ogni natura di cose si domandasse; e Dio con reggimenti di bontade l' università reggere disputavi; tutte le cose volere a lui ubbidire, e nulla natura esser di male. Per certo queste cose, niente di fuor pigliando, ma l' una dell' altra traendo fede, con dentro situate e dimestiche e proprie pruove spiegavi». - Ed ella: «Allora per certo noi non beffiamo; e cosa grande sopra tutte col don di Dio, la qual per adietro pregavamo, abbiamo compiuta: imperciò che questa cotale è la forma della divina sustanzia, che nè nelle cose di fuor discorra, nè in sè, di fuori, alcuna cosa riceva; ma, sì come di lei Parimenide disse: 'la mobile ritondità di tutte le cose rotea, quand' ella immobile e costante conserva'. Onde, se le ragioni - non di fuor domandate, ma nella larghezza della cosa che noi trattavamo, collocate - componemmo, nulla è perchè ti maravigli, con ciò sia che - ciò Plato confermandolo - imparassi le parole convenire esser prossime alle cose, di che elle favellano.
L. 3, 12Felice que' che la chiara fontana Del sommo ben dicerner ha potuto, Dimenticando ogni cura umana. Felice que' che tanto è proveduto, Che spezza 'l vinco dell' amor terreno, D' ogni gravezza mondana soluto. Orfeo, poeta di Tracia sereno, La morta moglie con tenero pianto Piangendo di dolor coral ripieno. Poi che col verso del soave canto Avea le selve con corso veloce Tirate a sè, che son ferme cotanto, I fiumi avea con la dolce sua voce Fatti star fermi, ed accompagnato Il cervio umíle col leon feroce; La lievre non temeva il cane, usato Di divorarla, perchè la dolcezza Del suon l' avea con lei pacificato. Ma pur amore con la sua asprezza La mente gl' infiammava della moglie, Che 'l tormentava con somma durezza. Ne' versi suoi, che avean mosso le foglie E gli alberi e le bestie sanza mente A consentir a tutte le sue voglie; Potuto aveva addolcir di niente Il sommo Iove ad aver pietade Di lui, che per la sposa era dolente. Veggendo negli Dii tal crudeltade, All' Inferno discese con lamento, Qual di ragione a tal materia cade. Tutto ricolto nella mente attento, Temperando le corde a suon aguto Dello strumento, e a canto lento, Il dolce latte, ch' egli avea bevuto Del vivo fonte lucido materno, Mettendo nel soave suo leuto. E la pietade del suo pianto interno, E l' amorosa fiamma del suo petto Mostrava all' ombre nere dell' inferno; E le pregava con tenero affetto, Che gli rendesson la coniuge amata, Con la figura d' angelico aspetto. Il portinar delle tre teste guata Maraviglioso; è per lo canto vinto, E era in lui ciascun' ira quetata. Aletto e Tesifon col viso tinto, E Megera con lor, che son usate Di tormentar cui peccato ha dipinto, Son per pietà di lagrime bagnate, E le veloci volte della ruota Di girar Ission si son restate. Tantalo, secco con l' asciutta gota, Non si ricorda più della sua fame, Ed è di sete sua vaghezza vôta. E l' avvoltoio empie le sue brame Del dolce suono, nè a Tizio morde Le interiore del suo corpo grame. Vinte son l' ombre di tal suono ingorde; E Radamanto con la faccia fiera Dice alla schiera delle facce lorde: Rendiam la moglie a sì dolce preghiera, Con questo patto e con tal condizione, Ch' uscendo fuor della nostra riviera Non si rivolga in alcuna cagione Indietro; e se rompe cotal patto, Perda la sposa per ferma ragione. Chi darà legge all' amorevol atto? Certo nessun; chè la forza d' amore Più ch' altro vinco tien ogni uom coatto. Orfeo ne' fin dello scuro furore, A rivedere Euridice volse La faccia, vinto del focoso ardore. Ma la rabbia infernal allor gliel tolse; E lei veduta perdè ed uccise, Perchè 'l fuoco nel sen suo la ricolse. Oh genti umane, con le menti fise Alle terrene vanità e diletti, La favola predetta in molte guise Vi tocca, qualunqu' ora i ben perfetti Cercate con la mente, e poi a' vani Vi rivolgete da viltà costretti: Come costui, ch' agl' inferni profani, Vinto da vago amor, rivolse 'l volto, E ciò ch' avea con gl' intelletti sani Acquistato di prima, gli fu tolto».
L. 4, cap. 1Queste cose con ciò sia che la Filosofia, conservato la dignità del volto e la gravezza della bocca, dolcemente e soavemente avesse cantato; allora io, della tristizia d' entro non dimentico, la sua intenzione ancora di dire alcuna cosa apparecchiando, ruppi. E: «O guida del vero lume, diss' io, quelle cose che 'l tuo ragionamento spande, sì per la lor divina speculazione, sì per le tue ragioni non vinte, manifeste mi sono. E avvegna che per dolor della ingiuria io l' avessi dimenticate, per amor di ciò tu dicesti non al postutto queste dinanzi esser da me ignorate. Ma questa è la grandissima cagione della nostra tristizia (con ciò sia che Dio sia buon rettore delle cose) che o vero esser possano le cose rie, o ver non punite trapassino. Della qual sola cosa quanto sia da maravigliare, tu per certo lo considera. Ma a questa si aggiugne altra maggior maraviglia; perciò che imperando e fiorendo la malvagitade, la virtù non solamente manca di guiderdoni, ma eziandio, suggetta, da' piedi degli scelerati è calcata, e in luogo di felloníe tormenti sostiene. Le quali cose farsi nel reame di colui che tutto sa e tutto puote, e che solamente vuole il bene, cioè Dio, niuno troppo se ne puote maravigliare e lamentare». - Ed ella allora: «E sarebbe di maraviglia infinita, e orribile più che tutte le cose contra natura, se, sì come tu stimi, come nell' ordinatissima casa di tanto padre di famiglia i vili vaselli fossono onorati e i preziosi insozzati. Ma non è così, perciò che se quelle cose che poco dinanzi son conchiuse non commosse si conservano; di ciò Dio, del cui reame agual favelliamo, autore essendo, cognoscerai per certo, sempre i buoni esser possenti, e i rei vili e non forzosi, e sanza pena mai non essere i vizi, nè sanza guiderdone le virtudi: a' buoni le cose felici, e sempre a' rei l' avverse avvenire, e molte cose simiglianti, le quali ti confermino con solida fermezza racquetate le lamentanze. E perciò che veramente la forma della beatitudine, me mostrandola per addietro, hai veduto, e dove sia posta hai conosciuto; pertrattate tutte le cose le quali di necessità riputo da trapassare, la via che a casa ti rimeni ti mostrerrò; ed eziandío penne alla tua mente, con le quali si possa in alto levare, ficcherò, acciò che, scacciata la turbazione, sano nella tua propria patria con la mia guida, per la mia via, ed eziandío ne' miei carri ritorni.
L. 4, 1I' ho penne d' uccel leggieri e snelle, Che chi le veste con l' ordine retto, Lo portan sopra tutte l' alte stelle. La terra lascia nel suo basso letto, Passa per l' aria, e lascia dopo 'l dosso Ciascuna nebbia scura di difetto. Penetra 'l ciel, che scalda il foco rosso, Fin ch' alle case de' vaghi pianeti Giunga da' loro raggi ripercosso; Ed accompagni i suo' viaggi lieti Col chiaro sol, o ver col vecchio tardo Freddo Saturno co' passi quïeti; Cavalier fatto valente e gagliardo, Dello splendido lume vada ardito, Col contemplare del suo chiaro sguardo, Del Zodiaco cercando ciascun sito, E dovunque la notte rilucente Il ciel dipigne; e po' in sè reddito, Volga le spalle, e più su riverente, Alzate l' ali, monti a contemplare D' ogni virtù composto nella mente. Qui troverrà il re de' re regnare, Che tempera le redine universe, E fermo fa ogni cosa girare. O mente involta in vanità diverse! S' a questo sommo ben la via ti mena, Onde oblianza prima ti riverse: 'Quest' è la mia patria serena: Qui mi raccordo che 'l mio nascimento In prima fu che in pregion terrena: Qui vo' fermarmi, qui di star consento'. Con la voce dirai; e la ragione Ciò d' esser vero ti farà contento. E se guardar per alcuna stagione L' abbandonata notte ti diletta, Stando fermo nel tuo vero arcione, Tu cernerai che tal signor dispetta I malvagi tiranni riveriti Dal miser popol ch' a lor solo aspetta, E di tal patria gli vedrai sbanditi».
L. 4, cap. 2Allora io: «Oh, che gran cose prometti! nè dubito che tu far non le possi: or non tardar quel che tu hai svegliato». - Ed ella: «E' sarà dunque licito che tu prima cognoschi esser a' buoni sempre potenza, e' rei di ciascune forze esser diserti; le qua' cose l' una dell' altra e l' altra dell' una si dimostra. Chè, con ciò sia che 'l bene e 'l male siano contrari, se 'l bene sarà confermato esser potente, è chiara la debolezza del male; e se la fragilità del male chiarisca, la fermezza del bene è palese. Ma acciò che la fede della nostra sentenza sia più larga, per l' uno e per l' altro sentiere procederò, or quinci or quindi le cose proposte confermando. Due cose sono, delle quali ciascun effetto degli atti umani è constante: la volontà, cioè, e la potenza; delle quali se l' una manca, niuna cosa è che si possa compiere. Perciò che mancando la volontade, vien ciascuno a quel che non vuole; e se manca la potenza, la volontà è indarno. Onde segue che, se tu veggi alcun volere acquistare quello che non acquisti, a costui la potenza di quel che vuole acquistare, esser mancata dubitar non puoi». - E io: «Chiaro è, e in nullo modo si può negare». - Ed ella: «Ma colui che aver compiuto quel ch' abbia voluto veggi, dubitera' tu eziandío aver potuto?». - E io: «Mainò». - Ed ella: «Ma in quello che ciascun puote, potente, e in quel che non puote, debole esser dee iudicato». - E io: «Ben lo confesso». - Ed ella: «Ricorditi tu, dunque, con le ragioni di sopra esser conchiuso ogni intenzione della volontade umana, la quale si mena con studii diversi, a beatitudine correre?». - E io: «Ricordomene». - Ed ella: «Or ricorditi tu esser mostrato, la beatitudine esser ben sommo, e in quel modo che la beatitudine si domanda, da tutti il bene esser desiderato?». - E io: «Mainò, me ne ricordo; perciò ch' io 'l tengo nella memoria fitto». - Ed ella: «Dunque tutti gli uomini igualmente buoni e rei, con intenzion non divisa si sforzano di pervenire a bene». - E io: «Così segue». - Ed ella: «Ma certo è per acquisto di bene gli uomini farsi buoni». - E io: «Certo è». - Ed ella: «Acquistan dunque i buoni quel che desiderano?». - E io: «Così pare». - Ed ella: «Ma i rei, se acquistano quel bene che desiderano, esser rei non potrebbono?». - E io: «Così è». - Ed ella: «Dunque, con ciò sia che l' uno e l' altro domandi bene, ma questi l' acquistino e coloro no, non è dubbio per certo i buoni esser potenti, e deboli que' che son rei». - E io: «Chi lo dubita, nè la natura delle cose, nè la conseguenza delle ragioni può considerare». - Ed ella: «Ancora, se siano due, a cui una medesima cosa sia proposta secondo natura, e l' uno di loro quella medesima con naturale officio meni e compia, ma l' altro quel naturale officio amministrar non possa, e per altro modo che alla natura non si conviene, non che 'l suo proponimento adempia, ma seguiti que' che l' empie; qual iudichi di costoro esser più potente?». - E io: «Avvegna che io stimi quel che sia ciò che vuoli, nondimeno più pienamente udirlo desidero». - Ed ella: «Il movimento d' andare, essere agli uomini secondo natura non negherai». - E io: «Mainò». - Ed ella: «E di questa cosa i piedi esser officio naturale non dubiterai». - E io: «Nè questo». - Ed ella: «Se dunque alcuno possendo andar co' piedi, vada, e l' altro a cui questo naturale officio de' piedi manchi, con le mani ingegnandosi si sforzi d' andare; qual di costoro per ragione più potente si puote stimare?». - E io: «Tessi l' altre cose». - Ed ella: «Chi è potente d' officio naturale, che non sia più potente che colui che ciò non possa, niuno dubita. Ma il sommo bene, che igualmente a' buoni e a' rei è proposto, i buoni per certo con officio naturale di virtù lo domandano; ma i rei, perchè d' acquistare il bene naturale officio non hanno, con varia cupidigia quel medesimo si sforzano d' acquistare. Or stimi tu altrimenti?». - E io: «Non, per certo; perciò eziandío quel che segue da queste cose ch' i' ho concedute, è manifesto: i buoni esser potenti per certo, ma i rei di necessità esser sanza forza». - Ed ella: «Dirittamente procedi; ed è questo, sì come sogliono i medici sperare, indizio di dirizzata natura e alla infermità contrastante. Ma perciò che ad intendere esser prontissimo ti dicerno, le ragioni spesse con l' altre ragunerò. Vedi quanta infermità si palesa degli uomini viziosi, i quali nè a quel possono pervenire a che naturalmente, o ver poco meno la intenzione gli costrigne. E che sarebbe se da questo così grande e quasi non vinto aiuto della natura fossono abbandonati? Ma considera quanta impotenza gli uomini scelerati contegna; imperciò che nè guiderdoni leggieri o di scherne domandano (i quali conseguire e acquistar non possono); anzi mancano intorno al capo e alla somma delle cose; nè in ciò mai si segue l' effetto a' miseri, al qual dì e notte solamente di giugnere si sforzano: nella qual cosa la forza de' buoni soprasta. Perciò che, sì come colui che andando co' piedi, infino a quel luogo potrebbe esser venuto dove più oltre niente andar si potrebbe, esser potentissimo d' andar iudicheresti; così colui, il quale acquista 'l fine delle cose che si desiderano, dove alcuna cosa più oltre non è, di necessitade è che tu potentissimo iudichi: onde segue quello ch' a questo s' accosta, che que' medesimi scelerati di tutte le forze esser paiano diserti. Che perchè, abbandonata la virtù, seguitano i vizi? per ignoranza forse de' beni? Ma che è più debol cosa che la cechitade dell' ignoranza? O ver cognoscono i beni che son da seguire, ma traversi la libidine gli strabocca? E così la intemperanza gli fa fragili, che contrastare al vizio non possono. O vero scienti e volontari abbandonano il bene, e a' vizi si piegano? Ma in questo modo al postutto non solamente mancano d' esser possenti, ma dell' essere lor proprio mancano. Imperciò che quelli che il fine comune di tutte le cose che sono abbandonano, igualmente mancano d' essere. La qual cosa forse ad alcun parrà maraviglia, chè noi diciamo non essere i rei, che sono la più parte degli uomini. Ma la cosa è pur così; imperciò che quelli che sono rei, esser rei non disdico, ma loro essere puramente e semplicemente niego. Chè come il corpo dell' uomo morto, uomo morto dirai, ma semplicemente uomo non lo potrai appellare, così i viziosi rei esser concederò, ma esser assolutamente non potrò confessare. Perciò che egli è alcuna cosa che l' ordine mantiene, e la natura conserva; e quello che da questo esser manca, eziandío quello che in sua natura è posto abbandona. Ma tu dirai: 'pur i rei possono'; nè io per certo lo negherò; ma questa lor potenza non da fortezza, ma da debolezza discende. Perciò che possono il male, il quale non potrebbono se nella efficienza de' buoni potessono essere stati. La qual potenza, lor niente potere più apertamente dimostra; perciò che, sì come poco dinanzi esser conchiudemmo, il male è niente; con ciò sia che solamente il mal possano, niente potere i malvagi è palese». - E io: «Questo è chiaro». - Ed ella: «Acciò che tu intenda chente sia la forza di questa potenza, così prendi: Niente essere più potente che 'l sommo Dio poco innanzi diffinimmo». - E io: «Così è». - Ed ella: «Ma Egli fare il male non puote». - E io: «Mainò». - Ed ella: «È dunque alcuno il quale riputi gli uomini poter tutte le cose?». - E io: «Niuno, se non chi impazzisca». - Ed ella: «Ma que' medesimi possono il male». - E io: «Dio 'l volesse, che non lo potessono!». - Ed ella: «Adunque, con ciò sia che colui, che puote solamente il bene, possa tutte le cose, ma non possano tutte le cose que' che possono il male; que' medesimi che possono il male, poter meno è manifesto. A questo s' aggiugne quel che mostrammo: la onnipotenza - la quale è da essere annoverata tra le cose che si desiderano - riferirsi a bene, sì come a una sommitade di sua natura. Ma la possibilità di fare le scelleratezze non si può referire a bene: dunque non è da desiderare. Ma la onnipotenza è da desiderare: adunque è chiaro la possibilità de' rei non essere potenza. Per le qua' cose la potenza esser de' buoni, ma quella de' rei esser debolezza sanza dubbio appare. E quella sentenza di Plato esser vera è manifesto: - solamente i savi potere fare quello che desiderano; ma gl' improbi e rei esercitare quel ch' a libidine piaccia, ma quel che desiderano compier non potere. - Fanno i rei quelle cose tutte che a libidine piace, quando pensano d' acquistare - per quelle cose di che si dilettano - quel medesimo bene che desiderano; ma non lo acquistano, perciò che a beatitudine i vizi non vegnono.
L. 4, 2S' alcun, composto di pesi discreti, Ficcherà gli occhi sotto i falsi 'nganni: Grami talor, che nulla faccia lieti, Velano il volto de' crudi tiranni, I qua' tu vedi in alti seggi alzati Seder ornati di porporin panni, D' armate schiere intorno circondati, Con affocato volto minacciando, Nel cuor feroci, e di furia infiammati; A cotal vista lo sguardo fermando, Cernerà dentro la stretta catena De' vizi, che gli vanno straboccando. Chè di qua la libidine gli mena Con desiderii velenosi, e mai Non è la voglia lor bramosa piena. L' ira di qua gli percuote con guai, Di tristizia e speranza bugiarda Gli sbrana con flagelli e noia assai. Quando tu vedi al capo, a cui riguarda Il popol molto, tante passioni, E a cacciarle la sua forza è tarda, Conoscer puoi con intere ragioni, Che quel cotal non ha potenz' alcuna, Ch' è cavalcato con aguti sproni Da vizi molti e vanità ciascuna.
L. 4, cap. 3Or vedi dunque in quanto fango i vizi si rivolgano, e con che luce la probità risplenda? Nella qual cosa è chiaro mai a' buoni, guiderdoni, e agli scelerati tormenti non mancare. Per ciò che di tutte le cose che si fanno, quello per che ciascuna si fa, essere il merito di quella cosa con ragion vera si può vedere; sì come a chi corre il palio, il dono, per che si corre, è apparecchiato. Ma la beatitudine abbiamo mostrato esser bene, sì come guiderdone comune proposto: e questo da' buoni partir non si può. Per ciò che nè buono, più oltre per ragion sarà chiamato colui che manchi di bene: perchè i lor guiderdoni non abbandonano i buoni costumi. Quantunque dunque i rei incrudeliscano, al savio la corona non mancherà nè sarà tolta, nè l' altrui retade ha tolta la propria bellezza agli animi probi. A' quali, se si rallegrassono di ben preso di fuori, poteva quello tôrre, o ver altri qualunque, o ver eziandío colui che l' avesse conceduto. Ma per ciò che questo dona la sua probità a ciascuno, allora del suo premio mancherà, quando mancherà d' esser probo. Dopo questo, con ciò sia che ogni merito per ciò si desideri perchè bene esser si crede, chi iudica non participar guiderdone il composto di bene? Ma che guiderdone? sopra tutti bellissimo e grandissimo. Imperciò, ricorditi di quel corollario il qual poco dinanzi spezial ti diedi, e così ricogli: - Con ciò sia che il ben medesimo sia beatitudine, tutti i buoni, per ciò che son buoni, esser fatti beati è manifesto. Ma que' che son beati, conviene essere dii. È dunque il guiderdone de' buoni esser fatti dii: la qual cosa niuno dì consumi, potenza d' alcuno non scemi,oscura faccia la malizia d' alcuno. Le qua' cose con ciò sia che così siano, della inseparabile pena de' rei il savio non potrà dubitare. Imperciò che - con ciò sia che 'l bene e 'l male e anche il guiderdone e la pena con fronte avversa contrasteano - quello medesimo che in merito del bene veggiamo avvenire, di necessitade è che con contraria parte, in pena del male risponda. Sì come adunque la medesima probità a' probi è guiderdone, così a' rei la malvagitade medesima è tormento. Ma chiunqu' è tormentato di pena, sè esser passionato di male non dubiti. Se egli adunque vogliano se medesimi stimare, possonsi egli vedere non partecipi di tormento, i quali la strema malvagitade non solamente tormenta, ma eziandío grandemente insozza e tigne? - Ma vedi che pena i rei accompagni della contraria parte de' beni. Imperciò che, poco dinanzi, imparasti che ogni cosa che sia una essenzia quella medesima unitade esser bene. A che si segue che ogni cosa che sia, quella medesima eziandío paia esser bene. Adunque in questo modo ciò che manca dal bene, manca d' essere: onde segue che i rei manchino d' essere quel ch' erano; ma loro essere stati uomini, la spezia che rimane ancora del corpo umano con vergogna gli dimostra: per che convertiti in malizia, hanno perduta la natura umana. Ma - con ciò sia che in più alto grado che gli uomini siano, può tirare alcuno sola la probitade - di necessitade è che quelli, cui la retade gitti dalla condizione umana, in più basso grado che 'l merito degli uomini gli rinchiuda. Avviene adunque, che colui che tu vedi trasformato da' vizi, stimar non possi uomo. Perciò che, se si riscalda d' avarizia il violento rubator dell' altrui ricchezze, dirai lui esser simile del lupo. Il feroce e non quieto la lingua esercita a questioni e a lite? farai di lui comparazione a cane. Lo insidiatore occulto rapito aver con fraude si rallegra? alle volpi l' agguaglia. Lo stemperato d' ira fremisce? animo di leone aver si creda. Il pauroso e fuggitivo le cose non paurose teme? al cervio simile sia avuto. Il vile e maraviglioso impigrisce? asino vive. Il lieve e non costante gli studii permuta? niente dagli uccelli è differente. In sozze e immonde libidini s' attuffa bruttamente? di carnalità di porco è ditenuto. E così segue, che colui che diserta la probità, manca d' essere uomo; con ciò sia che passar non possa in condizione divina, sia in bestia convertito.
L. 4, 3L' alzate vele d' Ulisse, gonfiate Dalla potenza d' Euro, arrivaro, Con genti di valor con lor portate, Nell' isola dove facea riparo La bella Dea figliuola del Sole, Col vago aspetto e col viso chiaro; L' adorna Circe con dolci parole La giovanaglia, allor d' etade acerba, Riceve, donde Ulisse ancor si dole; E beveraggi mescolati d' erba, E incantati da sua sapienza Con esorcismi di magiche verba, Soavi al gusto e chiari in apparenza, Dona da bere all' oste ricevuta, Non avvisata della sua fallenza. E l' uno 'n porco fastidioso muta, Dell' altro fece un lione affricano Con denti grandi e con l' unghia aguta; Quell' altro in lupo cambia il corpo umano, E quando pianger vuol la sua sciagura, Con la lupina voce urla invano; Quell' altro in tigro d' India si figura, E tristo tace sua ferocitade, Con la ragion dell' umana natura. Ma benchè 'l duca lor la deitade Dell' alato Mercurio col fior bianco, Che gli donò con somma pietade, Da tanto male conservasse franco; Pur la sua gente di novero grande Bevuto avea il beveraggio manco. I porci già pasciuto avean le ghiande; E così gli altri, come concedeva La sua natura, pigliavan vivande. In corpo e voce nullo rimaneva D' umana vista lor, ma pur la mente Con diritta ragione il ver cerneva. Piangendo dentro dolorosamente La spezia lor in mostri tramutata, Ma la lor doglia montava niente. O Circe, la tua man così 'ncantata È troppo lieve, che le membra umane Solo di mutare è potenziata! Chè 'l vigor di ragion dentro rimane Nella rôcca rinchiuso, nè il veleno Le loro intelligenze fece strane. Ma chi de' sopraddetti vizi è pieno, Bevuto ha tosco che più troppo noce, Ch' alla ragion ciascuna rompe 'l freno, E veston mente di bestia feroce».
L. 4, cap. 4E io allora così dissi: «Come ragioni, così esser confesso, nè veggio con ingiuria esser detto i viziosi, avvegna che con la spezia del corpo umano, nondimeno in bestie - nella qualità degli animi - esser mutati. Ma a coloro, la mente de' quali crudele e scellerata con morte de' buoni incrudelisce, questo esser licito non vorrei». - Ed ella: «Nè lece, sì come in luogo convenevole si mostrerrà: ma per amore di ciò, se questo - che esser lor licito si crede - sia lor tolto, la pena degli uomini scellerati in gran parte s' alleggia. Imperciò che (la qual cosa incredibile ad alcun parrà) di necessitade è i rei esser più infelici quando le cose rie da lor desiderate hanno compiute, che se quelle cose che desiderano non possano compiere. Perchè se misera cosa è aver voluto il male, averlo potuto è più misera; sanza 'l qual podere, l' effetto della misera volontà mancherebbe. Adunque, con ciò sia che la sua miseria a ciascun reo sia singularmente, di necessitade è che i rei siano molestati da triplice avversitade, a' quali tu vedi volere, potere e compiere la fellonía». - E io: «Ben t' intendo; ma che di tal trina avversitade tosto manchino diserti della possibilità di mal fare, grandemente desidero». - Ed ella: «E' mancheranno, disse, più tosto che non vorranno o vero che tu voler debbi, o ver ch' egli medesimi stimino che lor manchi. Imperciò che non è alcun tempo in così brievi estremitadi di vita sì tardo, che ad aspettare spezialmente l' animo immortale lungo riputi. La grande speranza de' quali uomini rei e l' eccelso ingegno di felloníe subitamente spesse volte e con fine non sperato si distrugge; la qual cosa loro statuisce termine alla miseria. Imperciò che, se la malvagitade fa gli uomini miseri, esser più misero il più lungamente malvagio è di necessitade: i quali miserissimi iudicherei, se la lor malizia almeno la morte strema non finisse. Perchè se dell' avversitade della retade vere cose abbiamo conchiuso, chiaro è la miseria esser infinita la quale è etterna». - Ed io allora: «Maravigliosa per certo, e a conceder malagevole è questa conclusione: ma a quelle cose che prima son concedute, troppo convenirsi cognosco». - Ed ella: «Dirittamente stimi; ma colui che riputa essere dura cosa venire alla conclusione, ragionevole cosa è che dimostri, o vero alcuna cosa esser falsa dinanzi andata, o ver la conferenza delle proposizioni non essere alla conclusione efficace: altrimenti, concedute le cose dinanzi andate, niente è al postutto che della conclusione si lamenti. Imperciò questo ch' io dirò, eziandío non men maraviglia parrà; ma per le sopra provate cose igualmente è necessario». - E io: «Che?». - Ed ella: «Esser gl' improbi più felici sostenendo tormenti, che se nulla pena di giustizia gli costringa. Nè intendo ciò provare per quella pruova che nella mente viene ad alcuno, cioè i rei costumi esser corretti con vendetta, e al diritto con paura di tormento esser menati, ed eziandío agli altri esser esemplo di fuggir le cose di colpa maculate; ma per altro modo alcuno gl' improbi esser più infelici arbitro non puniti, avvegna che nulla ragione di correzione, nulla paura e nullo rispetto d' esemplo avuto sia». - E io: «Or qual altro modo sarà fuor di questi?». - Ed ella: «Non abbiamo noi conceduto i buoni esser felici, e miseri essere i rei?». - E io: «Così è». - Ed ella: «Se adunque alla miseria d' alcuno alcun bene s' aggiunga, non è colui più felice che colui la cui miseria è solitaria sanza alcuna mescolanza di bene?». - E io: «Così pare». - Ed ella: «Se a quel misero, che d' ogni bene manchi, - oltre quelle cose per le quali egli è misero, altro mal sarà aggiunto - , non è costui molto più infelice da iudicare, che colui la cui miseria per participazione di bene è alleggiata?». - E io: «Perchè no?». - Ed ella: «Adunque gl' improbi, quando sono puniti, hanno per certo alcuna cosa di bene aggiunto, cioè quella pena, la quale è buona per ragion della iustizia: e a que' medesimi, quando mancano di tormento, è più oltre alcuna cosa di male, cioè quel non esser puniti; la qual cosa per merito d' iniquitade hai confessata esser ria». - E io: «Negar non lo posso». - Ed ella: «Adunque molto più infelici sono gl' improbi liberati col non iusto non punire, che i puniti con iusta vendetta. Ma essere i malvagi puniti, esser cosa iusta, e non puniti scampare, iniqua, è manifesto». - E io: «Questo chi negherà?». - Ed ella: «Ma nè questo per certo alcuno negherà: ogni cosa esser buona, la quale è iusta; e, in contrario, quella ch' è iniusta esser rea è manifesto». - E io allor risposi: «Queste cose per certo son consequenti a quelle che poco dinanzi son conchiuse; ma io ti priego dirmi: non lasci tu dopo 'l corpo morto all' anima tormento alcuno?». - Ed ella: «Grandissimi, de' quali altri con penale acerbezza, ed altri con purgatoria clemenza riputo esser esercitati. Ma or di questi disputar non s' intende. Questo da quinci indietro abbiam compiuto: cioè, che quella potenza de' rei, la quale indegnissima ti pareva, esser nulla cognoscessi; e quelli, de' quali non esser puniti ti lamentavi, vedessi mai non mancare di tormenti della loro retade; e l' esser licito il male, il qual tosto finirsi pregavi, non durar lungamente imparassi; ed esser più infelice, se fosse più lungo; ma infelicissimo, se eterno. Dopo queste cose, esser gl' improbi più miseri con iniusto non punir liberati, che con iusta vendetta puniti. Alla qual sentenza si segue, che allora siano di più gravi tormenti costretti, quando non puniti son creduti». - E io allora: «Quand' io considero le tue ragioni, nulla riputo esser detto più vero. Ma s' io ritorno a' iudicii degli uomini, chi è colui a cui queste cose non che pur non paiano da non esser credute, ma solamente paiano da esser ascoltate?». - Ed ella: «Così è; imperciò che non possono gli uomini volgari gli occhi alle tenebre usati levare alla luce di vera chiarezza, e sono simili agli uccelli, il cui sguardo la notte allumina e 'l dì accieca. Perciò che quando non l' ordine delle cose, ma i suoi desiderii ragguardano, o ver l' esser licito, o vero il non punire dello scellerare, riputano esser felice. Ma tu guarda quel che la legge divina statuisca. Se tu l' animo conformerai a' costumi migliori, niente è bisogno che 'l giudice doni: tu medesimo alle cose più eccellenti se' aggiunto. Se gli studi a' costumi piggior piegherai, vendetta non di fuor domanda: tu medesimo ti se' rinchiuso tra le cose più basse, sì come se vicendevolmente fastidioso fango e 'l cielo sguardi, tutte l' altre cose cessando, dalla vista or dal fango e or dalle stelle ti vedrai differente. Ma il vulgo queste cose non riceve. Che dunque? dobbiamo noi discendere con loro, ch' esser bestie dimostrammo? Che se alcuno, perduto al postutto il vedere, quello sè aver avuto dimenticasse, e niente a lui mancare ad umana perfezione arbitrasse, non riputeremmo noi ciechi coloro che queste cose medesime vedessono? Chè, nè a questo, che igualmente risplende con fermezze valide di ragioni, sarà il vulgo contento: cioè, più infelici esser que' che fanno, che que' che ricevono la iniuria». - E io: «Queste stesse ragioni udir vorrei». - Ed ella: «Nieghi tu ogni reo esser degno di tormento?». - E io: «Mainò». - Ed ella: «Ma gl' improbi esser infelici in molti modi è chiaro». - E io: «Così è». - Ed ella: «Or dubiti tu esser miseri que' che sono di tormento degni?». - E io: «La tua conclusione dirittamente procede». - Ed ella: «Adunque, se tu iudice risedendo, a cui da dar la pena riputeresti, o a colui che avesse fatta, o a colui ch' avesse ricevuta la iniuria?». - E io: «Non dubito che allo iniuriato con dolore dello iniuriante satisfarei». - Ed ella: «Adunque il fattor della iniuria più che il ricevitore esser misero ti parrebbe?». - E io: «Così segue». - Ed ella: «Dunque per questa cagione, e per altre che da questa radice risplendono - che la sozzura per sua propria natura fa gli uomini miseri - apparisce la fatta iniuria esser miseria non di chi la riceve, ma di colui che la fa». - E disse: «Ma per certo, il contrario fanno gli uomini arringatori e avvocati: imperciò che si sforzano di svegliare la misericordia de' iudici per coloro che sostenuto hanno alcuna cosa grave e acerba, con ciò sia che a coloro che la fanno più iusta misericordia sia dovuta: i quali non da adirati, ma da misericordiosi accusatori al iudicio, come gl' infermi al medico, esser menati si conveniva, acciò che la infermità della colpa con pena risegassono: per la qual cosa l' opera de' difenditori, o ver tutta cesserà, o ver, se giovare piuttosto agli uomini vorrà, nell' abito di accusatore si rivolgerà. E que' medesimi rei, se per alcuna fessura l' abbandonata virtude lor fosse licito di guardare, e vedesson sè dovere lasciare le sozzure de' vizi per li tormenti delle pene, con compensagione d' acquistar probitade, non direbbono questi esser tormenti, e l' opera de' difenditori schiferebbono, e sè tutti negli accusatori e ne' iudici si lascerebbono. Onde segue, che nullo luogo d' odio appo i savi al postutto rimanga; per ciò che chi, se non istoltissimo, odierà i buoni? Ma d' ogni ragione manca aver odiato i rei; chè, sì come la infermità de' corpi, così la viziositade è quasi infermità degli animi. E con ciò sia che gl' infermi del corpo non d' odio, ma di misericordia piuttosto iudichiamo esser degni; molto maggiormente non da esser perseguiti, ma da essere avuti in misericordia, sono quelli, le cui menti malvagitade - più crudele che ogni infermitade - costrigne.
L. 4, 4Deh, or che giova tanti movimenti D' odio destare, e con la propria mano Sollicitare i fati uman dolenti? Se con l' orgoglio fiero e disumano La vostra morte o d' altrui domandate, O genti sciocche col folleggiar vano, Ella s' appressa, ma voi nol pensate, Con l' ali alzate spontaneamente, Nè i suoi cavalli perdon mai giornate. Que' cui il tigro e 'l crudel serpente, Gli orsi, lioni, e 'l feroce cinghiare, E bestie molte con aguto dente, Cercan con brama voler divorare, Anche le spade nimiche si fanno Contra 'l pietoso vinco d' umanare. Or muovon ei le schiere a tanto danno, E le battaglie ingiuste, perch' avversi Talor son forse i costumi che hanno? Di cotali atti crudeli e perversi Non è questa ragion tant' efficace; O quanto son dal vero ovrar diversi! S' a ciascun dare quel ch' è suo ti piace, Ama i buoni, e sie misericordioso A' rei, e 'n questo modo fia verace Il tuo adoperare, e non ritroso».
L. 4, cap. 5Da cotal parlar mosso, allora i' dissi: «Ben veggio, che miseria o ver felicitade ne' meriti de' probi e degl' improbi sia costituita. Ma dicern' io in questa popolar fortuna niente di bene, o ver di male; perciò che niuno savio sbandito, povero, abominevole esser piuttosto vuole, che di ricchezze abbondante, per onor riverito, con potenza forte, nella sua città permagnendo voglia fiorire. Che così l' officio della sapienza più chiaramente e con più fede si tratta, quando la beatitudine de' reggenti ne' vicini popoli si spande: con ciò sia che spezialmente la prigione, la legge e gli altri tormenti di pene legali a' rei cittadini, per cui sono ordinate, piuttosto siano dovute. Perchè dunque queste cose in contrario rivolte si mutino, e' tormenti degli scelerati peccati premano i buoni, e i rei rapiscano i guiderdoni delle virtudi, fortemente mi maraviglio; e che ragione si veggia di così iniusta confusione, da te desidero di sapere. Imperciò che meno mi maraviglierei, s' io credessi tutte le cose da' casi fortuiti mescolarsi. Or la mia maraviglia il rettore Dio grandemente accresce; il qual con ciò sia che spesse volte a' buoni le cose allegre, e a' rei l' aspre dèa, e, in contrario, a' buoni tribuisca le dure, e a' rei le desiderate conceda; se cagione non si comprende, che è ch' e' paia differente da' fortuiti casi?». - Ed ella: «Nè è maraviglia, disse, se alcuna cosa, dell' ordine non conosciuta la ragione, sia creduta temeraria e confusa; ma tu, avvegna che la cagione di tanta disposizione non cognoschi, nondimeno, perciò che buon rettore tempera il mondo, tutte le cose esser fatte dirittamente non dubitare.
L. 4, 5Chi non sa, presso al polo, che la stella D' Arturo in picciol cerchio si rivolga, Fiammeggiando vêr noi la sua facella; E la cagion perchè tardi ricolga Il suo carro Bootes, che non pare Che dalla guida sua giammai si sciolga; E le sue fiamme coricare in mare Non faccia volentier, ma sia contento Quando per tempo le faccia levare; Prenderà maraviglia del convento, Che vede in ciel, che tal legge serena, Ond' ordine non è giammai spento; E che le corna della luna piena Impallidiscan per l' oscuritade, Che l' ombra della terra opposta mena; E che costei, che con sua biltade Copria le stelle, ora che non luce, Le scuopra belle con lor chiaritade: Il qual errore piuvico conduce La gente sciocca a sonar gli stormenti, Per impedir chi 'ncanta la sua luce. Niun si maraviglia perchè i venti, Che 'l mar tempestan, percuotano il lito Con forza impetuosa e violenti; Nè che la neve, che nel freddo sito È congelata, dal caldo del sole Percossa, si risolva in acqua cito; Chè le cagion, chi qui cercar le vuole, Son manifeste, ma di sopra scura È nostra cognizion, donde si duole. La volgar gente nel vero non sicura, Si maraviglia di ciò che di raro E subitanamente fa natura. Ma cessi l' ignoranza, e faccia chiaro Il viso suo 'l verace 'ntelletto, E cesserà che maraviglia caro, Per non conoscer, faccia alcuno effetto».
L. 4, cap. 6Ed io: «Così è. Ma con ciò sia che da' tuo' don discenda di dilucidare le cagioni delle cose nascose, e le ragioni velate da caligine spiegare; priego che qui di questa difficultade iudichi e disputi, perciò che massimamente questo miracolo mi perturba». - Ed ella allora un pochetto sorridendo disse: «Tu mi chiami a cosa di questione sopra tutte l' altre grandissima, a cui a pena alcuna cosa ad attignerla basta. Per certo, che la materia è cotale, che rimosso l' un dubbio, altri sanza novero, come le càpita dell' idra, ricrescano: nè sarà termine alcuno, se non chi con vivacissimo fuoco e investigazion di mente le costringa. Imperciò che in questa della semplicità della Providenza, dell' ordine del Fato, de' casi repentini, della cognizione e predestinazione divina, della libertà dell' arbitrio si suol quistionare: le quali di quanto peso siano tu medesimo lo cognosci. Ma perciò che cognoscer te queste cose è una parte della tua medicina, avvegna che noi siamo rinchiusi in istretto termine di tempo, nondimeno deliberarne alcuna ci sforzeremo. E se dolcezza di musico verso ti diletta, conviensi un pochetto questa volontade raffrenare con indugio, infino ch' io tesso insieme le ragioni tra loro con ordine annodate». - E io: «Come ti piace». - Ed ella allora, come da altro principio cominciando, così disputò: «La generazione di tutte le cose, e tutto il processo delle mutabili nature, e qualunque cosa in alcun modo si muove, prende cagioni, ordine e forme dalla stabilità della mente divina. Questa nella ròcca della sua simplicità composta, modo moltiplice a fare le cose statuisce. Il qual modo, quando in quella stessa purità della intelligenza divina si considera, Providenza si nomina; ma quando a quelle cose che muove e che dispone si referisce, da' vecchi è appellato Fato. Le qua' cose esser diverse agevolmente chiarirà a chi la forza dell' uno e dell' altra con la mente ragguarderà. Imperciò che Providenza è quella ragione divina costituita nel sommo prencipe delle cose tutte, la qual tutte le cose dispone; ma il Fato è disposizione che s' accosta alle cose mobili, per la quale la Providenza ciascune cose annoda con gli ordini suoi. La Providenza per certo tutte le cose abbracciando comprende, avvegna dio che diverse, e avvegna ch' elle siano infinite; ma il Fato le singule cose in movimento distribuite, smaltisce in luoghi, in forme e in tempi: sì che questo temporale spiegamento, ragunato nello sguardo della mente divina, sia Providenza; ma quel medesimo ragunamento distribuito e spiegato in tempi, Fato si chiami. Le quali cose avvegna che siano diverse, nondimeno l' una dipende dall' altra. L' ordine fatale per certo dalla simplicità della Providenza procede. Imperciò che, sì come l' artefice, la forma della cosa che vuol fare con la mente guardando, muove l' effetto dell' opera, e quel che simplicemente e in tempo presente avea ragguardato, per ordini temporali conduce; così Dio per certo con la Providenza semplicemente e stabilemente dispone le cose da fare; ma il Fato queste medesime cose che ha disposte, moltiplicemente e temporalmente amministra. Se, adunque, o da alcuni spiriti divini - alla divina Providenza servendo - il Fato si mena; o ver dall' anima, o ver da tutta la servente natura, o ver da' celestiali movimenti di stelle, o ver da virtute angelica, o vero dalla sollecita arte varia di demonii, o ver da alcuno di questi, o ver da tutti l' ordine fatale sia tessuto; questo per certo è manifesto: la Providenza esser forma simplice e immobile di tutte le cose che son da esser fatte; ma il Fato esser nodo mobile e ordine temporale di quelle cose, che la divina simplicitade da esser fatte dispose. Onde segue che ciò che è al Fato sottoposto, sia alla Providenza suggetto, a cui eziandío quello stesso Fato soggiace; ma alcune cose, che sotto la Providenza sono locate, al fatale ordine soprasteano. Queste sono quelle le quali alla prima divinità propinque stabilemente fitte, l' ordine della fatale mobilitade soprastanno. Imperciò che, sì come de' ritondi cerchi, i quali intorno ad uno medesimo centro si girano, quel che al polo è più propinquo, aggiugne alla simplicità del centro, ed è sì come un cardinale di tutti gli altri di fuor locati, intorno al qual si rivolgono; ma l' ultimo di fuori di maggior larghezza rotato, quanto più dalla mezzana individuità del punto si disparte, tanto con ispazi più ampi si spiega: ma se alcuna cosa a quel mezzo si annodi e accompagni, in simplicitade è costretta, e cessa di discorrere e d' essere diffusa. Per ragione simile, quel che più di lungi si disparte dalla prima mente, di maggiori nodi di Fato è impacciato; e tanto la cosa è più libera dal Fato, quanto quel centro di tutte le cose più di presso domanda. La qual se alla fermezza s' accosterà della mente superna, di movimento mancando, per certo trapassa la necessità del Fato. Adunque, sì com' è all' intelletto il ragionare, come quello che si genera a quel che è, come il tempo alla eternitade, e al mezzan punto il cerchio; così il mobile ordine del Fato alla stabile simplicitade. Questo ordine fatale il cielo muove, e le stelle e gli elementi tra loro insieme tempera, e con vicendevole commutazione trasforma; questo medesimo tutte le cose che nascono e che muoiono, per simiglianti andamenti di feti e di semi rinnuova. Costui gli atti e le fortune degli uomini con annodamento di cagioni non disleghevole costrigne. Le quali cagioni con ciò sia che da' principii della immobile Providenza procedano, di necessitade è che elle siano immutabili. Imperciò che così le cose ottimamente si governano, se la simplicità delle cagioni - ferma nella mente divina - ordine non declinabile spieghi; e questo ordine le cose mobili con propria fermezza costrigne, e altrimenti sanz' ordine temerariamente discorrerrebbono. Onde segue che, avvegna che a noi che questo ordine considerare non possiamo, paiano tutte le cose confuse e conturbate, nondimeno il modo di ciascuna tutte le cose a ben dirizzando dispone. Imperciò che nulla cosa è, che per cagion di male si faccia eziandio da quegli improbi, i quali cercando 'l bene, il falso errore rivolge, come largamente è dimostrato; non che l' ordine che procede dalla radice del sommo bene, dal suo principio in alcuna parte si pieghi. Ma tu dirai: quale alcuna più iniqua confusione puote essere, che a' buoni or le cose avverse or le prospere, a' rei eziandío or le desiderate ora l' odiose avvegnano? Or vivono gli uomini con quella interitade di mente, che di necessità sia, coloro i quali egli iudicano probi e improbi, esser così com' egli stimano? Certo in questo i iudicii degli uomini combattono: e coloro che altri di guiderdone, altri arbitrano di tormento degni. Ma concediamo che alcuno possa i buoni e' rei dicernere: or potrà egli perciò vedere quella segreta temperanza dentro degli animi, sì come si suole dire ne' corpi? Chè imperciò non è dissimile maraviglia a chi non sa, perchè a' corpi sani a costoro le cose dolci e a costoro l' amare si convengano; perchè eziandío gl' infermi alcuni con cose leggieri, e alcuni con più agre sono aiutati. Di questo il medico, il quale il modo della sua sanitade e infermitade e 'l temperamento cognosce, non si maraviglia. Ma, che altro par essere la salute degli animi, che la probitade? che altro la infermitade? che i vizi? Ma chi altri, o conservatore de' buoni, o vero scacciatore de' rei, che il rettore e medicatore delle menti, Dio? il quale quando dell' alto sguardo della Providenza ragguarda, quel che a ciascun si convegna, cognosce, e quello che convenire ha cognosciuto, concede. Quinci discende quella grande maraviglia dell' ordine fatale, quando da Dio, che tutto sa, si fa quello di che si maravigliano gl' ignoranti. Perchè - acciò che poche cose ristringa (le quali la ragione umana comprender puote) della divina profondità - di colui il quale tu iustissimo e servantissimo riputi del diritto, alla Providenza che sa tutto pare tutto altramente diverso. E Lucano, famigliare nostro, notabilemente disse: - la parte e la cagione vincitrice esser piaciuta agli Dii, e a Cato la vinta. - Adunque ciò che tu vedi qui farsi fuor di speranza, è alle cose ordine diritto; ma alla tua oppinione è perversa confusione. Ma pognamo che sia alcuno sì ben costumato, che di lui il divino iudicio e l' umano igualmente consenta: ma è delle forze dell' animo infermo; a cui se avvegna alcuna cosa d' avversitade, lascerà d' onorare la innocenza, per la quale non ha potuto ritener la fortuna. Perdona per certo il savio dispensatore a costui, cui l' avversità far possa peggiore, acciò che non sostegna faticare a cui non si conviene. È un altro di tutte le virtudi perfetto, santo e a Dio prossimano: costui esser tocco d' alcune avversitadi la divina Providenza iudica esser illicito, intanto che nè lasci pur lui esser turbato da corporali infermitadi; imperciò che, come uno per me più eccellente disse: - le virtudi edificarono il corpo dell' uomo sacro, e fecionlo forte. - Avviene spesse volte, che 'l principato de' reggimenti a' buoni si conceda, acciò che l' abbondante improbitade sia raffrenata. Ad altri alcune cose mescolate distribuisce, secondo la qualità degli animi, che alcuni con avversità rimorde, acciò che in lussuria e in diletti corporali non lascivino per troppo riposo. Altri sostiene esser dicrollati da dure cose, acciò che la virtude della pazienza dell' animo per uso e per esercizio si confermi. Altri più che in igual modo temono quello che portar potrebbono. Altri più che in igual modo dispregiano e hanno a vile quello che non posson portare; costoro mena con cose triste in loro esperimento e pruova. Alcuni comperarono nome del secolo con pregio di gloriosa morte. Alcuni forti d' animo da non potere esser vinti con tormenti, portarono sopra gli altri esemplo d' esser non vinta la virtù dagli uomini rei. Le quali cose come dirittamente e ordinatamente paiano esser fatte, per lo bene che a coloro segue a cui paiono avvenire, non è dubbio alcuno. Imperciò eziandío quello che ora le cose triste a' rei, ora le desiderate pervegnono, da quelle medesime e simiglianti cagioni discende. E per certo, delle cose triste niuno si maraviglia, perciò che lor esser sanza merito tutti stimano. I tormenti de' quali gli altri delle scelleratezze impauriscono, e quegli a cui avvegnono, ammendano. Ma le cose liete dimostrano a' buoni grande argumento che di così fatta felicitade debbiano iudicare, la quale spesse volte dicernono esser serva degl' improbi. Nella qual cosa eziandío credo questo essere dispensato: che forse la natura d' alcuno è sì strabocchevole e importuna, che la povertà piuttosto lo possa inasprire alle scelleratezze: e la infermitade di costui con rimedio d' attribuita pecunia medica. Costui la insozzata sua coscienza da' vizi ragguardando, e sè con la sua fortuna comparando, forse ha paura che la perdita non sia trista della cosa, onde ora è l' uso giocondo. Adunque muterà i costumi, e quando teme perdere la fortuna, la retade abbandona. Altri in miseria meritevole straboccò la cresciuta felicitade indegnamente. Ad alcuni è permessa ragione da punire, acciò che a' buoni fosse cagione d' esercizio e di pruova, e a' rei fosse cagione di tormento. Imperciò che, come tra' buoni e' rei non è patto alcuno, così que' medesimi improbi tra loro non si possono convenire. E perchè non è così? con ciò sia che ciascuno discordi da se medesimo diversificando i vizi la sua coscienza, e spesse volte facciano cose le quali avendole fatte, non essere da far dicernano? Dalla qual cosa spesse volte quella somma Providenza notabile maraviglia produsse, che i rei facessono buoni i rei. Imperciò che, quando alcuni sostener cose inique da' pessimi si veggiono, d' odio de' colpevoli ardendo, reddirono al frutto della virtude, quando sè dissimiglianti essere studiano da coloro cui odiano. Perciò sola è la forza divina, per cui cagion son buone le cose ree; con ciò sia che usandole convenevolmente, ne trae effetto di bene alcuno. Chè un ordine tutte le cose abbracciando comprende; sì che quello che dall' assegnata ragione si diparte, avvegna che in un altro, nondimeno in ordine ricorre, acciò che nulla nel regno della Providenza a disordine e temeritade sia licito. Il fortissimo Dio nel mondo tutte le cose regge. E' si conviene convocare le cose leggieri, chè non è licito agli uomini tutte le cagioni e disposizioni della divina opera o ver con lo ingegno comprendere, o ver con sermone spiegare. Questo per amor di ciò avere guardato basti, che 'l produttore Dio delle nature tutte, a bene tutte le cose dirizzando disponga; e quando le cose che ha produtte in sua similitudine, ritenere s' ingegna, ogni male de' termini della sua republica per l' ordine della fatale necessitade schiude. Onde segue, che i mali che in terra abbondar sono creduti, se alla Provedenza disponente ragguardi, niente di male mai esser cognoschi. Ma io ti veggio già, lungamente e per lo peso della quistione aggravato e per la lunghezza della ragione faticato, alcuna dolcezza di verso aspettare. Piglia dunque beveraggio, per lo quale ricreato e confortato, più fermo nelle cose più oltre ti distendi.
L. 4, 6Se con la mente pura tu solerto, Delle cagioni dell' Altitonante, Con le qua' regge, vuogli essere esperto, Guarda l' altezze del ciel roteante: Quivi le stelle con non rotto patto L' antica pace osservan tutte quante. Il caldo sol per lo suo cerchio ratto Non impedisce il gelido raggiare, Che Feba dal suo ciel ci porge in atto; Nè l' Orsa vaga di piccol girare, Che presso al polo più alto del mondo Le stelle tutte vede coricare, Mai non desira nell' oceáno fondo Le sue fiamme sommerger, e contenta Si volge in pace nel suo piccol tondo. Con ordinati tempi iguali attenta La bella Venus ci annunzia la sera, E poi il chiaro dì ci rappresenta. L' amore alterno in cotal manera I corsi delle stelle etternalmente Rinnuova in cerchi con concordia vera. Ogni contrario riduce a niente Dalle celesti ragïoni; e quella Concordia ch' ogni cose fa contente, Con simiglianti modi e arte bella Tempera insieme gli elementi tutti, Dalla cui pace nullo si rubella. Sì che fan luogo gli umidi agli asciutti, E freddi e caldi insieme giungon fede Per forza dell' amor, che gli ha produtti. E 'l fuoco lieve in alto per sè riede; L' arida terra nel suo grave sito Col peso suo in basso loco siede. Per simili cagion l' anno fiorito Di primavera spande odor soavi, La state le sue biade secca cito. E Autunno co' suoi pomi gravi Torna, e la pioggia con torbido vento Vuole che al verno la sua faccia lavi. Ordine tale e tal temperamento Ciò che è nel mondo a vita produce, E lo nutrica dal suo nascimento, E lo corrompe, e a morte 'l conduce. E mentre che le cose così vanno, Immobile si siede l' alto Duce; E Creatore del su' alto scanno Di tutt' i corsi le redine regge, E da lui retti la sua voglia fanno. Costui, segnore e origine e legge, Fontana, re e iudice diritto, Tutte le cose ad util moto elegge; E quelle mosse, a certo tempo fitto In esser serva, e a sè ritraendo, Poi le perpetua con suo fermo editto; Che se così in cerchio rivolgendo Il movimento mondan non si piega, Le cose ferme così permagnendo, Partite dal lor fonte, che le lega, Mancano, e vane rimangon d' essenza, La qual da loro il disordine sega. Quest' è comune amore e diligenza; E tutti voglion con fine di bene Esser tenuti, e non vivono senza: Che se la prima cagion, donde vene Ogni produtto, con l' amor converso Non torna, dal durar si disconvene, Perchè dal ver su' ordine è perverso.
L. 4, cap. 7Or vedi tu dunque già quel che seguita a queste cose tutte, che dette abbiamo?». - E io: «Che?». - Ed ella: «Ogni fortuna al postutto esser buona». - E io: «Come si può questo fare?». - Ed ella: «Or attendi. Con ciò sia che ogni fortuna gioconda o aspra o per cagione di remunerare e d' esercitare i buoni, o per cagione di punire e di correggere i rei sia attribuita: ogni fortuna è buona, la quale è iusta, o vero utile». - E io: «Troppo è vera questa ragione e sentenza partorita da ferme forze, se io consideri la Providenza e 'l Fato, che poco dinanzi ammaestrasti. Ma, se ti piace, annoveriamola tra quelle questioni che poco prima esser inopinabili ponesti». - Ed ella: «Perchè?». - E io: «Perchè il comune parlare degli uomini questo usurpa, cioè la fortuna d' alcuni per certo spesse volte esser ria». - Ed ella: «Vuogli adunque, che un pochetto noi ci appressiamo a' parlari del vulgo, acciò che noi non paiamo esser partiti troppo quasi dall' uso dell' umanitade?». - E io: «Come ti piace». - Ed ella: «Non iudichi tu esser bene quello che fa pro?». - E io: «Così è». - Ed ella: «Or la fortuna ch' esercita, o ver corregge, fa pro?». - E io: «Sì, confesso». - Ed ella: «Dunque, buona». - «Perchè no?». - «Ma questa fortuna è di coloro, i quali o ver posti in virtude, contra le cose aspre combattono, o ver che da' vizi dipartendosi, pigliano via di virtude». - E io: «Negar non lo posso». - Ed ella: «Ma che della gioconda, la quale in guiderdone si tribuisce a' buoni, or iudica il vulgo questa esser ria?». - E io: «Mainò; ma com' ella è, così eziandío ottima la iudica». - Ed ella: «Che dell' altra, la quale, con ciò sia che sia aspra, costrigne i rei a tormento iusto, or riputala il popol buona?». - E io: «Anzi sopra tutte quelle che si posson pensare, la iudica esser miserissima». - Ed ella: «Or ti guarda adunque che seguendo l' oppinioni del popolo noi non conchiudiamo una cosa appo lui inopinabile molto». - E io: «Che?». - Ed ella: «Imperciò che per le cose concedute avviene, che ogni fortuna di coloro, - qualunque ella sia, - i quali sono in possessione o in avanzare o vero in acquistar di virtude, - sia buona; ma di coloro che nella improbità permagnono, ogni fortuna esser ria». - E io: «Questo è vero, avvegna che niuno confessar l' ardisca». - Ed ella: «Per la qual cosa l' uomo savio così gravemente non dee portare quante volte in battaglia di fortuna è menato; sì come all' uomo forte non si conviene indegnare, quante volte il battaglievole tumulto lo sgrida; imperciò che all' uno e all' altro - a costui di dilatar gloria, a colui di confermar sapienza - la malagevolezza è vera materia. Per la qual cosa, eziandío è detta virtude quella, che con le sue forze sforzandosi, dalle cose contrarie non è soperchiata. Perciò nè voi - posti in avanzare in virtude - veniste per discorrere in ricchezze e per marcire in volontadi carnali: con ogni fortuna ordinar dovete agresta battaglia: acciò che voi la trista non oppriema, nè la ioconda corrompa; occupate il mezzo con forze virili. Ogni cosa che di sotto si contiene, o oltre trapassa, contiene dispregiamento di beatitudine, e guiderdone della fatica non consegue. Imperciò che nella vostra mano è posto chente fortuna vogliate piuttosto a voi formare: chè ciascuna cosa, che pare aspra, se non esercita o corregge, punisce.
L. 4, 7Il greco Agamennon re poderoso, Dopo l' assedio decennio di Troia, Di Frigia tutta fu vittorioso; Purgò l' oltraggio e la fatta noia Del suo fratello per la tolta Elena, Donando lutto per la presa gioia. Mentre che questi la sua oste mena In Aulide, essendo sanza vento, Della sua figlia diletta Efigena Ogni atto pio di padre avendo spento, Prese 'l coltello e, tristo sacerdote, La strangolò. Al cui duro lamento Alquanto tinse di pianto le gote, E di lei fece sacrificio a Diana Con umili preghiere e con divote. E la placata Dea, ch' era lontana Da lor benivolenza, al suo navilio Vento donando, si fe' prossimana. Ulisse, errando nel suo lungo esilio, I divorati suoi compagni cari, (Se 'l vero scrive Ovidio e Virgilio) Dal fiero Polifem, con pianti amari Pianse; ma poi l' animal disumano Rendè al duolo allegrezze pari. Perciò ch' Ulisse, franco capitano, D' un occhio solo, che aveva in testa, Cieco lo fece furiare in vano. Ercole fanno d' onore e di festa Le gran fatiche degno, che sostenne, Delle quali Foloe la prima presta, Dove battaglia così crudel tenne Contr' a' Centauri, e cotal campione Gli domò poi sì ch' al su ne divenne. Tolse la pelle al feroce leone, E le brutte arpie con ferme saette A Fineo cacciò di sua magione. I pomi d' oro rubò alle sette Figliuole d' Atalanto, e 'l non dormente Drago crudele non gli contrastette. Cerbero, cane con l' aguto dente, Incatenò; e in pasto diede A' suoi caval Diomede valente. Idra serpente, sì come si crede, Con molte teste, divorò con fuoco, Onde Lernea libera si vede. La forza di costui non parve giuoco Ad Achelous, che pel corno rotto Fe' nella ripa nascosa suo loco. Il vinto Anteo gli stette di sotto, E con la morte di Caco, contento Evandro fece, ch' era di ciò ghiotto. L' aspro cinghiare, il cui bavoso mento L' omero tinse, che poi sostenere Doveva il cielo, fu da costui spento. L' ultimo affanno, che gli fece avere Corona sopr' ogni altra triunfale, Fu, che sostenne le celesti spere; Per la qual cosa merito cotale, Qual s' avveniva, ricevette, ch' ello Il ciel possiede, ove nullo mal sale. Di questi esempli, qual vi par più bello, Uomini forti, con l' animo altero Prendete, e calle simigliante a quello Passeggiate, e avrete il fine vero Che disiate; perchè sanz' affanno Aver non puossi tal effetto intero. Deh! gente vile, perchè in vostro danno Il dosso vi spogliate d' ogni ingegno? Que' ch' a la terra bassa soprastanno, Le stelle acquistan per eterno regno».
L. 5, cap. 1Detto aveva, e 'l corso del ragionamento ad altre alcune cose trattare ed espedire rivolgeva. E io allora: «Per certo diritta è la tua induzione, e d' autoritade al postutto dignissima; ma di ciò che tu per addietro la question della Providenza di più altre impacciata esser dicesti, con esperienza provar voglio. Imperciò domando, se al postutto esser alcuna cosa, e che cosa esser il caso tu arbitri». - Ed ella allora: «Io m' affretto pagare 'l debito della fatta impromessa, e ad aprire la via per la quale alla patria torni. Queste cose, avvegna che utili molto siano, nondimeno dalla via del nostro proponimento sono un pochetto contrarie: e da temere è, che faticato di questioni non molto necessarie, a terminare la diritta via sofficere non possi». - E io: «Al postutto questo non temere, imperciò che in luogo di riposo mi saranno quelle cose le quali massimamente cognoscere mi diletto; e con ciò sia che ogni parte della tua disputazione sia ferma non con fede dubbiosa, niente di quel che segue si dubiti». - Ed ella allora: «Io discenderò alla tua volontade»; e insieme così cominciò: «Se alcuno diffinisca il caso essere avvenimento con non provveduto temerario movimento, e con nullo annodamento di cagioni produtto, niente al postutto il caso esser confermo, e sanza significazione di cosa soggetta, al postutto vana voce lo giudico. Perchè, che luogo alcuno rimaso può essere a disordine e temeritade, costrignendo Dio tutte le cose in ordine? Perciò che nulla esser di nulla, vera sentenzia è; alla quale nullo degli antichi mai ha ripugnato: avvegna che quelli non del principio operante, ma del materiale suggetto - cioè della natura di tutte le ragioni - facessono questo cotal detto, quasi come un fondamento. Ma se di nulle cagioni alcuna cosa nasca, questa di niente esser nata parrà. E se questo far non si può, nè possibile è il caso esser cotale quale poco dinanzi abbiamo diffinito». - E io: «Che dunque non è alcuna cosa, che o vero caso fortuito per ragion si possa appellare, o vero è alcuna - avvegna che al vulgo sia nascoso - a cui questi vocaboli si convegnano?». - Ed ella: «Aristotile mio questo nella Fisica con ragion brieve e al vero prossimana diffinì». - E io: «In che modo?». - Ed ella: «Quante volte alcuna cosa per grazia d' alcuna cosa si fa, e altro che quello che s' intendeva per alcune cagioni avviene, caso si chiama: come se alcuno, per cagione di lavorare il campo cavando la terra, peso d' oro truovi nascoso; questo per caso fortuito si crede essere avvenuto: ma non è di niente, perciò ch' egli ha proprie cagioni, delle quali si crede operato avere il caso il concorso non preveduto e non opinato. Che se il cultivatore del campo la terra non cavasse, se in quel luogo il depositore la pecunia non nascondesse, l' oro non sarebbe trovato. Queste son dunque le cagioni della fortuita agevole utilitade, la qual proviene da cagioni insieme concorrenti e accidentali, non per intenzione dell' operante. Imperciò che nè colui che l' oro nascose, nè colui che 'l campo cultivò, intese che quella pecunia fosse trovata; ma, com' io ho detto, dove colui nascose, costui aver cavato avvenne e concorse. È dunque licito diffinire il caso essere non opinato avvenimento di concorrenti cagioni in quelle cose che per alcuna altra cosa si fanno. Ma concorrere insieme le cagioni fa quello ordine, che procede con nodo da non potere essere schifato, il quale della fontana della Providenza discendendo, tutte le cose a' suoi luoghi e tempi dispone.
L. 5, 1Tra gli scopoli eccelsi della pietra Della grande Erminia, dove fuggendo I Parti armati d' arco e di faretra, Fan chi gli segue rimaner dolendo Con la rivolta saetta, che 'l petto Trafigge, corso però non perdendo; Tigris e Eufrates surgon d' un letto, E 'ncontanente rompon compagnia, Partendo l' acque con lor modo eletto. S' avvenisse, che più in una via S' unisca il corso lor, per certo avviene, Che quel che sovra l' onda dell' un sia, Si congiunga con quel che l' altra tiene: E 'l simigliante le navi guidate, E gli svelti troncon delle lor rene, E così l' onde insieme mescolate Impacceranno co' lor propri corsi Fortuiti modi e casi all' impacciate. E per amor di ciò nullo s' inforsi, Chè la chinata terra e 'l gran profondo De' fiumi, con lor ordine discorsi, Di questi casi reggon ciascun pondo. Così fortuna, che col freno sciolto Discorrer pare ogni cosa nel mondo, Con freni è retta d' ordine bel molto, E segue legge, da cui non si parte, La qual le 'mpone il glorioso volto, Che sua bontà quaggiù con noi comparte».
L. 5, cap. 2Ed io: «Ciò che hai detto, con la mente pertratto, e ciò che tu di', così esser consento. Ma in quest' ordine di tra lor costanti ragioni non è alcuna libertà di nostro arbitrio, o costrigne eziandío la fatal catena i movimenti degli animi umani?». - Ed ella: «Sì è, disse; imperciò che, nè esser potrà alcuna razional natura, che non le sia d' arbitrio libertade; chè quello che può naturalmente usare ragione, ha iudicio, per lo quale ogni cosa dicerna per sè. Adunque le cose da fuggire e da desiderare dovidendo cognosce. Ma quella che alcuno da desiderare iudica, domanda; e schifa quella ch' egli stima esser da fuggire. Per la qual cosa in que' medesimi ne' quali è ragione, è eziandío libertà di volere e non volere. Questa in tutti non costituisco iguale. Perciò che nelle superne e divine sustanze iudicio chiaro, libertà incorrotta e volontade ed efficace potenza delle cose desiderate è presente. Ma l' anime umane di necessitade è per certo che sieno più libere, quando nella speculazione della mente divina si conservano; ma meno, quand' elle discorrono a' corpi, e meno eziandío, quando dalle strettezze terrene sono legate. Ma grandissima e finale servitudine è quando, date a' vizi, della possessione della propria ragione sono cadute. Imperciò che, poichè gli occhi dalla luce della somma veritade hanno rivolti alle cose basse e tenebrose, incontanente sono scurati con nebbia sucida d' ignoranza, di perniziosi affetti son turbati; a' quali appressandosi e consentendo, accrescono la servitudine, nella quale elle medesime si sottoposono, e son quasi dalla propria libertade impregionate. Le quali per amor di ciò quello sguardo della Providenza - da etternalmente guardando - discerne, e a' lor meriti tutte le cose predestinate dispone.
L. 5, 2Omero greco, poeta sovrano, Col parlar dolce in un suo volume, Discrive con istil soave e piano, Che 'l sol risplende chiar di puro lume, Nè perciò col suo raggio penetrare Puote la terra, o 'l mare, o grosso fiume: Ma non così l' eterno radiare Del sommo Creator, dalla cui vista Nullo si può nascondere o celare. Non è terrena mole, che risista, Non notte nera, scura e nubilosa All' alto sguardo suo, nè cosa mista. Del tempo ch' è passato, ognunque cosa, E del presente e del futuro cerne In un guardar di mente gloriosa. Il qual, perciò che sol le sue lucerne Tutte le cose veggiono, e altiero Ciò che si oppone alla sua vista sperne, Chiamar puoi Sol verace e lume vero».
L. 5, cap. 3Allora i' dissi: «Ecco, da capo di più malagevole dubbio son confuso». - Ed ella: «Quale è questo? Già per certo innanzi veggio per che cose tu se' perturbato». - E io: «Troppo par contrariarsi, dissi, e repugnare, Dio anticognoscere le cose universe, ed essere alcuno arbitrio di libertade. Perciò che se Dio tutte le cose vede, nè ingannato può essere in alcun modo, di necessitade è che avvegna quel che la Providenza esser futuro ha proveduto. Perchè se da etterno non solamente i fatti degli uomini, ma eziandío i consigli e le volontadi anticognosce, nulla sarà d' arbitrio libertade; imperciò che nè fatto altro alcuno, nè volontade alcuna esser potrà, se non quale la Providenza, che non è ingannata, avrà anticognosciuto. Che se altrove ritorcer si possano le cose che provedute sono, già non sarà ferma la prescienza nel futuro, ma piuttosto oppinione incerta: la qual cosa di Dio credere illicita iudico. Nè perciò io approvo quella ragione, con la quale alcuni credono potere sciogliere il nodo di questa questione. Dicono egli, non perciò alcuna cosa esser avvenire, che questa la providenza di Dio l' ha veduta esser futura; ma, per lo contrario, piuttosto imperciò che questa è futura, non poter esser nascosa alla Providenza divina; e in questo modo questa necessitade ricorrere in parte contraria. Perciò che non è di necessitade avvenire le cose che sono provedute, ma di necessitade è esser proveduto quel ch' è futuro. Ma questa ragion procede quasi se ella cerchi di qual cosa sia la cagione, o la prescienza della necessità delle cose future, o la necessità delle cose future cagion della prescienza; come se noi ci sforzassimo di dimostrare, l' avvenimento delle cose sapute esser necessario, in chente che modo l' ordine delle cagioni si stea; avvegna che la prescienza non paia inducere necessitade d' avvenire alle cose future. Che se alcun segga, l' oppinione che lui sedere stima, esser vera è di necessitade. E converso da capo, se d' alcuno vera sia l' oppinione perciò che siede, lui sedere è di necessitade. Adunque necessitade è nell' uno e nell' altro: in costui per certo di sedere, ma nell' altro è necessitade di veritade. Ma non perciò alcuno siede perchè vera è l' oppinione, ma l' oppinione piuttosto è vera perciò che alcun sedere è preceduto. Così, con ciò sia che la cagion della verità dall' una parte proceda, nondimeno è nell' uno e nell' altro comune necessitade. Simiglianti cose della Providenza e delle cose future potersi ragionando conchiudere è manifesto. Che se, perciò che le cose son future, son provedute, ma non perciò che son provedute avvengono; nondimeno o le cose che sono avvenire, esser da Dio provedute, o le cose provedute avvenire è di necessitade: la qual cosa solamente a rompere la libertà dell' arbitrio basta. Ma già come sia ritroso è manifesto, che si dica l' avvenimento delle cose temporali esser cagione della prescienza eterna! Che altro è arbitrare Iddio proveder le cose future perciò che avvenire debbono, che pensare quelle cose, che già avvennono, esser cagione di quella somma Providenza? A queste cose ancor s' aggiugne, sì come quand' io so essere alcuna cosa, questa medesima essere di necessitade è; così dunque segue, che l' avvenimento dell' antisaputa cosa non si possa schifare. Alla fine, se alcuno altrimenti stimi alcuna cosa, che quella medesima in sè sia, questo non solamente non è scienza, ma è fallace oppinione al postutto della verità di scienza diversa; perchè se alcuna cosa così è futura, che 'l suo avvenimento sia certo e necessario, questa essere ad avvenire chi antisaper potrà? Perciò che, sì come la scienza non è mescolata con falsitade, così quel che da lei è conceputo, esser non può altrimenti che conceputo sia. Questa per certo è la cagione perchè la scienza è sanza menzogna: che così ciascuna cosa esser è di necessità, come quella medesima essere la scienza comprende. Che dunque diremo? In che modo anticonosce Dio queste cose non certe future? Che - se non ischifevolmente esser ad avvenire iudica le cose, le quali eziandío è possibile non avvenire - è ingannato: la qual cosa non solamente è illicita di sentire, ma con la voce profererla. E se così, com' elle sono, le dicerne esser future, sì che igualmente o poter esser fatte, o non esser fatte quelle cognosca; che è questa prescienza, che niente certo e stabile comprende? O vero, in che è questo differente da quello indovinare di scherne di Tiresia: ciò ch' io dirò, o sarà o no? Che eziandío la divina Providenza soprastarà all' oppinione umana, se, sì come gli uomini, incerte cose iudica quelle il cui avvenimento è non certo? Che se appo quello certissimo fonte di tutte le cose nulla cosa puote esser incerta, l' avvenimento di quelle è certo, le quali esser future egli avrà fermamente saputo. Per la qual cosa a' consigli e a' fatti umani non è libertade alcuna, i quali la mente divina, senza errore di falsitade tutto veggendo, ad uno avvenimento lega e costrigne: la qual cosa conceduta, quanta rovina delle cose umane sì consegua, è chiaro. Imperciò che indarno a' buoni e a' rei i guiderdoni e le pene son proposte, quali nullo libero movimento e volontario d' animi ha meritato. E questo sopr' ogni cosa parrà iniquissimo, che ora iustissimo è iudicato, o punire i rei o guiderdonare i buoni; i quali all' uno e all' altro non manda la propria volontade, ma certa necessità di futuro costrigne. Adunque i vizi e le virtudi niente saranno, ma piuttosto di tutti i meriti mescolata e non discreta confusione. Della qual cosa niuna più scelerata si può pensare: e con ciò sia che dalla Providenza delle cose ogni ordine sia menato, e niente a' consigli umani licito sia; segue eziandío, che i nostri vizi all' autor di tutt' i beni si referiscano. Adunque nè di sperare alcuna cosa, nè di pregare è alcuna ragione; imperciò che perchè speri alcuno, o ver preghi, quando ordine non piegato le cose tutte da desiderare annoda? È tolto dunque quello uno solo modo di congiunzione tra gli uomini e Dio, di sperare, cioè, e di pregare. Certamente la inestimabile divina grazia con prezzo di iusta umilitade meritiamo, e a quella luce divina esser congiunti, prima eziandío che lo impetrino il priego e la speranza con ragion di pregare: le quali speranze e caritativo priego se - concedute per necessità delle cose future - niente siano credute aver di forze, che sarà che a quel sommo prencipe delle cose aggiugnerci e accostar ci possiamo? Di necessità sarà la generazione umana, come poco dinanzi cantavi, dal suo fonte partita e disgiunta, mancare.
L. 5, 3Deh! qual cagion discordante risolve La compagnia delle cose chiare? Chi a due ver tante battaglie involve, Che que' che paion con ragione stare Ciascun per sè in essenza verace, Non lascia insieme sotto un giogo andare? O vero è che discordia non face I veri star di lungi, anzi unitade Gli strigne con amore e vera pace; Ma che la mente, sotto oscuritade De' ciechi membri, non puote, soppressa Col depresso vigor di veritade, Delle cose conoscer per se stessa Il legame sottile che le cigne, Sì che l' una dall' altra non si cessa. Ma perchè tanto desider la strigne Cercar del ver l' occulte cognizioni, Ch' ogni sua forza pur a ciò la pigne? Sa ella o no quel che l' affezïoni Sì a conoscer la fanno angosciosa, Ricogliendo in ciò molte ragioni? Ma chi più cerca la saputa cosa? E s' e' la non la sa, or chi la tira, Perchè domanda cieca l' ha nascosa? Perciò chi è che, ignorante, desira Alcuna cosa? o chi la conosciuta Può seguitare, o do' la truova mira? O qual, sanza conoscenza, riputa Poter conoscer la trovata forma, La qual è solo da' savi saputa? O ver quando l' eccelsa mente e norma Dicerneva, aveva conosciuto Ciascuna forma e singulare orma? Ma or velata di membri, perduto La conoscenza sua non ha del tutto, Chè tien la somma, e 'l singulo è caduto. Dunque qualunque cerca esser instrutto Di cose vere, il suo intelletto Nè l' uno nè l' altr' abito ha construtto: Perchè non ha il conoscere perfetto Di tutte cose, nè tutte l' ignora, Ma sta tra l' uno e tra l' altro imperfetto. Ma della somma, che ritien ancora, Ricordandosi, cerca sottilmente Le cose c' ha vedute, e non dimora. Acciò che possa ordinatamente Alle serbate cose le lor parti Dimenticate, poi, perfettamente Aggiugner, con l' aiuto di bell' arti».
L. 5, cap. 4Allora ella disse: «Vecchia inchiesta e lamentanza è questa della Providenza, e da Marco Tullio, quando la Divinazione distrinse, molto disputata, e a te medesimo è cosa al postutto molto cercata; avvegna che da nullo di voi per addietro assai diligentemente e fermamente spedita. Della quale oscuritade è la cagione, che 'l movimento dell' umano ragionare alla simplicità della divina prescienza non puote aggiugnere: la quale se in alcuno modo pensar si possa, niente di dubbio al postutto rimane; la qual cosa così palesare ed espedire tenterò, se prima quelle dalle quali se' mosso, avrò in palese addutte. Perciò io domando, perchè quella ragion di coloro che solvono, meno efficace riputi: la qual, perciò che stima la prescienza non esser cagione di necessità alle cose future, in niente esser impedita dalla prescienza la libertà dell' arbitrio riputa. Imperciò che nè tu trai altronde l' argomento della necessità delle cose future, se non che quelle cose che sono antisapute, non possono non avvenire. Se adunque l' anticonoscenza nulla necessitade aggiugne alle cose future - la qual cosa tu eziandío poco dinanzi confessavi - che è che gli uscimenti volontari delle cose siano a certo avvenimento constretti? Ed acciò che tu cognoschi che si segua alla proposta, pognamo la prescienza esser nulla: Or - quanto, dunque, a questo s' appartiene, - sono quelle cose, che da arbitrio vegnono, a necessità costrette?». - Ed io: «Mainò». - Ed ella: «Pognamo ancora, ch' ella sia, ma niente imporre di necessitade alle cose: rimarrà, secondo ch' io penso, la medesima libertà di volontade intera ed assoluta. Ma, tu dirai: la prescienza, avvegna che del futuro e dell' avvenire necessitade non sia, per amor di ciò è segno che quelle siano di necessità ad avvenire. In questo, adunque, modo, eziandío se l' anticognizione non fosse stata, certo sarebbe gli avvenimenti delle cose future esser necessari. Imperciò che ogni segno solamente quel che sia dimostra, ma quel che disegna non compie. Perchè prima è da dimostrare, ogni cosa di necessitade avvenire, acciò che l' anticonoscenza esser segno di questa necessitade apparisca; altrimenti, se questa necessitade è nulla, nè colei per certo potrà esser segno di questa che non è. Ma certo è già non esser da trarre da' segni pruova sustentata di ferme ragioni, nè anche da di fuor domandati argomenti, ma da proprie e necessarie cagioni. Ma far come si puote, che quelle cose non vegnano, le quali esser future son provedute? Per certo, quasi come noi - quelle cose che la prescienza esser future anticognosce - non esser ad avvenire crediamo, questo dubbio procede; e come noi piuttosto non arbitriamo questo, - cioè - avvegna ch' elle avvegnano - niente, perciò che elle venissono, aver avuto di necessità da sua natura: la qual cosa ti sarà licito che da questo esemplo leggiermente cognoschi. Imperciò che più cose, quando si fanno, suggette agli occhi veggiamo; sì come quelle che si fanno in temperare e piegare i carri son veduti fare i carradori: e in questo modo l' altre cose. Or costrigne dunque alcuna necessitade, alcuna di quelle cose esser fatte?». - E io: «Mainò; perciò che indarno sarebbe l' effetto dell' arte, se tutte le cose si movesson costrette». - Ed ella: «Adunque quelle cose, le quali quando si fanno, mancano di necessitade stante, - quella medesima, ch' è prima ch' elle siano, - fatte sono sanza necessitade futura. Per la qual cosa alcune sono ad avvenire, il cui avvenimento è da ogni necessitade assoluto. Chè per certo io non arbitro, alcuno essere che dica che quelle le quali ora si fanno, prima ch' elle si facessono non fossono state ad avvenire. Queste cose adunque, eziandío anticonosciute, hanno liberi avvenimenti. Perciò che sì come la scienza delle cose presenti niente a quelle che si fanno, così la prescienza delle future niente di necessitade a quelle che sono ad avvenire importa. Ma tu dirai: questo è quel medesimo che si dubita, se di quelle cose che non hanno avvenimenti necessari, possa essere anticonoscenza alcuna. E imperciò che discordar si paiono, tu riputi - se alcune cose son provedute - che quelle necessità conseguiscano: e se quella necessità manca, non essere antisapute; e nulla cosa poter esser compresa da scienza, se non certa; imperciò che se quelle che sono d' avvenimento incerto, quasi come certe siano provedute, questo credi esser caligine d' oppinione, non verità di scienza. Perciò che arbitrare altrimenti che le cose in sè medesime siano, credi esser diverso dalla interità della scienza. Del quale errore è cagione, che le cose che qualunque ha conosciute, tu stimi solamente esser conosciute da forza e natura di quelle che sapute sono; la qual cosa tutta è contraria. Imperciò che ogni cosa che è conosciuta, non secondo la sua forza, ma piuttosto secondo la facultà de' conoscenti si comprende. E acciò che questo sia chiaro con brieve esemplo: quella medesima ritondità di corpo altrimenti il vedere, e altrimenti il toccare conosce. Colui di lungi stando, gittati i raggi, tutto insieme lo vede; ma costui accostandosi alla ritondità, e congiunto intorno al circuito del movimento, la ritondità per parti comprende. Ed eziandío l' uomo medesimo, altrimenti il senso, altrimenti l' immaginazione, altrimenti la ragione, e altrimenti la intelligenza ragguarda. Imperciò che 'l senso la figura nella suggetta materia costituta, ma la immaginazione sola la figura sanza materia giudica. Ma la ragione per certo questa trapassa, e la spezia medesima, la quale è ne' singulari, con universale considerazione conosce. Ma l' occhio della intelligenza è più alto. Perciò che, passata la grandezza della universitade, quella medesima semplice forma vede nella sottil vista della pura mente. In che questo massimamente è da considerare, che la forza di sopra di comprendere abbraccia quella di sotto; ma quella di sotto alla soprana in niun modo si leva. Chè nè il senso fuor di materia alcuna cosa puote, o ver l' immaginazione l' universali spezie ragguarda, o ver la ragion comprende la semplice forma; ma la intelligenza, quasi di sopra guardando, conceputa la forma, eziandío tutte le cose che sotto sono, dicerne; ma in quel modo che la forma medesima, la quale a null' altro poteva esser conosciuta, comprende. Perciò che l' universo della ragione, la figura della immaginazione, e 'l sensibile materiale cognosce, non usando ragione, nè immaginazione, nè sensi, ma in quell' uno sguardo di mente formalmente (così parlando) tutte le cose guardando. La ragione eziandío, quando cosa universale ragguarda, nè immaginazione nè sensi usando, le cose immaginabili e sensibili comprende. Imperciò che questa è quella che l' universal della sua cognizione diffinisce: 'L' uomo è animale con due piè, ragionevole'. La quale con ciò sia che sia universale notificazione, perciò nullo ignora quella esser cosa immaginabile e sensibile, la quale non per immaginazione, o ver senso, ma per ragionevole concezione quella considera. La immaginazione eziandío - avvegna che da' sensi di vedere e di formare la figura abbia preso principio - nondimeno, sanza il senso, qualunque cose sensibili chiareggia, non per sensibile, ma per immaginaria ragion di iudicare. Or vedi, dunque, come in conoscere piuttosto tutte le cose usano la lor facultade, che di coloro che son conosciute? Nè questo è contra ragione: imperciò che, con ciò sia che ogni iudicio sia atto de l' iudicante, di necessitade è che ciascuno l' opera sua compia non per altrui, ma per propria podestade.
L. 5, 4Anticamente il Portico adunava Onesta scuola d' uomini maturi, Tra' quali 'l nome nostro s' onorava. Costoro in lor sentenze erano scuri, Nelle potenze loro intellettive A dicernere il vero anch' eran duri. L' immagin delle cose sensitive Credevano imprentarsi nella mente Da i corpi di fuor, come si scrive Con lo stil da scrivan velocemente In agguagliata e piana tavoletta, Nella qual prima era scritto niente. Ma se la mente di vigor perfetta Non spieg' alcun suoi propri movimenti, Ma paziente solo sta suggetta A ciò che i corporal conoscimenti Dicernono, e come specchio rende L' immagini disutili parventi; Onde adivien che nell' anima splende Conoscimento, che dicerne tutto? E la forza, che' singuli comprende E che dovide, e del doviso frutto Trae ricogliendo con util governo Le cose singulari al suo costrutto? E che elegge senteruol alterno, Or leva il capo in alto, e ora in basso Discende, infusa d' intelletto eterno? E alla fine sta con fermo passo A sè sè medesima referendo, E ogni falso fa con veri casso? Costei per certo (il vero conchiudendo) È maggiormente efficiente cagione, Ch' è più possente assai che sostenendo, Sì come dice la detta ragione, Le impresse note a modo di matera: E parla falso chi così suppone. Precede nondimen passione vera Nel corpo vivo, che desta e commove Dell' animo la forza che vi sera. Quando gli occhi feriscon luci nuove, O negli orecchi suona voce alcuna, Ch' attenti forse stavan volti altrove; Il commosso vigor ad una ad una Le spezie chiama, le qual dentro tiene, E a tai movimenti le raguna, E alle note di fuor le conviene, E mescola l' immagini alle forme, Che dentro intelligibili ritiene, Ch' alle prese di fuor si fan conforme.
L. 5, cap. 5Che se in apprendere il sentimento de' corpi (avvegna che le oggette qualitadi di fuori aggravino gli strumenti de' sensi, e passion di corpo anteceda il vigor della mente agente, la qual passion provochi in sè l' atto della mente, e intanto svegli le forme dentro quiescenti): se in apprender - dico - il sentimento de' corpi, l' animo non di passione imprentato, ma per sua forza iudica la passione al corpo suggetta; quanto maggiormente quelle cose che da tutte gravezze di corpi libere sono, in dicerner non seguono le cose di fuori oggette, ma l' atto della sua mente espediscono! Adunque per questa ragione molte cognizioni hanno dato luogo a diverse e differenti sostanzie. Imperciò che 'l senso solo da tutte altre cognizioni privato, agli animali immobili ha dato luogo, sì come sono le conchiglie del mare, e ciascune altre cose che a' sassi accostandosi si nutricano: ma la immaginazione alle belve mobili, nelle quali alcuno effetto di fuggire e di desiderare si vede. Ma la ragione solamente è della natura umana, sì come la intelligenza solo della divina. Onde segue, che quella notizia l' altre avanzi, la qual per sua natura non solamente il proprio soggetto, ma tutti i soggetti dell' altre notizie cognosce. Che adunque, se al ragionamento il senso e l' immaginazione contradicano, dicendo niente esser quello universale, che la ragion pensa vedere? cioè, che quello che è immaginabile e sensibile, esser non possa universo? O adunque vero esser il iudicio della ragione è necessario, e niente esser sensibile; o - imperciò che al senso e all' immaginazione è chiaro più cose a' sensi e all' immaginazione esser soggette - esser vana la concezione della ragione, la quale quello che è sensibile e singulare, quasi come uno universale considera. A questo se la ragion risponda e dica: sè quello che è sensibile e immaginabile, ragguardar per certo nella ragione dell' universitade; ma quelli, cioè il senso e l' immaginazione, non potere aspirare a cognizione dell' universitade, perciò che il lor conoscimento non possa passare le figure corporali: e della cognizione delle cose piuttosto esser da credere al più fermo e più perfetto iudicio: or in questa cotal lite noi - ne' quali è forza sì di ragionare, come d' immaginare e di sentire - non approveremmo piuttosto il piato della ragione? Simigliante è, che la umana ragione non pensa che la divina intelligenza veggia, se non com' ella stessa cognosce. Imperciò così disputi: 'Se alcune cose certi e necessari avvenimenti non paiono avere, quelle per certo essere ad avvenire non si possono antisapere. Adunque di queste cose la prescienza è nulla, la quale eziandío se noi crediamo essere in queste cose, niente sarà che di necessità non avvegna'. Se adunque, come partecipi siamo della ragione, così il iudicio della mente divina potessimo avere, come noi iudichiamo la immaginazione e 'l senso convenir dar luogo alla ragione; così la ragione umana se medesima sottomettere alla mente divina riputeremmo iustissimo. Per la qual cosa nell' altezza di quella somma intelligenza, se noi possiamo, ci dirizziamo; imperciò che ivi dicernerà la ragione quel che in sè veder non può, cioè in che modo la certa e diffinita conoscenza veggia quelle cose le quali eziandío non hanno certi avvenimenti; nè questa sia oppinione, ma piuttosto di somma scienza da niuni termini rinchiusa simplicitade.
L. 5, 5Con varie figure gli animali Cercan la terra nel suo gran proteso, Non con maniere nè con corsi equali: Ch' altri, col corpo giù basso disteso Solcando il polver con forza del petto, Menano a fine il viaggio inteso; Altri con l' ale alzate fan tragetto Per l' aer vago con leggier volare, Che batte vento col muover diletto; E altri allegri son di passeggiare I verdi campi per montagne e piani, E sotto frasche della selva andare. I quali, avvegna che in modi strani Variar veggi con forme diverse, E in natura sì paian lontani, In ciò convegnon, che le facce verse Alla terra giù tegnono inchinate, Da lor natura bruta non avverse. L' una sol gente degli uomini alzate Porta le teste, e diritta sprezza La terra bassa nella sua viltate. Se vanità terrena non t' avvezza A male scioccheggiar, uom che col volto In su domandi la celeste altezza, Questa figura eccellente molto T' ammonisce, che tu levi la mente In alto col pensiero in ciel ricolto; Nè ch' aggravata in basso stea vilmente; Il corpo essendo per propria natura Inverso 'l cielo alzato rilucente; Anzi la sleghi d' ogni mortal cura.
L. 5, cap. 6Imperciò, adunque, che, come dinanzi è dimostrato, ogni cosa che è saputa, non per sua, ma per natura di chi la comprende è conosciuta, ragguardiamo aguale, quanto c' è licito, qual sia lo stato della divina sustanzia, acciò che qual sia eziandío la sua scienza conoscer possiamo. Dio esser eterno, iudicio è comune di tutti che vivono con ragione. Che cosa dunque sia la eternitade consideriamo, perciò che questa ci farà manifesta la natura divina igualmente e la scienza. È adunque la eternitade possessione tutta insieme e perfetta di non terminabile vita. La qual cosa per conferenza delle cose temporali più chiaramente si palesa. Perchè ciò che vive in tempo presente, dal preterito nel futuro procede; e niente è in vita costituto, che tutto lo spazio della sua vita insieme parimente possa abbracciare. Che quel di domane per certo ancor non ha appreso, ma quello di ieri ha già perduto; e nella vita d' oggi non più vivete, che in quel mobile e transitorio momento. Quello, adunque, che sostiene condizione di tempo - avvegna che esso, sì come del mondo iudicò Aristotile, nè abbia mai essere cominciato, nè manchi, e la sua vita con infinitade di tempo si distenda - non perciò è tale, che di ragione etterno esser si creda. Imperciò che non tutto insieme lo spazio della vita - avvegna che infinita - comprende, o ver abbraccia; che le cose future ancora e le passate già non ha. Adunque quel che di non terminabile vita tutta pienezza parimente comprende e possiede, a cui niente di futuro manchi, e nulla del passato sia discorso, etterno di ragione esser si crede: e questo è necessario intra di sè medesimo a stare sempre presente, e aver presente la infinitade del mobile tempo. Onde non dirittamente alcuni - quand' eglino odono esser paruto a Plato questo mondo non aver avuto cominciamento di tempo, nè in futuro mancare - pensano in questo modo il creato mondo esser fatto igualmente etterno col suo fattore. Imperciò che altro è menar vita non terminabile; la qual cosa Plato al mondo attribuisce; altro è esser parimente abbracciata la presenza di non terminabile vita, la qual cosa propria esser della mente divina è manifesto. Dio parer dee più antico che le cose create, per quantità di tempo, ma piuttosto per proprietade di simplice natura. Imperciò che quello infinito movimento delle cose temporali seguita per somiglianza questo stato di vita immobile; e con ciò sia che quello figurare e agguagliare non possa, per la immobilitade discorre in movimento, e per la semplicità della presenza cresce in quantità infinita di futuro e di preterito. E con ciò sia che tutta la plenitudine della sua vita parimente non possa possedere, - per questo medesimo che in alcun modo mai esser non manca, - quello, che esprimere ed empiere non puote in alcun modo, pare per amore e diligenza seguitare, legandosi ad alcuna qualche presenza di questo piccolo e transitorio veloce momento. La qual presenza perciò che di quella presenza stabile alcuna immagine porta, questo presta che, a chiunque sia avvenuta, esser paia. Ma imperciò che star non poteo, prese infinito viaggio di tempo: in questo modo è fatto, che - andando - continuasse la vita, la plenitudine della quale non potè abbracciare permagnendo. Adunque se imporre vogliamo degni nomi alle cose, seguitando Plato, diciamo per certo Dio etterno, e 'l mondo esser perpetuo. Imperciò, adunque, che ogni iudicio secondo la sua natura le cose che gli son suggette comprende, e a Dio è sempre etterno e presentario stato: la sua scienza eziandío, passata ogni movimento di tempo, permane nella simplicità della sua presenza, e gl' infiniti spazi del preterito e del futuro abbracciando, tutte le cose - quasi come in presente si facciano - nella cognizione simplice sua considera. Se la prescienza, dunque, con la quale Iddio tutto dicerne, pensar vuogli, tu la stimerai non esser prescienza quasi di futuro, ma più dirittamente scienza di presenza, che mai non manca. Onde non Previdenza, ma Providenza piuttosto è detta, perciò che dalle cose basse costituta, di lungi, quasi dalla eccelsa altezza delle cose, tutto ragguardi. Che dunque cerchi, che le cose dal divin lume comprese si facciano necessarie, con ciò sia che gli uomini per certo necessarie non facciano esser quelle che veggiono? Or aggiugne il tuo vedere alle cose, che tu presenti dicerni, necessitade alcuna?». - E io: «Mainò». - Ed ella: «Per certo, s' egli è degna conferenza del presente divino e dell' umano, sì come voi con questo vostro temporal presente alcune cose vedete, così quegli tutte le cose col suo etterno dicerne. Per che questa divina anticonoscenza non muta la natura e la proprietà delle cose; e cotali appo sè le presenti ragguarda, quali in tempo future perverranno; nè i iudicii delle cose confonde, e in uno sguardo della sua mente le cose future sì necessariamente come non necessariamente dicerne. Sì come voi vedete igualmente in terra l' uomo andare, e nel cielo il sole levarsi, benchè insieme l' uno e l' altro ragguardiate, nondimeno dicernete e questo volontario e quello esser necessario iudicate. Così tutte le cose di sotto guardando lo sguardo divino, la qualità delle cose - appo sè per certo per ragion presenti, ma a condizion del tempo future - non perturba. Onde segue, che questa non sia oppinione, ma piuttosto cognizione da verità partorita, quando conosce quello che sarebbe futuro, il qual medesimo essere e sanza necessità sappia. Qui se tu di': 'questo che Dio vede futuro, non potere non avvenire, ma quel che non puote non avvenire è di necessitade avvenire', me a questo nome di necessitade stringhi: io confesserò questa esser cosa di fermissima veritade, alla quale appena giunto ha alcuno, se non speculatore della divina natura. Risponderò certanamente quello esser futuro, il quale - quando alla divina cognizione si riferisce - esser necessario; ma quando in sua natura si guarda, al postutto libero e assoluto parere. Imperciò che due sono le necessitadi: l' una semplice, come che necessario è tutti gli uomini esser mortali; l' altra condizionale, come se alcun tu sappi che vada, lui andare è necessario. - Perciò che quella cosa che ciascuno ha conosciuta, esser altrimenti che conosciuta, ed esser, non puote. Ma questa condizione non trae seco quella semplice, perchè questa necessitade non fa la propria natura, ma l' aggiunta condizione; perciò che nulla necessitade costrigne ad andare colui che va volontariamente, avvegna che allora quando va, andar sia necessario. In quel medesimo, dunque, modo ciò che la Providenza presente vede, esser è necessario, avvegna che nulla necessitade abbia di natura. Ma Dio vede presenti quelle cose che per libertà di libero arbitrio pervegnono future. Queste dunque referite allo sguardo divino, necessarie si fanno per la condizione della conoscenza divina; ma per sè considerate, non mancano d' assoluta libertà di lor natura. Adunque sanza dubbio si fanno tutte le cose future, che Dio esser anticonosce; ma alcune di loro da libero arbitrio procedono: le quali avvegna che avvegnano, - essendo - per amore di ciò non perdono la propria natura, imperciò che, prima che fatte fossono, sarebbono eziandío potute non avvenire. Che dunque monta non esser necessarie, con ciò sia che avvegnano, a guisa di necessitade, in tutt' i modi, per la condizione della divina scienza? Questo è manifesto per quegli esempli che poco dinanzi proposi: il sole oriente e l' uomo andante; le quali cose quando si fanno, non esser fatte non possono: per amore di ciò l' una di loro, eziandío prima che si facesse, era necessaria d' essere; ma l' altra no. Così eziandío quelle che Dio ha presenti, sanza dubbio saranno; ma di loro per certo questa da necessità delle cose discende, ma l' altra di podestà degli agenti. Adunque non con ingiuria detto abbiamo, se queste cose per sè si considerino, esser da legami di necessitade assolute; se alla divina cognoscenza si riferiscano, necessarie. Sì come ogni cosa che a' sensi è palese, se alla ragione la riferischi, è universale; se a sè medesimo ragguardi, è singulare. Or dirai tu: se in mia podestade è posto mutare il proposto, io annullerò la Providenza, quando quelle cose ch' ella anticonosce, forse muterò. Io risponderò: per certo te potere il tuo proponimento piegare; ma, perciò che e questo te potere, e se tu lo facci o no, e dove ti rivolga, la presente verità della Providenza vede, la scienza divina te non poter mutare; sì come fuggir non possi il veder dell' occhio presente, avvegna che in varie faccende per libera volontà sie rivolto. Tu dirai dunque: or che muterassi la scienza divina per la mia disposizione, sì che quando or questo or quello voglia, quella eziandío le volte del cognoscere paia alternare? Mainò. Ogni cosa futura anticorre lo sguardo divino, e alla presenza della propria cognizione lo ritorce e richiama; nè, come tu stimi, alterna le volte d' anticognoscere or questo or quello, ma in un colpo le tue mutazioni, immobile, comprende e abbraccia. La qual forza di comprendere e di veder presenti tutte le cose non acquista già dal provenimento delle cose future, ma dalla propria semplicitade. Onde eziandío per questo si solve quel che tu poco dinanzi ponesti, cioè, esser cosa indegna se le nostre cose future siano dette prestar cagione alla divina scienza. Imperciò che questa forza di scienza tutte le cose abbracciando con presenzial cognoscenza, a tutte modo ha costituito, ma niente alle cose di poi è obbligata. Le quali cose con ciò sia che così siano, sta ferma a' mortali la libertà del libero arbitrio non corrotta. Nè le leggi propongono iniquamente i guiderdoni e le pene alle volontà libere d' ogni necessitade. Sta eziandío di sopra lo sguardatore antisapevole di tutte le cose, e la presente etternità della sua visione concorre con la futura qualità degli atti nostri: a' buoni, guiderdoni, - a' rei, tormenti dispensando. Nè sono in Dio poste indarno le speranze e le preghiere; le quali quando son diritte, esser non posson non efficaci. Adunque i vizi inimicate, esercitate le virtudi, a diritte speranze l' animo su levate, e umili preghiere ad alto porgete. Se infigner non vi volete, grande necessitade di probitade v' è imposta, con ciò sia che i vostri atti fate dinanzi agli occhi del iudice che tutto dicerne».
L. 5, expl.Qui finisce lo quinto ed ultimo libro di Boezio de la Filosofica Consolazione. Amen.
cilema ] Ed.: ci lemapag. 15
[1] Carmina qui quondam studio florente peregi, / Flebilis heu maestos cogor inire modos. /
[3] Ecce mihi lacerae dictant scribenda Camenae / Et veris elegi fletibus ora rigant. /
[5] Has saltem nullus potuit pervincere terror, / Ne nostrum comites prosequerentur iter. /
[7] Gloria felicis olim viridisque iuventae / Solantur maesti nunc mea fata senis. /
[9] Venit enim properata malis inopina senectus / Et dolor aetatem iussit inesse suam. /
[11] Intempestivi funduntur vertice cani / Et tremit effeto corpore laxa cutis. /
[13] Mors hominum felix, quae se nec dulcibus annis / Inserit et maestis saepe vocata venit. /
[15] Eheu, quam surda miseros avertitur aure / Et flentes oculos claudere saeva negat. /
[17] Dum levibus male fida bonis fortuna faveret, / Paene caput tristis merserat hora meum. / Nunc quia fallacem mutavit nubila vultum, / Protrahit ingratas impia vita moras. /
[21] Quid me felicem totiens iactastis, amici? / Qui cecidit, stabili non erat ille gradu. /
[1] Haec dum me cum tacitus ipse reputarem querimoniamque lacrimabilem stili officio signarem, astitisse mihi supra verticem visa est mulier reverendi admodum vultus oculis ardentibus et ultra commumem hominum valentiam perspicacibus, colore vivido atque inexhausti vigoris, quamvis ita aevi plena foret, ut nullo modo nostrae crederetur aetatis, statura discretionis ambiguae.
[2] Nam nunc quidem ad communem sese hominum mensuram cohibebat, nunc vero pulsare caelum summi verticis cacumine videbatur; quae cum altius caput extulisset, ipsum etiam caelum penetrabat respicientiumque hominum frustrabatur intuitum.
[3] Vestes erant tenuissimis filis subtili artificio indissolubili materia perfectae, quas, uti post eadem prodente cognovi, suis manibus ipsa texuerat. Quarum speciem, veluti fumosas imagines solet, caligo quaedam neglectae vetustatis obduxerat.
[4] Harum in extremo margine? Graecum, in supremo vero? legebatur intextum. Atque inter utrasque litteras in scalarum modum gradus quidam insigniti videbantur, quibus ab inferiore ad superius elementum esset ascensus.
[5] Eandem tamen vestem violentorum quorundam sciderant manus et particulas, quas quisque potuit, abstulerant.
[6] Et dextra quidem eius libellos, sceptrum vero sinistra gestabat.
[7] Quae ubi poeticas Musas vidit nostro assistentes toro fletibusque meis verba dictantes, commota paulisper ac torvis inflammata luminibus:
[8] Quis, inquit, has scaenicas meretriculas ad hunc aegrum permisit accedere, quae dolores eius non modo nullis remediis foverent, verum dulcibus insuper alerent venenis?
[9] Hae sunt enim quae infructuosis affectuum spinis uberem fructibus rationis segetem necant hominumque mentes assuefaciunt morbo, non liberant.
[10] At si quem profanum, uti vulgo solitum vobis, blanditiae vestrae detraherent, minus moleste ferendum putarem. Nihil quippe in eo nostrae operae laederentur. Hunc vero Eleaticis atque Academicis studiis innutritum?
[11] Sed abite potius, Sirenes usque in exitium dulces, meisque eum Musis curandum sanandumque relinquite.
[12] His ille chorus increpitus deiecit humi maestior vultum confessusque rubore verecundiam limen tristis excessit.
[13] At ego, cuius acies lacrimis mersa caligaret nec dinoscere possem quaenam haec esset mulier tam imperiosae auctoritatis, obstupui visuque in terram defixo quidnam deinceps esset actura exspectare tacitus coepi.
[14] Tum illa propius accedens in extrema lectuli mei parte consedit meumque intuens vultum luctu gravem atque in humum maerore deiectum his versibus de nostrae mentis perturbatione conquesta est:
[1] Heu, quam praecipiti mersa profundo / Mens hebet et propria luce relicta / Tendit in externas ire tenebras, / Terrenis quotiens flatibus aucta / Crescit in immensum noxia cura! /
[6] Hic quondam caelo liber aperto / Suetus in aetherios ire meatus / Cernebat rosei lumina solis, / Visebat gelidae sidera lunae / Et quaecumque vagos stella recursus / Exercet varios flexa per orbes, / Comprensam numeris victor habebat. / Quin etiam causas unde sonora / Flamina sollicitent aequora ponti, / Quis volvat stabilem spiritus orbem, / Vel cur Hesperias sidus in undas / Casurum rutilo surgat ab ortu, /
[18] Quid veris placidas temperet horas, / Ut terram roseis floribus ornet, / Quis dedit, ut pleno fertilis anno / Autumnus gravidis influat uvis, / Rimari solitus atque latentis / Naturae varias reddere causas: /
[24] Nunc iacet effeto lumine mentis / Et pressus gravibus colla catenis / Declivemque gerens pondere vultum / Cogitur heu stolidam cernere terram. /
[1] Sed medicinae, inquit, tempus est quam querelae.
[2] Tum vero totis in me intenta luminibus: Tune ille es, ait, qui nostro quondam lacte nutritus, nostris educatus alimentis in virilis animi robur evaseras?
[3] Atqui talia contuleramus arma, quae, nisi prior abiecisses invicta te firmitate tuerentur.
[4] Agnoscisne me? Quid taces? Pudore an stupore siluisti? Mallem pudore, sed te ut video stupor oppressit.
[5] Cumque me non modo tacitum sed elinguem prorsus mutumque vidisset, admovit pectori meo leniter manum et: Nihil, inquit, pericli est, lethargum patitur, communem illusarum mentium morbum.
[6] Sui paulisper oblitus est, recordabitur facile, si quidem nos ante cognoverit. Quod ut possit, paulisper lumina eius mortalium rerum nube caligantia tergamus.
[7] Haec dixit oculosque meos fletibus undantes contracta in rugam veste siccavit.
[1] Tunc me discussa liquerunt nocte tenebrae / Luminibusque prior rediit vigor. / Ut, cum praecipiti glomerantur nubila coro / Nimbosisque polus stetit imbribus, /
[5] Sol latet ac nondum caelo venientibus astris, / Desuper in terram nox funditur; /
[7] Hanc si Threicio Boreas emissus ab antro / Verberet et clausum reseret diem, / Emicat et subito vibratus lumine Phoebus / Mirantes oculos radiis ferit. /
[1] Haud aliter tristitiae nebulis dissolutis hausi caelum et ad cognoscendam medicantis faciem mentem recepi.
[2] Itaque ubi in eam deduxi oculos intuitumque defixi, respicio nutricem meam, cuius ab adulescentia laribus obversatus fueram, Philosophiam.
[3] Et: Quid, inquam, tu in has exsilii nostri solitudines, o omnium magistra virtutum, supero cardine delapsa venisti? An ut tu quoque me cum rea falsis criminationibus agiteris?
[4] An, inquit illa, te, alumne, desererem nec sarcinam, quam mei nominis invidia sustulisti, communicato tecum labore partirer?
[5] Atqui Philosophiae fas non erat incomitatum relinquere iter innocentis. Meam scilicet criminationem vererer et, quasi novum aliquid accideret, perhorrescerem?
[6] Nunc enim primum censes apud improbos mores lacessitam periculis esse sapientiam? Nonne apud veteres quoque ante nostri Platonis aetatem magnum saepe certamen cum stultitiae temeritate certavimus eodemque superstite praeceptor eius Socrates iniustae victoriam mortis me astante promeruit?
[7] Cuius hereditatem cum deinceps Epicureum vulgus ac Stoicum ceterique pro sua quisque parte raptum ire molirentur meque reclamantem renitentemque velut in partem praedae traherent, vestem, quam meis texueram manibus, disciderunt abreptisque ab ea panniculis totam me sibi cessisse credentes abiere.
[8] In quibus quoniam quaedam nostri habitus vestigia videbantur, meos esse familiares imprudentia rata nonnullos eorum profanae multitudinis errore pervertit.
[9] Quodsi nec Anaxagorae fugam nec Socratis venenum nec Zenonis tormenta, quoniam sunt peregrina, novisti, at Canios, at Senecas, at Soranos, quorum nec pervetusta nec incelebris memoria est, scire potuisti.
[10] Quos nihil aliud in cladem detraxit, nisi quod nostris moribus instituti studiis improborum dissimillimi videbantur.
[11] Itaque nihil est, quod admirere, si in hoc vitae salo circumflantibus agitemur procellis, quibus hoc maxime propositum est pessimis displicere.
[12] Quorum quidem tametsi est numerosus exercitus spernendus tamen est, quoniam nullo duce regitur, sed errore tantum temere ac passim lymphante raptatur.
[13] Qui si quando contra nos aciem struens valentior incubuerit, nostra quidem dux copias suas in arcem contrahit, illi vero circa diripiendas inutiles sarcinulas occupantur.
[14] At nos desuper irridemus vilissima rerum quaeque rapientes securi totius furiosi tumultus eoque vallo muniti, quo grassanti stultitiae aspirare fas non sit.
[1] Quisquis composito serenus aevo / Fatum sub pedibus egit superbum / Fortunamque tuens utramque rectus / Invictum potuit tenere vultum, /
[5] Non illum rabies minaeque ponti / Versum funditus exagitantis aestum / Nec ruptis quotiens vagus caminis / Torquet fumificos Vesaevus ignes / Aut celsas soliti ferire turres / Ardentis via fulminis movebit. /
[11] Quid tantum miseri saevos tyrannos / Mirantur sine viribus furentes? /
[13] Nec speres aliquid nec extimescas, / Exarmaveris impotentis iram. /
[15] At quisquis trepidus pavet vel optat, / Quod non sit stabilis suique iuris, / Abiecit clipeum locoque motus / Nectit, qua valeat trahi, catenam. /
[1] Sentisne, inquit, haec atque animo illabuntur tuo? An }greco{? Quid fles, quid lacrimis manas? }greco{. Si operam medicantis exspectas, oportet vulnus detegas.
[2] Tum ego collecto in vires animo: Anne adhuc eget admonitione nec per se satis eminet fortunae in nos saevientis asperitas? Nihilne te ipsa loci facies movet?
[3] Haecine est bibliotheca, quam certissimam tibi sedem nostris in laribus ipsa delegeras? In qua mecum saepe residens de humanarum divinarumque rerum scientia disserebas?
[4] Talis habitus talisque vultus erat, cum tecum naturae secreta rimarer, cum mihi siderum vias radio describeres, cum mores nostros totiusque vitae rationem ad caelestis ordinis exempla formares? Haecine praemia referimus tibi obsequentes?
[5] Atqui tu hanc sententiam Platonis ore sanxisti: "Beatas fore res publicas, si eas vel studiosi sapientiae regerent vel earum rectores studere sapientiae contigisset."
[6] Tu eiusdem viri ore hanc sapientibus capessendae rei publicae necessariam causam esse monuisti, ne improbis flagitiosisque civibus urbium relicta gubernacula pestem bonis ac perniciem ferrent.
[7] Hanc igitur auctoritatem secutus, quod a te inter secreta otia didiceram, transferre in actum publicae administrationis optavi.
[8] Tu mihi et, qui te sapientium mentibus inseruit, deus conscii nullum me ad magistratum nisi commune bonorum omnium studium detulisse.
[9] Inde cum improbis graves inexorabilesque discordiae et, quod conscientiae libertas habet, pro tuendo iure spreta potentiorum semper offensio.
[10] Quotiens ego Conigastum in imbecilli cuiusque fortunas impetum facientem obvius excepi, quotiens Trigguillam regiae praepositum domus ab incepta, perpetrata iam prorsus iniuria deieci, quotiens miseros, quos infinitis calumniis impunita barbarorum semper avaritia vexabat, obiecta periculis auctoritate protexi! Numquam me ab iure ad iniurium quicquam detraxit.
[11] Provincialium fortunas tum privatis rapinis tum publicis vectigalibus pessumdari non aliter quam qui patiebantur indolui.
[12] Cum acerbae famis tempore gravis atque inexplicabilis indicta coemptio profligatura inopia Campaniam provinciam videretur, certamen adversum praefectum praetorii communis commodi ratione suscepi, rege cognoscente contendi et, ne coemptio exigeretur, evici.
[13] Paulinum consularem virum, cuius opes Palatinae canes iam spe atque ambitione devorassent, ab ipsis hiantium faucibus traxi.
[14] Ne Albinum consularem virum praeiudicatae accusationis poena corriperet, odiis me Cypriani delatoris opposui.
[15] Satisne in me magnas videor exacerbasse discordias? Sed esse apud ceteros tutior debui, qui mihi amore iustitiae nihil apud aulicos, quo magis essem tutior, reservavi.
[16] Quibus autem deferentibus perculsi simus? Quorum Basilius olim regio ministerio depulsus in delationem nostri nominis alieni aeris necessitate compulsus est.
[17] Opilionem vero atque Gaudentium cum ob innumeras multiplicesque fraudes ire in exsilium regia censura decrevisset cumque illi parere nolentes sacrarum sese aedium defensione tuerentur compertumque id regi foret, edixit, uti, ni intra praescriptum diem Ravenna urbe decederent, notas insigniti frontibus pellerentur.
[18] Quid huic severitati posse astrui videtur? Atquin eo die deferentibus eisdem nominis nostri delatio suscepta est.
[19] Quid igitur? Nostraene artes ita meruerunt? An illos accusatores iustos fecit praemissa damnatio? Itane nihil fortunam puduit si minus accusatae innocentiae, at accusantium vilitas?
[20] At cuius criminis arguimur summam quaeres? Senatum dicimur salvum esse voluisse.
[21] Modum desideras? Delatorem, ne documenta deferret, quibus senatum maiestatis reum faceret, impedisse criminamur.
[22] Quid igitur, o magistra, censes? Infitiabimur crimen, ne tibi pudor simus? At volui nec umquam velle desistam. Fatebimur?
[23] Sed impediendi delatoris opera cessavit. An optasse illius ordinis salutem nefas vocabo? Ille quidem suis de me decretis, uti hoc nefas esset, effecerat.
[24] Sed sibi semper mentiens imprudentia rerum merita non potest immutare, nec mihi Socratico decreto fas esse arbitror vel occuluisse veritatem vel concessisse mendacium.
[25] Verum id quoquo modo sit, tuo sapientiumque iudicio aestimandum relinquo. Cuius rei seriem atque veritatem, ne latere posteros queat, stilo etiam memoriaeque mandavi.
[26] Nam de compositis falso litteris, quibus libertatem arguor sperasse Romanam, quid attinet dicere? Quarum fraus aperta patuisset, si nobis ipsorum confessione delatorum, quod in omnibus negotiis maximas vires habet, uti licuisset.
[27] Nam quae sperari reliqua libertas potest? Atque utinam posset ulla! Respondissem Canii verbo, qui cum a Gaio Caesare, Germanici filio, conscius contra se factae coniurationis fuisse diceretur: "Si ego, inquit, scissem, tu nescisses".
[28] Qua in re non ita sensus nostros maeror hebetavit, ut impios scelerata contra virtutem querar molitos, sed quae speraverint effecisse vehementer admiror.
[29] Nam deteriora velle nostri fuerit fortasse defectus, posse contra innocentiam, quae sceleratus quisque conceperit, inspectante deo, monstri simile est.
[30] Unde haud iniuria tuorum quidam familiarium quaesivit: "Si quidem deus", inquit, "est, unde mala? Bona vero unde, si non est?"
[31] Sed fas fuerit nefarios homines, qui bonorum omnium totiusque senatus sanguinem petunt, nos etiam, quos propugnare bonis senatuique viderant, perditum ire voluisse.
[32] Sed num idem de patribus quoque merebamur? Meministi, ut opinor, quoniam me dicturum quid facturumve praesens semper ipsa dirigebas, meministi, inquam, Veronae cum rex avidus exitii communis maiestatis crimen in Albinum delatae ad cunctum senatus ordinem transferre moliretur, universi innocentiam senatus quanta mei periculi securitate defenderim.
[33] Scis me haec et vera proferre et in nulla umquam mei laude iactasse. Minuit enim quodam modo se probantis conscientiae secretum, quotiens ostentando quis factum recipit famae pretium.
[34] Sed innocentiam nostram quis exceperit eventus, vides. Pro verae virtutis praemiis falsi sceleris poenas subimus.
[35] Eccuius umquam facinoris manifesta confessio ita iudices habuit in severitate concordes, ut non aliquos vel ipse ingenii error humani vel fortunae condicio cunctis mortalibus incerta submitteret?
[36] Si inflammare sacras aedes voluisse, si sacerdotes impio iugulare gladio, si bonis omnibus necem struxisse diceremur, praesentem tamen sententia, confessum tamen convictumve punisset. Nunc quingentis fere passuum milibus procul muti atque indefensi ob studium propensius in senatum morti proscriptionique damnamur; o meritos de simili crimine neminem posse convinci!
[37] Cuius dignitatem reatus ipsi etiam qui detulere viderunt; quam uti alicuius sceleris ammixtione fuscarent, ob ambitum dignitatis sacrilegio me conscientiam polluisse mentiti sunt.
[38] Atqui et tu insita nobis omnem rerum mortalium cupidinem de nostri animi sede pellebas et sub tuis oculis sacrilegio locum esse fas non erat. Instillabas enim auribus cogitationibusque cotidie meis Pythagoricum illud }greco{.
[39] Nec conveniebat vilissimorum me spirituum praesidia captare, quem tu in hanc excellentiam componebas, ut consimilem deo faceres.
[40] Praeterea penetral innocens domus, honestissimorum coetus amicorum, socer etiam sanctus et aeque ac tu ipsa reverendus ab omni nos huius criminis suspicione defendunt.
[41] Sed, o nefas, illi vero de te tanti criminis fidem capiunt atque hoc ipso videbimur affines fuisse maleficio, quod tuis imbuti disciplinis, tuis instituti moribus sumus.
[42] Ita non est satis nihil mihi tuam profuisse reverentiam, nisi ultro tu mea potius offensione lacereris.
[43] At vero hic etiam nostris malis cumulus accedit, quod existimatio plurimorum non rerum merita, sed fortunae spectat eventum eaque tantum iudicat esse provisa, quae felicitas commendaverit. Quo fit, ut existimatio bona prima omnium deserat infelices.
[44] Qui nunc populi rumores, quam dissonae multiplicesque sententiae, piget reminisci. Hoc tantum dixerim ultimam esse adversae fortunae sarcinam, quod, dum miseris aliquod crimen affingitur, quae perferunt, meruisse creduntur.
[45] Et ego quidem bonis omnibus pulsus, dignitatibus exutus, existimatione foedatus ob beneficium supplicium tuli.
[46] Videre autem videor nefarias sceleratorum officinas gaudio laetitiaque fluitantes, perditissimum quemque novis delationum fraudibus imminentem, iacere bonos nostri discriminis terrore prostratos, flagitiosum quemque ad audendum quidem facinus impunitate, ad efficiendum vero praemiis incitari, insontes autem non modo securitate, verum ipsa etiam defensione privatos. Itaque libet exclamare:
[1] O stelliferi conditor orbis, / Qui perpetuo nixus solio / Rapido caelum turbine versas / Legemque pati sidera cogis, / Ut nunc pleno lucida cornu, / Totis fratris obvia flammis / Condat stellas luna minores, /
[8] Nunc obscuro pallida cornu / Phoebo propior lumina perdat. / Et qui primae tempore noctis / Agit algentes Hesperos ortus, / Solitas iterum mutet habenas / Phoebi pallens Lucifer ortu. /
[14] Tu frondifluae frigore brumae / Stringis lucem breviore mora; / Tu, cum fervida venerit aestas, / Agiles nocti dividis horas. /
[18] Tua vis varium temperat annum, / Ut, quas Boreae spiritus aufert, / Revehat mites Zephyrus frondes, / Quaeque Arcturus semina vidit, / Sirius altas urat segetes. /
[23] Nihil antiqua lege solutum / Linquit propriae stationis opus. / Omnia certo fine gubernans / Hominum solos respuis actus / Merito rector cohibere modo. /
[28] Nam cur tantas lubrica versat / Fortuna vices? Premit insontes / Debita sceleri noxia poena; / At perversi resident celso / Mores solio sanctaque calcant / Iniusta vice colla nocentes. /
[34] Latet obscuris condita virtus / Clara tenebris iustusque tulit / Crimen iniqui! / Nil periuria, nil nocet ipsis / Fraus mendaci compta colore. /
[39] Sed cum libuit viribus uti, / Quos innumeri metuunt populi / Summos gaudent subdere reges. /
[42] O iam miseras respice terras, / Quisquis rerum foedera nectis. / Operis tanti pars non vilis / Homines quatimur fortunae salo. /
[46] Rapidos, rector, comprime fluctus, / Et quo caelum regis immemsum, / Firma stabiles foedere terras. /
[1] Haec ubi continuato dolore delatravi, illa vultu placido nihilque meis questibus mota:
[2] Cum te, inquit, maestum lacrimantemque vidissem, ilico miserum exsulemque cognovi. Sed quam id longinquum esset exsilium, nisi tua prodidisset oratio, nesciebam.
[3] Sed tu quam procul a patria non quidem pulsus es, sed aberrasti, ac si te pulsum existimari mavis, te potius ipse pepulisti. Nam id quidem de te numquam cuiquam fas fuisset.
[4] Si enim cuius oriundo sis patriae, reminiscare, non uti Atheniensium quondam multitudinis imperio regitur, sed }greco{, qui frequentia civium, non depulsione laetetur; cuius agi frenis atque obtemperare iustitiae libertas est.
[5] An ignoras illam tuae civitatis antiquissimam legem, qua sanctum est ei ius exsulare non esse, quisquis in ea sedem fundare maluerit? Nam qui vallo eius ac munimine continetur, nullus metus est, ne exsul esse mereatur. At quisquis inhabitare eam velle desierit, pariter desinit etiam mereri.
[6] Itaque non tam me loci huius quam tua facies movet, nec bibliothecae potius comptos ebore ac vitro parietes quam tuae mentis sedem requiro, in qua non libros, sed id quod libris pretium facit, librorum quondam meorum sententias collocavi.
[7] Et tu quidem de tuis in commune bonum meritis vera quidem, sed pro multitudine gestorum tibi pauca dixisti.
[8] De obiectorum tibi vel honestate vel falsitate cunctis nota memorasti. De sceleribus fraudibusque delatorum recte tu quidem strictim attingendum putasti, quod ea melius uberiusque recognoscentis omnia vulgi ore celebrentur.
[9] Increpuisti etiam vehementer iniusti factum senatus; de nostra etiam criminatione doluisti, laesae quoque opinionis damna flevisti.
[10] Postremus adversum fortunam dolor incanduit conquestusque non aequa meritis praemia pensari; in extremo Musae saevientis, uti quae caelum terras quoque pax regeret, vota posuisti.
[11] Sed quoniam plurimus tibi affectuum tumultus incubuit diversumque te dolor ira maeror distrahunt, uti nunc mentis es, nondum te validiora remedia contingunt.
[12] Itaque lenioribus paulisper utemur, ut quae in tumorem perturbationibus influentibus induruerunt, ad acrioris vim medicaminis recipiendam tactu blandiore mollescant.
[1] Cum Phoebi radiis grave / Cancri sidus inaestuat, / Tum qui larga negantibus / Sulcis semina credidit, / Elusus Cereris fide / Quernas pergat ad arbores. /
[7] Numquam purpureum nemus / Lecturus violas petas, / Cum saevis Aquilonibus / Stridens campus inhorruit, /
[11] Nec quaeras avida manu / Vernos stringere palmites, / Uvis si libeat frui; / Autumno potius sua / Bacchus munera contulit. /
[16] Signat tempora propriis / Aptans officiis deus / Nec, quas ipse coercuit, / Misceri patitur vices. /
[20] Sic quod praecipiti via / Certum deserit ordinem, / Laetos non habet exitus. /
[1] Primum igitur paterisne me pauculis rogationibus statum tuae mentis attingere atque temptare, ut, qui modus sit tuae curationis, intellegam?
[2] Tu vero arbitratu, inquam, tuo quae voles ut responsurum rogato.
[3] Tum illa: Huncine, inquit, mundum temerariis agi fortuitisque casibus putas, an ullum credis ei regimen inesse rationis?
[4] Atqui, inquam, nullo existimaverim modo, ut fortuita temeritate tam certa moveantur, verum operi suo conditorem praesidere deum scio nec umquam fuerit dies, qui me ab hac sententiae veritate depellat.
[5] Ita est, inquit, nam id etiam paulo ante cecinisti, hominesque tantum divinae exsortes curae esse deplorasti; nam de ceteris, quin ratione regerentur, nihil movebare.
[6] Papae autem vehementer admiror, cur in tam salubri sententia locatus aegrotes. Verum altius perscrutemur; nescio quid abesse coniecto.
[7] Sed dic mihi, quoniam deo mundum regi non ambigis, quibus etiam gubernaculis regatur advertis?
[8] Vix, inquam, rogationis tuae sententiam nosco, nedum ad inquisita respondere queam.
[9] Num me, inquit, fefellit abesse aliquid, per quod, velut hiante valli robore in animum tuum perturbationum morbus inrepserit?
[10] Sed dic mihi, meministine, quis sit rerum finis, quove totius naturae tendat intentio? Audieram, inquam, sed memoriam maeror hebetavit. Atqui scis, unde cuncta processerint?
[11] Novi, inquam, deumque esse respondi.
[12] Et qui fieri potest, ut principio cognito, quis sit rerum finis, ignores?
[13] Verum hi perturbationum mores, ea valentia est, ut movere quidem loco hominem possint, convellere autem sibique totum exstirpare non possint.
[14] Sed hoc quoque respondeas velim: Hominemne te esse meministi?
[15] Quidni, inquam, meminerim? Quid igitur homo sit poterisne proferre? Hocine interrogas, an esse me sciam rationale animal atque mortale? Scio, et id me esse confiteor.
[16] Et illa: nihilne aliud te esse novisti? Nihil.
[17] Iam scio, inquit, morbi tui aliam vel maximam causam: quid ipse sis, nosse desisti. Quare plenissime vel aegritudinis tuae rationem vel aditum reconciliandae sospitatis inveni.
[18] Nam quoniam tui oblivione confunderis, et exsulem te et exspoliatum propriis bonis esse doluisti.
[19] Quoniam vero quis sit rerum finis ignoras, nequam homines atque nefarios potentes felicesque arbitraris. Quoniam vero, quibus gubernaculis mundus regatur, oblitus es, has fortunarum vices aestimas sine rectore fluitare: magnae non ad morbum modo, verum ad interitum quoque causae; sed sospitatis auctori grates, quod te nondum totum natura destituit.
[20] Habemus maximum tuae fomitem salutis veram de mundi gubernatione sententiam, quod eam non casuum temeritati, sed divinae rationi subditam credis. Nihil igitur pertimescas, iam tibi ex hac minima scintillula vitalis calor illuxerit.
[21] Sed quoniam firmioribus remediis nondum tempus est et eam mentium constat esse naturam, ut, quotiens abiecerint veras, falsis opinionibus induantur, ex quibus orta perturbationum caligo verum illum confundit intuitum, hanc paulisper lenibus mediocribusque fomentis attenuare temptabo, ut dimotis fallacium affectionum tenebris splendorem verae lucis possis agnoscere.
[1] Nubibus atris / Condita nullum / Fundere possunt / Sidera lumen. /
[5] Si mare volvens / Turbidus Auster / Misceat aestum, / Vitrea dudum / Parque serenis / Unda diebus / Mox resoluto / Sordida caeno / Visibus obstat. / Quique vagatur / Montibus altis / Defluus amnis, / Saepe resistit / Rupe soluti / Obice saxi. /
[20] Tu quoque, si vis / Lumine claro / Cernere verum, / Tramite recto / Carpere callem: / Gaudia pelle, / Pelle timorem / Spemque fugato / Nec dolor adsit. /
[29] Nubila mens est / Vinctaque frenis, / Haec ubi regnant. /
[1] Post haec paulisper obticuit atque, ubi attentionem meam modesta taciturnitate collegit, sic exorsa est:
[2] Si penitus aegritudinis tuae causas habitumque cognovi, fortunae prioris affectu desiderioque tabescis. Ea tantum animi tui, sicuti tu tibi fingis, mutata pervertit.
[3] Intellego multiformes illius prodigii fucos et eo usque cum his, quos eludere nititur, blandissimam familiaritatem, dum intolerabili dolore confundat, quos insperata reliquerit.
[4] Cuius si naturam, mores ac meritum reminiscare, nec habuisse te in ea pulchrum aliquid nec amisisse cognosces; sed, ut arbitror, haud multum tibi haec in memoriam revocare laboraverim;
[5] solebas enim praesentem quoque blandientemque virilibus incessere verbis eamque de nostro adyto prolatis insectabare sententiis.
[6] Verum omnis subita mutatio rerum non sine quodam quasi fluctu contingit animorum. Sic factum est, ut tu quoque paulisper a tua tranquillitate descisceres.
[7] Sed tempus est haurire te aliquid ac degustare molle atque iucundum, quod ad interiora transmissum validioribus haustibus viam fecerit.
[8] Adsit igitur rhetoricae suadela dulcedinis, quae tum tantum recto calle procedit, cum nostra instituta non deserit cumque hac musica laris nostri vernacula nunc leviores nunc graviores modos succinat.
[9] Quid est igitur, o homo, quod te in maestitiam luctumque deiecit? Novum, credo, aliquid inusitatumque vidisti. Tu fortunam putas erga te esse mutatam: erras.
[10] Hi semper eius mores sunt, ista natura. Servavit circa te propriam potius in ipsa sui mutabilitate constantiam. Talis erat, cum blandiebatur, cum tibi falsae illecebris felicitatis alluderet.
[11] Deprehendisti caeci numinis ambiguos vultus; quae sese adhuc velat aliis, tota tibi prorsus innotuit.
[12] Si probas, utere moribus, ne queraris. Si perfidiam perhorrescis, sperne atque abice perniciosa ludentem. Nam quae nunc tibi est tanti causa maeroris, haec eadem tranquillitatis esse debuisset. Reliquit enim te, quam non relicturam nemo umquam poterit esse securus.
[13] An vero tu pretiosam aestimas abituram felicitatem? Et cara tibi est fortuna praesens nec manendi fida et, cum discesserit allatura maerorem?
[14] Quodsi nec ex arbitrio retineri potest et calamitosos fugiens facit, quid est aliud fugax quam futurae quoddam calamitatis indicium?
[15] Neque enim, quod ante oculos situm est, suffecerit intueri; rerum exitus prudentia metitur eademque in alterutro mutabilitas nec formidandas fortunae minas nec exoptandas facit esse blanditias.
[16] Postremo aequo animo toleres oportet, quicquid intra fortunae aream geritur, cum semel iugo eius colla summiseris.
[17] Quodsi manendi abeundique scribere legem velis ei, quam tu tibi dominam sponte legisti, nonne iniurius fueris et impatientia sortem exacerbes, quam permutare non possis?
[18] Si ventis vela committeres, non quo voluntas peteret, sed quo flatus impellerent, promoveres; si arvis semina crederes, feraces inter se annos sterilesque pensares. Fortunae te regendum dedisti: dominae moribus oportet obtemperes.
[19] Tu vero volventis rotae impetum retinere conaris? At, omnium mortalium stolidissime, si manere incipit, fors esse desistit.
[1] Haec cum superba verterit vices dextra, / Exaestuantis more fertur Euripi, / Dudum tremendos saeva proterit reges / Humilemque victi sublevat fallax vultum. /
[5] Non illa miseros audit aut curat fletus / Ultroque gemitus, dura quos fecit, ridet. /
[7] Sic illa ludit, sic suas probat vires / Magnumque tristis monstrat ostentum, si quis / Visatur una stratus ac felix hora. /
[1] Vellem autem pauca te cum Fortunae ipsius verbis agitare. Tu igitur, an ius postulet, animadverte:
[2] "Quid tu, homo, ream me cotidianis agis querelis? quam tibi fecimus iniuriam? quae tibi tua detraximus bona?
[3] Quovis iudice de opum dignitatumque mecum possessione contende et, si cuiusquam mortalium proprium quid horum esse monstraveris, ego iam tua fuisse, quae repetis, sponte concedam.
[4] Cum te matris utero produxit, nudum rebus omnibus inopemque suscepi, meis opibus fovi et, quod te nunc impatientem nostri facit, favore prona indulgentius educavi: omnium, quae mei iuris sunt affluentia et splendore circumdedi.
[5] Nunc mihi retrahere manum libet; habes gratiam velut usus alienis, non habes ius querelae tamquam prorsus tua perdideris.
[6] Quid igitur ingemescis? Nulla tibi a nobis est allata violentia. Opes, honores ceteraque talium mei sunt iuris. Dominam famulae cognoscunt, mecum veniunt, me abeunte discedunt.
[7] Audacter adfirmem, si tua forent, quae amissa conquereris, nullo modo perdidisses.
[8] An ego sola meum ius exercere prohibebor? Licet caelo proferre lucidos dies eosdemque tenebrosis noctibus condere, licet anno terrae vultum nunc floribus frugibusque redimire, nunc nimbis frigoribusque confundere. Ius est mari nunc strato aequore blandiri, nunc procellis ac fluctibus inhorrescere. Nos ad constantiam nostris moribus alienam inexpleta hominum cupiditas alligabit?
[9] Haec nostra vis est, hunc continuum ludum ludimus: rotam volubili orbe versamus, infima summis, summa infimis mutare gaudemus.
[10] Ascende, si placet, sed ea lege, ne, uti cum ludicri mei ratio poscet, descendere iniuriam putes.
[11] An tu mores ignorabas meos? Nesciebas Croesum regem Lydorum Cyro paulo ante formidabilem, mox deinde miserandum rogi flammis traditum misso caelitus imbre defensum?
[12] Num te praeterit Paulum Persi regis a se capti calamitatibus pias impendisse lacrimas? Quid tragoediarum clamor aliud deflet nisi indiscreto ictu fortunam felicia regna vertentem?
[13] Nonne adulescentulus }greco{ in Iovis limine iacere didicisti?
[14] Quid, si uberius de bonorum parte sumpsisti, quid, si a te non tota discessi, quid, si haec ipsa mei mutabilitas iusta tibi causa est sperandi meliora, tamenne animo contabescas et intra commune omnibus regnum locatus proprio vivere iure desideres?"
[1] Si quantas rapidis flatibus incitus / Pontus versat harenas, / Aut quot stelliferis edita noctibus / Caelo sidera fulgent, /
[5] Tantas fundat opes nec retrahat manum / Pleno copia cornu, / Humanum miseras haud ideo genus / Cesset flere querelas. /
[9] Quamvis vota libens excipiat deus / Multi prodigus auri / Et claris avidos ornet honoribus, / Nil iam parta videntur, / Sed quaesita vorans saeva rapacitas / Alios pandit hiatus. /
[15] Quae iam praecipitem frena cupidinem / Certo fine retentent, / Largis cum potius muneribus fluens / Sitis ardescit habendi? /
[19] Numquam dives agit qui trepidus gemens / Sese credit egentem. /
[1] His igitur si pro se te cum Fortuna loqueretur, quid profecto contra hisceres non haberes; aut si quid est, quo querelam tuam iure tuearis, proferas oportet. Dabimus dicendi locum.
[2] Tum ego: Speciosa quidem ista sunt, inquam, oblitaque rhetoricae ac musicae melle dulcedinis tum tantum, cum audiuntur, oblectant, sed miseris malorum altior sensus est. Itaque cum haec auribus insonare desierint, insitus maeror animum praegravat.
[3] Et illa: Ita est, inquit; haec enim nondum morbi tui remedia, sed adhuc contumacis adversum curationem doloris fomenta quaedam sunt.
[4] Nam quae in profundum sese penetrent cum tempestivum fuerit admovebo. Verumtamen ne te existimari miserum velis, an numerum modumque tuae felicitatis oblitus es?
[5] Taceo quod desolatum parente summorum te virorum cura suscepit delectusque in affinitatem principum civitatis, quod pretiosissimum propinquitatis genus est, prius carus quam proximus esse coepisti.
[6] Quis non te felicissimum cum tanto splendore socerorum, cum coniugis pudore, tum masculae quoque prolis opportunitate praedicavit?
[7] Praetereo, libet enim praeterire communia, sumptas in adulescentia negatas senibus dignitates: ad singularem felicitatis tuae cumulum venire delectat.
[8] Si quis rerum mortalium fructus ullum beatitudinis pondus habet, poteritne illius memoria lucis quantalibet ingruentium malorum mole deleri, cum duos pariter consules liberos tuos domo provehi sub frequentia patrum, sub plebis alacritate vidisti, cum eisdem in curia curules insidentibus tu regiae laudis orator ingenii gloriam facundiaeque meruisti, cum in circo duorum medius consulum circumfusae multitudinis exspectationem triumphali largitione satiasti?
[9] Dedisti, ut opinor, verba Fortunae, dum te illa demulcet, dum te ut delicias suas fovet. Munus, quod nulli umquam privato commodaverat, abstulisti. Visne igitur cum Fortuna calculum ponere?
[10] Nunc te primum liventi oculo praestrinxit. Si numerum modumque laetorum tristiumve consideres, adhuc te felicem negare non possis.
[11] Quodsi idcirco te fortunatum esse non aestimas, quoniam, quae tunc laeta videbantur, abierunt, non est, quod te miserum putes, quoniam, quae nunc creduntur maesta, praetereunt.
[12] An tu in hanc vitae scaenam nunc primum subitus hospesque venisti? Ullamne humanis rebus inesse constantiam reris, cum ipsum saepe hominem velox hora dissolvat?
[13] Nam etsi rara est fortuitis manendi fides, ultimus tamen vitae dies mors quaedam fortunae est etiam manentis.
[14] Quid igitur referre putas, tune illam moriendo deseras an te illa fugiendo?
[1] Cum polo Phoebus roseis quadrigis / Lucem spargere coeperit, / Pallet albentes hebetata vultus / Flammis stella prementibus. /
[5] Cum nemus flatu Zephyri tepentis / Vernis inrubuit rosis, / Spiret insanum nebulosus Auster: / Iam spinis abeat decus. /
[9] Saepe tranquillo radiat sereno / Immotis mare fluctibus, / Saepe ferventes Aquilo procellas / Verso concitat aequore. /
[13] Rara si constat sua forma mundo, / Si tantas variat vices, / Crede fortunis hominum caducis, / Bonis crede fugacibus! /
[17] Constat aeterna positumque lege est, / Ut constet genitum nihil. /
[1] Tum ego: Vera, inquam, commemoras, o virtutum omnium nutrix, nec infitiari possum prosperitatis meae velocissimum cursum.
[2] Sed hoc est, quod recolentem vehementius coquit. Nam in omni adversitate fortunae infelicissimum est genus infortunii fuisse felicem.
[3] Sed quod tu, inquit, falsae opinionis supplicium luas, id rebus iure imputare non possis. Nam si te hoc inane nomen fortuitae felicitatis movet, quam pluribus maximisque abundes, mecum reputes licet.
[4] Igitur si, quod in omni fortunae tuae censu pretiosissimum possidebas, id tibi divinitus inlaesum adhuc inviolatumque servatur, poterisne meliora quaeque retinens de infortunio iure causari?
[5] Atqui viget incolumis illud pretiosissimum generis humani decus Symmachus socer et, quod vitae pretio non segnis emeres, vir totus ex sapientia virtutibusque factus suarum securus tuis ingemescit iniuriis.
[6] Vivit uxor ingenio modesta, pudicitia pudore praecellens et, ut omnes eius dotes breviter includam, patri similis. Vivit, inquam, tibique tantum vitae huius exosa spiritum servat, quoque uno felicitatem minui tuam vel ipsa concesserim, tui desiderio lacrimis ac dolore tabescit.
[7] Quid dicam liberos consulares, quorum iam ut in id aetatis pueris vel paterni vel aviti specimen elucet ingenii?
[8] Cum igitur praecipua sit mortalibus vitae cura retinendae, o te, si tua bona cognoscas, felicem, cui suppetunt etiam nunc, quae vita nemo dubitat esse cariora.
[9] Quare sicca iam lacrimas. Nondum est ad unum omnes exosa fortuna nec tibi nimium valida tempestas incubuit, quando tenaces haerent ancorae, quae nec praesentis solamen nec futuri spem temporis abesse patiantur.
[10] Et haereant, inquam, precor. Illis namque manentibus, utcumque se res habeant, enatabimus. Sed quantum ornamentis nostris decesserit, vides.
[11] Et illa: Promovimus, inquit, aliquantum, si te nondum totius tuae sortis piget. Sed delicias tuas ferre non possum, qui abesse aliquid tuae beatitudini tam luctuosus atque anxius conqueraris.
[12] Quis est enim tam compositae felicitatis, ut non aliqua ex parte cum status sui qualitate rixetur? Anxia enim res est humanorum condicio bonorum et quae vel numquam tota proveniat vel numquam perpetua subsistat.
[13] Huic census exuberat, sed est pudori degener sanguis. Hunc nobilitas notum facit, sed angustia rei familiaris inclusus esse mallet ignotus.
[14] Ille utroque circumfluus vitam caelibem deflet. Ille nuptiis felix orbus liberis alieno censum nutrit heredi. Alius prole laetatus filii filiaeve delictis maestus illacrimat.
[15] Idcirco nemo facile cum fortunae suae condicione concordat. Inest enim singulis, quod inexpertus ignoret, expertus exhorreat.
[16] Adde, quod felicissimi cuiusque delicatissimus sensus est et, nisi ad nutum cuncta suppetant, omnis adversitatis insolens minimis quibusque prosternitur. Adeo perexigua sunt, quae fortunatissimis beatitudinis summam detrahunt.
[17] Quam multos esse coniectas, qui sese caelo proximos arbitrentur, si de fortunae tuae reliquiis pars eis minima contingat? Hic ipse locus, quem tu exsilium vocas, incolentibus patria est.
[18] Adeo nihil est miserum, nisi cum putes, contraque beata sors omnis est aequanimitate tolerantis.
[19] Quis est ille tam felix, qui cum dederit impatientiae manus, statum suum mutare non optet?
[20] Quam multis amaritudinibus humanae felicitatis dulcedo respersa est! Quae si etiam fruenti iucunda esse videatur, tamen quominus, cum velit, abeat, retineri non possit.
[21] Liquet igitur, quam sit mortalium rerum misera beatitudo, quae nec apud aequanimos perpetua perdurat nec anxios tota delectat.
[22] Quid igitur, o mortales, extra petitis intra vos positam felicitatem? Error vos inscitiaque confundit.
[23] Ostendam breviter tibi summae cardinem felicitatis. Estne aliquid tibi te ipso pretiosius? Nihil, inquies. Igitur si tui compos fueris, possidebis, quod nec tu amittere umquam velis nec fortuna possit auferre.
[24] Atque ut agnoscas in his fortuitis rebus beatitudinem constare non posse, sic collige.
[25] Si beatitudo est summum naturae bonum ratione degentis nec est summum bonum, quod eripi ullo modo potest, quoniam praecellit id, quod nequeat auferri, manifestum est, quin ad beatitudinem percipiendam fortunae instabilitas aspirare non possit.
[26] Ad haec, quem caduca ista felicitas vehit, vel scit eam vel nescit esse mutabilem. Si nescit, quaenam beata sors esse potest ignorantiae caecitate? Si scit, metuat necesse est, ne amittat, quod amitti posse non dubitat. Quare continuus timor non sinit esse felicem. An vel si amiserit, neglegendum putat?
[27] Sic quoque perexile bonum est, quod aequo animo feratur amissum.
[28] Et quoniam tu idem es, cui persuasum atque insitum permultis demonstrationibus scio mentes hominum nullo modo esse mortales, cumque clarum sit fortuitam felicitatem corporis morte finiri, dubitari nequit, si haec afferre beatitudinem potest, quin omne mortalium genus in miseriam mortis fine labatur.
[29] Quod si multos scimus beatitudinis fructum non morte solum, verum etiam doloribus suppliciisque quaesisse, quonam modo praesens facere beatos potest, quae miseros transacta non efficit?
[1] Quisquis volet perennem / Cautus ponere sedem / Stabilisque nec sonori / Sterni flatibus Euri / Et fluctibus minantem / Curat spernere pontum, / Montis cacumen alti, / Bibulas vitet harenas. /
[9] Illud protervus Auster / Totis viribus urguet, / Hae pendulum solutae / Pondus ferre recusant. /
[13] Fugiens periculosam / Sortem sedis amoenae / Humili domum memento / Certus figere saxo. /
[17] Quamvis tonet ruinis / Miscens aequora ventus, / Tu conditus quieti / Felix robore valli, / Duces serenus aevum / Ridens aetheris iras. /
[1] Sed quoniam rationum iam in te mearum fomenta descendunt, paulo validioribus utendum puto.
[2] Age enim, si iam caduca et momentaria fortunae dona non essent, quid in eis est, quod aut vestrum umquam fieri queat aut non perspectum consideratumque vilescat?
[3] Divitiaene vel vestri vel sui natura pretiosae sunt? Quid earum potius, aurumne an vis congesta pecuniae?
[4] Atqui haec effundendo magis quam coacervando melius nitent, si quidem avaritia semper odiosos, claros largitas facit.
[5] Quodsi manere apud quemque non potest, quod transfertur in alterum, tunc est pretiosa pecunia, cum translata in alios largiendi usu desinit possideri.
[6] At eadem, si apud unum, quanta est ubique gentium, congeratur, ceteros sui inopes fecerit; et vox quidem tota pariter multorum replet auditum, vestrae vero divitiae nisi comminutae in plures transire non possunt. Quod cum factum est, pauperes necesse est faciant, quos relinquunt.
[7] O igitur angustas inopesque divitias, quas nec habere totas pluribus licet et ad quemlibet sine ceterorum paupertate non veniunt.
[8] An gemmarum fulgor oculos trahit? Sed si quid est in hoc splendore praecipui, gemmarum est lux illa, non hominum; quas quidem mirari homines vehementer admiror.
[9] Quid est enim carens animae motu atque compage, quod animatae rationabilique naturae pulchrum esse iure videatur?
[10] Quae tametsi conditoris opera suique distinctione postremae aliquid pulchritudinis trahunt, infra vestram tamen excellentiam collocatae admirationem vestram nullo modo mereantur.
[11] An vos agrorum pulchritudo delectat? Quidni? Est enim pulcherrimi operis pulchra portio.
[12] Sic quondam sereni maris facie gaudemus, sic caelum, sidera, lunam solemque miramur: num te horum aliquid attingit, num audes alicuius talium splendore gloriari?
[13] An vernis floribus ipse distingueris aut tua in aestivos fructus intumescit ubertas?
[14] Quid inanibus gaudiis raperis, quid externa bona pro tuis amplexaris? Numquam tua faciet esse fortuna, quae a te natura rerum fecit aliena.
[15] Terrarum quidem fructus animantium procul dubio debentur alimentis. Sed si, quod naturae satis est, replere indigentiam velis, nihil est, quod fortunae affluentiam petas.
[16] Paucis enim minimisque natura contenta est; cuius satietatem si superfluis urguere velis, aut iniucundum, quod infuderis, fiet aut noxium.
[17] Iam vero pulchrum variis fulgere vestibus putas, quarum si grata intuitu species est, aut materiae naturam aut ingenium mirabor artificis.
[18] An vero te longus ordo famulorum facit esse felicem? Qui si vitiosi moribus sint, perniciosa domus sarcina et ipsi domino vehementer inimica; sin vero probi, quonam modo in tuis opibus aliena probitas numerabitur?
[19] Ex quibus omnibus nihil horum, quae tu in tuis computas bonis, tuum esse bonum liquido monstratur. Quibus si nihil inest appetendae pulchritudinis, quid est, quod vel amissis doleas vel laeteris retentis?
[20] Quodsi natura pulchra sunt, quid id tua refert? Nam haec per se a tuis quoque opibus sequestrata placuissent.
[21] Neque enim idcirco sunt pretiosa, quod in tuas venere divitias, sed quoniam pretiosa videbantur, tuis ea divitiis annumerare maluisti.
[22] Quid autem tanto fortunae strepitu desideratis? Fugare, credo, indigentiam copia quaeritis;
[23] atqui hoc vobis in contrarium cedit. Pluribus quippe adminiculis opus est ad tuendam pretiosae supellectilis varietatem, verumque illud est permultis eos indigere, qui permulta possideant, contraque minimum, qui abundantiam suam naturae necessitate, non ambitus superfluitate metiantur.
[24] Itane autem nullum est proprium vobis atque insitum bonum, ut in externis ac sepositis rebus bona vestra quaeratis?
[25] Sic rerum versa condicio est, ut divinum merito rationis animal non aliter sibi splendere nisi inanimatae supellectilis possessione videatur?
[26] Et alia quidem suis contenta sunt, vos autem deo mente consimiles ab rebus infimis excellentis naturae ornamenta captatis nec intellegitis, quantam conditori vestro faciatis iniuriam.
[27] Ille genus humanum terrenis omnibus praestare voluit, vos dignitatem vestram infra infima quaeque detruditis.
[28] Nam si omne cuiusque bonum eo, cuius est, constat esse pretiosius, cum vilissima rerum vestra bona esse iudicatis, eisdem vosmet ipsos vestra existimatione summittitis, quod quidem haud immerito cadit.
[29] Humanae quippe naturae ista condicio est, ut tum tantum ceteris rebus, cum se cognoscit, excellat, eadem tamen infra bestias redigatur, si se nosse desierit. Nam ceteris animantibus sese ignorare naturae est, hominibus vitio venit.
[30] Quam vero late patet vester hic error, qui ornari posse aliquid ornamentis existimatis alienis!
[31] At id fieri nequit; nam si quid ex appositis luceat, ipsa quidem, quae sunt apposita, laudantur, illud vero his tectum atque velatum in sua nihilo minus foeditate perdurat.
[32] Ego vero nego ullum esse bonum, quod noceat habenti. Num id mentior? Minime, inquis.
[33] Atqui divitiae possidentibus persaepe nocuerunt, cum pessimus quisque eoque alieni magis avidus, quicquid usquam auri gemmarumque est, se solum, qui habeat dignissimum putat.
[34] Tu igitur, qui nunc contum gladiumque sollicitus pertimescis, si vitae huius callem vacuus viator intrasses, coram latrone cantares.
[35] O praeclara opum mortalium beatitudo, quam cum adeptus fueris securus esse desistis!
[1] Felix nimium prior aetas, / Contenta fidelibus arvis / Nec inerti perdita luxu, / Facili quae sera solebat / Ieiunia solvere glande. /
[6] Non Bacchica munera norant / Liquido confundere melle, / Nec lucida vellera Serum / Tyrio miscere veneno. /
[10] Somnos dabat herba salubres, / Potum quoque lubricus amnis, / Umbras altissima pinus. / Nondum maris alta secabat / Nec mercibus undique lectis / Nova litora viderat hospes. /
[16] Tunc classica saeva tacebant / Odiis neque fusus acerbis / Cruor horrida tinxerat arva. /
[19] Quid enim furor hosticus ulla / Vellet prior arma movere, / Cum vulnera saeva viderent / Nec praemia sanguinis ulla? / Utinam modo nostra redirent / In mores tempora priscos. /
[25] Sed saevior ignibus Aetnae / Fervens amor ardet habendi. /
[27] Heu primus quis fuit ille, / Auri qui pondera tecti / Gemmasque latere volentes / Pretiosa pericula fodit? /
[1] Quid autem de dignitatibus potentiaque disseram, quas vos verae dignitatis ac potestatis inscii caelo exaequatis? Quae si in improbissimum quemque ceciderunt, quae flammis Aetnae eructantibus, quod diluvium tanta strages dederint?
[2] Certe, uti meminisse te arbitror, consulare imperium, quod libertatis principium fuerat, ob superbiam consulum vestri veteres abolere cupiverunt, qui ob eandem superbiam prius regium de civitate nomen abstulerant.
[3] At si quando, quod perrarum est, probis deferantur, quid in eis aliud quam probitas utentium placet? Ita fit, ut non virtutibus ex dignitate, sed ex virtute dignitatibus honor accedat.
[4] Quae vero est ista vestra expetibilis ac praeclara potentia? Nonne, o terrena animalia, consideratis, quibus qui praesidere videamini? Nunc si inter mures videres unum aliquem ius sibi ac potestatem prae ceteris vindicantem, quanto movereris cachinno!
[5] Quid vero, si corpus spectes, imbecillius homine reperire queas, quos saepe muscularum quoque vel morsus vel in secreta quaeque reptantium necat introitus?
[6] Quo vero quisquam ius aliquod in quempiam nisi in solum corpus et quod infra corpus est, fortunam loquor, possit exserere?
[7] Num quidquam libero imperabis animo? Num mentem firma sibi ratione cohaerentem de statu propriae quietis amovebis?
[8] Cum liberum quendam virum suppliciis se tyrannus adacturum putaret, ut adversum se factae coniurationis conscios proderet, linguam ille momordit atque abscidit et in os tyranni saevientis abiecit. Ita cruciatus, quos putabat tyrannus materiam crudelitatis, vir sapiens fecit esse virtutis.
[9] Quid autem est, quod in alium facere quisque possit, quod sustinere ab alio ipse non possit?
[10] Busiridem accepimus necare hospites solitum ab Hercule hospite fuisse mactatum.
[11] Regulus plures Poenorum bello captos in vincla coniecerat, sed mox ipse victorum catenis manus praebuit.
[12] Ullamne igitur eius hominis potentiam putas, qui, quod ipse in alio potest, ne id in se alter valeat, efficere non possit?
[13] Ad haec, si ipsis dignitatibus ac potestatibus inesset aliquid naturalis ac proprii boni, numquam pessimis provenirent. Neque enim sibi solent adversa sociari. Natura respuit, ut contraria quaeque iungantur.
[14] Ita cum pessimos plerumque dignitatibus fungi dubium non sit, illud etiam liquet natura sui bona non esse, quae se pessimis haerere patiantur.
[15] Quod quidem de cunctis fortunae muneribus dignius existimari potest, quae ad improbissimum quemque uberiora perveniunt.
[16] De quibus illud etiam considerandum puto, quod nemo dubitat esse fortem, cui fortitudinem inesse conspexerit, et, cuicumque velocitas adest, manifestum est esse velocem.
[17] Sic musica quidem musicos, medicina medicos, rhetorica rhetores facit. Agit enim cuiusque rei natura, quod proprium est, nec contrariarum rerum miscetur effectibus et ultro, quae sunt aversa, depellit.
[18] Atqui nec opes inexpletam restinguere avaritiam queunt nec potestas sui compotem fecerit, quem vitiosae libidines insolubilibus adstrictum retinent catenis, et collata improbis dignitas non modo non effecit dignos, sed prodit potius et ostentat indignos. Cur ita provenit?
[19] Gaudetis enim res sese aliter habentes falsis compellare nominibus, quae facile ipsarum rerum redarguuntur effectu; itaque nec illae divitiae nec illa potentia nec haec dignitas iure appellari potest.
[20] Postremo idem de tota concludere fortuna licet, in qua nihil expetendum, nihil nativae bonitatis inesse manifestum est, quae nec se bonis semper adiungit et bonos, quibus fuerit adiuncta, non efficit.
[1] Novimus, quantas dederit ruinas / Urbe flammata patribusque caesis, / Fratre qui quondam ferus interempto / Matris effuso maduit cruore; /
[5] Corpus et visu gelidum pererrans / Ora non tinxit lacrimis, sed esse / Censor exstincti potuit decoris. /
[8] Hic tamen sceptro populos regebat, / Quos videt condens radios sub undas / Phoebus extremo veniens ab ortu, / Quos premunt septem gelidi triones, / Quos Notus sicco violentus aestu / Torret ardentes recoquens harenas. /
[14] Celsa num tandem valuit potestas / Vertere pravi rabiem Neronis? / Heu gravem sortem, quotiens iniquus / Additur saevo gladius veneno! /
[1] Tum ego: Scis, inquam, ipsa minimum nobis ambitionem mortalium rerum fuisse dominatam.Sed materiam gerendis rebus optavimus, quo ne virtus tacita consenesceret.
[2] Et illa: Atqui hoc unum est, quod praestantes quidem natura mentes, sed nondum ad extremam manum virtutum perfectione perductas allicere possit, gloriae scilicet cupido et optimorum in rem publicam fama meritorum.
[3] Quae quam sit exilis et totius vacua ponderis sic considera. Omnem terrae ambitum, sicuti astrologicis demonstrationibus accepisti, ad caeli spatium puncti constat obtinere rationem, id est, ut, si ad caelestis globi magnitudinem conferatur, nihil spatii prorsus habere iudicetur.
[4] Huius igitur tam exiguae in mundo regionis quarta fere portio est, sicut Ptolemaeo probante didicisti, quae nobis cognitis animantibus incolatur.
[5] Huic quartae, si quantum maria paludesque premunt quantumque siti vasta regio distenditur, cogitatione subtraxeris, vix angustissima inhabitandi hominibus area relinquetur.
[6] In hoc igitur minimo puncti quodam puncto circumsaepti atque conclusi de pervulganda fama, de proferendo nomine cogitatis? At quid habeat amplum magnificumque gloria tam angustis exiguisque limitibus artata?
[7] Adde, quod hoc ipsum brevis habitaculi saeptum plures incolunt nationes lingua, moribus, totius vitae ratione distantes, ad quas tum difficultate itinerum, tum loquendi diversitate, tum commercii insolentia non modo fama hominum singulorum, sed ne urbium quidem pervenire queat.
[8] Aetate denique Marci Tulli, sicut ipse quodam loco significat, nondum Caucasum montem Romanae rei publicae fama transcenderat et erat tunc adulta Parthis etiam ceterisque id locorum gentibus formidolosa.
[9] Videsne igitur, quam sit angusta, quam compressa gloria, quam dilatare ac propagare laboratis? An ubi Romani nominis transire fama nequit, Romani hominis gloria progredietur?
[10] Quid quod diversarum gentium mores inter se atque instituta discordant, ut, quod apud alios laude, apud alios supplicio dignum iudicetur?
[11] Quo fit, ut, si quem famae praedicatio delectat, huic in plurimos populos nomen proferre nullo modo conducat.
[12] Erit igitur pervagata inter suos gloria quisque contentus et intra unius gentis terminos praeclara illa famae immortalitas coartabitur.
[13] Sed quam multos clarissimos suis temporibus viros scriptorum inops delevit oblivio. Quamquam quid ipsa scripta proficiant, quae cum suis auctoribus premit longior atque obscura vetustas?
[14] Vos vero immortalitatem vobis propagare videmini, cum futuri famam temporis cogitatis.
[15] Quod si ad aeternitatis infinita spatia pertractes, quid habes, quod de nominis tui diuturnitate laeteris?
[16] Unius etenim mora momenti, si decem milibus conferatur annis, quoniam utrumque spatium definitum est, minimam licet, habet tamen aliquam portionem. At hic ipse numerus annorum eiusque quamlibet multiplex ad interminabilem diuturnitatem ne comparari quidem potest;
[17] etenim finitis ad se invicem fuerit quaedam, infiniti vero atque finiti nulla umquam poterit esse collatio.
[18] Ita fit, ut quamlibet prolixi temporis fama, si cum inexhausta aeternitate cogitetur, non parva, sed plane nulla esse videatur.
[19] Vos autem nisi ad populares auras inanesque rumores recte facere nescitis et relicta conscientiae virtutisque praestantia de alienis praemia sermunculis postulatis.
[20] Accipe in huiusmodi arrogantiae levitate, quam festive aliquis illuserit. Nam cum quidam adortus esset hominem contumeliis, qui non ad verae virtutis usum, sed ad superbam gloriam falsum sibi philosophi nomen induerat, adiecissetque iam se sciturum, an ille philosophus esset, si quidem illatas iniurias leniter patienterque tolerasset, ille patientiam paulisper assumpsit acceptaque contumelia velut insultans: "Iam tandem, inquit, intellegis me esse philosophum?" Tum ille nimium mordaciter:
[21] "Intellexeram, inquit, si tacuisses". Quid autem est, quod ad praecipuos viros, de his enim sermo est, qui virtute gloriam petunt, quid, inquam, est, quod ad hos de fama post resolutum morte suprema corpus attineat?
[22] Nam si, quod nostrae rationes credi vetant, toti moriuntur homines, nulla est omnino gloria, cum is, cuius ea esse dicitur, non exstet omnino.
[23] Sin vero bene sibi mens conscia terreno carcere resoluta caelum libera petit, nonne omne terrenum negotium spernat, quae se caelo fruens terrenis gaudet exemptam?
[1] Quicumque solam mente praecipiti petit / Summumque credit gloriam, / Late patentes aetheris cernat plagas / Artumque terrarum situm. /
[5] Brevem replere non valentis ambitum / Pudebit aucti nominis. /
[7] Quid, o superbi, colla mortali iugo / Frustra levari gestiunt? /
[9] Licet remotos fama per populos means / Diffusa linguas explicet / Et magna titulis fulgeat claris domus, / Mors spernit altam gloriam, / Involvit humile pariter et celsum caput / Aequatque summis infima. /
[15] Ubi nunc fidelis ossa Fabricii manent, / Quid Brutus aut rigidus Cato? /
[17] Signat superstes fama tenuis pauculis / Inane nomen litteris. / Sed quod decora novimus vocabula, / Num scire consumptos datur? /
[21] Iacetis ergo prorsus ignorabiles / Nec fama notos efficit. /
[23] Quodsi putatis longius vitam trahi / Mortalis aura nominis, / Cum sera vobis rapiet hoc etiam dies, / Iam vos secunda mors manet. /
[1] Sed ne me inexorabile contra fortunam gerere bellum putes, est aliquando, cum de hominibus, fallax illa nihil, bene mereatur, tum scilicet, cum se aperit, cum frontem detegit moresque profitetur.
[2] Nondum forte quid loquar intellegis. Mirum est, quod dicere gestio, eoque sententiam verbis explicare vix queo.
[3] Etenim plus hominibus reor adversam quam prosperam prodesse fortunam. Illa enim semper specie felicitatis, cum videtur blanda, mentitur, haec semper vera est, cum se instabilem mutatione demonstrat.
[4] Illa fallit, haec instruit, illa mendacium specie bonorum mentes fruentium ligat, haec cognitione fragilis felicitatis absolvit. Itaque illam videas ventosam, fluentem suique semper ignaram, hanc sobriam succinctamque et ipsius adversitatis exercitatione prudentem.
[5] Postremo felix a vero bono devios blanditiis trahit, adversa plerumque ad vera bona reduces unco retrahit.
[6] An hoc inter minima aestimandum putas, quod amicorum tibi fidelium mentes haec aspera, haec horribilis fortuna detexit? Haec tibi certos sodalium vultus ambiguosque secrevit, discedens suos abstulit, tuos reliquit.
[7] Quanti hoc integer et, ut videbaris tibi, fortunatus emisses? Nunc amissas opes querere: quod pretiosissimum divitiarum genus est, amicos invenisti.
[1] Quod mundus stabili fide / Concordes variat vices, / Quod pugnantia semina / Foedus perpetuum tenent, / Quod Phoebus roseum diem / Curru provehit aureo, / Ut, quas duxerit Hesperos / Phoebe noctibus imperet, / Ut fluctus avidum mare / Certo fine coerceat, / Ne terris liceat vagis / Latos tendere terminos, / Hanc rerum seriem ligat / Terras ac pelagus regens / Et caelo imperitans amor. /
[16] Hic si frena remiserit, / Quidquid nunc amat invicem, / Bellum continuo geret, / Et quam nunc socia fide / Pulchris motibus incitant, / Certent solvere machinam. / Hic sancto populos quoque / Iunctos foedere continet, / Hic et coniugii sacrum / Castis nectit amoribus, / Hic fidis etiam sua / Dictat iura sodalibus. /
[28] O felix hominum genus, / Si vestros animos amor, / Quo caelum regitur, regat! /
[1] Iam cantum illa finiverat, cum me audiendi avidum stupentemque arrectis adhuc auribus carminis mulcedo defixerat.
[2] Itaque paulo post: O, inquam, summum lassorum solamen animorum, quam tu me vel sententiarum pondere vel canendi etiam iucunditate refovisti adeo ut iam me posthac imparem fortunae ictibus esse non arbitrer. Itaque remedia, quae paulo acriora esse dicebas, non modo non perhorresco, sed audiendi avidus vehementer efflagito.
[3] Tum illa: Sensi, inquit, cum verba nostra tacitus attentusque rapiebas, eumque tuae mentis habitum vel exspectavi vel, quod est verius, ipsa perfeci. Talia sunt quippe, quae restant, ut degustata quidem mordeant, interius autem recepta dulcescant.
[4] Sed quod tu te audiendi cupidum dicis, quanto ardore flagrares, si quonam te ducere aggrediamur agnosceres?
[5] Quonam? inquam. Ad veram, inquit, felicitatem, quam tuus quoque somniat animus, sed occupato ad imagines visu ipsam illam non potest intueri.
[6] Tum ego: Fac, obsecro, et quae illa vera sit, sine cunctatione demonstra.
[7] Faciam, inquit illa, tui causa libenter. Sed quae tibi [causa] notior est, eam prius designare verbis atque informare conabor, ut ea perspecta, cum in contrariam partem flexeris oculos, verae specimen beatitudinis possis agnoscere.
[1] Qui serere ingenuum volet agrum, / Liberat arva prius fruticibus, / Falce rubos filicemque resecat, / Ut nova fruge gravis Ceres eat. /
[5] Dulcior est apium mage labor, / Si malus ora prius sapor edat. / Gratius astra nitent, ubi notus / Desinit imbriferos dare sonos. /
[9] Lucifer ut tenebras pepulerit, / Pulchra dies roseos agit equos. /
[11] Tu quoque falsa tuens bona prius / Incipe colla iugo retrahere: / Vera dehinc animum subierint. /
[1] Tum defixo paululum visu et velut in augustam suae mentis sedem recepta sic coepit:
[2] Omnis mortalium cura, quam multiplicium studiorum labor exercet, diverso quidem calle procedit, sed ad unum tamen beatitudinis finem nititur pervenire. Id autem est bonum, quo quis adepto nihil ulterius desiderare queat.
[3] Quod quidem est omnium summum bonorum cunctaque intra se bona continens, cui si quid aforet, summum esse non posset, quoniam relinqueretur extrinsecus, quod posset optari. Liquet igitur esse beatitudinem statum bonorum omnium congregatione perfectum.
[4] Hunc, uti diximus, diverso tramite mortales omnes conantur adipisci. Est enim mentibus hominum veri boni naturaliter inserta cupiditas, sed ad falsa devius error abducit.
[5] Quorum quidem alii summum bonum esse nihilo indigere credentes, ut divitiis affluant, elaborant; alii vero bonum, quod sit dignissimum veneratione, iudicantes adeptis honoribus reverendi civibus suis esse nituntur.
[6] Sunt, qui summum bonum in summa potentia esse constituant; hi vel regnare ipsi volunt vel regnantibus adhaerere conantur. At quibus optimum quiddam claritas videtur, hi vel belli vel pacis artibus gloriosum nomen propagare festinant.
[7] Plurimi vero boni fructum gaudio laetitiaque metiuntur; hi felicissimum putant voluptate diffluere.
[8] Sunt etiam, qui horum fines causasque alterutro permutent, ut qui divitias ob potentiam voluptatesque desiderant vel qui potentiam seu pecuniae causa seu proferendi nominis petunt.
[9] In his igitur ceterisque talibus humanorum actuum votorumque versatur intentio veluti nobilitas favorque popularis, quae videntur quandam claritudinem comparare, uxor ac liberi, quae iucunditatis gratia petuntur; amicorum vero, quod sanctissimum quidem genus est, non in fortuna, sed in virtute numeratur; reliquum vero vel potentiae causa vel delectationis assumitur.
[10] Iam vero corporis bona promptum est, ut ad superiora referantur. Robur enim magnitudoque videtur praestare valentiam, pulchritudo atque velocitas celebritatem, salubritas voluptatem;
[11] quibus omnibus solam beatitudinem desiderari liquet; nam quod quisque prae ceteris petit, id summum esse iudicat bonum. Sed summum bonum beatitudinem esse definivimus; quare beatum esse iudicat statum, quem prae ceteris quisque desiderat.
[12] Habes igitur ante oculos propositam fere formam felicitatis humanae: opes, honores, potentiam, gloriam, voluptates. Quae quidem sola considerans Epicurus consequenter sibi summum bonum voluptatem esse constituit, quod cetera omnia iucunditatem animo videantur afferre.
[13] Sed ad hominum studia revertor, quorum animus etsi caligante memoria tamen bonum suum repetit, sed velut ebrius, domum quo tramite revertatur ignorat.
[14] Num enim videntur errare hi, qui nihilo indigere nituntur? Atqui non est aliud, quod aeque perficere beatitudinem possit quam copiosus bonorum omnium status nec alieni egens, sed sibi ipse sufficiens.
[15] Num vero labuntur hi, qui, quod sit optimum, id etiam reverentiae cultu dignissimum putent? Minime; neque enim vile quiddam contemnendumque est, quod adipisci omnium fere mortalium laborat intentio.
[16] An in bonis non est numeranda potentia? Quid igitur? Num imbecillum ac sine viribus aestimandum est, quod omnibus rebus constat esse praestantius?
[17] An claritudo nihili pendenda est? Sed sequestrari nequit, quin omne, quod excellentissimum sit, id etiam videatur esse clarissimum.
[18] Nam non esse anxiam tristemque beatitudinem nec doloribus molestiisque subiectam quid attinet dicere, quando in minimis quoque rebus id appetitur, quod habere fruique delectet?
[19] Atqui haec sunt, quae adipisci homines volunt eaque de causa divitias, dignitates, regna, gloriam voluptatesque desiderant, quod per haec sibi sufficientiam, reverentiam, potentiam, celebritatem, laetitiam credunt esse venturam.
[20] Bonum est igitur, quod tam diversis studiis homines petunt; in quo quanta sit naturae vis, facile monstratur, cum licet variae dissidentesque sententiae tamen in diligendo boni fine consentiunt.
[1] Quantas rerum flectat habenas / Natura potens, quibus immensum / Legibus orbem provida servet / Stringatque ligans inresoluto / Singula nexu, placet arguto / Fidibus lentis promere cantu. /
[7] Quamvis Poeni pulchra leones / Vincula gestent manibusque datas / Captent escas metuantque trucem / Soliti verbera ferre magistrum. / Si cruor horrida tinxerit ora, / Resides olim redeunt animi / Fremituque gravi meminere sui. / Laxant nodis colla solutis / Primusque lacer dente cruento / Domitor rabidas imbuit iras. /
[17] Quae canit altis garrula ramis / Ales, caveae clauditur antro; / Huic licet inlita pocula melle / Largasque dapes dulci studio / Ludens hominum cura ministret. / Si tamen arto saliens texto / / Nemorum gratas viderit umbras, / Sparsas pedibus proterit escas, / Silvas tantum maesta requirit, / Silvas dulci voce susurrat. /
[27] Validis quondam viribus acta / Pronum flectit virga cacumen. / Hanc si curvans dextra remisit, / Recto spectat vertice caelum. /
[31] Cadit hesperias Phoebus in undas, / Sed secreto tramite rursus / Currum solitos vertit ad ortus. /
[34] Repetunt proprios quaeque recursus / Redituque suo singula gaudent. / Nec manet ulli traditus ordo, / Nisi quod fini iunxerit ortum / Stabilemque sui fecerit orbem. /
[1] Vos quoque, o terrena animalia, tenui licet imagine, vestrum tamen principium somniatis verumque illum beatitudinis finem licet minime perspicaci, qualicumque tamen cogitatione prospicitis, eoque vos et ad verum bonum naturalis ducit intentio et ab eodem multiplex error abducit.
[2] Considera namque, an per ea, quibus se homines adepturos beatitudinem putant, ad destinatum finem valeant pervenire.
[3] Si enim vel pecunia vel honores ceteraque tale quid afferunt, cui nihil bonorum abesse videatur, nos quoque fateamur fieri aliquos horum adeptione felices.
[4] Quodsi neque id valent efficere, quod promittunt bonisque pluribus carent, nonne liquido falsa in eis beatitudinis species deprehenditur?
[5] Primum igitur te ipsum, qui paulo ante divitiis affluebas, interrogo: Inter illas abundantissimas opes numquamne animum tuum concepta ex qualibet iniuria confudit anxietas?
[6] Atqui, inquam, libero me fuisse animo, quin aliquid semper angerer, reminisci non queo.
[7] Nonne quia vel aberat, quod abesse non velles, vel aderat, quod adesse noluisses? Ita est, inquam.
[8] Illius igitur praesentiam, huius absentiam desiderabas? Confiteor, inquam.
[9] Eget vero, inquit, eo quod quisque desiderat? Eget, inquam. Qui vero eget aliquo, non est usquequaque sibi ipse sufficiens. Minime, inquam.
[10] Tu itaque hanc insufficientiam plenus, inquit, opibus sustinebas? Quidni? inquam.
[11] Opes igitur nihilo indigentem sufficientemque sibi facere nequeunt, et hoc erat, quod promittere videbantur.
[12] Atqui hoc quoque maxime considerandum puto, quod nihil habeat suapte natura pecunia, ut his, quibus possidetur, invitis nequeat auferri. Fateor, inquam.
[13] Quidni fateare, cum eam cotidie valentior aliquis eripiat invito? Unde enim forenses querimoniae, nisi quod vel vi vel fraude nolentibus pecuniae repetuntur ereptae? Ita est, inquam.
[14] Egebit igitur, inquit, extrinsecus petito praesidio, quo suam pecuniam quisque tueatur.
[15] Quis id, inquam, neget? Atqui non egeret eo, nisi possideret pecuniam, quam possit amittere.
[16] Dubitari, inquam, nequit. In contrarium igitur relapsa res est; nam quae sufficientes sibi facere putabantur opes, alieno potius praesidio faciunt indigentes.
[17] Quis autem modus est, quo pellatur divitiis indigentia? Num enim divites esurire nequeunt? Num sitire non possunt? Num frigus hibernum pecuniosorum membra non sentiunt?
[18] Sed adest, inquies, opulentis, quo famem satient, quo sitim frigusque depellant. Sed hoc modo consolari quidem divitiis indigentia potest, auferri penitus non potest. Nam si haec hians semper atque aliquid poscens opibus expletur, maneat necesse est, quae possit expleri.
[19] Taceo, quod naturae minimum, quod avaritiae nihil satis est. Quare si opes nec summovere indigentiam possunt et ipsae suam faciunt, quid est, quod eas sufficientiam praestare credatis?
[1] Quamvis fluente dives auri gurgite / Non expleturas cogat avarus opes / Oneretque bacis colla rubri litoris / Ruraque centeno scindat opima bove, /
[5] Nec cura mordax deseret superstitem / Defunctumque leves non comitantur opes. /
[1] Sed dignitates honorabilem reverendumque, cui provenerint, reddunt. Num vis ea est magistratibus, ut utentium mentibus virtutes inserant, vitia depellant?
[2] Atqui non fugare, sed illustrare potius nequitiam solent. Quo fit, ut indignemur eas saepe nequissimis hominibus contigisse. Unde Catullus licet in curuli Nonium sedentem strumam tamen appellat.
[3] Videsne, quantum malis dedecus adiciant dignitates? Atqui minus eorum patebit indignitas, si nullis honoribus inclarescant.
[4] Tu quoque num tandem tot periculis adduci potuisti, ut cum Decorato gerere magistratum putares, cum in eo mentem nequissimi scurrae delatorisque respiceres?
[5] Non enim possumus ob honores reverentia dignos iudicare, quos ipsis honoribus iudicamus indignos.
[6] At si quem sapientia praeditum videres, num posses eum vel reverentia vel ea, qua est praeditus sapientia non dignum putare? Minime.
[7] Inest enim dignitas propria virtuti, quam protinus in eos, quibus fuerit adiuncta, transfundit.
[8] Quod quia populares facere nequeunt honores, liquet eos propriam dignitatis pulchritudinem non habere.
[9] In quo illud est animadvertendum magis: nam si eo abiectior est, quo magis a pluribus quisque contemnitur, cum reverendos facere nequeat, quos pluribus ostentat, despectiores potius improbos dignitas facit.
[10] Verum non impune; reddunt namque improbi parem dignitatibus vicem, quas sua contagione commaculant.
[11] Atque ut agnoscas veram illam reverentiam per has umbratiles dignitates non posse contingere: Si qui multiplici consulatu functus in barbaras nationes forte devenerit, venerandumne barbaris honor faciet?
[12] Atqui si hoc naturale munus dignitatibus foret, ab officio suo quoquo gentium nullo modo cessarent, sicut ignis ubique terrarum numquam tamen calere destitit.
[13] Sed quoniam id eis non propria vis, sed hominum fallax adnectit opinio, vanescunt ilico, cum ad eos venerint, qui dignitates eas esse non aestimant.
[14] Sed hoc apud exteras nationes. Inter eos vero, apud quos ortae sunt, num perpetuo perdurant?
[15] Atqui praetura magna olim potestas, nunc inane nomen et senatorii census gravis sarcina; si quis quondam populi curasset annonam, magnus habebatur, nunc ea praefectura quid abiectius?
[16] Ut enim paulo ante diximus, quod nihil habet proprii decoris, opinione utentium nunc splendorem accipit, nunc amittit.
[17] Si igitur reverendos facere nequeunt dignitates, si ultro improborum contagione sordescunt, si mutatione temporum splendere desinunt, si gentium aestimatione vilescunt, quid est, quod in se expetendae pulchritudinis habeant, nedum aliis praestent?
[1] Quamvis se Tyrio superbus ostro / Comeret et niveis lapillis, / Invisus tamen omnibus vigebat / Luxuriae Nero saevientis. /
[5] Sed quondam dabat improbus verendis / Patribus indecores curules. /
[7] Quis illos igitur putet beatos, / Quos miseri tribuunt honores? /
[1] An vero regna regumque familiaritas efficere potentem valet? Quidni, quando eorum felicitas perpetuo perdurat?
[2] Atqui plena est exemplorum vetustas, plena etiam praesens aetas, qui reges felicitatem calamitate mutaverint. O praeclara potentia, quae ne ad conservationem quidem sui satis efficax invenitur!
[3] Quodsi haec regnorum potestas beatitudinis auctor est, nonne, si qua parte defuerit, felicitatem minuat, miseriam importet?
[4] Sed quamvis late humana tendantur imperia, plures necesse est gentes relinqui, quibus regum quisque non imperet.
[5] Qua vero parte beatos faciens desinit potestas, hac impotentia subintrat, quae miseros facit; hoc igitur modo maiorem regibus inesse necesse est miseriae portionem.
[6] Expertus sortis suae periculorum tyrannus regni metus pendentis supra verticem gladii terrore simulavit.
[7] Quae est igitur haec potestas, quae sollicitudinum morsus expellere, quae formidinum aculeos vitare nequit? Atqui vellent ipsi vixisse securi, sed nequeunt; dehinc de potestate gloriantur.
[8] An tu potentem censes, quem videas velle, quod non possit efficere? Potentem censes, qui satellite latus ambit, qui, quos terret, ipse plus metuit, qui ut potens esse videatur, in servientium manu situm est?
[9] Nam quid ego de regum familiaribus disseram, cum regna ipsa tantae imbecillitatis plena demonstrem? Quos quidem regia potestas saepe incolumis, saepe autem lapsa prosternit.
[10] Nero Senecam familiarem praeceptoremque suum ad eligendae mortis coegit arbitrium, Papinianum diu inter aulicos potentem militum gladiis Antoninus obiecit.
[11] Atqui uterque potentiae suae renuntiare voluerunt, quorum Seneca opes etiam suas tradere Neroni seque in otium conferre conatus est; sed dum ruituros moles ipsa trahit, neuter quod voluit, effecit.
[12] Quae est igitur ista potentia, quam pertimescunt habentes, quam nec cum habere velis, tutus sis et, cum deponere cupias, vitare non possis?
[13] An praesidio sunt amici, quos non virtus, sed fortuna conciliat? Sed quem felicitas amicum fecit, infortunium faciet inimicum.
[14] Quae vero pestis efficacior ad nocendum quam familiaris inimicus?
[1] Qui se volet esse potentem, / Animos domet ille feroces / Nec victa libidine colla / Foedis summittat habenis. /
[5] Etenim licet Indica longe / Tellus tua iura tremescat / Et serviat ultima Thyle, / Tamen atras pellere curas / Miserasque fugare querelas / Non posse potentia non est. /
[1] Gloria vero quam fallax saepe, quam turpis est! Unde non iniuria tragicus exclamat: }greco{.
[2] Plures enim magnum saepe nomen falsis vulgi opinionibus abstulerunt; quo quid turpius excogitari potest! nam qui falso praedicantur, suis ipsi necesse est laudibus erubescant.
[3] Quae si etiam meritis conquisita sint, quid tamen sapientis adiecerint conscientiae, qui bonum suum non populari rumore, sed conscientiae veritate metitur?
[4] Quodsi hoc ipsum propagasse nomen pulchrum videtur, consequens est, ut foedum non extendisse iudicetur.
[5] Sed cum, uti paulo ante disserui, plures gentes esse necesse sit, ad quas unius fama hominis nequeat pervenire, fit, ut, quem tu aestimas esse gloriosum, proxima parte terrarum videatur inglorius.
[6] Inter haec vero popularem gratiam ne commemoratione quidem dignam puto, quae nec iudicio provenit nec umquam firma perdurat.
[7] Iam vero quam sit inane, quam futtile nobilitatis nomen, quis non videat? Quae si ad claritudinem refertur, aliena est. Videtur namque esse nobilitas quaedam de meritis veniens laus parentum.
[8] Quodsi claritudinem praedicatio facit, illi sint clari necesse est, qui praedicantur. Quare splendidum te, si tuam non habes, aliena claritudo non efficit.
[9] Quodsi quid est in nobilitate bonum, id esse arbitror solum, ut imposita nobilibus necessitudo videatur, ne a maiorum virtute degeneret.
[1] Omne hominum genus in terris simili surgit ab ortu; / Unus enim rerum pater est, unus cuncta ministrat. /
[3] Ille dedit Phoebo radios, dedit et cornua lunae, / Ille homines etiam terris dedit ut sidera caelo. / Hic clausit membris animos celsa sede petitos. / Mortales igitur cunctos edit nobile germen. /
[7] Quid genus et proavos strepitis? Si primordia vestra / Auctoremque deum spectes, nullus degener exstat, / Ni vitiis peiora fovens proprium deserat ortum. /
[1] Quid autem de corporis voluptatibus loquar, quarum appetentia quidem plena est anxietatis, satietas vero paenitentiae?
[2] Quantos illae morbos, quam intolerabiles dolores quasi quendam fructum nequitiae fruentium solent referre corporibus!
[3] Quarum motus quid habeat iucunditatis, ignoro. Tristes vero esse voluptatum exitus, quisquis reminisci libidinum suarum volet, intelleget.
[4] Quae si beatos explicare possunt, nihil causae est, quin pecudes quoque beatae esse dicantur, quarum omnis ad explendam corporalem lacunam festinat intentio.
[5] Honestissima quidem coniugis foret liberorumque iucunditas; sed nimis e natura dictum est nescioquem filios invenisse tortores. Quorum quam sit mordax quaecumque condicio, neque alias expertum te neque nunc anxium necesse est admonere.
[6] In quo Euripidis mei sententiam probo, qui carentem liberis infortunio dixit esse felicem.
[1] Habet hoc voluptas omnis, / Stimulis agit fruentes / Apiumque par volantum, / Ubi grata mella fudit, / Fugit et nimis tenaci / Ferit icta corda morsu. /
[1] Nihil igitur dubium est, quin hae ad beatitudinem viae devia quaedam sint, nec perducere quemquam eo valeant, ad quod se perducturas esse promittunt.
[2] Quantis vero implicitae malis sint, brevissime monstrabo. Quid enim? Pecuniamne congregare conaberis?
[3] Sed eripies habenti. Dignitatibus fulgere velis? Danti supplicabis et, qui praeire ceteros honore cupis, poscendi humilitate vilesces. Potentiamne desideras?
[4] Subiectorum insidiis obnoxius periculis subiacebis. Gloriam petas?
[5] Sed per aspera quaeque distractus securus esse desistis. Voluptariam vitam degas?
[6] Sed quis non spernat atque abiciat vilissimae fragilissimaeque rei, corporis, servum?
[7] Iam vero qui bona prae se corporis ferunt, quam exigua, quam fragili possessione nituntur! Num enim elephantos mole, tauros robore superare poteritis, num tigres velocitate praeibitis?
[8] Respicite caeli spatium, firmitudinem, celeritatem et aliquando desinite vilia mirari. Quod quidem caelum non his potius est quam sua, qua regitur ratione, mirandum.
[9] Formae vero nitor ut rapidus est, ut velox et vernalium florum mutabilitate fugacior!
[10] Quodsi, ut Aristoteles ait, Lyncei oculis homines uterentur, ut eorum visus obstantia penetraret, nonne introspectis visceribus illud Alcibiadis superficie pulcherrimum corpus turpissimum videretur? Igitur te pulchrum videri non tua natura, sed oculorum spectantium reddit infirmitas.
[11] Sed aestimate quam vultis nimio corporis bona, dum sciatis hoc, quodcumque miramini, triduanae febris igniculo posse dissolvi.
[12] Ex quibus omnibus illud redigere in summam licet, quod haec, quae nec praestare, quae pollicentur, bona possunt nec omnium bonorum congregatione perfecta sunt, ea nec ad beatitudinem quasi quidam calles ferunt nec beatos ipsa perficiunt.
[1] Eheu, quae miseros tramite devios / Abducit ignorantia. /
[3] Non aurum in viridi quaeritis arbore / Nec vite gemmas carpitis, / Non altis laqueos montibus abditis, / Ut pisce ditetis dapes, / Nec vobis capreas si libeat sequi, / Tyrrhena captatis vada. /
[9] Ipsos quin etiam fluctibus abditos / Norunt recessus aequoris, / Quae gemmis niveis unda feracior, / Vel quae rubentis purpurae / Nec non quae tenero pisce vel asperis / Praestent echinis litora. /
[15] Sed quonam lateat, quod cupiunt bonum, / Nescire caeci sustinent, / Et, quod stelliferum transabiit polum, / Tellure demersi petunt. /
[19] Quid dignum stolidis mentibus imprecer? / Opes, honores ambiant / Et, cum falsa gravi mole paraverint, / Tum vera cognoscant bona. /
[1] Hactenus mendacis formam felicitatis ostendisse suffecerit; quam si perspicaciter intueris, ordo est deinceps, quae sit vera, monstrare.
[2] Atqui video, inquam, nec opibus sufficientiam nec regnis potentiam nec reverentiam dignitatibus nec celebritatem gloria nec laetitiam voluptatibus posse contingere. An etiam causas, cur id ita sit, deprehendisti?
[3] Tenui quidem veluti rimula mihi videor intueri, sed ex te apertius cognoscere malim.
[4] Atqui promptissima ratio est. Quod enim simplex est indivisumque natura, id error humanus separat et a vero atque perfecto ad falsum imperfectumque traducit. An tu arbitraris quod nihilo indigeat egere potentia? Minime, inquam.
[5] Recte tu quidem; nam si quid est, quod in ulla re imbecillioris valentiae sit, in hac praesidio necesse est egeat alieno. Ita est, inquam.
[6] Igitur sufficientiae potentiaeque una est eademque natura. Sic videtur.
[7] Quod vero huius modi sit, spernendumne esse censes an contra rerum omnium veneratione dignissimum? At hoc, inquam, ne dubitari quidem potest.
[8] Addamus igitur sufficientiae potentiaeque reverentiam, ut haec tria unum esse iudicemus. Addamus, si quidem vera volumus confiteri.
[9] Quid vero, inquit, obscurumne hoc atque ignobile censes esse an omni celebritate clarissimum?
[10] Considera vero, ne quod nihilo indigere, quod potentissimum, quod honore dignissimum esse concessum est, egere claritudine, quam sibi praestare non possit, atque ob id aliqua ex parte videatur abiectius.
[11] Non possum, inquam, quin hoc, uti est, ita etiam celeberrimum esse confitear.
[12] Consequens igitur est, ut claritudinem superioribus tribus nihil differre fateamur. Consequitur, inquam.
[13] Quod igitur nullius egeat alieni, quod suis cuncta viribus possit, quod sit clarum atque reverendum, nonne hoc etiam constat esse laetissimum.
[14] Sed unde huic, inquam, tali maeror ullus obrepat, ne cogitare quidem possum; quare plenum esse laetitiae, si quidem superiora manebunt, necesse est confiteri.
[15] Atqui illud quoque per eadem necessarium est sufficientiae, potentiae, claritudinis, reverentiae, iucunditatis nomina quidem esse diversa, nullo modo vero discrepare substantiam. Necesse est, inquam.
[16] Hoc igitur, quod est unum simplexque natura, pravitas humana dispertit et, dum rei, quae partibus caret, partem conatur adipisci, nec portionem, quae nulla est nec ipsam, quam minime affectat, assequitur.
[17] Quonam, inquam, modo? Qui divitias, inquit, petit penuriae fuga, de potentia nihil laborat, vilis obscurusque esse mavult, multas etiam sibi naturales quoque subtrahit voluptates, ne pecuniam, quam paravit, amittat.
[18] Sed hoc modo ne sufficientia quidem contingit ei, quem valentia deserit, quem molestia pungit, quem vilitas abicit, quem recondit obscuritas.
[19] Qui vero solum posse desiderat, profligat opes, despicit voluptates honoremque potentia carentem, gloriam quoque nihili pendit.
[20] Sed hunc quoque quam multa deficiant, vides. Fit enim, ut aliquando necessariis egeat, ut anxietatibus mordeatur, cumque haec depellere nequeat, etiam id, quod maxime petebat, potens esse desistat.
[21] Similiter ratiocinari de honoribus, gloria, voluptatibus licet; nam cum unumquodque horum idem quod cetera sit, quisquis horum aliquid sine ceteris petit, ne illud quidem quod desiderat apprehendit.
[22] Quid igitur, inquam, si qui cuncta simul cupiat adipisci? Summam quidem ille beatitudinis velit; sed num in his eam reperiet, quae demonstravimus id, quod pollicentur, non posse conferre?
[23] Minime, inquam. In his igitur quae singula quaedam expetendorum praestare creduntur, beatitudo nullo modo vestiganda est. Fateor, inquam, et hoc nihil dici verius potest.
[24] Habes igitur, inquit, et formam falsae felicitatis et causas. Deflecte nunc in adversum mentis intuitum; ibi enim veram, quam promisimus, statim videbis.
[25] Atqui haec, inquam, vel caeco perspicua est eamque tu paulo ante monstrasti, dum falsae causas aperire conaris.
[26] Nam nisi fallor, ea vera est et perfecta felicitas, quae sufficientem, potentem, reverendum, celebrem laetumque perficiat.
[27] Atque ut me interius animadvertisse cognoscas, quae unum horum, quoniam idem cuncta sunt, veraciter praestare potest, hanc esse plenam beatitudinem sine ambiguitate cognosco.
[28] O te, alumne, hac opinione felicem, si quidem hoc, inquit, adieceris! Quidnam? inquam.
[29] Essene aliquid in his mortalibus caducisque rebus putas, quod huiusmodi statum possit afferre? Minime, inquam, puto idque a te, nihil ut amplius desideretur, ostensum est.
[30] Haec igitur vel imagines veri boni vel imperfecta quaedam bona dare mortalibus videntur, verum autem atque perfectum bonum conferre non possunt. Assentior, inquam.
[31] Quoniam igitur agnovisti, quae vera illa sit, quae autem beatitudinem mentiantur, nunc superest, ut unde veram hanc petere possis agnoscas. Id quidem, inquam, iam dudum vehementer exspecto.
[32] Sed cum, ut in Timaeo Platoni, inquit, nostro placet, in minimis quoque rebus divinum praesidium debeat implorari, quid nunc faciendum censes, ut illius summi boni sedem reperire mereamur?
[33] Invocandum, inquam, rerum omnium patrem, quo praetermisso nullum rite fundatur exordium. Recte, inquit; ac simul ita modulata est:
[1] O qui perpetua mundum ratione gubernas, / Terrarum caelique sator, qui tempus ab aevo / Ire iubes stabilisque manens das cuncta moveri, / Quem non externae pepulerunt fingere causae / Materiae fluitantis opus, verum insita summi / Forma boni, livore carens tu cuncta superno / Ducis ab exemplo; pulchrum pulcherrimus ipse / Mundum mente gerens similique in imagine formans / Perfectasque iubens perfectum absolvere partes. /
[10] Tu numeris elementa ligas, ut frigora flammis / Arida conveniant liquidis, ne purior ignis / Evolet aut mersas deducant pondera terras. /
[13] Tu triplicis mediam naturae cuncta moventem / Connectens animam per consona membra resolvis. / Quae cum secta duos motum glomeravit in orbes, / In semet reditura meat mentemque profundam / Circuit et simili convertit imagine caelum. /
[18] Tu causis animas paribus vitasque minores / Provehis et levibus sublimes curribus aptans / In caelum terramque seris, quas lege benigna / Ad te conversas reduci facis igne reverti. /
[22] Da, pater, augustam menti conscendere sedem, / Da fontem lustrare boni, da luce reperta / In te conspicuos animi defigere visus. /
[25] Dissice terrenae nebulas et pondera molis / Atque tuo splendore mica; tu namque serenum, / Tu requies tranquilla piis, te cernere finis, / Principium, vector, dux, semita, terminus idem. /
[1] Quoniam igitur, quae sit imperfecti, quae etiam perfecti boni forma, vidisti, nunc demonstrandum reor, quonam haec felicitatis perfectio constituta sit.
[2] In quo illud primum arbitror inquirendum, an aliquod huius modi bonum, quale paulo ante definisti, in rerum natura possit exsistere, ne nos praeter rei subiectae veritatem cassa cogitationis imago decipiat.
[3] Sed quin exsistat sitque hoc veluti quidam omnium fons bonorum negari nequit. Omne enim, quod imperfectum esse dicitur, id imminutione perfecti imperfectum esse perhibetur.
[4] Quo fit, ut, si in quolibet genere imperfectum quid esse videatur, in eo perfectum quoque aliquid esse necesse sit. Etenim perfectione sublata, unde illud, quod imperfectum perhibetur, exstiterit, ne fingi quidem potest;
[5] neque enim ab deminutis inconsummatisque natura rerum cepit exordium, sed ab integris absolutisque procedens in haec extrema atque effeta dilabitur.
[6] Quodsi, uti paulo ante monstravimus, est quaedam boni fragilis imperfecta felicitas, esse aliquam solidam perfectamque non potest dubitari. Firmissime, inquam, verissimeque conclusum est.
[7] Quo vero, inquit, habitet, ita considera. Deum, rerum omnium principem, bonum esse communis humanorum conceptio probat animorum. Nam cum nihil deo melius excogitari queat, id, quo melius nihil est, bonum esse quis dubitet?
[8] Ita vero bonum esse deum ratio demonstrat, ut perfectum quoque in eo bonum esse convincat.
[9] Nam ni tale sit, rerum omnium princeps esse non poterit; erit enim eo praestantius aliquid perfectum possidens bonum, quod hoc prius atque antiquius esse videatur; omnia namque perfecta minus integris priora esse claruerunt.
[10] Quare ne in infinitum ratio prodeat, confitendum est summum deum summi perfectique boni esse plenissimum. Sed perfectum bonum veram esse beatitudinem constituimus: veram igitur beatitudinem in summo deo sitam esse necesse est. Accipio, inquam, nec est, quod contra dici ullo modo queat.
[11] Sed quaeso, inquit, te, vide, quam id sancte atque inviolabiliter probes, quod boni summi summum deum diximus esse plenissimum. Quonam, inquam, modo?
[12] Ne hunc rerum omnium patrem illud summum bonum, quo plenus esse perhibetur, vel extrinsecus accepisse vel ita naturaliter habere praesumas, quasi habentis dei habitaeque beatitudinis diversam cogites esse substantiam.
[13] Nam si extrinsecus acceptum putes, praestantius id, quod dederit, ab eo, quod acceperit, existimare possis. Sed hunc esse rerum omnium praecellentissimum dignissime confitemur.
[14] Quod si natura quidem inest, sed est ratione diversum, cum de rerum principe loquamur deo, fingat, qui potest, quis haec diversa coniunxerit.
[15] Postremo, quod a qualibet re diversum est, id non est illud, a quo intellegitur esse diversum. Quare quod a summo bono diversum est sui natura, id summum bonum non est; quod nefas est de eo cogitare, quo nihil constat esse praestantius.
[16] Omnino enim nullius rei natura suo principio melior poterit exsistere; quare, quod omnium principium sit, id etiam sui substantia summum esse bonum verissima ratione concluserim. Rectissime, inquam.
[17] Sed summum bonum beatitudinem esse concessum est. Ita est, inquam. Igitur, inquit, deum esse ipsam beatitudinem necesse est confiteri. Nec propositis, inquam, prioribus refragari queo et illis hoc inlatum consequens esse perspicio.
[18] Respice, inquit, an hinc quoque idem firmius approbetur, quod duo summa bona, quae a se diversa sint, esse non possunt.
[19] Etenim quae discrepant bona, non esse alterum, quod sit alterum, liquet; quare neutrum poterit esse perfectum, cum alterutri alterum deest; sed quod perfectum non sit, id summum non esse manifestum est; nullo modo igitur, quae summa sunt bona, ea possunt esse diversa.
[20] Atqui et beatitudinem et deum summum bonum esse collegimus, quare ipsam necesse est summam esse beatitudinem, quae sit summa divinitas.
[21] Nihil, inquam, nec reapse verius nec ratiocinatione firmius nec deo dignius concludi potest.
[22] Super haec, inquit, igitur veluti geometrae solent demonstratis propositis aliquid inferre, quae porismata ipsi vocant, ita ego quoque tibi veluti corollarium dabo.
[23] Nam quoniam beatitudinis adeptione fiunt homines beati, beatitudo vero est ipsa divinitas, divinitatis adeptione beatos fieri manifestum est;
[24] sed uti iustitiae adeptione iusti, sapientiae sapientes fiunt, ita divinitatem adeptos deos fieri simili ratione necesse est.
[25] Omnis igitur beatus deus. Et natura quidem unus; participatione vero nihil prohibet esse quam plurimos.
[26] Et pulchrum, inquam, hoc atque pretiosum, sive porisma sive corollarium vocari mavis.
[27] Atqui hoc quoque pulchrius nihil est, quod his annectendum esse ratio persuadet. Quid? inquam.
[28] Cum multa, inquit, beatitudo continere videatur, utrumne haec omnia unum veluti corpus beatitudinis quadam partium varietate coniungant, an sit eorum aliquid, quod beatitudinis substantiam compleat, ad hoc vero cetera referantur?
[29] Vellem, inquam, id ipsarum rerum commemoratione patefaceres. Nonne, inquit, beatitudinem bonum esse censemus? Ac summum quidem, inquam.
[30] Addas, inquit, hoc omnibus licet. Nam eadem sufficientia summa est, eadem summa potentia, reverentia quoque, claritas ac voluptas beatitudo esse iudicatur.
[31] Quid igitur, haecine omnia, sufficientia, potentia ceteraque, veluti quaedam beatitudinis membra sunt, an ad bonum veluti ad verticem cuncta referuntur?
[32] Intellego, inquam, quid investigandum proponas, sed quid constituas audire desidero.
[33] Cuius discretionem rei sic accipe: Si haec omnia beatitudinis membra forent, a se quoque invicem discreparent. Haec est enim partium natura, ut unum corpus diversa componant.
[34] Atqui haec omnia idem esse monstrata sunt; minime igitur membra sunt. Alioquin ex uno membro beatitudo videbitur esse coniuncta, quod fieri nequit.
[35] Id quidem, inquam, dubium non est, sed id, quod restat, exspecto.
[36] Ad bonum vero cetera referri palam est. Idcirco enim sufficientia petitur, quoniam bonum esse iudicatur, idcirco potentia, quoniam id quoque esse creditur bonum; idem de reverentia, claritudine, iucunditate coniectare licet.
[37] Omnium igitur expetendorum summa atque causa bonum est. Quod enim neque re neque similitudine ullum in se retinet bonum, id expeti nullo modo potest.
[38] Contraque etiam, quae natura bona non sunt, tamen si esse videantur, quasi vere bona sint, appetuntur. Quo fit, uti summa, cardo atque causa expetendorum omnium bonitas esse iure credatur.
[39] Cuius vero causa quid expetitur, id maxime videtur optari. Veluti si salutis causa quispiam velit equitare, non tam equitandi motum desiderat quam salutis effectum.
[40] Cum igitur omnia boni gratia petantur, non illa potius quam bonum ipsum desideratur ab omnibus.
[41] Sed propter quod cetera optantur, beatitudinem esse concessimus; quare sic quoque sola quaeritur beatitudo.
[42] Ex quo liquido apparet ipsius boni et beatitudinis unam atque eandem esse substantiam. Nihil video cur dissentire quispiam possit.
[43] Sed deum veramque beatitudinem unum atque idem esse monstravimus. Ita, inquam. Securo igitur concludere licet dei quoque in ipso bono nec usquam alio sitam esse substantiam.
[1] Huc omnes pariter venite, capti, / Quos fallax ligat improbis catenis / Terrenas habitans libido mentes. /
[4] Haec erit vobis requies laborum, / Hic portus placida manens quiete, / Hoc patens unum miseris asylum. /
[7] Non quidquid Tagus aureis harenis / Donat aut Hermus rutilante ripa / Aut Indus calido propinquus orbi / Candidis miscens virides lapillos, / Illustrent aciem magisque caecos / In suas condunt animos tenebras. /
[13] Hoc, quicquid placet excitatque mentes, / Infimis tellus aluit cavernis; / Splendor, quo regitur vigetque caelum, / Vitat obscuras animae ruinas. /
[17] Hanc quisquis poterit notare lucem, / Candidos Phoebi radios negabit. /
[1] Assentior, inquam; cuncta enim firmissimis nexa rationibus constant.
[2] Tum illa: Quanti, inquit, aestimabis, si, bonum ipsum quid sit, agnoveris?
[3] Infinito, inquam, si quidem mihi pariter deum quoque, qui bonum est, continget agnoscere.
[4] Atqui hoc verissima, inquit, ratione patefaciam, maneant modo, quae paulo ante conclusa sunt. Manebunt.
[5] Nonne, inquit, monstravimus ea, quae appetuntur pluribus, idcirco vera perfectaque bona non esse, quoniam a se invicem discreparent, cumque alteri abesset alterum, plenum absolutumque bonum afferre non posse? Tum autem verum bonum fieri, cum in unam veluti formam atque efficientiam colliguntur, ut, quae sufficientia est, eadem sit potentia, reverentia, claritas atque iucunditas, nisi vero unum atque idem omnia sint, nihil habere, quo inter expetenda numerentur?
[6] Demonstratum, inquam, nec dubitari ullo modo potest.
[7] Quae igitur, cum discrepant, minime bona sunt, cum vero unum esse coeperint, bona fiunt, nonne, haec ut bona sint, unitatis fieri adeptione contingit? Ita, inquam, videtur.
[8] Sed omne, quod bonum est, boni participatione bonum esse concedis an minime? Ita est.
[9] Oportet igitur idem esse unum atque bonum simili ratione concedas; eadem namque substantia est eorum, quorum naturaliter non est diversus effectus. Negare, inquam, nequeo.
[10] Nostine igitur, inquit, omne quod est tam diu manere atque subsistere, quamdiu sit unum, sed interire atque dissolvi, pariter atque unum esse destiterit? Quonam modo?
[11] Ut in animalibus, inquit; cum in unum coeunt ac permanent anima corpusque, id animal vocatur. Cum vero haec unitas utriusque separatione dissolvitur, interire nec iam esse animal liquet.
[12] Ipsum quoque corpus, cum in una forma membrorum coniunctione permanet, humana visitur species. At si distributae segregataeque partes corporis distraxerint unitatem, desinit esse quod fuerat.
[13] Eoque modo percurrenti cetera procul dubio patebit subsistere unumquodque, dum unum est, cum vero unum esse desinit, interire. Consideranti, inquam, mihi plura minime aliud videtur.
[14] Estne igitur, inquit, quod in quantum naturaliter agat, relicta subsistendi appetentia venire ad interitum corruptionemque desideret?
[15] Si animalia, inquam, considerem, quae habent aliquam volendi nolendique naturam, nihil invenio, quod nullis extra cogentibus abiciant manendi intentionem et ad interitum sponte festinent.
[16] Omne namque animal tueri salutem laborat, mortem vero perniciemque devitat.
[17] Sed quid de herbis arboribusque, quid de inanimatis omnino consentiam rebus prorsus dubito.
[18] Atqui non est quod de hoc quoque possis ambigere, cum herbas atque arbores intuearis primum sibi convenientibus innasci locis, ubi, quantum earum natura queat, cito exarescere atque interire non possint.
[19] Nam aliae quidem campis, aliae montibus oriuntur, alias ferunt paludes, aliae saxis haerent, aliarum fecundae sunt steriles harenae, quas si in alia quispiam loca transferre conetur, arescant.
[20] Sed dat cuique natura, quod convenit, et ne, dum manere possunt, intereant elaborat.
[21] Quid quod omnes velut in terras ore demerso trahunt alimenta radicibus ac per medullas robur corticemque diffundunt?
[22] Quid, quod mollissimum quidque, sicuti medulla est, interiore semper sede reconditur, extra vero quadam ligni firmitate, ultimus autem cortex adversum caeli intemperiem quasi mali patiens defensor opponitur?
[23] Iam vero quanta est naturae diligentia, ut cuncta semine multiplicato propagentur.
[24] Quae omnia non modo ad tempus manendi, verum generatim quoque quasi in perpetuum permanendi veluti quasdam machinas esse quis nesciat?
[25] Ea etiam, quae inanimata esse creduntur, nonne, quod suum est, quaeque simili ratione desiderant?
[26] Cur enim flammas quidem sursum levitas vehit, terras vero deorsum pondus deprimit, nisi, quod haec singulis loca motionesque conveniunt?
[27] Porro autem, quod cuique consentaneum est, id unumquodque conservat, sicuti ea, quae sunt inimica, corrumpunt.
[28] Iam vero, quae dura sunt ut lapides, adhaerent tenacissime partibus suis et, ne facile dissolvantur, resistunt.
[29] Quae vero liquentia ut aer atque aqua, facile quidem dividentibus cedunt, sed cito in ea rursus, a quibus sunt abscisa, relabuntur, ignis vero omnem refugit sectionem.
[30] Neque nunc nos de voluntariis animae cognoscentis motibus, sed de naturali intentione tractamus. Sicuti est, quod acceptas escas sine cogitatione transigimus, quod in somno spiritum ducimus nescientes;
[31] nam ne in animalibus quidem manendi amor ex animae voluntatibus, verum ex naturae principiis venit.
[32] Nam saepe mortem cogentibus causis, quam natura reformidat, voluntas amplectitur, contraque illud, quo solo mortalium rerum durat diuturnitas, gignendi opus, quod natura semper appetit, interdum coercet voluntas.
[33] Adeo haec sui caritas non ex animali motione, sed ex naturali intentione procedit. Dedit enim providentia creatis a se rebus hanc vel maximam manendi causam, ut, quoad possunt, naturaliter manere desiderent;
[34] quare nihil est, quod ullo modo queas dubitare cuncta, quae sunt, appetere naturaliter constantiam permanendi, devitare perniciem.
[35] Confiteor, inquam, nunc me indubitato cernere, quae dudum incerta videbantur.
[36] Quod autem, inquit, subsistere ac permanere petit, id unum esse desiderat; hoc enim sublato ne esse quidem cuiquam permanebit. Verum est, inquam.
[37] Omnia igitur, inquit, unum desiderant. Consensi. Sed unum id ipsum monstravimus esse, quod bonum. Ita quidem.
[38] Cuncta igitur bonum petunt, quod quidem ita describas licet, ipsum bonum esse, quod desideretur ab omnibus.
[39] Nihil, inquam, verius excogitari potest. Nam vel ad nihil unum cuncta referuntur et uno veluti vertice destituta sine rectore fluitabunt, aut, si quid est, ad quod universa festinant, id erit omnium summum bonorum.
[40] Et illa: Nimium, inquit, o alumne laetor, ipsam enim mediae veritatis notam mente fixisti. Sed in hoc patuit tibi, quod ignorare te paulo ante dicebas. Quid? inquam.
[41] Quis esset, inquit, rerum omnium finis. Is est enim profecto, quod desideratur ab omnibus, quod quia bonum esse collegimus, oportet rerum omnium finem bonum esse fateamur.
[1] Quisquis profunda mente vestigat verum / Cupitque nullis ille deviis falli, / In se revolvat intimi lucem visus, / Longosque in orbem cogat inflectens motus /
[5] Animumque doceat, quicquid extra molitur, / Suis retrusum possidere thesauris. /
[7] Dudum quod atra texit erroris nubes, / Lucebit ipso perspicacius Phoebo. /
[9] Non omne namque mente depulit lumen / Obliviosam corpus invehens molem. / Haeret profecto semen introrsum veri, / Quod excitatur ventilante doctrina. /
[13] Nam cur rogati sponte recta censetis, / Ni mersus alto viveret fomes corde? /
[15] Quodsi Platonis Musa personat verum, / Quod quisque discit, immemor recordatur. /
[1] Tum ego: Platoni, inquam, vehementer assentior, nam me horum iam secundo commemoras, primum quod memoriam corporea contagione, dehinc cum maeroris mole pressus amisi.
[2] Tum illa: Si priora, inquit, concessa respicias, ne illud quidem longius aberit, quin recorderis, quod te dudum nescire confessus es. Quid? inquam.
[3] Quibus, ait illa, gubernaculis mundus regatur. Memini, inquam, me inscitiam meam fuisse confessum, sed quid afferas, licet iam prospiciam, planius tamen ex te audire desidero.
[4] Mundum, inquit, hunc deo regi paulo ante minime dubitandum putabas. Et nunc quidem arbitror, inquam, nec umquam dubitandum putabo, quibusque in hoc rationibus accedam, breviter exponam.
[5] Mundus hic ex tam diversis contrariisque partibus in unam formam minime convenisset, nisi unus esset, qui tam diversa coniungeret.
[6] Coniuncta vero naturarum ipsa diversitas invicem discors dissociaret atque divelleret, nisi unus esset, qui quod nexuit contineret.
[7] Non tam vero certus naturae ordo procederet nec tam dispositos motus locis, temporibus, efficientia, spatiis, qualitatibus explicaret, nisi unus esset, qui has mutationum varietates manens ipse disponeret.
[8] Hoc quicquid est, quo condita manent atque agitantur, usitato cunctis vocabulo deum nomino.
[9] Tum illa: Cum haec, inquit, ita sentias, parvam mihi restare operam puto, ut felicitatis compos patriam sospes revisas.
[10] Sed, quae proposuimus, intueamur. Nonne in beatitudine sufficientiam numeravimus deumque beatitudinem ipsam esse consensimus? Ita quidem.
[11] Et ad mundum igitur, inquit, regendum nullis extrinsecus adminiculis indigebit; alioquin, si quo egeat, plenam sufficientiam non habebit. Id, inquam, ita est necessarium.
[12] Per se igitur solum cuncta disponit? Negari, inquam, nequit.
[13] Atqui deus ipsum bonum esse monstratus est. Memini, inquam.
[14] Per bonum igitur cuncta disponit, si quidem per se regit omnia, quem bonum esse consensimus, et hic est veluti quidam clavus atque gubernaculum, quo mundana machina stabilis atque incorrupta servatur.
[15] Vehementer assentior, inquam, et id te paulo ante dicturam tenui licet suspicione prospexi.
[16] Credo, inquit; iam enim, ut arbitror, vigilantius ad cernenda vera oculos deducis; sed quod dicam, non minus ad contuendum patet. Quid? inquam.
[17] Cum deus, inquit, omnia bonitatis clavo gubernare iure credatur eademque omnia, sicuti docui, ad bonum naturali intentione festinent, num dubitari potest, quin voluntaria regantur seque ad disponentis nutum veluti convenientia contemperataque rectori sponte convertant?
[18] Ita, inquam, necesse est; nec beatum regimen esse videretur, si quidem detrectantium iugum foret, non obtemperantium salus.
[19] Nihil est igitur, quod naturam servans deo contra ire conetur? Nihil, inquam.
[20] Quodsi conetur, ait, num tandem proficiet quicquam adversus eum, quem iure beatitudinis potentissimum esse concessimus? Prorsus, inquam, nihil valeret.
[21] Non est igitur aliquid, quod summo huic bono vel velit vel possit obsistere? Non, inquam, arbitror.
[22] Est igitur summum, inquit, bonum, quod regit cuncta fortiter suaviterque disponit.
[23] Tum ego: Quam, inquam, me non modo ea, quae conclusa est, summa rationum, verum multo magis haec ipsa, quibus uteris, verba delectant, ut tandem aliquando stultitiam magna lacerantem sui pudeat.
[24] Accepisti, inquit, in fabulis lacessentes caelum Gigantas; sed illos quoque, uti condignum fuit, benigna fortitudo disposuit.
[25] Sed visne rationes ipsas invicem collidamus? Forsitan ex huius modi conflictatione pulchra quaedam veritatis scintilla dissiliat. Tuo, inquam, arbitratu.
[26] Deum, inquit, esse omnium potentem nemo dubitaverit. Qui quidem, inquam, mente consistat, nullus prorsus ambigat.
[27] Qui vero est, inquit, omnium potens, nihil est, quod ille non possit. Nihil, inquam.
[28] Num igitur deus facere malum potest? Minime, inquam.
[29] Malum igitur, inquit, nihil est, cum id facere ille possit, qui nihil non potest.
[30] Ludisne, inquam, me inextricabilem labyrinthum rationibus texens, quae nunc quidem, qua egrediaris introeas, nunc vero, quo introieris, egrediare, an mirabilem quendam divinae simplicitatis orbem complicas?
[31] Etenim paulo ante beatitudine incipiens eam summum bonum esse dicebas, quam in summo deo sitam loquebare.
[32] Ipsum quoque deum summum esse bonum plenamque beatitudinem disserebas, ex quo neminem beatum fore, nisi qui pariter deus esset, quasi munusculum dabas.
[33] Rursus ipsam boni formam dei ac beatitudinis loquebaris esse substantiam ipsumque unum id ipsum esse bonum docebas, quod ab omni rerum natura peteretur.
[34] Deum quoque bonitatis gubernaculis universitatem regere disputabas volentiaque cuncta parere nec ullam mali esse naturam.
[35] Atque haec nullis extrinsecus sumptis, sed ex altero altero fidem trahente insitis domesticisque probationibus explicabas.
[36] Tum illa: Minime, inquit, ludimus remque omnium maximam dei munere, quem dudum deprecabamur, exegimus.
[37] Ea est enim divinae forma substantiae, ut neque in externa dilabatur nec in se externum aliquid ipsa suscipiat, sed, sicut de ea Parmenides ait: }greco{ rerum orbem mobilem rotat, dum se immobilem ipsa conservat.
[38] Quodsi rationes quoque non extra petitas, sed intra rei, quam tractabamus, ambitum collocatas agitavimus, nihil est, quod admirere, cum Platone sanciente didiceris cognatos, de quibus loquuntur, rebus oportere esse sermones.
[1] Felix, qui potuit boni / Fontem visere lucidum, / Felix, qui potuit gravis / Terrae solvere vincula. /
[5] Quondam funera coniugis / Vates Threicius gemens / Postquam flebilibus modis / Silvas currere, mobiles / Amnes stare coegerat / Iunxitque intrepidum latus / Saevis cerva leonibus / Nec visum timuit lepus / Iam cantu placidum canem, / Cum flagrantior intima / Fervor pectoris ureret / Nec, qui cuncta subegerant, / Mulcerent dominum modi, /
[18] Immites superos querens / Infernas adiit domos. / Illic blanda sonantibus / Chordis carmina temperans, / Quidquid praecipuis deae / Matris fontibus hauserat, / Quod luctus dabat impotens, / Quod luctum geminans amor, / Deflet Taenara commovens / Et dulci veniam prece / Umbrarum dominos rogat. /
[29] Stupet tergeminus novo / Captus carmine ianitor, / Quae sontes agitant metu, / Ultrices scelerum deae, / Iam maestae lacrimis madent. /
[34] Non Ixionium caput / Velox praecipitat rota, / Et longa site perditus / Spernit flumina Tantalus. /
[38] Vultur, dum satur est modis, / Non traxit Tityi iecur. / Tandem "Vincimur" arbiter / Umbrarum miserans ait: / "Donamus comitem viro / Emptam carmine coniugem. / Sed lex dona coerceat, / Ne, dum Tartara liquerit, / Fas sit lumina flectere." /
[47] Quis legem det amantibus? / Maior lex amor est sibi. / Heu, noctis prope terminos / Orpheus Eurydicen suam / Vidit, perdidit, occidit. /
[52] Vos haec fabula respicit, / Quicumque in superum diem / Mentem ducere quaeritis. / Nam qui Tartareum in specus / Victus lumina flexerit, / Quicquid praecipuum trahit, / Perdit, dum videt inferos. /
[1] Haec cum Philosophia dignitate vultus et oris gravitate servata leniter suaviterque cecinisset, tum ego nondum penitus insiti maeroris oblitus intentionem dicere adhuc aliquid parantis abrupi et:
[2] O, inquam, veri praevia luminis, quae usque adhuc tua fudit oratio, cum sui speculatione divina tum tuis rationibus invicta patuerunt, eaque mihi, etsi ob iniuriae dolorem nuper oblita, non tamen antehac prorsus ignorata dixisti.
[3] Sed ea ipsa est vel maxima nostri causa maeroris quod, cum rerum bonus rector exsistat, vel esse omnino mala possint vel impunita praetereant; quod solum quanta dignum sit admiratione, profecto consideras.
[4] At huic aliud maius adiungitur; nam imperante florenteque nequitia virtus non solum praemiis caret, verum etiam sceleratorum pedibus subiecta calcatur et in locum facinorum supplicia luit.
[5] Quae fieri in regno scientis omnia, potentis omnia, sed bona tantummodo volentis dei nemo satis potest nec admirari nec conqueri.
[6] Tum illa: Et esset, inquit, infiniti stuporis omnibusque horribilius monstris, si, uti tu aestimas, in tanti velut patrisfamilias dispositissima domo vilia vasa colerentur, pretiosa sordescerent.
[7] Sed non ita est; nam si ea, quae paulo ante conclusa sunt, inconvulsa servantur, ipso, de cuius nunc regno loquimur, auctore cognosces semper quidem potentes esse bonos, malos vero abiectos semper atque imbecilles, nec sine poena umquam esse vitia nec sine praemio virtutes, bonis felicia, malis semper infortunata contingere multaque id genus, quae sopitis querelis firma te soliditate corroborent.
[8] Et quoniam verae formam beatitudinis me dudum monstrante vidisti, quo etiam sita sit, agnovisti, decursis omnibus, quae praemittere necessarium puto, viam tibi, quae te domum revehat, ostendam.
[9] Pennas etiam tuae menti, quibus se in altum tollere possit, adfigam, ut perturbatione depulsa sospes in patriam meo ductu, mea semita, meis etiam vehiculis revertaris.
[1] Sunt etenim pennae volucres mihi, / Quae celsa conscendant poli. /
[3] Quas sibi cum velox mens induit, / Terras perosa despicit, / Aeris immensi superat globum / Nubesque postergum videt, / Quique agili motu calet aetheris, / Transcendit ignis verticem, /
[9] Donec in astriferas surgat domos / Phoeboque coniungat vias / Aut comitetur iter gelidi senis / Miles corusci sideris / Vel quocumque micans nox pingitur, / Recurrat astri circulum. /
[15] Atque ubi iam exhausti fuerit satis, / Polum relinquat extimum / Dorsaque velocis premat aetheris / Compos verendi luminis. /
[19] Hic regum sceptrum dominus tenet / Orbisque habenas temperat / Et volucrem currum stabilis regit / Rerum coruscus arbiter. / Huc te si reducem referat via, / Quam nunc requiris immemor: /
[25] Haec, dices, memini, patria est mihi, / Hinc ortus, hic sistam gradum. /
[27] Quodsi terrarum placeat tibi / Noctem relictam visere, / Quos miseri torvos populi timent, / Cernes tyrannos exsules. /
[1] Tum ego: Papae, inquam, ut magna promittis. Nec dubito, quin possis efficere; tu modo, quem excitaveris, ne moreris.
[2] Primum igitur, inquit, bonis semper adesse potentiam, malos cunctis viribus esse desertos agnoscas licebit, quorum quidem alterum demonstratur ex altero.
[3] Nam cum bonum malumque contraria sint, si bonum potens esse constiterit, liquet imbecillitas mali, at si fragilitas clarescat mali, boni firmitas nota est.
[4] Sed uti nostrae sententiae fides abundantior sit, alterutro calle procedam nunc hinc, nunc inde proposita confirmans.
[5] Duo sunt, quibus omnis humanorum actuum constat effectus, voluntas scilicet ac potestas, quorum si alterutrum desit, nihil est, quod explicari queat.
[6] Deficiente etenim voluntate ne aggreditur quidem quisque, quod non vult, at si potestas absit, voluntas frustra sit.
[7] Quo fit, ut, si quem videas adipisci velle, quod minime adipiscatur, huic obtinendi, quod voluerit, defuisse valentiam dubitare non possis. Perspicuum est, inquam, nec ullo modo negari potest.
[8] Quem vero effecisse, quod voluerit, videas, num etiam potuisse dubitatis? Minime.
[9] Quod vero quisque potest, in eo validus, quod vero non potest, in hoc imbecillis esse censendus est. Fateor, inquam.
[10] Meministine igitur, inquit, superioribus rationibus esse collectum intentionem omnem voluntatis humanae, quae diversis studiis agitur, ad beatitudinem festinare? Memini, inquam, illud quoque esse demonstratum.
[11] Num recordaris beatitudinem ipsum esse bonum eoque modo, cum beatitudo petitur, ab omnibus desiderari bonum? Minime, inquam, recordor, quoniam id memoriae fixum teneo.
[12] Omnes igitur homines, boni pariter ac mali, indiscreta intentione ad bonum pervenire nituntur? Ita, inquam, consequens est.
[13] Sed certum adeptione boni bonos fieri? Certum. Adipiscuntur igitur boni, quod appetunt? Sic videtur.
[14] Mali vero, si adipiscerentur, quod appetunt, bonum, mali esse non possent. Ita est.
[15] Cum igitur utrique bonum petant, sed hi quidem adipiscantur, illi vero minime, num dubium est bonos quidem potentes esse, qui vero mali sunt, imbecilles?
[16] Quisquis, inquam, dubitat nec rerum naturam nec consequentiam potest considerare rationum.
[17] Rursus, inquit, si duo sint, quibus idem secundum naturam propositum sit, eorumque unus naturali officio id ipsum agat atque perficiat, alter vero naturale illud officium minime administrare queat, alio vero modo, quam naturae convenit, non quidem impleat propositum suum, sed imitetur implentem, quemnam horum valentiorem esse decernis?
[18] Etsi coniecto, inquam, quid velis, planius tamen audire desidero.
[19] Ambulandi, inquit, motum secundum naturam esse hominibus num negabis? Minime, inquam.
[20] Eiusque rei pedum officium esse naturale num dubitas? Ne hoc quidem, inquam.
[21] Si quis igitur pedibus incedere valens ambulet aliusque, cui hoc naturale pedum desit officium, manibus nitens ambulare conetur, quis horum iure valentior existimari potest?
[22] Contexe, inquam, cetera; nam quin naturalis officii potens eo, qui idem nequeat, valentior sit, nullus ambigat.
[23] Sed summum bonum, quod aeque malis bonisque propositum boni quidem naturali officio virtutum petunt, mali vero variam per cupiditatem, quod adipiscendi boni naturale officium non est, idem ipsum conantur adipisci. An tu aliter existimas?
[24] Minime, inquam; nam etiam, quod est consequens, patet. Ex his enim, quae concesserim, bonos quidem potentes, malos vero esse necesse est imbecilles.
[25] Recte, inquit, praecurris idque, uti medici sperare solent, indicium est erectae iam resistentisque naturae.
[26] Sed quoniam te ad intellegendum promptissimum esse conspicio, crebras coacervabo rationes. Vide enim, quanta vitiosorum hominum pateat infirmitas, qui ne ad hoc quidem pervenire queunt, ad quod eos naturalis ducit ac paene compellit intentio.
[27] Et quid, si hoc tam magno ac paene invicto praeeuntis naturae desererentur auxilio?
[28] Considera vero, quanta sceleratos homines habeat impotentia. Neque enim levia aut ludicra praemia petunt, quae consequi atque obtinere non possunt, sed circa ipsam rerum summam verticemque deficiunt nec in eo miseris contingit effectus, quod solum dies noctesque moliuntur; in qua re bonorum vires eminent.
[29] Sicut enim eum, qui pedibus incedens ad eum locum usque pervenire potuisset, quo nihil ulterius pervium iaceret incessui, ambulandi potentissimum esse censeres, ita eum, qui expetendorum finem, quo nihil ultra est, apprehendit, potentissimum necesse est iudices.
[30] Ex quo fit, quod huic obiacet, ut idem scelesti idem viribus omnibus videantur esse deserti.
[31] Cur enim relicta virtute vitia sectantur? Inscitiane bonorum? Sed quid enervatius ignorantiae caecitate? An sectanda noverunt, sed transversos eos libido praecipitat? Sic quoque intemperantia fragiles, qui obluctari vitio nequeunt.
[32] An scientes volentesque bonum deserunt, ad vitia deflectunt? Sed hoc modo non solum potentes esse, sed omnino esse desinunt. Nam qui communem omnium, quae sunt, finem relinquunt, pariter quoque esse desistunt.
[33] Quod quidem cuipiam mirum forte videatur, ut malos, qui plures hominum sunt, eosdem non esse dicamus; sed ita sese res habet.
[34] Nam qui mali sunt, eos malos esse non abnuo; sed eosdem esse pure atque simpliciter nego.
[35] Nam uti cadaver hominem mortuum dixeris, simpliciter vero hominem appellare non possis, ita vitiosos malos quidem esse concesserim, sed esse absolute nequeam confiteri.
[36] Est enim, quod ordinem retinet servatque naturam; quod vero ab hac deficit, esse etiam, quod in sua natura situm est, derelinquit.
[37] Sed possunt, inquies, mali. Ne ego quidem negaverim, sed haec eorum potentia non a viribus, sed ab imbecillitate descendit.
[38] Possunt enim mala, quae minime valerent, si in bonorum efficientia manere potuissent.
[39] Quae possibilitas eos evidentius nihil posse demonstrat; nam si, uti paulo ante collegimus, malum nihil est, cum mala tantummodo possint, nihil posse improbos liquet. Perspicuum est.
[40] Atque ut intellegas, quaenam sit huius potentiae vis, summo bono nihil potentius esse paulo ante definivimus. Ita est, inquam. Sed idem, inquit, facere malum nequit. Minime.
[41] Est igitur, inquit, aliquis, qui omnia posse homines putet? Nisi quis insaniat, nemo. Atqui idem possunt mala. Utinam quidem, inquam, non possent.
[42] Cum igitur bonorum tantummodo potens possit omnia, non vero queant omnia potentes etiam malorum, eosdem, qui mala possunt, minus posse manifestum est.
[43] Huc accedit quod omnem potentiam inter expetenda numerandam omniaque expetenda referri ad bonum velut ad quoddam naturae suae cacumen ostendimus.
[44] Sed patrandi sceleris possibilitas referri ad bonum non potest, expetenda igitur non est. Atqui omnis potentia expetenda est; liquet igitur malorum possibilitatem non esse potentiam.
[45] Ex quibus omnibus bonorum quidem potentia, malorum vero minime dubitabilis apparet infirmitas veramque illam Platonis esse sententiam liquet solos, quod desiderent, facere posse sapientes, improbos vero exercere quidem, quod libeat, quod vero desiderent, explere non posse.
[46] Faciunt enim quaelibet, dum per ea, quibus delectantur, id bonum, quod desiderant, se adepturos putant; sed minime adipiscuntur, quoniam ad beatitudinem probra non veniunt.
[1] Quos vides sedere celsos solii culmine reges, / Purpura claros nitente, saeptos tristibus armis, / Ore torvo comminantes, rabie cordis anhelos, / Detrahat si quis superbis vani tegmina cultus, /
[5] Iam videbit intus artas dominos ferre catenas. /
[6] Hinc enim libido versat avidis corda venenis, /
[7] Hinc flagellat ira mentem fluctus turbida tollens, / Maeror aut captus fatigat aut spes lubrica torquet. /
[9] Ergo cum caput tot unum cernas ferre tyrannos, / Non facit quod optat ipse dominis pressus iniquis. /
[1] Videsne igitur, quanto in caeno probra volvantur, qua probitas luce resplendeat? In quo perspicuum est numquam bonis praemia, numquam sua sceleribus deesse supplicia.
[2] Rerum etenim quae gerentur illud, propter quod unaquaeque res geritur, eiusdem rei praemium esse non iniuria videri potest, uti currendi in stadio, propter quam curritur, iacet praemium corona.
[3] Sed beatitudinem esse id ipsum bonum, propter quod omnia geruntur, ostendimus. Est igitur humanis actibus ipsum bonum veluti praemium commune propositum,
[4] atqui hoc a bonis non potest separari; neque enim bonus ultra iure vocabitur, qui careat bono; quare probos mores sua praemia non relinquunt.
[5] Quantumlibet igitur saeviant mali, sapienti tamen corona non decidet, non arescet. Neque enim probis animis proprium decus aliena decerpit improbitas.
[6] Quodsi extrinsecus accepto laetaretur, poterat hoc vel alius quispiam vel ipse etiam, qui contulisset, auferre. Sed quoniam id sua cuique probitas confert, tum suo praemio carebit, cum probus esse desierit.
[7] Postremo cum omne praemium idcirco appetatur, quoniam bonum esse creditur, quis boni compotem praemii iudicet expertem?
[8] At cuius praemii? Omnium pulcherrimi maximique. Memento etenim corollarii illius, quod paulo ante praecipuum dedi, ac sic collige:
[9] Cum ipsum bonum beatitudo sit, bonos omnes eo ipso, quod boni sint, fieri beatos liquet.
[10] Sed qui beati sint, deos esse convenit. Est igitur praemium bonorum, quod nullus deterat dies, nullius minuat potestas, nullius fuscet improbitas, deos fieri.
[11] Quae cum ita sint, de malorum quoque inseparabili poena dubitare sapiens nequeat. Nam cum bonum malumque, item poenae atque praemium adversa fronte dissideant, quae in boni praemio videmus accedere, eadem necesse est in mali poena contraria parte respondeant.
[12] Sicut igitur probis probitas ipsa fit praemium, ita improbis nequitia ipsa supplicium est. Iam vero quisquis afficitur poena, malo se affectum esse non dubitat.
[13] Si igitur sese ipsi aestimare velint, possuntne sibi supplicii expertes videri, quos omnium malorum extremo nequitia non affecit modo, verum etiam vehementer infecit?
[14] Vide autem ex adversa parte bonorum, quae improbos poena comitetur. Omne namque, quod sit, unum esse ipsumque unum bonum esse paulo ante didicisti, cui consequens est, ut omne, quod sit, id etiam bonum esse videatur.
[15] Hoc igitur modo quicquid a bono deficit, esse desistit; quo fit, ut mali desinant esse, quod fuerant; sed fuisse homines adhuc ipsa humani corporis reliqua species ostentat. Quare versi in malitiam humanam quoque amisere naturam.
[16] Sed cum ultra homines quemque provehere sola probitas possit, necesse est, ut, quos ab humana condicione deiecit, infra hominis meritum detrudat improbitas. Evenit igitur, ut, quem transformatum vitiis videas, hominem aestimare non possis.
[17] Avaritia fervet alienarum opum violentus ereptor? Lupis similem dixeris.
[18] Ferox atque inquies linguam litigiis exercet? Cani comparabis.
[19] Insidiator occultus subripuisse fraudibus gaudet? Vulpeculis exaequetur.
[20] Irae intemperans fremit? Leonis animum gestare credatur.
[21] Pavidus ac fugax non metuenda formidat? Cervis similis habeatur.
[22] Segnis ac stupidus torpet? Asinum vivit.
[23] Levis atque inconstans studia permutat? Nihil avibus differt.
[24] Foedis immundisque libidinibus immergitur? Sordidae suis voluptate detinetur.
[25] Ita fit, ut qui probitate deserta homo esse desierit, cum in divinam condicionem transire non possit, vertatur in beluam.
[1] Vela Neritii ducis / Et vagas pelago rates / Eurus appulit insulae, / Pulchra qua residens dea / Solis edita semine /
[6] Miscet hospitibus novis / Tacta carmine pocula. / Quos ut in varios modos / Vertit herbipotens manus, /
[10] Hunc apri facies tegit, / Ille Marmaricus leo / Dente crescit et unguibus. / Hic lupis nuper additus, / Flere dum parat, ululat. / Ille tigris ut Indica / Tecta mitis obambulat. /
[17] Sed licet variis malis / Numen Arcadis alitis / Obsitum miserans ducem / Peste solverit hospitis, /
[21] Iam tamen mala remiges / Ore pocula traxerant, / Iam sues Cerealia / Glande pabula verterant, / Et nihil manet integrum / Voce, corpore perditis. /
[27] Sola mens stabilis super / Monstra, quae patitur, gemit. /
[29] O levem nimium manum / Nec potentia gramina, / Membra quae valeant licet, / Corda vertere non valent. / Intus est hominum vigor / Arce conditus abdita. /
[35] Haec venena potentius / Detrahunt hominem sibi / Dira, quae penitus meant / Nec nocentia corpori / Mentis vulnere saeviunt. /
[1] Tum ego: Fateor, inquam, nec iniuria dici video vitiosos, tametsi humani corporis speciem servent, in beluas tamen animorum qualitate mutari; sed quorum atrox scelerataque mens bonorum pernicie saevit, id ipsum eis licere noluissem.
[2] Nec licet, inquit, uti convenienti monstrabitur loco. Sed tamen, si id ipsum, quod eis licere creditur, auferatur, magna ex parte sceleratorum hominum poena relevetur.
[3] Etenim quod incredibile cuiquam forte videatur, infeliciores esse necesse est malos, cum cupita perfecerint, quam si ea, quae cupiunt, implere non possint.
[4] Nam si miserum est voluisse prava, potuisse miserius est, sine quo voluntatis miserae langueret effectus.
[5] Itaque cum sua singulis miseria sit, triplici infortunio necesse est urgueantur, quos videas scelus velle, posse, perficere.
[6] Accedo, inquam, sed uti hoc infortunio cito careant patrandi sceleris possibilitate deserti, vehementer exopto.
[7] Carebunt, inquit, ocius, quam vel tu forsitan velis vel illi sese aestiment esse carituros. Neque enim est aliquid in tam brevibus vitae metis ita serum, quod exspectare longum immortalis praesertim animus putet;
[8] quorum magna spes et excelsa facinorum machina repentino atque insperato saepe fine destruitur, quod quidem illis miseriae modum statuit. Nam si nequitia miseros facit, miserior sit necesse est diuturnior nequam;
[9] quos infelicissimos esse iudicarem, si non eorum malitiam saltem mors extrema finiret. Etenim si de pravitatis infortunio vera conclusimus, infinitam liquet esse miseriam, quam esse constat aeternam.
[10] Tum ego: Mira quidem, inquam, et concessu difficilis inlatio, sed his eam, quae prius concessa sunt, nimium convenire cognosco.
[11] Recte, inquit, aestimas; sed qui conclusioni accedere durum putat, aequum est vel falsum aliquid praecessisse demonstret vel collocationem propositionum non esse efficacem necessariae conclusionis ostendat; alioquin concessis praecedentibus nihil prorsus est, quod de inlatione causetur.
[12] Nam hoc quoque, quod dicam, non minus mirum videatur, sed ex his, quae sumpta sunt, aeque est necessarium.
[13] Quidnam? inquam. Feliciores, inquit, esse improbos supplicia luentes, quam si eos nulla iustitiae poena coerceat.
[14] Neque id nunc molior, quod cuivis veniat in mentem, corrigi ultione pravos mores et ad rectum supplicii terrore deduci, ceteris quoque exemplum esse culpanda fugiendi, sed alio quodam modo infeliciores esse improbos arbitror impunitos, tametsi nulla ratio correctionis, nullus respectus habeatur exempli.
[15] Et quis erit, inquam, praeter hos alius modus? Et illa: Bonos, inquit, esse felices, malos vero miseros nonne concessimus? Ita est, inquam.
[16] Si igitur, inquit, miseriae cuiuspiam bonum aliquid addatur, nonne felicior est eo, cuius pura ac solitaria sine cuiusquam boni admixtione miseria est? Sic, inquam, videtur.
[17] Quid, si eidem misero, qui cunctis careat bonis, praeter ea, quibus miser est, malum aliud fuerit adnexum, nonne multo infelicior eo censendus est, cuius infortunium boni participatione relevatur? Quidni? inquam.
[20] Liquere respondi. Habent igitur improbi, cum puniuntur quidem, boni aliquid adnexum, poenam ipsam scilicet, quae ratione iustitiae bona est, idemque cum supplicio carent, inest eis aliquid ulterius, mali ipsa impunitas, quam iniquitatis merito malum esse confessus es. --- ord. par. diverso nel volg. rispetto al lat. --- Liquere respondi] liquet respondi N, liquet ess M2F2N2EC, liquere Mn, liquere esse F, rasura post liquere B, liquet... respondi W. ---
[21] Negare non possum. Multo igitur infeliciores improbi sunt iniusta impunitate donati quam iusta ultione puniti. --- ord. par. diverso nel volg. rispetto al lat. ---
[18] Sed puniri improbos iustum, impunitos vero elabi iniquum esse manifestum est. Quis id neget? --- ord. par. diverso nel volg. rispetto al lat. ---
[19] Sed ne illud quidem, ait, quisquam negabit, bonum esse omne, quod iustum est, contraque, quod iniustum est, malum. --- ord. par. diverso nel volg. rispetto al lat. ---
[22] Tum ego: Ista quidem consequentia sunt eis, quae paulo ante conclusa sunt. Sed quaeso, inquam, te, nullane animarum supplicia post defunctum morte corpus relinquis?
[23] Et magna quidem, inquit, quorum alia poenali acerbitate, alia vero purgatoria clementia exerceri puto. Sed nunc de his disserere consilium non est.
[24] Id vero hactenus egimus, ut, quae indignissima tibi videbatur malorum potestas, eam nullam esse cognosceres, quosque impunitos querebare, videres numquam improbitatis suae carere suppliciis, licentiam, quam cito finiri precabaris, nec longam esse disceres infelicioremque fore, si diuturnior, infelicissimam vero, si esset aeterna; post haec miseriores esse improbos iniusta impunitate dimissos quam iusta ultione punitos.
[25] Cui sententiae consequens est, ut tum demum gravioribus suppliciis urgueantur, cum impuniti esse creduntur.
[26] Tum ego: Cum tuas, inquam, rationes considero, nihil dici verius puto. At si ad hominum iudicia revertar, quis ille est, cui haec non credenda modo, sed saltem audienda videantur?
[27] Ita est, inquit illa. Nequeunt enim oculos tenebris assuetos ad lucem perspicuae veritatis attollere similesque avibus sunt, quarum intuitum nox illuminat, dies caecat; dum enim non rerum ordinem, sed suos intuentur affectus, vel licentiam vel impunitatem scelerum putant esse felicem.
[28] Vide autem, quid aeterna lex sanciat. Melioribus animum conformaveris, nihil opus est iudice praemium deferente, tu te ipse excellentioribus addidisti.
[29] Studium ad peiora deflexeris, extra ne quaesieris ultorem, tu te ipse in deteriora trusisti, veluti, si vicibus sordidam humum caelumque respicias, cunctis extra cessantibus ipsa cernendi ratione nunc caeno, nunc sideribus interesse videaris.
[30] At vulgus ista non respicit. Quid igitur? Hisne accedamus, quos beluis similes esse monstravimus?
[31] Quid, si quis amisso penitus visu ipsum etiam se habuisse oblivisceretur intuitum nihilque sibi ad humanam perfectionem deesse arbitraretur, num videntes eadem caeco putaremus? --- caeco Pc] caecos cett. codd. Comm. ---
[32] Nam ne illud quidem adquiescent, quod aeque validis rationum nititur firmamentis, infeliciores eos esse, qui faciant, quam qui patiantur iniuriam.
[33] Vellem, inquam, has ipsas audire rationes. Omnem, inquit, improbum num supplicio dignum negas? Minime.
[34] Infelices vero esse, qui sint improbi, multipliciter liquet. Ita, inquam. Qui igitur supplicio digni sunt, miseros esse non dubitas? Convenit, inquam.
[35] Si igitur cognitor, ait, resideres, cui supplicium inferendum putares, eine, qui fecisset an qui pertulisset iniuriam? Nec ambigo, inquam, quin perpesso satisfacerem dolore facientis.
[36] Miserior igitur tibi iniuriae inlator quam acceptor esse viderentur.
[37] Consequitur, inquam. Hac igitur aliisque causis ea radice nitentibus, quod turpitudo suapte natura miseros faciat, apparet inlatam cuilibet iniuriam non accipientis, sed inferentis esse miseriam. --- Hac igitur (ip. Bierler)] hac POMLTFNREVA2B2, hinc O2M2L2T2F2N2R2E2MnWCVaHABPA2, haec K. --- aliisque (ip. Bieler)] aliisque de Pa, aliis de cett. codd. Peiper. ---
[38] Atqui nunc, ait, contra faciunt oratores; pro his enim, qui grave quid acerbumque perpessi sunt, miserationem iudicum excitare conantur, cum magis admittentibus iustior miseratio debeatur, quos non ab iratis, sed a propitiis potius miserantibusque accusatoribus ad iudicium veluti aegros ad medicum duci oportebat, ut culpae morbos supplicio resecarent.
[39] Quo pacto defensorum opera vel tota frigeret vel, si prodesse hominibus mallet, in accusationis habitum verteretur.
[40] Ipsi quoque improbi, si eis aliqua rimula virtutem relictam fas esset aspicere vitiorumque sordes poenarum cruciatibus se deposituros viderent, compensatione adipiscendae probitatis nec hos cruciatus esse ducerent defensorumque operam repudiarent ac se totos accusatoribus iudicibusque permitterent.
[41] Quo fit, ut apud sapientes nullus prorsus odio locus relinquatur. Nam bonos quis nisi stultissimus oderit? Malos vero odisse ratione caret.
[42] Nam si, uti corporum languor, ita vitiositas quidam est quasi morbus animorum, cum aegros corpore minime dignos odio, sed potius miseratione iudicemus, multo magis non insequendi, sed miserandi sunt, quorum mentes omni languore atrocior urguet improbitas.
[1] Quid tantos iuvat excitare motus / Et propria fatum sollicitare manu? / Si mortem petitis, propinquat ipsa / Sponte sua volucres nec remoratur equos. /
[5] Quos serpens, leo, tigris, ursus, aper / Dente petunt, idem se tamen ense petunt. /
[7] An distant quia dissidentque mores, / Iniustas acies et fera bella movent / Alternisque volunt perire telis? /
[10] Non est iusta satis saevitiae ratio. / Vis aptam meritis vicem referre? / Dilige iure bonos et miseresce malis. /
[1] Hic ego: Video, inquam, quae sit vel felicitas vel miseria in ipsis proborum atque improborum meritis constituta.
[2] Sed in hac ipsa fortuna populari non nihil boni malive inesse perpendo. Neque enim sapientum quisquam exsul, inops ignominiosusque esse malit potius, quam pollens opibus, honore reverendus, potentia validus in sua permanens urbe florere.
[3] Sic enim clarius testatiusque sapientiae tractatur officium, cum in contingentes populos regentium quodam modo beatitudo transfunditur, cum praesertim carcer ceteraque legalium tormenta poenarum perniciosis potius civibus, propter quos etiam constitutae sunt, debeantur.
[4] Cur haec igitur versa vice mutentur scelerumque supplicia bonos premant, praemia virtutum mali rapiant, vehementer admiror, quaeque tam iniustae confusionis ratio videatur, ex te scire desidero.
[5] Minus etenim mirarer, si misceri omnia fortuitis casibus crederem. Nunc stuporem meum deus rector exaggerat.
[6] Qui cum saepe bonis iucunda, malis aspera contraque bonis dura tribuat, malis optata concedat, nisi causa deprehenditur, quid est, quod a fortuitis casibus differre videatur?
[7] Nec mirum, inquit, si quid ordinis ignorata ratione temerarium confusumque credatur. Sed tu quamvis causam tantae dispositionis ignores, tamen, quoniam bonus mundum rector temperat, recte fieri cuncta ne dubites.
[1] Si quis Arcturi sidera nescit / Propinqua summo cardine labi, / Cur regat tardus plaustra Bootes / Mergatque seras aequore flammas, /
[5] Cum nimis celeres explicet ortus, / Legem stupebit aetheris alti. /
[7] Palleant plenae cornua lunae / Infecta metis noctis opacae, / Quaeque fulgenti texerat ore, / Confusa Phoebe detegat astra; /
[11] Commovet gentes publicus error, / Lassantque crebris pulsibus aera. /
[13] Nemo miratur flamina cori / Litus frementi tundere fluctu /
[15] Nec nivis duram frigore molem / Fervente Phoebi solvier aestu. /
[17] Hic enim causas cernere promptum est, / Illic latentes pectora turbant. /
[19] Cuncta, quae rara provehit aetas, / Stupetque subitis mobile vulgus. / Cedat inscitiae nubilus error, / Cessent profecto mira videri. /
[1] Ita est, inquam; sed cum tui muneris sit latentium rerum causas evolvere velatasque caligine explicare rationes, quaeso, uti, quae hinc decernas, quoniam hoc me miraculum maxime perturbat, edisseras.
[2] Tum illa paulisper arridens: Ad rem me, inquit, omnium quaesitu maximam vocas, cui vix exhausti quicquam satis sit.
[3] Talis namque materia est, ut una dubitatione succisa innumerabiles aliae velut hydrae capita succrescant; nec ullus fuerit modus, nisi quis eas vivacissimo mentis igne coerceat.
[4] In hac enim de providentiae simplicitate, de fati serie, de repentinis casibus, de cognitione ac praedestinatione divina, de arbitrii libertate quaeri solet, quae quanti oneris sint ipse perpendis.
[5] Sed quoniam haec quoque te nosse quaedam medicinae tuae portio est, quamquam angusto limite temporis saepti tamen aliquid deliberare conabimur.
[6] Quodsi te musici carminis oblectamenta delectant, hanc oportet paulisper differas voluptatem, dum nexas sibi ordine contexo rationes. Ut libet, inquam.
[7] Tunc velut ab alio orsa principio ita disseruit: Omnium generatio rerum cunctusque mutabilium naturarum progressus et quicquid aliquo movetur modo, causas, ordinem, formas ex divinae mentis stabilitate sortitur.
[8] Haec in suae simplicitatis arce composita multiplicem rebus gerendis modum statuit; qui modus cum in ipsa divinae intellegentiae puritate conspicitur, providentia nominatur, cum vero ad ea, quae movet atque disponit, refertur, fatum a veteribus appellatum est.
[9] Quae diversa esse facile liquebit, si quis utriusque vim mente conspexerit. Nam providentia est ipsa illa divina ratio in summo omnium principe constituta, quae cuncta disponit; fatum vero inhaerens rebus mobilibus dispositio, per quam providentia suis quaeque nectit ordinibus.
[10] Providentia namque cuncta pariter quamvis diversa, quamvis infinita complectitur, fatum vero singula digerit in motum locis, formis ac temporibus distributa, ut haec temporalis ordinis explicatio in divinae mentis adunata prospectum providentia sit, eadem vero adunatio digesta atque explicata temporibus fatum vocetur.
[11] Quae licet diversa sint, alterum tamen pendet ex altero. Ordo namque fatalis ex providentiae simplicitate procedit.
[12] Sicut enim artifex faciendae rei formam mente praecipiens movet operis effectum et, quod simpliciter praesentarieque prospexerat, per temporales ordines ducit, ita deus providentia quidem singulariter stabiliterque facienda disponit, fato vero haec ipsa, quae disposuit, multipliciter ac temporaliter administrat.
[13] Sive igitur famulantibus quibusdam providentiae divinis spiritibus fatum exercetur seu anima seu tota inserviente natura seu caelestibus siderum motibus seu angelica virtute seu daemonum varia sollertia seu aliquibus horum seu omnibus fatalis series texitur, illud certe manifestum est, immobilem simplicemque gerendarum formam rerum esse providentiam, fatum vero eorum, quae divina simplicitas gerenda disposuit, mobilem nexum atque ordinem temporalem.
[14] Quo fit, ut omnia, quae fato subsunt, providentiae quoque subiecta sint, cui ipsum etiam subiacet fatum, quaedam vero, quae sub providentia locata sunt, fati seriem superent. Ea vero sunt, quae primae propinqua divinitati stabiliter fixa fatalis ordinem mobilitatis excedunt.
[15] Nam ut orbium circa eundem cardinem sese vertentium, qui est intimus, ad simplicitatem medietatis accedit ceterorumque extra locatorum veluti cardo quidam, circa quem versentur, exsistit, extimus vero maiore ambitu rotatus quanto a puncti media individuitate discedit, tanto amplioribus spatiis explicatur, si quid vero illi se medio conectat et societ, in simplicitatem cogitur diffundique ac diffluere cessat, simili ratione, quod longius a prima mente discedit, maioribus fati nexibus implicatur, ac tanto aliquid fato liberum est, quanto illum rerum cardinem vicinius petit.
[16] Quodsi supernae mentis haeserit firmitati, motu carens fati quoque supergreditur necessitatem.
[17] Igitur uti est ad intellectum ratiocinatio, ad id quod est, id quod gignitur, ad aeternitatem tempus, ad punctum medium circulus, ita est fati series mobilis ad providentiae stabilem simplicitatem.
[18] Ea series caelum ac sidera movet, elementa in se invicem temperat et alterna commutatione transformat; eadem nascentia occidentiaque omnia per similes fetuum seminumque renovat progressus.
[19] Haec actus etiam fortunasque hominum indissolubili causarum conexione constringit, quae cum ab immobilis providentiae proficiscatur exordiis, ipsas quoque immutabiles esse necesse est.
[20] Ita enim res optime reguntur, si manens in divina mente simplicitas indeclinabilem causarum ordinem promat, hic vero ordo res mutabiles et alioquin temere fluituras propria incommutabilitate coerceat.
[21] Quo fit, ut, tametsi vobis hunc ordinem minime considerare valentibus confusa omnia perturbataque videantur, nihilo minus tamen suus modus ad bonum dirigens cuncta disponat.
[22] Nihil est enim, quod mali causa ne ab ipsis quidem improbis fiat; quos, ut uberrime demonstratum est, bonum quaerentes pravus error avertit, nedum ordo de summi boni cardine proficiens a suo quoquam deflectat exordio.
[23] Quae vero, inquies, potest ulla iniquior esse confusio, quam ut bonis tum adversa tum prospera, malis etiam tum optata tum odiosa contingant?
[24] Num igitur ea mentis integritate homines degunt, ut, quos probos improbosve censuerunt, eos quoque, uti existimant, esse necesse sit?
[25] Atqui in hoc hominum iudicia depugnant et, quos alii praemio, alii supplicio dignos arbitrantur.
[26] Sed concedamus ut aliquis possit bonos malosque discernere; num igitur poterit intueri illam intimam temperiem, velut in corporibus dici solet, animorum?
[27] Non enim dissimile est miraculum nescienti, cur sanis corporibus his quidem dulcia, illis vero amara conveniant, cur aegri etiam quidam lenibus, quidam vero acribus adiuvantur;
[28] at hoc medicus, qui sanitatis ipsius atque aegritudinis modum temperamentumque dinoscit, minime miratur.
[29] Quid vero aliud animorum salus videtur esse quam probitas? Quid aegritudo quam vitia? Quis autem alius vel servator bonorum vel malorum depulsor quam rector ac medicator mentium deus?
[30] Qui cum ex alta providentiae specula respexit, quid unicuique conveniat, agnoscit et quod convenire novit, accommodat.
[31] Hic iam fit illud fatalis ordinis insigne miraculum, cum ab sciente geritur, quod stupeant ignorantes.
[32] Nam ut pauca, quae ratio valet humana, de divina profunditate perstringam: de hoc, quem tu iustissimum et aequi servantissimum putas, omnia scienti providentiae diversum videtur.
[33] Et victricem quidem causam dis, victam vero Catoni placuisse familiaris noster Lucanus admonuit.
[34] Hic igitur quicquid citra spem videas geri, rebus quidem rectus ordo est, opinioni vero tuae perversa confusio.
[35] Sed sit aliquis ita bene moratus, ut de eo divinum iudicium pariter humanumque consentiat, sed est animi viribus infirmus; cui si quid eveniat adversi, desinet colere forsitan innocentiam, per quam non potuit retinere fortunam.
[36] Parcit itaque sapiens dispensatio ei, quem deteriorem facere possit adversitas, ne, cui non convenit, laborare patiatur.
[37] Est alius cunctis virtutibus absolutus sanctusque ac deo proximus. Hunc contingi quibuslibet adversis nefas providentia iudicat adeo, ut ne corporeis quidem morbis agitari sinat.
[38] Nam ut quidam me quoque excellentior: }greco{
[39] Fit autem saepe, uti bonis summa rerum regenda deferatur, ut exuberans retundatur improbitas.
[40] Aliis mixta quaedam pro animorum qualitate distribuit; quosdam remordet, ne longa felicitate luxurient, alios duris agitari, ut virtutes animi patientiae usu atque exercitatione confirment.
[41] Alii plus aequo metuunt, quod ferre possunt, alii plus aequo despiciunt, quod ferre non possunt. Hos in experimentum sui tristibus ducit.
[42] Nonnulli venerandum saeculis nomen gloriosae pretio mortis emerunt; quidem suppliciis inexpugnabiles exemplum ceteris praetulerunt invictam malis esse virtutem; quae quam recte atque disposite et ex eorum bono, quibus accedere videntur, fiant, nulla dubitatio est.
[43] Nam illud quoque, quod improbis nunc tristia, nunc optata proveniunt, ex eisdem ducitur causis;
[44] ac de tristibus quidem nemo miratur, quod eos male meritos omnes existimant. Quorum quidem supplicia tum ceteros ab sceleribus deterrent, tum ipsos, quibus invehuntur, emendant; laeta vero magnum bonis argumentum loquuntur, quid de huius modi felicitate debeant iudicare, quam famulari saepe improbis cernant.
[45] In qua re illud etiam dispensari credo, quod est forsitan alicuius tam praeceps atque importuna natura, ut eum in scelera potius exacerbare possit rei familiaris inopia; huius morbo providentia collatae pecuniae remedio medetur.
[46] Hic foedatam probris conscientiam spectans et se cum fortuna sua comparans forsitan pertimescit, ne, cuius ei iucundus usus est, sit tristis amissio. Mutabit igitur mores, ac dum fortunam metuit amittere, nequitiam derelinquit.
[47] Alios in cladem meritam praecipitavit indigne acta felicitas; quibusdam permissum puniendi ius, ut exercitii bonis et malis esset causa supplicii.
[48] Nam ut probis atque improbis nullum foedus est, ita ipsi inter se improbi nequeunt convenire.
[49] Quidni, cum a semet ipsis discerpentibus conscientiam vitiis quisque dissentiat faciantque saepe, quae, cum gesserint, non fuisse gerenda decernant?
[50] Ex quo saepe summa illa providentia protulit insigne miraculum, ut malos mali bonos facerent.
[51] Nam dum iniqua sibi a pessimis quidam perpeti videntur, noxiorum odio flagrantes ad virtutis frugem rediere, dum se eis dissimiles student esse, quos oderant.
[52] Sola est enim divina vis, cui mala quoque bona sint, cum eis competenter utendo alicuius boni elicit effectum.
[53] Ordo enim quidam cuncta complectitur, ut, quod adsignata ordinis ratione decesserit, hoc licet in alium tamen ordinem relabatur, ne quid in regno providentiae liceat temeritati.
[54] }greco{
[55] Neque enim fas est homini cunctas divinae operae machinas vel ingenio comprehendere vel explicare sermone.
[56] Hoc tantum perspexisse sufficiat, quod naturarum omnium proditor deus idem ad bonum dirigens cuncta disponat dumque ea, quae protulit in sui similitudinem, retinere festinat, malum omne de rei publicae suae terminis per fatalis seriem necessitatis eliminet.
[57] Quo fit, ut, quae in terris abundare creduntur, si disponentem providentiam spectes, nihil usquam mali esse perpendas.
[58] Sed video te iam dudum et pondere quaestionis oneratum et rationis prolixitate fatigatum aliquam carminis exspectare dulcedinem. Accipe igitur haustum, quo refectus firmior in ulteriora contendas.
[1] Si vis celsi iura Tonantis / Pura sollers cernere mente, / Aspice summi culmina caeli. / Illic iusto foedere rerum / Veterem servant sidera pacem. /
[6] Non sol rutilo concitus igne / Gelidum Phoebes impedit axem, / Nec, quae summo vertice mundi / Flectit rapidos Ursa meatus, / Numquam occiduo lota profundo, / Cetera cernens sidera mergi / Cupit Oceano tinguere flammas. /
[13] Semper vicibus temporis aequis / Vesper seras nuntiat umbras / Revehitque diem Lucifer almum. /
[16] Sic aeternos reficit cursus / Alternus amor, sic astrigeris / Bellum discors exsulat oris. /
[19] Haec concordia temperat aequis / Elementa modis, ut pugnantia / Vicibus cedant umida siccis / Iungantque fidem frigora flammis, / Pendulus ignis surgat in altum / Terraeque graves pondere sidant. /
[25] His de causis vere tepenti / Spirat florifer annus odores, / Aestas cererem fervida siccat, / Remeat pomis gravis autumnus, / Hiemem defluus inrigat imber. /
[30] Haec temperies alit ac profert, / Quicquid vitam spirat in orbe. / Eadem rapiens condit et aufert / Obitu mergens orta supremo. /
[34] Sedet interea conditor altus / Rerumque regens flectit habenas / Rex et dominus, fons et origo, / Lex et sapiens arbiter aequi, / Et quae motu concitat ire, / Sistit retrahens ac vaga firmat. /
[40] Nam nisi rectos revocans itus / Flexos iterum cogat in orbes, / Quae nunc stabilis continet ordo, / Dissaepta suo fonte fatiscant. /
[44] Hic est cunctis communis amor, / Repetuntque boni fine teneri, / Quia non aliter durare queant, / Nisi converso rursus amore / Refluant causae, quae dedit esse. /
[1] Iamne igitur vides, quid haec omnia, quae diximus, consequatur? Quidnam? inquam.
[2] Omnem, inquit, bonam prorsus esse fortunam. Et qui id, inquam, fieri potest? Attende, inquit;
[3] cum omnis fortuna, vel iucunda vel aspera, tum remunerandi exercendive bonos, tum puniendi corrigendive improbos causa deferatur, omnis bona, quam vel iustam constat esse vel utilem.
[4] Nimis quidem, inquam, vera ratio et, si, quam paulo ante docuisti, providentiam fatumve considerem, firmis viribus nixa sententia.
[5] Sed eam, si placet, inter eas, quas inopinabiles paulo ante posuisti numeremus. Qui? inquit.
[6] Quia id hominum sermo communis usurpat, et quidem crebro, quorundam malam esse fortunam.
[7] Visne igitur, inquit, paulisper vulgi sermonibus accedamus, ne nimium velut ab humanitatis usu recessisse videamur? Ut placet, inquam.
[8] Nonne igitur bonum censes esse, quod prodest? Ita est, inquam.
[9] Quae vero aut exercet aut corrigit, prodest? Fateor, inquam. Bona igitur? Quidni?
[10] Sed haec eorum est, qui vel in virtute positi contra aspera bellum gerunt vel a vitiis declinantes virtutis iter arripiunt. Negare, inquam, nequeo.
[11] Quid vero: iucunda, quae in praemium tribuitur bonis, num vulgus malam esse decernit? Nequaquam. Verum uti est, ita quoque esse optimam censet.
[12] Quid reliqua, quae cum sit aspera, iusto supplicio malos coercet, num bonam populus putat?
[13] Immo omnium, inquam, quae excogitari possunt, iudicat esse miserrimam.
[14] Vide igitur, ne opinionem populi sequentes quiddam valde inopinabile confecerimus. Quid? inquam.
[15] Ex his enim, ait, quae concessa sunt, evenit eorum quidem, qui vel sunt vel in possessione vel in provectu vel in adeptione virtutis, omnem, quaecumque sit, bonam, in improbitate vero manentibus omnem pessimam esse fortunam.
[16] Hoc, inquam, verum est, tametsi nemo audeat confiteri.
[17] Quare, inquit, ita vir sapiens moleste ferre non debet, quotiens in fortunae certamen adducitur, ut virum fortem non decet indignari, quotiens increpuit bellicus tumultus.
[18] Utrique enim, huic quidem gloriae propagandae, illi vero conformandae sapientiae, difficultas ipsa materia est.
[19] Ex quo etiam virtus vocatur, quod virtus suis viribus nitens non superetur adversis. Neque enim vos in provectu positi virtutis diffluere deliciis et emarcescere voluptate venistis;
[20] proelium cum omni fortuna nimis acre conseritis, ne vos aut tristis opprimat aut iucunda corrumpat;
[21] firmis medium viribus occupate. Quicquid aut infra subsistit aut ultra progreditur, habet contemptum felicitatis, non habet praemium laboris.
[22] In vestra enim situm manu, qualem vobis fortunam formare malitis. Omnis enim, quae videtur aspera, nisi aut exercet aut corrigit, punit.
[1] Bella bis quinis operatus annis / Ultor Atrides Phrygiae ruinis / Fratris amissos thalamos piavit. /
[4] Ille dum Graiae dare vela classi / Optat et ventos redimit cruore, / Exuit patrem miserumque tristis / Foederat natae iugulum sacerdos. /
[8] Flevit amissos Ithacus sodales, / Quos ferus vasto recubans in antro / Mersit immani Polyphemus alvo. /
[11] Sed tamen caeco furibundus ore / Gaudium maestis lacrimis rependit. /
[13] Herculem duri celebrant labores: / Ille Centauros domuit superbos, / Abstulit saevo spolium leoni / Fixit et certis volucres sagittis, / Poma cernenti rapuit draconi / Aureo laevam gravior metallo, / Cerberum traxit triplici catena. /
[20] Victor immitem posuisse fertur / Pabulum saevis dominum quadrigis. / Hydra combusto periit veneno, / Fronte turpatus Achelous amnis / Ora demersit pudibunda ripis. /
[25] Stravit Antaeum Libycis harenis, / Cacus Euandri satiavit iras, / Quosque pressurus foret altus orbis, / Saetiger spumis umeros notavit. /
[29] Ultimus caelum labor inreflexo / Sustulit collo pretiumque rursus / Ultimi caelum meruit laboris. /
[32] Ite nunc, fortes, ubi celsa magni / Ducit exempli via. Cur inertes / Terga nudatis? Superata tellus / Sidera donat. /
[1] Dixerat orationisque cursum ad alia quaedam tractanda atque expedienda vertebat.
[2] Tum ego: Recta quidem, inquam, exhortatio tuaque prorsus auctoritate dignissima, sed quod tu dudum de providentia quaestionem pluribus aliis implicitam esse dixisti, re experior.
[3] Quaero enim, an esse aliquid omnino et quidnam esse casum arbitrere.
[4] Tum illa: Festino, inquit, debitum promissionis absolvere viamque tibi, qua patriam reveharis, aperire.
[5] Haec autem etsi perutilia cognitu, tamen a propositi nostri tramite paulisper aversa sunt verendumque est, ne deviis fatigatus ad emetiendum rectum iter sufficere non possis.
[6] Ne id, inquam, prorsus vereare. Nam quietis mihi loco fuerit ea, quibus maxime delector, agnoscere;
[7] simul, cum omne disputationis tuae latus indubitata fide constiterit, nihil de sequentibus ambigatur.
[8] Tum illa: Morem, inquit, geram tibi, simulque sic orsa est: Si quidem, inquit, aliquis eventum temerario motu nullaque causarum conexione productum casum esse definiat, nihil omnino casum esse confirmo et praeter subiectae rei significationem inanem prorsus vocem esse decerno. Quis enim coercente in ordinem cuncta deo locus esse ullus temeritati reliquus potest?
[9] Nam nihil ex nihilo exsistere vera sententia est, cui nemo umquam veterum refragatus est, quamquam id illi non de operante principio, sed de materiali subiecto hoc omnium de natura rationum quasi quoddam iecerint fundamentum.
[10] At si nullis ex causis aliquid oriatur, id de nihilo ortum esse videbitur. Quodsi hoc fieri nequit, ne casum quidem huius modi esse possibile est, qualem paulo ante definivimus.
[11] Quid igitur, inquam, nihilne est, quod vel casus vel fortuitum iure appellari queat? An est aliquid, tametsi vulgus lateat, cui vocabula ista conveniant?
[12] Aristoteles meus id, inquit, in Physicis et brevi et veri propinqua ratione definivit. Quonam, inquam, modo?
[13] Quotiens, ait, aliquid cuiuspiam rei gratia geritur aliudque quibusdam de causis, quam quod intendebatur, obtingit, casus vocatur; ut, si quis colendi agri causa fodiens humum defossi auri pondus inveniat,
[14] hoc igitur fortuito quidem creditur accidisse. Verum non de nihilo est, nam proprias causas habet, quarum inprovisus inopinatusque concursus casum videtur operatus.
[15] Nam nisi cultor agri humum foderet, nisi eo loci pecuniam suam depositor obruisset, aurum non esset inventum.
[16] Hae sunt igitur fortuiti causae compendii, quod ex obviis sibi et confluentibus causis, non ex gerentis intentione provenit.
[17] Neque enim vel qui aurum obruit vel qui agrum exercuit, ut ea pecunia reperiretur, intendit; sed uti dixi, quo ille obruit, hunc fodisse convenit atque concurrit.
[18] Licet igitur definire casum esse inopinatum ex confluentibus causis in his, quae ob aliquid geruntur, eventum.
[19] Concurrere vero atque confluere causas facit ordo ille inevitabili conexione procedens, qui de providentiae fonte descendens cuncta suis locis temporibusque disponit.
[1] Rupis Achaemeniae scopulis, ubi versa sequentum / Pectoribus figit spicula pugna fugax, / Tigris et Euphrates uno se fonte resolvunt / Et mox abiunctis dissociantur aquis. /
[5] Si coeant cursumque iterum revocentur in unum, / Confluat, alterni quod trahit unda vadi; / Convenient puppes et vulsi flumine trunci / Mixtaque fortuitos implicet unda modos, /
[9] Quos tamen ipsa vagos terrae declivia casus / Gurgitis et lapsi defluus ordo regit. /
[11] Sic, quae permissis fluitare videtur habenis, / Fors patitur frenos ipsaque lege meat. /
[1] Animadverto, inquam, idque, uti tu dicis, ita esse consentio.
[2] Sed in hac haerentium sibi serie causarum estne ulla nostri arbitrii libertas, an ipsos quoque humanorum motus animorum fatalis catena constringit?
[3] Est, inquit; neque enim fuerit ulla rationalis natura, quin eidem libertas adsit arbitrii.
[4] Nam quod ratione uti naturaliter potest, id habet iudicium, quo quidque discernat; per se igitur fugienda optandave dinoscit.
[5] Quod vero quis optandum esse iudicat, petit; refugit vero, quod aestimat esse fugiendum.
[6] Quare, quibus in ipsis inest ratio, etiam volendi nolendique libertas. Sed hanc non in omnibus aequam esse constituo.
[7] Nam supernis divinisque substantiis et perspicax iudicium et incorrupta voluntas et efficax optatorum praesto est potestas.
[8] Humanas vero animas liberiores quidem esse necesse est, cum se in mentis divinae speculatione conservant, minus vero, cum dilabuntur ad corpora, minusque etiam, cum terrenis artubus colligantur.
[9] Extrema vero est servitus, cum vitiis deditae rationis propriae possessione ceciderunt.
[10] Nam ubi oculos a summae luce veritatis ad inferiora et tenebrosa deiecerint, mox inscitiae nube caligant, perniciosis turbantur affectibus, quibus accedendo consentiendoque, quam invexere sibi, adiuvant servitutem et sunt quodam modo propria libertate captivae.
[11] Quae tamen ille ab aeterno cuncta prospiciens providentiae cernit intuitus et suis quaeque meritis praedestinata disponit.
[1] }greco{ / Puro clarum lumine Phoebum / Melliflui canit oris Homerus; /
[4] Qui tamen intima viscera terrae / Non valet aut pelagi radiorum / Infirma perrumpere luce. /
[7] Haud sic magni conditor orbis. / Huic ex alto cuncta tuenti / Nulla terrae mole resistunt, / Non nox atris nubibus obstat.
[11] Quae sint, quae fuerint veniantque, / Uno mentis cernit in ictu. /
[13] Quem, quia respicit omnia solus, / Verum possis dicere solem. /
[1] Tum ego: En, inquam, difficiliore rursus ambiguitate confundor.
[2] Quaenam, inquit, ista est? Iam enim quibus pertubere, coniecto.
[3] Nimium, inquam, adversari ac repugnare videtur praenoscere universa deum et esse ullum libertatis arbitrium.
[4] Nam si cuncta prospicit deus neque falli ullo modo potest, evenire necesse est, quod providentia futurum esse praeviderit.
[5] Quare si ab aeterno non facta hominum modo, sed etiam consilia voluntatesque praenoscit, nulla erit arbitrii libertas; neque enim vel factum aliud ullum vel quaelibet exsistere poterit voluntas, nisi quam nescia falli providentia divina praesenserit.
[6] Nam si aliorsum, quam provisae sunt, detorqueri valent, non iam erit futuri firma praescientia, sed opinio potius incerta, quod de deo credere nefas iudico.
[7] Neque enim illam probo rationem, qua se quidam credunt hunc quaestionis nodum posse dissolvere.
[8] Aiunt enim non ideo quid esse eventurum, quoniam id providentia futurum esse prospexerit, sed e contrario potius, quoniam quid futurum est, id divinam providentiam latere non posse eoque modo necessarium hoc in contrariam relabi partem;
[9] neque enim necesse esse contingere, quae providentur, sed necesse esse, quae futura sunt, provideri, quasi vero, quae cuius rei causa sit, praescientiane futurorum necessitatis an futurorum necessitas providentiae, laboretur ac non illud demonstrare nitamur, quoquo modo sese habeat ordo causarum, necessarium esse eventum praescitarum rerum, etiam si praescientia futuris rebus eveniendi necessitatem non videatur inferre.
[10] Etenim si quispiam sedeat, opinionem, quae eum sedere coniectat, veram esse necesse est atque e converso rursus, si de quopiam vera sit opinio, quoniam sedet, eum sedere necesse est.
[11] In utroque igitur necessitas inest, in hoc quidem sedendi, at vero in altero veritatis;
[12] sed non idcirco quisque sedet, quoniam vera est opinio, sed haec potius vera est, quoniam quempiam sedere praecessit.
[13] Ita cum causa veritatis ex altera parte procedat, inest tamen communis in utraque necessitas.
[14] Similia de providentia futurisque rebus ratiocinari patet. Nam etiam si idcirco, quoniam futura sunt, providentur, non vero ideo, quoniam providentur, eveniunt; nihilo minus tamen a deo vel ventura provideri vel provisa necesse est evenire, quod ad perimendam arbitrii libertatem solum satis est.
[15] Iam vero quam praeposterum est, ut aeternae praescientiae temporalium rerum eventus causa esse dicatur?
[16] Quid est autem aliud arbitrari ideo deum futura, quoniam sunt eventura, providere quam putare, quae olim acciderunt, causam summae illius esse providentiae?
[17] Ad haec sicuti, cum quid esse scio, id ipsum esse necesse est, ita, cum quid futurum novi, id ipsum futurum esse necesse est. Sic fit igitur, ut eventus praescitae rei nequeat evitari.
[18] Postremo si quid aliquis aliorsum, atque sese res habet, existimet, id non modo scientia non est, sed est opinio fallax ab scientiae veritate longe diversa.
[19] Quare si quid ita futurum est, ut eius certus ac necessarius non sit eventus, id eventurum esse praesciri qui poterit?
[20] Sicut enim scientia ipsa impermixta est falsitati, ita id, quod ab ea concipitur, esse aliter, atque concipitur, nequit.
[21] Ea namque causa est, cur mendacio scientia careat, quod se ita rem quamque habere necesse est, uti eam sese habere scientia comprehendit.
[22] Quid igitur? Quonam modo deus haec incerta futura praenoscit?
[23] Nam si inevitabiliter eventura censet, quae etiam non evenire possibile est, fallitur, quod non sentire modo nefas est, sed etiam voce proferre.
[24] At si ita, uti sunt, ita ea futura esse decernit, ut aeque vel fieri ea vel non fieri posse cognoscat, quae est haec praescientia, quae nihil certum, nihil stabile comprehendit?
[25] Aut quid hoc refert vaticinio illo ridiculo Tiresiae: "Quicquid dicam, aut erit aut non?"
[26] Quid etiam divina providentia opinione praestiterit, si uti homines incerta iudicat, quorum est incertus eventus?
[27] Quodsi apud illum rerum omnium certissimum fontem nihil incerti esse potest, certus eorum est eventus, quae futura firmiter ille praescierit.
[28] Quare nulla est humanis consiliis actionibusque libertas, quas divina mens sine falsitatis errore cuncta prospiciens ad unum alligat et constringit eventum.
[29] Quo semel recepto quantus occasus humanarum rerum consequatur, liquet.
[30] Frustra enim bonis malisque praemia poenaeve proponuntur, quae nullus meruit liber ac voluntarius motus animorum.
[31] Idque omnium videbitur iniquissimum, quod nunc aequissimum iudicatur, vel puniri improbos vel remunerari probos, quos ad alterutrum non propria mittit voluntas, sed futuri cogit certa necessitas.
[32] Nec vitia igitur nec virtutes quicquam fuerint, sed omnium meritorum potius mixta atque indiscreta confusio. Quoque nihil sceleratius excogitari potest, cum ex providentia rerum omnis ordo ducatur nihilque consiliis liceat humanis, fit, ut vitia quoque nostra ad bonorum omnium referantur auctorem.
[33] Igitur nec sperandi aliquid nec deprecandi ulla ratio est. Quid enim vel speret quisque vel etiam deprecetur, quando optanda omnia series indeflexa conectit?
[34] Auferetur igitur unicum illud inter homines deumque commercium, sperandi scilicet ac deprecandi. Si quidem iustae humilitatis pretio inaestimabilem vicem divinae gratiae promeremur, qui solus modus est, quo cum deo colloqui homines posse videantur illique inaccessae luci prius quoque, quam impetrent, ipsa supplicandi ratione coniungi;
[35] quae si recepta futurorum necessitate nihil virium habere credantur, quid erit, quo summo illi rerum principi conecti atque adhaerere possimus?
[36] Quare necesse erit humanum genus, uti paulo ante cantabas, dissaeptum atque disiunctum suo fonte fatiscere.
[1] Quaenam discors foedera rerum / Causa resolvit? Quis tanta deus / Veris statuit bella duobus, / Ut, quae carptim singula constent, / Eadem nolint mixta iugari? /
[6] An nulla est discordia veris / Semperque sibi certa cohaerent? / Sed mens caecis obruta membris / Nequit oppressi luminis igne / Rerum tenues noscere nexus? /
[11] Sed cur tanto flagrat amore / Veri tectas reperire notas? / Scitne, quod appetit anxia nosse? / Sed quis nota scire laborat? / At si nescit, quid caeca petit? /
[16] Quis enim quicquam nescius optet, / Aut quis valeat nescita sequi, / Quove inveniat? Quis repertam / Queat ignarus noscere formam? /
[20] An, cum mentem cerneret altam, / Pariter summam et singula norat? /
[22] Nunc membrorum condita nube / Non in totum est oblita sui / Summamque tenet singula perdens. /
[25] Igitur quisquis vera requirit, / Neutro est habitu; nam neque novit / Nec penitus tamen omnia nescit, / Sed, quam retinens meminit, summam / Consulit alte visa retractans, / Ut servatis queat oblitas / Addere partes. /
[1] Tum illa: Vetus, inquit, haec est de providentia querela Marcoque Tullio, cum divinationem distribuit, vehementer agitata tibique ipsi res diu prorsus multumque quaesita, sed haudquaquam ab ullo vestrum hactenus satis diligenter ac firmiter expedita.
[2] Cuius caliginis causa est, quod humanae ratiocinationis motus ad divinae praescientiae simplicitatem non potest admoveri; quae si ullo modo cogitari queat, nihil prorsus relinquetur ambigui.
[3] Quod ita demum patefacere atque expedire temptabo, si prius ea, quibus moveris, expendero.
[4] Quaero enim, cur illam solventium rationem minus efficacem putes, quae quia praescientiam non esse futuris rebus causam necessitatis existimat, nihil impediri praescientia arbitrii libertatem putat.
[5] Num enim tu aliunde argumentum futurorum necessitatis trahis, nisi quod ea, quae praesciuntur, non evenire non possunt?
[6] Si igitur praenotio nullam futuris rebus adicit necessitatem, quod tu etiam paulo ante fatebare, quid est, quod voluntarii exitus rerum ad certum cogantur eventum?
[7] Etenim positionis gratia, ut, quid consequatur, advertas, statuamus nullam esse praescientiam.
[8] Num igitur, quantum ad hoc attinet, quae ex arbitrio veniunt, ad necessitatem cogantur? Minime.
[9] Statuamus iterum esse, sed nihil rebus necessitatis iniungere; manebit, ut opinor, eadem voluntatis integra atque absoluta libertas.
[10] Sed praescienta, inquies, tametsi futuris eveniendi necessitas non est, signum tamen est necessario ea esse ventura.
[11] Hoc igitur modo, etiam si praecognitio non fuisset, necessarios futurorum exitus esse constaret. Omne etenim signum tantum, quid sit, ostendit, non vero efficit, quod designat.
[12] Quare demonstrandum prius est nihil non ex necessitate contingere, ut praenotionem signum esse huius necessitatis appareat. Alioquin si haec nulla est, ne illa quidem eius rei signum poterit esse, quae non est.
[13] Iam vero probationem firma ratione subnixam constat non ex signis neque petitis extrinsecus argumentis, sed ex convenientibus necessariisque causis esse ducendam.
[14] Sed qui fieri potest, ut ea non proveniant, quae futura esse providentur? Quasi vero nos ea, quae providentia futura esse praenoscit, non esse eventura credamus ac non illud potius arbitremur, licet eveniant, nihil tamen, ut evenirent, sui natura necessitatis habuisse;
[15] quod hinc facile perpendas licebit. Plura etenim, dum fiunt, subiecta oculis intuemur, ut ea, quae in quadrigis moderandis atque flectendis facere spectantur aurigae, atque ad hunc modum cetera.
[16] Num igitur quicquam illorum ita fieri necessitas ulla compellit? Minime. Frustra enim esset artis effectus, si omnia coacta moverentur.
[17] Quae igitur, cum fiunt, carent exsistendi necessitate, eadem, prius quam fiant, sine necessitate futura sunt.
[18] Quare sunt quaedam eventura, quorum exitus ab omni necessitate sit absolutus.
[19] Nam illud quidem nullum arbitror esse dicturum, quod, quae nunc fiunt, prius quam fierent, eventura non fuerint. Haec igitur etiam praecognita liberos habent eventus.
[20] Nam sicut scientia praesentium rerum nihil his, quae fiunt, ita praescientia futurorum nihil his, quae ventura sunt, necessitatis importat.
[21] Sed hoc, inquis, ipsum dubitatur, an earum rerum, quae necessarios exitus non habent, ulla possit esse praenotio.
[22] Dissonare etenim videntur, putasque, si praevideantur, consequi necessitatem; si necessitas desit, minime praesciri nihilque scientia comprehendi posse nisi certum;
[23] quodsi, quae incerti sunt exitus, ea quasi certa providentur, opinionis id esse caliginem, non scientiae veritatem. Aliter enim, ac sese res habeat, arbitrari ab integritate scientiae credis esse diversum.
[24] Cuius erroris causa est, quod omnia, quae quisque novit, ex ipsorum tantum vi atque natura cognosci aestimat, quae sciuntur.
[25] Quod totum contra est. Omne enim, quod cognoscitur, non secundum sui vim, sed secundum cognoscentium potius comprehenditur facultatem.
[26] Nam ut hoc brevi liqueat exemplo, eandem corporis rotunditatem aliter visus, aliter tactus agnoscit. Ille eminus manens totum simul iactis radiis intuetur, hic vero cohaerens orbi atque coniunctus circa ipsum motus ambitum rotunditatem partibus comprehendit.
[27] Ipsum quoque hominem aliter sensus, aliter imaginatio, aliter ratio, aliter intellegentia contuetur.
[28] Sensus enim figuram in subiecta materia constitutam, imaginatio vero solam sine materia iudicat figuram.
[29] Ratio vero hanc quoque transcendit speciemque ipsam, quae singularibus inest, universali consideratione perpendit.
[30] Intellegentiae vero celsior oculus exsistit; supergressa namque universitatis ambitum ipsam illam simplicem formam pura mentis acie contuetur.
[31] In quo illud maxime considerandum est; nam superior comprehendendi vis amplectitur inferiorem, inferior vero ad superiorem nullo modo consurgit.
[32] Neque enim sensus aliquid extra materiam valet vel universales species imaginatio contuetur vel ratio capit simplicem formam, sed intellegentia quasi desuper spectans concepta forma, quae subsunt, etiam cuncta diiudicat, sed eo modo, quo formam ipsam, quae nulli alii nota esse poterat, conprehendit.
[33] Nam et rationis universum et imaginationis figuram et materiale sensibile cognoscit nec ratione utens nec imaginatione nec sensibus, sed illo uno ictu mentis formaliter, ut ita dicam, cuncta prospiciens.
[34] Ratio quoque, cum quid universale respicit, nec imaginatione nec sensibus utens imaginabilia vel sensibilia comprehendit.
[35] Haec est enim, quae conceptionis suae universale ita definit: Homo est animal bipes rationale.
[36] Quae cum universalis notio sit, tum imaginabilem sensibilemque esse rem nullus ignorat, quod illa non imaginatione vel sensu, sed in rationali conceptione considerat.
[37] Imaginatio quoque, tametsi ex sensibus visendi formandique figuras sumpsit exordium, sensu tamen absente sensibilia quaeque collustrat non sensibili, sed imaginaria ratione iudicandi.
[38] Videsne igitur, ut in cognoscendo cuncta sua potius facultate quam eorum, quae cognoscuntur, utantur?
[39] Neque id iniuria; nam cum omne iudicium iudicantis actus exsistat, necesse est, ut suam quisque operam non ex aliena, sed ex propria potestate perficiat.
[1] Quondam porticus attulit / Obscuros nimium senes, / Qui sensus et imagines / E corporibus extimis / Credant mentibus imprimi, /
[6] Ut quondam celeri stilo / Mos est aequore paginae, / Quae nullas habeat notas, / Pressas figere litteras. /
[10] Sed mens si propriis vigens / Nihil motibus explicat, / Sed tantum patiens iacet / Notis subdita corporum / Cassasque in speculi vicem / Rerum reddit imagines, / Unde haec sic animis viget / Cernens omnia notio? /
[18] Quae vis singula perspicit, / Aut quae cognita dividit? / Quae divisa recolligit / Alternumque legens iter / Nunc summis caput inserit, / Nunc decedit in infima, / Tum sese referens sibi / Veris falsa redarguit? /
[26] Haec est efficiens magis / Longe causa potentior / Quam quae materiae modo / Impressas patitur notas. /
[30] Praecedit tamen excitans / Ac vires animi movens / Vivo in corpore passio, / Cum vel lux oculos ferit / Vel vox auribus instrepit. /
[35] Tum mentis vigor excitus, / Quas intus species tenet, / Ad motus similes vocans / Notis applicat exteris / Introrsumque reconditis / Formis miscet imagines. /
[1] Quodsi in corporibus sentiendis, quamvis afficiant instrumenta sensuum forinsecus obiectae qualitates animique agentis vigorem passio corporis antecedat, quae in se actum mentis provocet excitetque interim quiescentes intrinsecus formas, si in sentiendis, inquam, corporibus animus non passione insignitur, sed ex sua vi subiectam corpori iudicat passionem, quanto magis ea, quae cunctis corporum affectionibus absoluta sunt, in discernendo non obiecta extrinsecus sequuntur, sed actum suae mentis expediunt.
[2] Hac itaque ratione multiplices cognitiones diversis ac differentibus cessere substantiis.
[3] Sensus enim solus cunctis aliis cognitionibus destitutus immobilibus animantibus cessit, quales sunt conchae maris quaeque alia saxis haerentia nutriuntur. Imaginatio vero mobilibus beluis, quibus iam inesse fugiendi appetendive aliquis videtur affectus.
[4] Ratio vero humani tantum generis est sicut intellegentia sola divini; quo fit, ut ea notitia ceteris praestet, quae suapte natura non modo proprium, sed ceterarum quoque notitiarum subiecta cognoscit.
[5] Quid igitur, si ratiocinationi sensus imaginatioque refragentur nihil esse illud universale dicentes; quod sese intueri ratio putet?
[6] Quod enim sensibile vel imaginabile est, id universum esse non posse; aut igitur rationis verum esse iudicium nec quicquam esse sensibile aut, quoniam sibi notum sit plura sensibus et imaginationi esse subiecta, inanem conceptionem esse rationis, quae, quod sensibile sit ac singulare, quasi quiddam universale consideret.
[7] Ad haec si ratio contra respondeat se quidem et quod sensibile et quod imaginabile sit in universitatis ratione conspicere, illa vero ad universitatis cognitionem aspirare non posse, quoniam eorum notio corporales figuras non posset excedere, de rerum vero cognitione firmiori potius perfectiorique iudicio esse credendum? In huius modi igitur lite nos, quibus tam ratiocinandi quam imaginandi etiam sentiendique vis inest, nonne rationis potius causam probaremus?
[8] Simile est, quod humana ratio divinam intellegentiam futura, nisi ut ipsa cognoscit non putat intueri.
[9] Nam ita disseris: Si qua certos ac necessarios habere non videantur eventus, ea certo eventura praesciri nequeunt.
[10] Harum igitur rerum nulla est praescientia; quam si etiam in his esse credamus, nihil erit, quod non ex necessitate proveniat.
[11] Si igitur, uti rationis participes sumus, ita divinae iudicium mentis habere possemus, sicut imaginationem sensumque rationi cedere oportere iudicavimus, sic divinae sese menti humanam summittere rationem iustissimum censeremus.
[12] Quare in illius summae intellegentiae cacumen, si possumus, erigamur; illic enim ratio videbit, quod in se non potest intueri, id autem est, quonam modo etiam, quae certos exitus non habent, certa tamen videat ac definita praenotio neque id sit opinio, sed summae potius scientiae nullis terminis inclusa simplicitas.
[1] Quam variis terras animalia permeant figuris! / Namque alia extento sunt corpore pulveremque verrunt / Continuumque trahunt vi pectoris incitata sulcum. / Sunt, quibus alarum levitas vaga verberetque ventos / Et liquido longi spatia aetheris volatu. /
[6] Haec pressisse solo vestigia gressibusque gaudent / Vel virides campos transmittere vel subire silvas. /
[8] Quae variis videas licet omnia discrepare formis, / Prona tamen facies hebetes valet ingravare sensus. /
[10] Unica gens hominum celsum levat altius cacumen, / Atque levis recto stat corpore despicitque terras. /
[12] Haec, nisi terrenus male desipis, admonet figura: / Qui recto caelum vultu petis exserisque frontem, / In sublime feras animum quoque, ne gravata pessum / Inferior sidat mens corpore celsius levato. /
[1] Quoniam igitur, uti paulo ante monstratum est, omne, quod scitur, non ex sua, sed ex comprehendentium natura cognoscitur, intueamur nunc, quantum fas est, quis sit divinae substantiae status, ut, quaenam etiam scientia eius sit, possimus agnoscere.
[2] Deum igitur aeternum esse cunctorum ratione degentium commune iudicium est.
[3] Quid sit igitur aeternitas consideremus. Haec enim nobis naturam pariter divinam scientiamque patefacit.
[4] Aeternitas igitur est interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio, quod ex collatione temporalium clarius liquet.
[5] Nam quicquid vivit in tempore, id praesens a praeteritis in futura procedit, nihilque est in tempore constitutum, quod totum vitae suae spatium pariter possit amplecti. Sed crastinum quidem nondum apprehendit, hesternum vero iam perdidit; in hodierna quoque vita non amplius vivitis quam in illo mobili transitorioque momento.
[6] Quod igitur temporis patitur condicionem, licet illud, sicuti de mundo censuit Aristoteles, nec coeperit umquam esse nec desinat vitaque eius cum temporis infinitate tendatur, nondum tamen tale est, ut aeternum esse iure credatur.
[7] Non enim totum simul infinitae licet vitae spatium comprehendit atque complectitur, sed futura nondum, transacta iam non habet.
[8] Quod igitur interminabilis vitae plenitudinem totam pariter comprehendit ac possidet, cui neque futuri quicquam absit nec praeteriti fluxerit, id aeternum esse iure perhibetur, idque necesse est et sui compos praesens sibi semper adsistere et infinitatem mobilis temporis habere praesentem.
[9] Unde non recte quidam, qui, cum audiunt visum Platoni mundum hunc nec habuisse initium temporis nec habiturum esse defectum, hoc modo conditori mundum fieri coaeternum putant.
[10] Aliud est enim per interminabilem duci vitam, quod mundo Plato tribuit, aliud interminabilis vitae totam pariter complexum esse praesentiam, quod divinae mentis proprium esse manifestum est.
[11] Neque deus conditis rebus antiquior videri debet temporis quantitate, sed simplicis potius proprietate naturae.
[12] Hunc enim vitae immobilis praesentarium statum infinitus ille temporalium rerum motus imitatur, cumque eum effingere atque aequare non possit, ex immobilitate deficit in motum, ex simplicitate praesentiae decrescit in infinitam futuri ac praeteriti quantitatem et, cum totam pariter vitae suae plenitudinem nequeat possidere, hoc ipso, quod aliquo modo numquam esse desinit, illud, quod implere atque exprimere non potest, aliquatenus videtur aemulari alligans se ad qualemcumque praesentiam huius exigui volucrisque momenti; quae, quoniam manentis illius praesentiae quandam gestat imaginem, quibuscumque contigerit, id praestat, ut esse videantur.
[13] Quoniam vero manere non potuit, infinitum temporis iter arripuit, eoque modo factum est, ut continuaret eundo vitam, cuius plenitudinem complecti non valuit permanendo.
[14] Itaque si digna rebus nomina velimus imponere, Platonem sequentes deum quidem aeternum, mundum vero dicamus esse perpetuum.
[15] Quoniam igitur omne iudicium secundum sui naturam, quae sibi subiecta sunt, comprehendit, est autem deo semper aeternus ac praesentarius status, scientia quoque eius omnem temporis supergressa motionem in suae manet simplicitate praesentiae infinitaque praeteriti ac futuri spatia complectens omnia, quasi iam gerantur, in sua simplici cognitione considerat.
[16] Itaque si praevidentiam pensare velis, qua cuncta dinoscit, non esse praescientiam quasi futuri, sed scientiam numquam deficientis instantiae rectius aestimabis.
[17] Unde non praevidentia, sed providentia potius dicitur, quod porro a rebus infimis constituta quasi ab excelso rerum cacumine cuncta prospiciat.
[18] Quid igitur postulas, ut necessaria fiant, quae divino lumine lustrentur, cum ne homines quidem necessaria faciant esse, quae videant?
[19] Num enim, quae praesentia cernis, aliquam eis necessitatem tuus addit intuitus? Minime.
[20] Atqui si est divini humanique praesentis digna collatio, uti vos vestro hoc temporario praesenti quaedam videtis, ita ille omnia suo cernit aeterno.
[21] Quare haec divina praenotio naturam rerum proprietatemque non mutat taliaque apud se praesentia spectat, qualia in tempore olim futura provenient.
[22] Nec rerum iudicia confundit unoque suae mentis intuitu tam necessarie quam non necessarie ventura dinoscit; sicuti vos, cum pariter ambulare in terra hominem et oriri in caelo solem videtis, quamquam simul utrumque conspectum, tamen discernitis et hoc voluntarium, illud esse necessarium iudicatis.
[23] Ita igitur cuncta dispiciens divinus intuitus qualitatem rerum minime perturbat apud se quidem praesentium, ad condicionem vero temporis futurarum.
[24] Quo fit, ut hoc non sit opinio, sed veritate potius nixa cognitio, cum exstaturum quid esse conoscit, quod idem exsistendi necessitate carere non nesciat.
[25] Hic si dicas, quod eventurum deus videt, id non evenire non posse, quod autem non potest non evenire, id ex necessitate contingere, meque ad hoc nomen necessitatis adstringas, fatebor rem quidem solidissimae veritatis, sed cui vix aliquis nisi divini speculator accesserit.
[26] Respondebo namque idem futurum, cum ad divinam notionem refertur, necessarium, cum vero in sua natura perpenditur, liberum prorsus atque absolutum videri.
[27] Duae sunt etenim necessitates, simplex una, veluti quod necesse est omnes homines esse mortales, altera condicionis, ut, si aliquem ambulare scias, eum ambulare necesse est.
[28] Quod enim quisque novit, id esse aliter, ac notum est, nequit. Sed haec condicio minime secum illam simplicem trahit.
[29] Hanc enim necessitatem non propria facit natura, sed condicionis adiectio. Nulla enim necessitas cogit incedere voluntate gradientem, quamvis eum tum, cum graditur, incedere necessarium sit.
[30] Eodem igitur modo, si quid providentia praesens videt, id esse necesse est, tametsi nullam naturae habeat necessitatem.
[31] Atqui deus ea futura, quae ex arbitrii libertate proveniunt, praesentia contuetur; haec igitur ad intuitum relata divinum necessaria fiunt per condicionem divinae notionis, per se vero considerata ab absoluta naturae suae libertate non desinunt.
[32] Fient igitur procul dubio cuncta, quae futura deus esse praenoscit, sed eorum quaedam de libero proficiscuntur arbitrio; quae quamvis eveniant, exsistendo tamen naturam propriam non amittunt, qua prius quam fierent etiam non evenire potuissent.
[33] Quid igitur refert non esse necessaria, cum propter divinae scientiae condicionem modis omnibus necessitatis instar eveniet?
[34] Hoc scilicet, quod ea, quae paulo ante proposui, sol oriens et gradiens homo, quae dum fiunt, non fieri non possunt, eorum tamen unum prius quoque, quam fieret, necesse erat exsistere, alterum vero minime.
[35] Ita etiam, quae praesentia deus habet, dubio procul exsistent, sed eorum hoc quidem de rerum necessitate descendit, illud vero de potestate facientium.
[36] Haud igitur iniuria diximus haec, si ad divinam notitiam referantur, necessaria, si per se considerentur, necessitatis esse nexibus absoluta, sicuti omne, quod sensibus patet, si ad rationem referas, universale est, si ad se ipsa respicias singulare.
[37] Sed si in mea, inquies, potestate situm est mutare propositum, evacuabo providentiam, cum, quae illa praenoscit, forte mutavero.
[38] Respondebo, propositum te quidem tuum posse deflectere, sed quoniam et id te posse et, an facias quove convertas, praesens providentiae veritas intuetur, divinam te praescientiam non posse vitare, sicuti praesentis oculi effugere non possis intuitum, quamvis te in varias actiones libera voluntate converteris.
[39] Quid igitur, inquies? Ex meane dispositione scientia divina mutabitur, ut, cum ego nunc hoc, nunc illud velim, illa quoque noscendi vices alternare videatur?
[40] Minime. Omne namque futurum divinus praecurrit intuitus et ad praesentiam propriae cognitionis retorquet ac revocat nec alternat, ut aestimas, nunc hoc, nunc aliud praenoscendi vice, sed uno ictu mutationes tuas manens praevenit atque complectitur.
[41] Quam comprehendendi omnia visendique praesentiam non ex futurarum proventu rerum, sed ex propria deus simplicitate sortitus est.
[42] Ex quo illud quoque resolvitur, quod paulo ante posuisti, indignum esse, si scientiae dei causam futura nostra praestare dicantur.
[43] Haec enim scientiae vis praesentaria notione cuncta complectens rebus modum omnibus ipsa constituit, nihil vero posterioribus debet.
[44] Quae cum ita sint, manet intemerata mortalibus arbitrii libertas, nec iniquae leges solutis omni necessitate voluntatibus praemia poenasque proponunt.
[45] Manet etiam spectator desuper cunctorum praescius deus, visionisque eius praesens semper aeternitas cum nostrorum actuum futura qualitate concurrit bonis praemia, malis supplicia dispensans.
[46] Nec frustra sunt in deo positae spes precesque, quae cum rectae sunt, inefficaces esse non possunt.
[47] Aversamini igitur vitia, colite virtutes, ad rectas spes animum sublevate, humiles preces in excelsa porrigite.
[48] Magna vobis est, si dissimulare non vultis, necessitas indicta probitatis, cum ante oculos agitis iudicis cuncta cernentis.