Proemio
Dice el phylosopho
nel primo libro Dell'anima «L'anima innel prencipio della sua
creatione è come taula rasa, innella quale nulla cosa ène dipento:
àne
potentia
a potersi
dipegnare». Receve essa a
ni
ma in processo de tempo stando col
corpo perfectione de sci
entia e di v
ertude, e queste rendono perfecta
l'a
ni
ma in diverso modo: inperciò ke la sci
entia fa perfecta
l'a
ni
ma
superficialmente, acciò ke intenda e
conosca el vero de quella cosa
k'è considerata per lo intellecto e essa verità
conosciuta
debbia speculare
e in sé usare, ma la v
ertude fa l'a
ni
ma perfecta secondo la sua
profundità, cioè ke volglia e
desideri cose bone e honeste (et) essi honesti
desiderii reduca a conpimento d'operatione, k'è secondo ke
dice
s
anc
to
Gregorio «La prima dilectione è
ll'operatione».
De queste decte
doe cose ke
àno a
ornare e perficere l'a
ni
ma, la prima,
cioè la sci
entia, ène ordenata
a la seconda, cioè a ben volere e bene operare,
inperciò ke l'omo non pò volere (et) desiderare (et) op
erare cosa bona se
d'essa cosa non à inprima
conoscimento, secondo ke 'l maestro non
puote
escolpire innella pietra la ymagine se inprimeramente el
segno d'essa
ymagine non fa innella
superficie de sopra. Et inperciò ki
conoscimento
de la cosa ke fa non
àne non gli è
inputata né a v
ertude né a
vitii, (et) né à
mercé né a peccata essa cosa da lui operata, se la ignorantia no
nn è malitiosa,
secondo k'è manifesto
en li
paççi, de li quali nulla rascione è tenuta
de'
mali k'ei facciano per la
privatione del senno. E per queste decte cose è
manifesto ke la sci
entia ène ordenata
a la v
ertude, la quale se
extende
a
l'operatione.
E ciò è ke
dice el phy
losopho innel secondo de l'
Ecthica, ke l'omo ke
vole alcuna cosa fare tre cose li abisogna: prima, ke sappia; seconda, ke voglia;
e terça, ke adoperando
remova quelle cose ke
inpedimentiscono l'opera
ke fae. Et per queste tre cose sono date
a l'a
ni
ma
tre
potentie: la prima ène
la
potentia rationale, per la quale l'a
ni
ma conosce quello ke
debbia operare;
la seconda è la
potença concupiscibile, cioè desiderabile, per la quale
àne
inclinatione
ad operare la cosa
conosciuta se li
pare utile; la terça
potença
se chiama irascibile, per la quale l'a
ni
ma fugie le cose contrarie
e
remove da l'operatione ke fa quel k'à '
inpedimentire essa operatione.
Queste
due ultime
potentie,
a le quali la prima è ordinata
perfectamente secondo ke la fragilità de la humana natura innel
presente tempo richiede, cognosco in voi, cioè la volontade di fare el bene,
k'è
potentia concupiscibile, e fugire el male, k'è
potentia irascibile. Acciò ke
queste
due cose, molto a gran signori e spetialmente a
coloro k'
àno a regiare e
corregiare p
op
uli
peramabili, potiate più cautamente e con prudentia usare,
de la prima
potentia, cioè rationale, de la quale aver più perfecto
conoscimento usando con voi avete grande volontà acciò ke siate sufficiente
più pienamente a servire
a le
due seguitante
potentie,
pregasteme,
spetialmente quanto
ad alcune
alte questioni (et)
dubitationi trovate per
sutilità di vostro ingengno (et) d'alcuni savi in forte
dectato scripte e
conposte, k'io alcuna informatione in
vulgare
dectato a voi ne
devesse
dare. Io volendo de ciò el vostro a
ni
mo
quetare, avengna ke 'l grande
desiderio, e se
nno constrenga
necc
essariamente l'omo
a l'operatione,
inchinalo sença
dubio
ad ardire di fare cose ke sua
potentia
a la fiada passa, (et)
inperciò essendo constrecto de desiderio de
servirve avegna k'io non sia
sufficiente a ciò, uno breve tractato e utile innel nome de Dio
i
ncom
ençarò
dividendo e
distinguendo el
libro per parti et capituli aciò ke più utile e
facile
sia questa
doctrina. Et inperciò ke 'l
senario numero è d
ec
to
perfecto, ké le sue parti
uguali,
dividenti el tutto, insieme prese non
rendono né più né meno ke 'l suo tutto, questo tractato acciò ke perfectione
demostri in esso numero sì divido; inella prima parte demostrando de le cose
sopracelestiali, inella seconda de le celestiali, inella tertia de le
elementali,
inella quarta de le
elementate, inella quinta de certi
vitii, inella
vj.a de certe
v
ertute.
L. I
Innella prima parte del tractato vediamo de le cose
sopracelestiali, de le quali
tre cose la vostra nobelità me
dimandò:
inprima, de Dio;
secondo, de li angeli;
tertio, de li
corpora beati.
L. I, pt. 1Quanto a la prima cosa, cioè de Dio, xij ademandascioni faceste:
prima, ke è Dio;
seconda, come in lui in una essentia se intende el Figliolo e lo Spirto
Sancto;
tertia, due stava Dio innançe ke 'l mondo fosse da lui fabricato;
quarta, ke mosse Dio a fare el mondo;
quinta, perké non fece l'omo in tale stato ke non potesse peccare;
sexta, perk'ei fa l'omo el quale conosce dampnare;
septima, perké non riconparò l'omo per l'angelo ma esso se volse
incarnare;
octava, del peccato originale;
nona, perké venne el Figliolo (et) no 'l Padre overo lo Spirto Sancto;
decima, perké patio morte (et) tutto 'l suo sangue sparse: no 'l potia
reconparare sença morire e sença tanto sangue spargere?
undecima, come resuscitò el terço die;
duodecima, perké 'l Padre è decto potença, el Figliolo sapientia e lo Spirto
Sancto benivolença.
De questi xij capitoli brevemente respondarò prendendo grosse
rascioni acciò ke non confondano l'animo de l'uditore se magiurmente lo
hedifichi.
L. I, pt. 1, cap. 1
Primeramente la vostra benigna prudença
adomandòne, con
ciò sia
cosa ke ongne natione
cole (et) adora Dio, ke
chosa è Dio.
R
espondo: Dio ène, secondo ke
dice s
anc
to Augustino,
potenti
a
innesti
mabile, infinita,
i
nnenarrabile, d
al quale, innel quale (et) per
lo quale ène ongni cosa bona, perfecta e optima.
Ieronimo
dice ke Dio è
potentia
i
nmensurabile (et) sapi
entia
i
nnenarrabile (et) è lume
incircunscriptibile, (id est)
inconprehensibile.
Augustino
(etiam) dice «Dio ène prima causa
omnium emptium», (id est)
'de tutte le cose
'. E se questo te
ofusca l'a
ni
mo intendilo per rascione:
ongne cosa
creata e facta è mestieri k'abbia principio
factore e
motore e
se questo non fusse non ve saria
movimento, cum ciò sia
cosa ke ongni cosa ke se move per alcuno se mova, e
maximamente se vede in acto di
generatione; e cosìe
dê venire
ad uno primo principio ke mova e d'altrui
non sia mosso: e questo ène Dio. E però ène manifesto ke Dio ène prima
causa.
L. I, pt. 1, cap. 2Propose innella seconda parte la vostra sapi
ença un'alta e nobile
questione:
con
ciò sia cosa che 'l padre è inançi al figliolo (et) è divisa
essentia,
come
questo
falle in Dio, che non è inançi el Pa
dre che 'l Figliolo
quanto
a la divi
nitade e non diversifica el Filiolo
essentia dal Padre?
R
espondo: a queste
chose, li quali trapassano lo intellecto humano,
magiuremente fede
devemo cercare ke rasgione trovare; ma inperciò che lo
intellecto humano sempre forte cose (et) sopra de
sie desidera de trovare, e 'l
vostro altissimo intellecto non sa posare se alcuna rasgione de queste cose
non ode
apertamente, et inperciò quanto el vostro intellecto puote
conportare me
sforçarò de mostrarlo; in voi tutta fiada quel ke rasgione non
prende fede
soiunga.
Devete
y
nmaginare ke Dio sopra ke si possa
extimare è
sinplicissimo sença
alcuna
conpositione. La cosa ch'ène
simplicissima, qualunque cosa ène
overo in essa se pò considerare ène una
essentia perfecta con quella
innella quale ène, ké se questo non fusse
necc
essariamente
opereria a
confessare ke quella cosa fusse conposta: la quale
conpositione al postutto
negamo in Dio; onde el Figliolo non procedette dal Padre per
creatione, ke se
questo fusse seria mestieri ke fusse diversa
essentia dal Padre, ma procedette
per
conceptione in sé medesmo: da principio ke fo el Padre fo la
conceptione in lui, la quale
conceptione è apellata
rasgionevolemente
Filiolo. E puotesi considerare e così demostrare: come decto ène, ogni cosa k'ène
in Dio
essentialmente procede da lui, è una cosa con lui per la sua
simplicitade; ma non è da dire che alcuna cosa proceda da Dio Padre, e quello
sia Dio, ke non sia figliolo de Dio, como non è
verisimile ke alcuna cosa
proceda da l'uomo, e sia h
omo, ke quella cosa non sia figliolo de l'omo. E
per questo ke decto ène è manifesto come dal principio fo el Figliolo col Padre,
e como non è differentia infra
essentia del Figliolo e del Padre inperciò k'è
secondo
conceptione e non
creatione, secondo che decto è.
E ciò è ke
dice s
anc
to Ioh
anni
evangelista: «In principio», (id est)
'inel
Padre
', «
erat
Verbum», (id est)
'Figliolo
'. In tre modi si prende el verbo:
ymaginato, (id est) la
conceptione ke l'omo fa infra sé medesmo,
prolato e
scripto, e 'l primo è più
dericto inperò ke 'l secondo è segnio del primo e
'l tertio del secondo, come
dice el
phylosefo innel primo
libro del
Periermini; e inperciò che 'l Filiolo de Dio è la
conceptione del Padre,
inperò disse «In principio
erat
Verbum». Como sia una cosa e una
essentia
col Padre demostra in ciò ke seguita: «et
Verbum
erat
apud
Deum et
Deus
erat
Verbum», (id est)
'el Figliolo
erat in principio appo Dio e
esso Filiolo era Dio
'.
E così ène manifesto ke una
essentia ène quella del Padre e del Figlio avegna
che diversità si puote
i
nmaginare, la quale cosa è deversità de
persona.
L. I, pt. 1, cap. 3Di queste due questione formaste la terça questione non sença
grande deliberatione, e dite: "Tu dici che quello ke procede da Dio
essentialmente è Dio, e s'elli è Dio si è el Figliuolo de Dio: domqua lo Spirto
Sancto sirà Figliolo de Dio, con ciò sia cosa k'ei proceda da Dio e sia Dio".
Respondo e dico ke lo Spirto Sancto è Dio ma non Figliuolo de Dio
inperciò che non procede per modo di conceptione ma per modo
d'amore, e amore non puote essare in meno ch'enfra doi, e 'l filiolo non
puote essare secondo, e qualitade è per uno modo e per uno respecto de doi,
e per questo modo lo Spirto Sancto non è figliolo.
A l'argomento respondo che vero ène ki procede dal Padre tanto per
modo di conceptione che elli è Dio e Figliuolo de Dio, ma lo Spirto Sancto
non procede tanto dal Padre ma dal Figliolo e dal Padre, e chosì el Figliolo in
quanto figliolo non è padre, e per ciò lo Spirto Sancto non puote essere
figliolo, ma ène tanto Dio; in quanto è amore essentialmente procede dal
Padre e dal Figliolo simplicissimo in essentia.
L. I, pt. 1, cap. 4
Non sença casgione
dubitaste, più per altrui ke per voi, con
ciò sia
cosa ke ora se dica Dio stare in paradiso e ogne cosa se dica in suo
loco
posare,
due stava Dio innançi che facesse el
mondo.
Respondo ke, secondo che decto ène inella diffinitione d'esso, Dio ène
essentia perfectissima sença el quale nulla cosa permane in
essentia, (et) ello
di fuore de sé nulla cosa
abisognia: (et) el luoco è di fuore dal
locato in
essentia
però che 'l luoco e 'l
locato non sono una cosa, e se Dio abisognasse
loco
abisognaria cosa di fore de sé e così non siria perfecto in sé. Unde dico ke
Dio era in sé medesmo.
E non
poteremo dire per verità ke Dio sia in paradiso come alcuno corpo
locato ène i· lluoco, ma magiuremente el paradiso ène in lui (et) ello de verità
contene ogni
loco; e de ciò
dice el p
roph
eta
«Si ascendero in celum tu illic
es, si descendero in infernum ades», (id est)
'Se io salirò in
cielo tu Dio sè
ine, se io
descendarò in inferno tu
se' ine
'. E così è manifesto che Dio ène
in ogni luoco.
L. I, pt. 1, cap. 5
A la quinta questione, in la quale
demandaste "Con
ciò sia cosa
ke Dio sia perfecto e di fuore nulla cosa abisogni, che 'l mosse a fare li
angeli e 'l
mondo e le cose ke sono in esso, non acrescendosi a lui
utilità?", r
espondo secondo ke
dice s
anc
to Dionisio: Dio ène fontana e
principio d'ogne cortesia e bontà, (et) è essa bontà
astracta, e 'l bene per sé
medesmo si comunica e spargesi, (et) inperò Dio essendo prima bontà,
secondo che decto ène, volse la sua gratia demostrare e comunicare
a le cose
create, (et) però le
creò ke a loro sua gratia potesse largire.
L. I, pt. 1, cap. 6Non sença casgione a
demandare ve moveste dicendo: "El
perfecto maiestro
dia perfecta opera fare: perké Dio facendo l'omo
non fece di natura non inchinevole a peccato, essendo a lui
uguale
facilitade?".
R
espondo per
due rasgioni: acciò ke per
merito d'
astinença
de'
vitii
s'avesse corona de vita, la quale per
merito se
dia avere, la quale
perdette
el diavolo per vitio; la seconda rasgione ène ke a Dio ène loda salvando per
misericordia (et) per gratia e
dannando per iustitia, (et) ognie cosa per la
quale Dio se congnosce misericordioso, gratioso e iusto è bona: dumqua fo
convenevole cosa ke in tal natura facesse l'omo, per lo quale in vertù se
cognoscesse.
L. I, pt. 1, cap. 7
A la questione adimandata da voi, perché Dio fa nascere l'omo el
quale cognosce
dampnare, essendo a colui che nascie
dannaggio più ke
utilità,
r
espondo ke per alcuno defecto particulare non se
dia inpedimentire
lo bene universale, (et) però se confà al principe de permettere alcuna cosa
nocevole
|| ad alchuno partichulare a
chonservare la giente universale;
onde che
ll'omo che ssi
dia
dannare non nasciesse
inpedimenteria la libertà della
universale natura umana, la quale à libertà nello
nascimento, e chosì perderia
grande perfetione e plenitudine; dunque per questo si
celeria la giustitia di Dio in
punire, sechondo ch'è detto di sopra. Avegna che altre si possono
ragioni assegniare,
ma per più brevità bastino al presente quelle che ssono dette.
L. I, pt. 1, cap. 8Un'altra nobile quistione piena di grande amiratione mosse la sottilità del
vostro ingiegnio, e disse: "Chon ciò sia cosa che ogni
chreatura sechondo il suo
stato
debba ricevere gratia e ghuidardone, perché Dio la redentione non fecie
per alchuna chreatura di fuori di sé, cioè per alchuno angelo, ma essa
divinità
venne a tanta umilità di volersi
incharnare?".
Rispondo sechondo che
dicie il profeta: in Dio sono
due
propiatadi potentissime
infra l'altre, cioè miserichordia e giustitia, onde
dicie il
salmista
«Miserichordiam
et iudicium cantabo tibi domine», (id est)
'io
chanterò di te,
domine, miserichordia
e iustitia
'. Manifesto è che lla
hoffensione la quale
ad alchuna
persona si fa à tanta
graveza in see di colpa quant'è la dingnità della
persona a ccui s'ofende: onde chi
desse una gotata
ad uno
villano e
dessela a uno re non
richiederia
ughuale vendetta
inperò che lla colpa non è
eguale per lo grado di
choloro a chui è offeso, che
sechondo l'offensione del primo
basteria se ricievesse innella gota come à dato e
sechondo l'
ofenssione del re non
basteria la
morte, se più fusse possibile di
ricevere, guarda che 'l
datore in dignità non fusse
uguale al
ricievitore, in tanto
basteria simile vendetta; e sse uno re uccide ingiustamente uno huomo di poco
affare gran
danno è a
choloro che rimanghono, se tanto
dicie "Sonne
chruccioso
e no 'l vorria avere fatto"; dunque la graveza della offensione si prende dall'offeso e
dallo offendente sechondo il grado di
ciascheduno. Chon ciò sia
chosa che
ll'uomo
offendente fosse vilissimo,
quia terra, e
ll'offeso fosse infinito nobilissimo,
perciò che ffu Iddio, e ogni chreatura, angelo o qual vuogli altra, abia finita
potentia e perfettione, non si potia per veruna finita
creatura sodisfare allo
infinito, e inperò fu mestieri che venisse
persona della Trinitade ch'essendo Dio
sodisfaciesse a Dio e ricievesse charne umana acciò che
ssodisfaciesse per l'omo.
Volendo usare la
propiatà della miserichordia e lla ragione della giustitia
venne
ricievendo la nostra carne, e questo
dicie
Davit profeta:
«Veritas de terra orta est et
iustitia de celo prospessit», cioè
'la miserichordia è nata della Vergine e lla giustitia
esguardò di sopra
'.
L. I, pt. 1, cap. 9
E detta la risponsione fatta di sopra forse
dubitate come il pecchato
de' primi
parenti discienda in noi, per lo quale fusse mestieri che Dio venisse in
questo
mondo. E moveste vostra quistione in questo modo: "I' ò udito che Dio
disse per lo profeta: "Non voglio che abbia
loco il proverbio anticho, fermato e
osservato in passato tempo, il quale
dicie
«Patres comederunt uvas acerbas et
dentes filiorum ostupescient»", cioè
'i
padri mangiaro l'uva acierba e i denti
de' figliuoli s'
alegarono
', cioè i
padri feciono male e i figliuoli ne saranno puniti; però
dicie Dio: «Ogni anima è mia, come l'anima del padre così e l'anima del figliuolo»,
onde truova
«Anima que pecchaverit ipsa morietur», cioè
'quell'anima che
peccherà quella solo sarà morta
'. E se questo ène non
pare
verisimile che 'l
pecchato
de' primi
parenti disciendesse in noi, nel quale non avemo colpa che
noi esso non
comettemmo però che noi nonn eravamo. Onde delle
due cose è
mestieri che
chonfessiamo l'una: overo che quello non è 'l pecchato
orriginale, lo
quale
conmissero i primi nostri
parenti, per lo quale non avavamo salute, overo
che Dio non è giusto a punire del pecchato non conmesso per noi; ma questo
è falso che Dio non sia giusto, dunque il primo è vero, che non sia esso
pecchato del mangiare del pome
contra la obedienza, el quale si chiama il pecchato
orriginale. E inperò vi
domando di
sei cose:
la prima, che è il pecchato orriginale;
sechonda, in che modo è inputato ai
citolini, che non per volontade ma per
nicistà
nascono, e inputato a pena;
terza, per qual giustitia à ragione di pecchato;
quarta, chome la charne corrotta, ch'è
chorporale, à a
corronpere l'anima che è
chosa spirituale;
quinta, in che modo questo pecchato si lava per lo battesimo;
sesta, chom'è convenevole chosa a Dio di permettere l'anima,
chreata da llui sì
pura,
machulare dal
chorpo".
L. I, pt. 1, cap. 9a
Quanto al primo
dimandamento, che è il pecchato orriginale, rispondo
che il pecchato orriginale è
privatione della orriginale giustitia a salute
neciessaria
ad
averlla.
Dovemo
inmaginare che Dio fecie l'omo
dritto, che in lui era la charne
cholle sue
potentie suggietta
all'anima, che nullo
movimento, nulla infermità si
poteva levare nel chorpo che
contradiciesse
all'anima: le virtù di sotto de l'anima,
chome virtù
chonchupiscibile, (id est) desiderabile, e irascibile, si erano sì
suggiette
alle virtù di sopra dell'anima, cioè alla
mente e alla ragione, che nulla cosa né
movimento si poteva levare inel corpo che
chontradiciesse all'anima se non
ragionevole. Questo ordine di giustitia si poteva dire e diciesi, questo ordine,
"giustitia orriginale", overo che
Adam lo ricievette nella sua orrigine da Dio
incontanente che fu nato, overo che per orrigine ne' suoi figliuoli questa giustitia
si
dovia derivare sechondo la
istituta natura: questo era in l'ordine di salute, che
ciaschuno avesse la orriginale giustitia.
Adam
pecchando e al suo signiore non
obediendo perdé questa giustitia e inchontanente la virtù di sotto del chorpo
incominciò a ribellarsi
chontro
all'anima; onde
Adam innanzi che pechasse e
contro al suo signiore si levasse poteva non morire e non pecchare, ebbe poscia
neciessità di morire e di
pechare. E per questo ài che il pecchato orriginale è
privatione e
charenza della orriginale giustitia con debito d'averla.
L. I, pt. 1, cap. 9b
Alla sechonda interrogatione, in che modo ai
citoli è inputato questo
peccato a ppena per diritto giudicio di Dio, rispondo che lla giustitia di Dio
adimanda che sechondo ch'è
doppio pecchato chosì è
doppia pena rispondente
ad
esso: è pecchato orriginale e attuale, e così è pena di
danno e pena di senso e di
cociore; la pena del
danno, cioè la privatione di vita
etterna, è per lo pecchato
orriginale, risponde a llui; la pena del senso è per lo pecchato attuale. Alchuno
sono solo puniti di pena di
danno, che non
ànno altra pena di senso se non
che sono privati della gloria di Dio; alchuni si
ànno pena di
danno e pena di senso,
choloro che sopra l'orriginale pecchato altre
pecchata attuali
ànno conmesse. Queste
due pene sono diverse, ché qualunque pena di senso à pena di
danno, che
inpossibile è che alchuna
persona veggia la faccia di Dio nella quale è ogni
dilettatione e possa ricievere alchuna pena di senso, ma lla pena di
danno puote
essere sanza pena di senso, e puossi chosì dimostrare:
dannifichare alchuna
persona
è di privarlo d'alchuno bene; quello bene ond'è privato o è naturale overo
sopranaturale: se noi avemo pena di
danno inperciò che semo privati d'alchuno
naturale bene, manifesto è che
colla pena del
danno seghuita la pena del senso, cioè
trestitia e
dolore; ma sse nnoi semo privati d'alchuno sopranaturale bene mai a ttale
danno non seghuita la pena del senso, inperciò che
fatua chosa è tristarsi l'uomo
della privatione d'alchuno bene il quale dalla sua natura non puote avere: manifesto
è che sechondo la nostra natura non si confà a nnoi di volere se non
chonvenevole
cosa, e se ci atristiamo se volare non potemo; e così quella orriginale giustitia la quale
necciessariamente si
domandava alla nostra salute era gratia sopranaturale, e inperciò
i
citoli che passano
choll'orriginale pecchato
ànno solo la pena del
danno e non
quella del senso inperò che vegono quella gratia essere sopranaturale.
Veduto chome la pena del
danno è separata da quella del senso,
leggiermente si
puote vedere come giusto giudicio l'orriginale pecchato ai
citolini è inputato a pena
di
danno e non di senso, che quanto alla pena di senso il figliuolo non porta la
inniquità del padre, sechondo che detto è, ma quanto alla pena del
danno sì,
massimamente se 'l
danno è privatione del bene sopranaturale. E vedemo per
essempro: se voi
conciedeste un podere a uno vostro fedele, el quale per
succiessione
ereditaria e ' figliuoli
debbano possedere, se questo fedele venisse
inchontro
ad voi manifesto è che giusta cosa saria che lli tolleste il podere, el quale
essendogli tolto e ' figliuoli ne sono privati; nulla ingiustitia si fa
a' figliuoli, inperò
che 'l podere non fu dato a lloro ma al padre, il quale
pecchando giustamente i
figliuoli di ciò
inchorrono in
danno di perdere il podere. Così a simile la giustitia
orriginale liberamente fu
concieduta a
Adam, lo quale
dovia possedere, e i
figliuoli disciendenti da esso; e inperò noi figliuoli d'
Adam, per la prevaricatione e
pecchato del padre
|| nostro levandosi
contra Dio, semo privati d'essa
iustitia: nulla iniuria nui si
face, ke non fo
data a noi ma al nostro primo
padre; e così Dio non ce fa iniuria ke non ce tolle bene naturale ma
sopranaturale, lo quale per sua gratia
dide al primo
parente.
L. I, pt. 1, cap. 9cInella terça parte seguita una amirabile questione: con
ciò sia
cosa ke ognie peccato, secondo k'è rasgione di colpa, ène volontario, ke se
volontario non ène secondo ke
dice s
anc
to Agustino non
àne rasgione
di peccato né
dia seguitare
ad esso punitione, come questa originale colpa,
con
ciò sia cosa ke non per volontate ma per neccessità si
conmette e
p
ermette, quanto
a'
citoli
àne rasgione de peccato e de punitione?
R
espondo: a questa questione vale lo exemplo dato di sopra del vostro
fedele ke, s'elli fa
contra voi, iusto iudicio è punito del podere, lo quale tolto a
lui sonne privati e i figlioli. Ki
ademanda in che modo sono privati e i
figlioli d'esso podere, r
espondo: questi figlioli in
doi modi se possono
considerare; primo, in quanto sono
persone spetiali per sé e in
questo modo non sono puniti né
confàllise a loro la
heredità; secondo,
in quanto sono figlioli e
membra del vostro fedele et inperò non se
considera la voluntà del peccato di costoro ma la volontà del padre per ke
ne sono puniti. Così a simile Dio, secondo k'è decto,
ad
Adam
concedette
in gratia la originale iustitia, (et) facendo incontra al Signore folli tolta, e
così fo tolta ai figlioli, non in quanto sono
persone in sé ma in quanto
sono figlioli (et)
membra d'esso
Adam; onde qui non s'
adimanda la
volontà de li figlioli ma la volontà del padre, innel quale tutti semo peccatori
in quanto semo sue
membra. E questo
dice l'apostolo s
anc
to Paulo: «Per
uno h
omo el peccato
entrò in ogne h
omo, (et) per lo peccato morte».
L. I, pt. 1, cap. 9d
A la quarta questione proposta, come (et) in che modo la
carne
maculata soçça l'a
ni
ma innel
nascimento, (et)
dite: "Dio manda
l'a
ni
ma pura (et) necta, sì ke da Dio né da l'a
ni
ma non vene;
dai primi
parenti non
pare ke venga, ké inpossibile cosa ène ogne h
omo che nascie
fusse innello primo h
omo;
dai proximi
parenti non
pare che venga, cioè
dal padre e da la madre, inperò ke manifesta cosa ène ke veruna
persona
non pò dare quello ke non
àne, e alcuno padre e madre sono baptiçati e così
non
àno peccato originale e se no· ll'
àno no 'l
possono dare ai filioli;
dumqua in ke modo intra loro (et) innell'anima el peccato originale?",
r
espondo ke in questa questione sono molte questioni. (Et) acciò ke ogni
dubitatione se tolla
devete sapere, secondo ke d
ec
to è, el peccato originale
è privatione de la originale iustitia con debito d'averla, unde se
Adam
fusse stato
dericto al suo signore e i figlioli nati de lui
sirieno nati innocenti
sença libidine, ma esso peccato perdeo quella iustitia e così e i figlioli
naquero e
nascono in peccato, cioè in ardore e desiderio inmoderato (et)
libidinoso inperò ke non à in sé la originale iustitia, la quale avia a
scaciare ognie ardore e
movimento libidinoso.
Se me
dite "Io non veggio como venga e como sia
palese el peccato
originale per li
parenti baptiçati", r
espondo ke
a l'omo se confà
due
generationi, l'una naturale, per la quale riceve la
essentia de la natura, e
l'altra
baptisimale, per la quale receve
dono e la
essentia di gratia; unde el
padre generando genera secondo k'è carnalmente nato, non secondo
k'è per baptesmo
renato, secondo ke l'omo
circuncisio genera el figliuolo
non circhunciso, e sechondo che 'l grano della lolla purghato gienera il grano
vestito, chosì il padre battezato e dall'orriginale pecchato mondato gienera il
figliuolo da l'originale peccato non
mondato, inperò ke la generatione
dal padre al figliolo ène naturale, non spirituale. E questo
dice l'apostolo:
«Omnes nascimur filii ire», cioè
'tutti nascemo filiuoli de l'
ira
', cioè el
peccato. E così l'a
ni
ma congiunta con la carne libidinosa
conceputa in
ardore inmoderato de luxuria ène in peccato originale, ke se vi fosse la
originale iustitia, secondo ke decto ène, non vi sirea el
movimento
inmoderato e ardente a libidine.
Quanto a quello ke s'adimandava, come la carne soçça l'a
ni
ma, con
ciò sia cosa ke quella sia corporale e questa spirituale (et) cosa spirituale
toccare non se puote da la corporale, r
espondo ke alcuna cosa se puote
laidire
e soççare in
doi modi, o per
appositione d'alcuna soççura overo per
remotione d'alcuna belleçça, sì che manifesto ène in alcuna dipentura ke se
puote
laidire se si soçça de
loto overo se lli se
moçça el naso o altro
membro; e
così questa infectione nonn è per
appositione d'alcuna turpitudine ma ène
per subtractione d'alcuna belleçça, cioè la originale iustitia ke sirea
ornamento
e belleça de l'a
ni
ma se l'avesse.
Dumqua non è mistieri ke la nostra carne fusse in
Adam, overo ke la sua
sia in noi: assai basta solo ke 'l
nascimento sia
conceptione libidinosa acciò
ke sia el peccato originale, (et) ène per subtractione e non per
apositione,
secondo ke decto ène.
L. I, pt. 1, cap. 9e
Decto come el peccato originale
macula l'a
ni
ma, è da vedere
innella quinta parte come se
demecte e perdona innel baptesmo, innella
quale se move una altissima questione; ène questa: se 'l peccato originale se
perdona (et)
demecte innel baptesmo, (et) per lo peccato originale avemo
abilità (et)
inchinatione a peccato, ke in altro nome se chiama
concupiscentia, per ke modo, essendo demesso et lavato innel baptesmo,
avemo abilità a peccare? Dumqua non
pare ke per lo baptesmo se parta el
peccato
orriginale.
R
espondo ke, secondo ke decto ène, el peccato originale ène
carentia (et)
privatione de la originale iustitia con debito d'averla: Dio kosì
ordinò,
ogni
persona ke salvare se
dovesse
necc
essariamente
dovesse avere la
originale iustitia; sì ke l'omo peccando questa iustitia necc
essaria a salute
perdeo (et) essa perduta non la poteo dare a noi. E vedendo Dio ke noi
eravamo
dampnati per sua misericordia
venne (et) trovò un altro modo di
salvare ke non fu originale iustitia, e questo fu el baptesmo: innel quale non se
demecte l'originale peccato, lo quale ène privatione de la originale iustitia
con debito d'averlla, che se questo fusse se sirea
necc
essariamente
restituto a
noi la originale iustitia, e così nullo
avaria abilità né
inchinatione mai a peccato;
ma è demesso a noi
e
llo baptesmo el debito e la necc
essità d'aver la originale
iustitia, ke ora per altro modo ke per la
original iustitia potemo avere salute, ke
inançe che 'l baptesmo fusse da Cristo ordinato non se
potiva. E così avete
ke non si perdona che non aviamo la originale iustitia, ma solo el debito
d'averla: non semo tenuti più d'averla.
L. I, pt. 1, cap. 9f
La sexta questione ke si move, come se confà a Dio l'a
ni
ma sì
nobile
lasarla
maculare dal corpo, r
espondo ke questo non ène altro a dire se
non che null'omo nascesse, ke secondo k'ène demostrato ke se nascesse
necc
essariamente nascie con peccato. Come a lui se confacea ke così sia
potemo provare per tre rasgione, secondo ke in tre modi l'omo se puote
considerare.
Primo, si considera l'omo in quanto è padre de tutto l'oniverso
mondo, (et) così considerato ène alcuno bene universale, unde se l'omo
non nascesse
a l'università si
tolliarea grande bene e perfectione: (et)
inperò k'è molto grande el
dolore de l'università
confàssi al principe de
permectare alcuno particulare male acciò ke non se
inpedementissca lo
universale bene, (et), inperò ke grande sirea el
dolore de l'universo de
l'umana natura se non fosse, ke non si confà
a la divina bontà
inpedimentire la generatione humana, quanto vole no si possa fare ke
l'a
ni
ma non si metta nel corpo
maculato.
Secondo, se puote considerare l'omo in quanto spetie per sé, e così è
bene spetiale; li ho
mini
nascono peccatori: Dio mosso da pietade ordenò de
mandare el suo Figliolo s
anc
tissimo in natura hu
mana, per lo quale la
natura hu
mana recevette grande
honore e grande hornamento ke Dio come
homo è Dio, e però semo apellati "filiuoli de Dio" ke inprima eravamo apellati
"filioli de
ira", secondo che
dice l'apostolo; domqua puoi ke Dio in tale
modo provedette di salvare
confàsse a lui di
creare.
Tertio, puotesi considerare l'omo secondo k'è spetiale
persona in sé, e
così è bene
personale (et) particulare; unde essi ho
mini particulari
recevono molte gratie dal nostro redemptore e molti
doni,
maximamente
paradiso k'è bene infinito, e se alcuno non receve el decto bene questo ène
per sua propria malitia, (et) perciò non se
dia inpedimentire la
gieneratione hu
mana k'ella non si faccia secondo ogne gente per alcuno
ke sia rio, come non sirea convenevole empendementire la pluvia, k'è
facta a fare nascere universalmente el seme ke sono in terra, per alcuna
massa de grano ke sia in alcuna aia.
E cusì sono manifeste le
vj questioni facte del peccato originale.
L. I, pt. 1, cap. 10
Declarato a voi el peccato originale, innel quale tractato odendo voi
ke Dio mandò el Figliolo a salvarci
subsequentemente moveste un'altra non
piccola questione e diceste: "Perké
venne più el Filiolo ke 'l Padre overo de lo
Spirtu S
anc
to?".
R
espondo per tre rasgioni: la prima se prende considerando la
materia e la forma la quale
dovia
prenndere, la seconda considerando
incontra cui dovia venire, la terça considerando el respecto da cui ebbe a
venire.
La prima via se prende considerando la forma
e lla materia che dovia
prendere a venire, cioè la materia e forma hu
mana:
diase considerare ke non
potia prendere
drictamente carne hu
mana ke non fosse filiolo de femena,
unde se fusse venuto altra
persona de la Trinità ke
'l Figliolo
sierieno stati
inella Trinità diversi figlioli, ke sirea stato sconvenevole.
La seconda via se puote vedere considerando incontra cui
venia: sapete
ke
venia incontra el diavolo, ke per sapientia ingannò ei primi nostri
parenti, e così fo degna cosa ke venisse el Filiolo de Dio, k'è decta sapientia, in
forma d'omo ke ingannasse el diavolo. E questo
dice s
anc
to
Gregorio in
lo
Ymno de la passione, in lo verso ke
dice
«Hoc opus nostre salutis ordo
depoposcerat», (et) innel
Prefatio de la croce ke
dice «Et qui in ligno
vincebat».
La terça ène considerando el respecto c'
àne el Filiolo al Padre e
a lo Spirto
S
anc
to; al Padre ène apropriata
potença,
a lo Spirto S
anc
to benignità, al
Filiolo sapiença: la
potença vorrea tutta iustitia, la benignità tutta misericordia, la
sapientia tene el meçço
refrenando la iustitia e la misericordia,
e quello che
mette pace infra
doi
dia essare meçço, però fo convenevole ke venisse el
Figliolo a mectare
pace infra l'omo (et) Dio. E questo
dice l'apostolo: «Infra
Dio e l'omo s'è mediatore», (id est) el meçço h
omo Cristo (Iesù).
L. I, pt. 1, cap. 11
Manifesto a voi come fu degna cosa che 'l Figliolo venisse (et) no 'l
Padre né lo Spirto S
anc
to,
formaste sopra de Cristo un sotile argomento e
diceste: "El Figliolo de Dio prese carne humana e
presela in magiure unitate
che non ène infra l'a
ni
ma e 'l corpo", e
provastelo in questo modo:
quanto ke l'a
ni
ma
coniunga el corpo non sono però sì una cosa ke l'uno
se chiami per l'altro, però ke non se puote dire el corpo "a
ni
ma" né
a
ni
ma "corpo"; ma la congiuntione del Figliolo de Dio fue tanta
colla
humanitade ke Dio ène decto "h
omo" (et) h
omo "Dio": non si puote domqua
trovare magiure coniuntione.
Domqua, se l'omo peccò per una
inobediença, Dio (et) h
omo
pothia satisfare per una obedientia, ke in Cristo
era Dio ke satisfacesse a Dio (et) era h
omo ke
satisfaccìa per l'omo. (Et)
diceste: "Se tu me
dice ke al peccato seguita pena, (et) così fo mestieri ke alcuna
pena
patisse, non bastava el sangue e 'l
dolore de la circoncisione, overo
patire un poco altra pena, per satisfacimento de quello peccato?"
R
espondo ke alcuni dicono ke Cristo avendo vera carne humana era
mestieri k'ei
morisse per la sententia ke Dio
dede al primo h
omo, la quale
gionse (et)
observòsse a tutti li ho
mini, quando disse «
Qualunke ora ne
mangiarai tu morrai».
Questa consideratione non
pare a me ch'abia
loco in Cristo per
due
rasgione: l'una si è ch'elli non ebbe in sé peccato originale, (et) però avea in
sé la originale iustitia per la quale
potiva non morire e non peccare, secondo
ke decto è de sopra innel primo capitolo del peccato originale; (et) l'altra, de
quella sententia non se
intendia in lui, essendo Dio (et) non essendo de la
corruptione de la
massa del primo
parente. (Et) inperò
credo ke non
fusse necc
essità ma volontà tanta pena (et) sì crudele
morte, e
spragere tutto
el suo sangue per noi. (Et) potemo dire ch'elli el facesse per tre rasgioni.
La prima ène a demostrare el grande amore ch'ebbe a noi acciò ke noi
l'aviamo a lui, ke ce
amò più che 'l suo corpo, lo quale
pose a tormento per
noi, e più ke la sua a
ni
ma, la quale mise fore del corpo per noi, (et)
inperò
dice s
anc
to Ioh
anni innel
Vangelio «Nulla
persona à magiure
amore e caritade di colui ke pone el corpo
a la morte per lo suo amico»;
amònne più che la madre sua, la quale lassò
dolorosa: per noi tutto 'l fece acciò
ke noi molto amiamo lui.
La seconda rasgione fue che volse morire per noi acciò ke noi non
dubitassemo de morire e de
sp
ragere el nostro sangue se fosse mestieri per
lui:
sappìa bene ke
doviano venire molti tiranni (et) perseguitatori de la fede a
dare
morte e tormento ai s
anc
ti, e questo
dice s
anc
to Agustino innel
sermone ke se leggie
a li s
anc
ti martiri doppo la
Pascua, e
dice «Ei martiri
non
temettaro di morire però k'esso Cristo inançi
morio per loro».
La terça rasgione fue più
efficace: ène la
reconperatione de la pena de le
nostre peccata, ke sono facte e che se farano; ki è quello h
omo ke potesse
fare dengna penitentia de le sue peccata in questo
mondo e in
purgatorio se
non se demettesse per la passione di Cristo? El sangue di Cristo ène el
tesoro lassato
a la
ecclesia de Dio per lo quale avemo le indulgentie e le
misericordie, ke non semo puniti secondo ei peccati; unde secondo ke
dice
s
anc
to
Gregorio «qui
mortem
nostram
moriendo
destruxit», cioè
'esso
morendo destruxe la
morte nostra
' del peccato.
E però è manifesto perch'ei volse morire e
spargiare el suo sangue per
noi.
L. I, pt. 1, cap. 12
Non sença grande casgione
sadisfacto a voi de la
morte di Cristo
adomandaste de la resurrectione dicendo: "Com'è
vero ke Cristo stesse tre
dì morto, con
ciò sia cosa ch'elli non stesse se non
xl hore, ke sono un
die
naturale e le
doi parti de l'altro, e tre dì
ànno
lxxij ore?".
R
espondo: la
Scriptura non
dice k'elli stesse tre
die ma
dice «el terço
die
resuscitò», e prendese parte per tutto: elli
morio el venardì innella nona,
dumqua venardì uno, sabbato
doi (et)
d
ominica tre, conpiuta la prima hora
resuscitò; e così è vero ke innel terço
die resuscitò.
A questo faite vostre
allecascioni (et)
dite così: "Io te provo ke Cristo
devia
stare morto tre
die e tre nocti e così non sirà vera la tua solutione, la quale ài
decta di sopra". E
dite in questo modo: "Dio
dice innel
Guangnelo «Secondo
ke
Iona p
roph
eta stecte inel ventre del pescie
ceto
tre
die e tre nocti, così el
Filgliuolo de l'omo», cioè de la
Vergene Maria, «starà enel
core de la terra»;
dumqua vi stette tre dì e tre nocti, overo ch'elli non disse vero: falso è de dire
ch'elli non disse vero, con
ciò sia cosa ch'elli sia somma verità, domqua
stette tre
die. Io questi tre
die e tre nocti non veggio per quello k'è dicto, e se
altro' rascione non veggio".
R
espondo: voi
sete sì
articolosi e sotili ke altra sap
ientia se vorria ke la mia a
sadisfarve; tutta fiada ò inpreso a
respondarvi, secondo ch'io so vi
responderò. Adomandate ove sono questi tre
die e tre nocti ke disse Dio ke
staria innel
core de la terra come
Iona innel corpo del pescie, e
dite "
Dei tre
die
alcuna cosa veggio, ke se prende parte per tutto; ma de le tre nocti non
veggio". A cciò r
espondo: se noi consideramo ke è la
nocte e che è el dì voi
trovarete vera
ciascuna cosa ke dicta ène. La
nocte è privatione overo absentia de
la naturale luce, cioè del sole, (et) el
die ène la presentia d'essa luce; unde Cristo
quando fue morto e 'l sole
obscurò, e stette
obscurato per tre hore, (et) in
tanto fue
nocte k'erano tenebre sopra la terra: e così ài una
nocte;
reluminòsse
innella nona e fue
die: ài una
nocte e uno
die; e la
nocte e 'l
die del sabbato e la
nocte de la
dominica: e così avete
tre nocti; innel terço
die resuscitò, (id est) in la
d
ominica.
L. I, pt. 1, cap. 13
In ultimo
loco de Dio
adimandaste, con
ciò sia cosa ke l'opere de la
Trinità siano
indivise, perké dumqua al Padre è apropriato
potentia, al
Filgliuolo sap
ientia e
a lo
Spirtu S
anc
to
benivolentia.
R
espondo: in Dio ène ongne cosa perfectissima e a demostrare questa
perfectione sono poste queste propietade; el padre
a le fiade per vecchieçça
sole essere
debele e 'l filgliuolo forte: a
removare questo defecto da Dio
atribuimo al
Padre la
potença; el filgliuolo sole essere semplice per la non
experiença e
stolto per la
calideçça del sangue e d'altri homori: a
removare questo defecto in
Dio
atribuimo al Filgliuolo sapiença; alcuna fiada suole essere infra el padre e 'l
filgliuolo diverse voluntade e
malavolença: a
removare questo defecto in Dio
apropriamo
a lo Spirto S
anc
to
benivolença, tutte tre
persone volliono una
cosa.
E queste cose de Dio decte bastino.
L. I, pt. 2
Decto innella prima parte del
libro de Dio, k'è secondo k'è di primo
principio, tractaremo in questa parte de li angioli. E
inprima,
demandaste ke ène l'angelo in sua natura;
secondo, adomandaste se ello è conposto di materia e di forma;
tertio, se ello como dicono alcun phylosofo ène rationale;
quarto, se ello se move secondo loco continuo;
quinto, se infra essi ène differentia
individuale o spetiale;
sexto, a ke li angioli fuoro fatti.
L. I, pt. 2, cap. 1Adimandaste inprima ke è angelo secondo sua natura.
Respondo e dico ke ène spirto (et) è creatura intellectuale: in quanto ke
dice "spirto" manifesta la sinplicitade secondo k'è l'essere ke àne, inperò ke
in sé non àne conpositione di materia e di forma come l'omo k'è
conposto d'anima e de corpo; in quanto ke dice "intellectuale" demostra la
sapientia innata in loro ke sença meçço di tempo ongne cosa intendono (et)
cognoscono.
L. I, pt. 2, cap. 2
Per quello k'io abbo dicto de sopra moveste vostra questione e
diceste ke
pare, secondo el decto d'alcuni savi, ke li angioli siano conposti di
materia e di forma, e
allegaste el decto de
Boetio lo quale
dice, secondo c'avete
inteso
dai savi, ke Aristotile lassando l'
estremitade, cioè materia e forma per sé
prendendosi,
tractò del meçço, cioè del
conposto di questi
due, tractando de la
sustantia; domqua e
ll'angelo, lo quale ène in predicamento di sustantia,
inperciò ke ène s
ubstantia è conposto di materia e forma.
R
espondo ke l'angelo non è conposto di materia e forma, e questo si
puote provare sì per la
intellectualitade sì per la
incorporalitade: nullo
intellectuale e
incorporale ène materiale, e questa ène la comune oppinione
dei
phylosofi, li quali pongono le sustantie
sopracelestiale separate da ongne
materia.
A quello ke
dice
Boetio r
espondo ke
Boetio non pone ke ongne s
ub
stantia
sia conposta di materia e forma, ma
dice ke de queste tre, cioè materia e forma
e
(con)positio: conposito di questi
due, di materia (et) forma, ène spetie di
sub
stantia; non
nega perciò ke alcuna
essentia ke non abbia tal
conpositione di materia e forma non possa essere sub
stantia: bene
abisongna ke abbia alcuna
conpositione, secondo k'ène innelli angioli de
essentia (et) essere, overo de
potença (et) d'atto, ké ongne cosa ke trae suo
principio da altri, quanto vole sia corpo spirituale,
àne tale conpositione;
(et) inperciò Dio non se inchiude in predicamento di sub
stantia, ke nulla
conpositione in lui si truova, k'elli ène
victualissimo.
L. I, pt. 2, cap. 3
Moveste
subsequentemente una grande questione, se l'angelo ène
rationale, (et) argomentando diciavate ke sì (et) provavate per auctoritade de
phylosofi (et) per rascione.
Per auctoritade in questo modo, ke
Plato, secondo c'avete inteso,
dice ke li
demonia sono secondo la
mente rationali,
dunque e li angeli similmente
sono rationali; (et)
Porphyrio
dice ke noi e li angioli semo rationali, posta in noi
questa differentia, la quale ène mortale: separa noi da loro ke noi semo mortali
(et) essi
inmortali. Dumqua li angioli sono rationali.
Per rasgione è manifesto, ke s'elli non sono rationali dumqua sono
inrationali: se è falso, stolta cosa ène a dire ke essi siano inrationali, domqua
sono rationali.
R
espondo ke l'angelo non ène rationale, e ke non sia rationale potemo
mostrare per tre vie.
La prima via ène considerando l'anemale, lo quale se divide per
rationale (et) inrationale: inperciò ke ongne cosa k'è rationale ène anemale e
ongne anemale è corporale, e così se fosse rationale
necessariamente siria
corporale e materiale; ma questo è falso, domqua non ène rationale.
La seconda via per la quale se demostra ke non è rationale ène
considerando ke cosa ène rationale in sé, ke non è altro ke virtude intellectiva
discursiva d'alcuni principii
ad alcuna conclusione vera descendente d'alcuni
principii veri: la virtude rationale non conoscie overo intende incontenente
quello ke vole intendare, con
ciò sia cosa ke sia mestieri de trovarlo per
principii sì che intenda l'una cosa per l'altra, e così è mestiere ke vi sia alcun
discorso, e così viene alcun tempo in meçço; l'angelo quando vole alcuna cosa
conosciare non la va investigando e cercando per principii ma
incontenente sença alcun
discorso conoscie e i principii e quello ke seguita
dai principii, cioè la conclusione, e sença meçço di tempo. E così non
possono
essere rationali propriamente.
La terça via ke non sieno rationali se prende considerando l'angelo in sé.
L'angelo è sub
stantia separata da ongne
materia, non abisongna corpo per lo
quale se
sostenti, non abisongna corpo né fantasie al suo intendare acciò ke
intenda secondo la sua scientia, come abisongna
a lo intellecto humano lo quale
ène rationale: essi angeli insieme intendono ongni cosa quasi come Dio, (et)
inperciò iustamente sono
vocati intellectuali, ke ongne cosa sença
discurso o
altro
adiutorio de fantasie intendono; questo non
àne chi ène rationale, dumqua
l'angelo non è rationale.
A l'argomento r
espondo che i sopradecti phylosofi
errano se
propriamente posaro "rationale". Al secondo dico ke non seguita ke, se
non è rationale, ke sia inrationale, ke puote essere né rationale né
inrationale inperciò ke è intellectuale, ke non è rationale né
inrationale; non è vero ke ongne cosa ke non vede sia
ceca, ké la petra
non vede né non è perciò
ceca, che quella cosa è cieca k'à natura a vedere e
non vede: l'angelo non à natura d'essere rationale ma intellectuale, et
inperciò non ène inrationale, ke ène contrario a rationale, ké non è
actu a natura rationale.
L. I, pt. 2, cap. 4
Dimandò la vostra prudentia se l'angelo se move secondo loco
continuo, (et) provavate ke sì in questo modo: ongne cosa ke ène in alcuno
loco, se si move, localmente se move, e secondo la
continuitade e la grandeçça e
la longheçça del loco serà la
continuitade e la grandeçça
e la longheçça del
movimento, come se vede
manifestamente
ad occhi. Dumqua l'angelo stando
in loco et movendosi del loco
movaràsse secondo loco continuo, o per
aere
o per terra
continua.
R
espondo ke l'angelo non se move secondo loco continuo inperciò
k'ène innel loco secondo
contacto di v
ertude, sì che 'l
movimento de
l'angelo d'alcun loco non è altro ke diversi toccamenti de diversi locora
successivi, (et) non è insieme inperciò ke non puote insieme essere in
diversi locora; nonn è mestieri ke questi
contacti siano continui, unde à
potentia l'angelo per sua v
ertude ora essere in Roma (et) incontenente
essere in Parisgi, e 'l
movimento non serà continuo secondo loco.
A l'argomento k'è detto di sopra respondo ke l'angelo ène innel loco non
secondo k'è cosa
materiata e
mensurata del loco ma magiurmente ke esso
contene el loco, (et) inperciò
movimento de l'angelo innel loco non è
mestieri ke se
mensuri dal loco ma ène
movimento non continuo; quello ke
fo decto di sopra se intende d'alcuna cosa corporale
mensurata e
mantenuta dal loco.
L. I, pt. 2, cap. 5
Voleste anco la vostra
mente
exercitare a magiur sotilitade volendo
sapere se l'uno angelo è diviso da l'altro secondo
individuale s
ub
stantia, come
ène uno h
omo da l'altro ke sono una cosa in spetie, ke tutti semo h
omo,
overo ke uno angelo sia diviso da l'altro secondo
specificata
divisione, come
l'omo dal leone ke sono diverse spetie.
R
espondo ke de veritade ène diviso l'uno angelo da l'altro secondo
spetie como l'omo è diviso dal leone (et) secondo k'è divisa l'una spetie da
l'altra. E questa cosa a demostrare ène assai legiera,
chi lla vole sotilmente
vedere, sì per la
inmaterialitade, ké elli non
ànno materia, sì per la
incorporalitade, ké non
ànno corpo con
ciò sia cosa ch'ei sieno
inmateriali: e nulla natura se multiplica in loro secondo numero se
nnon ène secondo la diversitade de la materia, che veruno h
omo è
diviso da l'altro se non è secondo la diversitade de la materia, overo de la
carne. È mestieri ke quella natura la quale ène per ongne modo semplice, cioè
sença alcuna materiale conpositione non receputa in alcuna materia,
sia tanto una, unde qualunque cosa ène fuore de lei ène diversa natura da
essa inperciò k'ène diversitate formale e non materiale, e questa diversitate
ène diversitate de spetie.
Ancora, la diversitate de li individui, cioè ke uno h
omo è diverso da
l'altro e uno
lione da l'altro, ène a conservare la spetie, unde innelle corpora
incorruptibili no è se no uno individuo de una spetie, come se mostra innel sole
(et) in la luna: (et) li angioli sono
incorporali (et) incorruptibili, domqua
non sono diversi angeli d'una spetie ma
ciascuno ène spetie per sé.
L. I, pt. 2, cap. 6
Nella ultima parte del tractato de li angioli
ademandaste perké fuoro facti
li angeli.
R
espondo: a contemplare e laudare el Signore, e di ciò
dice s
anc
to
Gregorio
«Incessabili voce proclamant: "Sanctus, sanctus, sanctus
dominus Deus sabaoth. Pleni sunt celi et terra gloria tua. Osanna in
excelsis"»; (et) in tanto sono decti tutti spiriti.
Secondo, fuoro facti
ad
anuntiare e noi guardare e demostrare la voluntà
de Dio, secondo ke se truova scripto per li s
anc
ti
doctori (et) per
Daniel
p
roph
eta (et) per altri s
anc
ti; e però sono decti "angeli", cioè
'messaggi
',
unde "angelo" ène nome d'offitio e non de natura, come
dice s
anc
to
Gregorio.
E così sono manifeste quelle
vj cose ke de l'angelo s'ademandavano,
avengna ke alcune cose magiurmente sono da lassare ke de cercare per la loro
sotilità, k'è molto
dura cosa a manifestare sì brevemente in
vulgare de sì
alte
cose le quali trapassano la nostra capacità.
L. I, pt. 3
Decto de sopra de Dio (et) de li angioli è da dire de le corpora (et) a
ni
me
beate. Et avengna ke molte cose de loro se possano dire a vostra
utilità e
acrescimento de desiderio el quale avete de venire a quella somma nobilità e
beatitudine, solo diremo de
viij dote de le quali sono
dotati li s
anc
ti e li omini
iusti in vita eterna.
Per la qual cosa dovete sapere ke
quatro sono le
dote de l'a
ni
ma e
quatro
sono quelle del corpo.
L. I, pt. 3, cap. 1La prima
dota de l'a
ni
ma ène la visione
essentiale de Dio, inperciò
ke l'a
ni
me beate vegono Dio
essentialmente como ène. E a questo diceste ke
paria a voi ke non fosse opo, per quello ke fo decto de sopra innel tractato
de Dio: decto fue ke Dio era
inconprehensibile (et) infinito, la cosa k'è
inconprehensibile non se può conprendare secondo tutto el suo
essere, e così non
pare ke si possa conprendare de l'a
ni
ma; ancora, quello
k'ène infinito non si puote conprendare da cosa finita, Dio ène infinito e
l'a
ni
ma finita, non
pare ke sia vero ke si possa conprendare de l'a
ni
ma
secondo k'è decto di sopra.
R
espondo k'a Dio nulla cosa ène inpossibile: avengna ke sia inpossibile
questo
a l'a
ni
ma per sua natura, non è inpossibile a Dio de farlo per
gratia, (et) inperciò se chiama
dota, ke non l'à per natura ançi per gratia.
E questo
dice s
anc
to Ioh
anni: «Vedaremo Dio secondo k'elli ène», e
l'apostolo
dice «acciò ke voi possiate conprendare con tutti ei s
anc
ti la
longitudine, la
letitudine e la profundità de Dio», cioè quanto
a la divinità.
E così ène
a l'argomento resposto ke voi faceste, ke
veiro ène ke Dio per
nostra natura né
potentia non se puote
perfectamente vedere, ma per sua
potentia, v
ertude e gratia sì.
Overo secondo alcuni ke si puote respondare ke l'a
ni
me el vegono
quanto è la lor natura in
potença di
poterlo vedere. Ma da tenere ène per
fermo ke natura non siria sufficiente sença gratia.
L. I, pt. 3, cap. 2
La seconda
dota de l'a
ni
ma ène
recepimento de Dio per nostra
mercede: questo ène el denaio dato ai lavoratori ke lavorano
e
lla vingna de la
penitença, ke a
ciascuno se dà uno denaio. Unde questo è diviso da quella
dota
decta de sopra inperciò ke altra cosa ène vedere e altra cosa è avere, unde
l'a
ni
me non solamente el vegono ma
vegolo e ànnolo per loro mercede.
E questo
dice l'apostolo: «Sì corriate ke lo prendiate».
Sopra questa auctorità de l'apostolo faceste una questione e diceste:
"L'apostolo
dice «de
coloro ke corrono al palio tutti corrono ma uno è quelli ke
prende: sì corriate ke 'l prendiate»; domqua solo uno ène ke si salva e non più,
como ène uno quelli ke prende el palio, overo questa ène
mala
similitudine; ma
essendo decto da l'apostolo è bona
similitudine, domqua uno tanto se
salva: questo ancora è falso, domqua come stane?".
R
espondo ke ongne fede corre al palio inperciò ke ongne fede se
crede
salvare e prendare Dio, ma una sola, cioè la fede
cristiana prende el palio. Et
inperciò
dice, con
ciò sia cosa k'è la nostra fede k'è una somma fede, «sì
corriate» per essa «ke 'l prendiate» questo palio, cioè Dio, ke ène nostra
mercede. Una è la fede
cristiana e molti sono in essa fede, e così è vera la
similitudine de l'apostolo.
L. I, pt. 3, cap. 3
La terça
dota ène usare Dio, cioè ke in lui ne
delectaremo secondo
ke in cosa sopra ke dire se possa
delectevole. E questa è diversa da l'altre, ké
l'uomo
pote vedere (et) tenere alcuna cosa e in essa non si delecta, ma in
esso avaremo somma e sempiterna
delectatione.
Ciò è ke
dice s
anc
to
Iob: «In tanto tu serai ripieno tutto d'allegreçça (et) de
delitie sopra l'onnipotente Dio».
L. I, pt. 3, cap. 4La quarta dota de l'anima ène el perfecto conoscimento, ke
vedendo Dio, avendolo e delectandone in lui averemo perfecto
conoscimento d'ongne cosa; unde Dio ène come lo specchio innel quale
ongne cosa se vede: secondo ke l'omo vede in lo specchio ongne cosa k'è
innançi a lo specchio, così l'anima sguardando a Dio ongne cosa conoscie.
E questo dice sancto Augustino: «Ke cosa ène ke non vegha quelli lo
quale stane innançi a colui c'ongne cosa vede?», cioè nulla, però c'ongne
cosa vede e conosce. E sancto Gregorio dice «L'anima ch'àne la clarità de
Dio in sé nulla cosa si fane de la quale non abbia conoscimento».
Decto de le quattro dote de l'anima, k'è più nobile che 'l corpo, dirò de le
quattro dote del corpo.
L. I, pt. 3, cap. 5
La prima
dota del corpo
glorificato ène la
inpassibilità (et)
incorruptione (et)
inmortalità: mai non
sostiene nulla passione né
corruptione né
morte.
Unde
dice s
anc
to Ioh
anni
inelle
Apocalipsi ke «Dio da li occhi
dei
s
anc
ti à tolto ongne lacrima (et) non sirà più a loro né
pianto né lamento
né veruno
dolore». De li altri
dice l'apostolo: «È mestieri questo corpo
corruptibile ke si vesta de
incorruptione, (et) questo corpo mortale se vesta de
inmortalità».
E così è manifesto de la prima
dota.
L. I, pt. 3, cap. 6La seconda dota ène la clarità, ké le corpora de tutti li iusti sono
chiari como el sole.
E questo dice Cristo in lo Vangelio di sancto Matheo: «Li iusti siranno
chiari e splendidi come el sole in lo regno del mio padre».
E così è manifesto de la seconda dota.
L. I, pt. 3, cap. 7
La terça
dota ène la legiereçça, per la quale porrano essere
due
vorrano.
E questo se truova
inello
libro de la
Sapiença: «Secondo ke le
lute, overo
scintille del fuoco, vano discurrendo per loro legiereçça, cusì li iusti sirano
legieri». De li quali se
maravilglia la
Scriptura e
dice «Ki sono questi ke volano
como nuvoli per l'aire?», quasi dica "Questo ène de
mirabile legiereçça".
L. I, pt. 3, cap. 8La quarta dota del corpo serà la sotilità, per la quale porrano passare
ongne cosa ke vorrano.
Ciò è ke dice l'apostolo: «Semenase el corpo anemale e resuscitarà corpo
spirituale», cioè come el seme così el corpo nostro se mette sotto terra (et)
enfracida e resurgerà sotilissimo.
L. I, pt. 3, capp. 5-8Tutte
quattro queste
dote se possono provare per lo decto de
l'apostolo, el quale
dice «Noi
aspectamo el
salvatore
d
omino (Iesù) Cristo, lo
quale
reformarà el corpo de la nostra humelità configurato (et)
assimelgliato al
corpo de la sua clarità», cioè ch'
a la resurrectione
trasformarà li corpora
beati
a la
similitudine del suo: ma al suo corpo trovamo queste
quattro cose,
dumqua le corpora beati l'avarano.
De la prima, cioè de la
incorruptione (et)
inmortalità,
dice s
anc
to
Pietro «Cristo
resuscitante de la
morte già non morrà più e non lo
signoreggiarà più
morte».
Del secondo fue manifesto in la sua
trasfiguratione in monte
Thabor,
ke la sua faccia era splendida e lucente como el sole, como se leggie in lo
Vangelio de sancto Matheo.
De la terça
dota si è manifesto quando andava sopra el
mare sença
nave,
(et) quando per sé andò in
cielo
inell'ascensione, come se leggie enelli
Atti
de li Apostoli.
De la quarta è manifesto quando
intrava doppo la resurrectione ai
desciepoli inella casa loro essendo l'uscia chiuse, como se leggie in lo
Evangelio; e
quando
uscio del monimento sugellato.
Unde se Cristo
reformarà le corpora beate a
similitudine del suo, domqua
avarano queste
quattro predecte
dote.
E così sono manifeste brevemente le
quattro
dote del corpo, lassando le
rasgioni e provando per auctorità de santi temendo k'a voi non
desse
tedio a udire. (Et) in questo se finiscie el primo tractato del
libro.
L. II
Detto innella prima parte del
libro de le tre cose principali ke s'ademandavano,
ora seguita de dire in questo secondo tractato de li corpora celestiali. (Et) sì se
divide in tre parti:
in la prima parte se manifesta del
cielo;
in la seconda parte de certe planete celestiali;
in la terça parte d'alcune inpressioni generate in questo nostro
aere.
L. II, pt. 1De la prima parte s'
adimanda se 'l
cielo è animato, inperciò ke
alcuni savi phylosofi questo dissaro in grande questione, (et)
pare ke sì. E
questo pongono molti phylosofi
dei quali fue
Anaxagora e tutti ei
platonici, cioè
coloro ke seguitaro la
doctrina de
Plato; (et) a questo credere el
condussaro el
continuo
movimento ke
àne. E de questa opinione fue el maestro ke fece el
libro el quale
presi
ad
esponere in
vulgare, lo quale pone la nobilità de la
forma, la
sotilità de la materia, l'
ornamento de la figura e 'l continuo
movimento per lo quale se manifesta la sua
continua vita: con
ciò sia cosa
che 'l corpo
anemato è più nobile ke 'l non
anemato, domqua el
cielo per la
sua nobilità e per tanta perfectione k'è decta de sopra (et) per lo
continuo
movimento ke
àne ène a
ni
mato; (et) s'è a
ni
mato
dumqu'è
a
ni
male, però ke nulla cosa
àne a
ni
ma e movesi secondo loco ke non
sia a
ni
male.
R
espondo e dico ke no è vero ke 'l
cielo sia a
ni
mato, e questo se puote
provare per auctorità (et) per rascione.
Per auctorità secondo ke pone
manifestamente
Damasceno k'ei non è
a
ni
mato.
Per rascione se manifesta così: l'unione de l'a
ni
ma e del corpo non è
per casgione del corpo ma per l'a
ni
ma; non è la forma per la materia
ma la materia è per la forma, (et) el meno nobele ène per lo più nobile: la
v
ertù de l'a
ni
ma se conoscie per la sua operatione, e 'l corpo alcuna
fiata se truova necc
essario
ad alcuna operatione de l'a
ni
ma, secondo
k'è manifesto innella operatione de l'a
ni
ma sensitiva (et) nutritiva, unde è
mestieri ke cotale a
ni
me siano unite al corpo a potere usare le loro
operatione; alcuna operatione d'a
ni
ma ène ke non s'aopera
mediante el corpo avengna ke alcuno
aiutorio ve
dia a tale operatione,
secondo ke per lo corpo
a l'a
ni
ma humana si
dia le fantasie, le quale
fantasie abisongna
ad intendare, unde tale a
ni
ma abisongna
onire
collo corpo a
tale operatione de intendare usare.
Unde manifesta cosa ène ke se 'l
cielo avesse a
ni
ma, tale a
ni
ma non
puote avere l'operatione de l'anima nutritiva, le quali sono nutrire, generare,
acresciare: queste operationi non se
convengono a corpo
incorruptibile
ma corruptibile.
Semelgliantemente l'operatione de l'a
ni
ma sensitiva a
tale a
ni
ma del
cielo non si
convengono inperciò ke, secondo ke
dicie el
filosofo, tutti ei sensi
àno fondamento sopra el senso del
tacto, lo quale ène
aprehensivo de le qualitati
elementali, e al minore organo sensitivo è mestieri
ke abbia
determinata proportione secondo alcuna
conmistione
d'
elementi, da la quale natura de li
elementi el
cielo ène partito. Dumqua de
l'operatione de l'a
ni
ma non li si possono
adactare se non
doe, cioè el
movare e lo intelligere.
Lo
apprehendare
adomanda el senso e lo intellecto, qualunque di
questi
doi non
àne non puote essere questa operatione; e 'l senso, secondo
k'è decto, non
àne, domqua non puote
apprehendare; ancora,
con
ciò sia cosa ke la operatione intellectuale non se usi per corporale
istrumento, non abisongna corpo se non in quanto per senso receve
fantasia, e così per tale operatione al corpo
celestiale a
ni
ma non se
uniria.
Dumqua questo sirà per lo solo
movimento. Ma alcuna cosa acciò ke se
mova, non è necessario ke quello ke
face movare se
coniunga con essa
secondo ke forma con materia, cioè come a
ni
ma con corpo, ma per
toccamento di v
ertude, secondo ke quello ke move
a la cosa k'è mossa. E
questo
dice el phylosofo inel octavo
libro de la
Fisica, el quale
dice ke,
quando alcuna parte se congiunge
coll'altra, ke la mova l'altra, ke ène per
contacto di v
ertude; (et) in questo modo
intendivano li filosofi
platonici ke
questa unione d'alcuna spirituale sub
stantia con lo
cielo fosse per
contacto di v
ertude, e così non abisongna ke tale spirituale s
ub
stantia sia
unita con lo
cielo como forma cum materia (et) a
ni
ma
co
lo nostro corpo,
ke questi
doi facciano uno tutto como de l'a
ni
ma e del corpo se fa uno h
omo,
como se dicia de sopra.
(Et) così è manifesto che 'l
cielo non è a
ni
mato, co se ponia.
L. II, pt. 2
Decto del
cielo è da dire d'alcune planete, e
prima, del sole;
secondo, de la luna;
terço, de le pianete universalmente.
L. II, pt. 2, cap. 1Del sole s'adimanda perké la via sua ène torta, ke per tempora
muta corso secondo la tortuosità de la linea e strata unde passa.
Responde maiestro Alardo ke se fusse la via del sole dricta sempre
avaremmo una stagione, sempre siria o state o verno: e se fusse state nullo seme
per la siccità nasciaria, con ciò sia cosa ke sia mestieri ke prima el seme mora
ançi ke de lui nasca rampollo, se sempre fusse verno non se maturaria
veruna cosa ke nascesse; dumqua, se fosse possibile a vivare, sopra ke dire se
possa la vita de ciascheduno homo saria tediosa.
L. II, pt. 2, cap. 2
Decto del sole è da dire de la luna, de la quale
due cose s'adimandano.
L. II, pt. 2, cap. 2aPrima, perké la luna receve varietà, ke alcuna fiata è tonda, alcuna
fiada è meçça, alcuna fiada viene a tanta
soptilità ke a pena se vede: perké riceve
altra passione ke l'altre stelle? È questo per natura de sua materia o ène per
nostra
utilità, o perké ène? A nostra
utilità non
pare ke sia, ke magiure
delectatione avemo quando è lucida e tonda ke quando ène
meçça.
R
esponde maiestro
Alardo e
dice ke unde ke questa cosa sia, overo da
materia overo per altra casgione,
dovemo guardare al
factore sommo,
cioè Dio, lo quale, secondo ke
dice el filosofo, a
ciascuna sua opera
dae
fortuna (et)
dispositione secondo ke se
convene a quel fine a ke è
facta; unde la luna essendo facta per noi in quello stato ke a noi ène più
utile
dia essere (et) variare: se ella fusse tonda averia proprio lume, se avesse
el proprio lume averia el proprio foco, e se avesse el proprio foco averea
nocevole ardore, (et) così ei
fructi ke
nascono sopra la terra
arderieno tutte e
seccarienosi tutte le fonti (et) la terra in polvare tornaria. Se 'l sole essendo
in
Cancro non adopera
picciola seccità sopra la terra ma grande, ke faria la
luna ke ongne mese lo corre questo sengno? Ongne mese seria ardore, e così
grandissima destructione
seguitaria
a le cose
create.
Salva la
reverença de questo maestro non à declarata la questione ke
s'
adimanda di sopra, ke la luna alcuna fiada vedemo quanto
a la
superficie
k'ène inverso noi tutta
alluminata e non dà
callideçça ma frigideçça, secondo
k'è p
rop
ria e manifesta
experientia; (et) intendo ke è di tanta frigideçça,
maximamente in effecto, ke essendo el cavallo in la
stalla calda, per
balestriera venuto a lui el lume de la luna l'àe morto. (Et) trovase ke se la luna
non temperasse per sua frigideçça el caldo del sole ongne cosa se
consumaria per lo caldo, e se 'l sole non temperasse la sua frigideçça tutte
le cose se
constipariano.
A la vostra
domandasgione r
espondo ke la luna de sé non
àne lume ma
ène corpo ke puote recevare in sé lume, (et) ène corpo grande quasi como la
terra, retondo como
palla (et) solido, sì ke essendo sotto del sole e sguardata da
lui da una parte non puote passare da l'altra per la grandeçça e
solideçça
d'essa luna, sì ke sempre una parte de lei ène
illuminata e l'altra ène tenebrosa e
oscura; e la luna non è in uno
corso col sole ma movesi in contrario al suo
movimento naturale (et) corre
xij.ci tanti più de lui. E 'l filosofo pone questo
defecto per la interpositione de la terra, sì che per lo
corso ke non è
uguale lo
sguardamento non è
uguale e così e 'l lume non è
uguale, e vene
perdendo el lume (et)
oscurandosi da la parte nostra a poco a poco:
secondo ke più se remove el lume del sole da la
superficie ch'ène inverso de
noi più
illumina de sopra e
oscura de sotto, (et) inperciò per lo
movimento
veloce ke
àne la luna adivene ke tutta la opposita parte
illumina e così tutta la
superficie de la parte nostra
oscura. Sì che la casgione de questo defecto ène
el
movimento più tardo in lo sole e più
veloce
e
lla luna, (et) questo defecto
ène per la interpositione de la terra infra el sole e la luna, qual ke si sia el
motu e casgione.
E questa ène vera oppinione. La responsione ke fece maestro
Alardo ène
magiurmente perké la luna non
àne lume da sé, come 'l sole; (et) ancora in
sua responsione secondo questa
domandasgione ebbe defecto, lo quale
non dico però k'ène manifesto.
L. II, pt. 2, cap. 2b
D'essa luna se puote ancora
dimandare unde ène quella ombra e
merigia la quale vedemo
e
lla luna, (et)
maravilglia ke 'l sole, quando
illumina la luna, k'ei non à
potença de
illuminarla.
R
esponde maestro
Alardo ke 'l corpo lunare infra tutte l'altre stelle (et) pianete
è più de sotto verso l'aire (et)
àne più materia terrea,
acquea (et) aerea ke
ingnea;
(et)
essentia terrea,
acquea (et)
airea ène generativa de ombra (et) de
merigia, e
così el corpo lunare à necessità d'avere in sé ombra; (et) se questa ombra fossi
sparsa per tutto 'l corpo de la luna non
recevaria lume: naturale cosa ène ke la
grosseçça vane al meçço, e però la
macola e l'ombra se vede in lo meçço.
Alcuni altri dicono che ène la
merigia
della terra e dell'aqua la quale resulta in
esso chome la meriggia alcuna fiata d'alcuno arbore o de
hedifitio se
rescierne
innella terra illustrata dal sole, ma questo non me
pare, ké alcuna fiada se
vederia più (et) meno secondo diverso esguardo del sole, como innella
terra se vede tale
merigia minore et tale magiure secondo diverso aspecto del
sole.
L. II, pt. 2, cap. 3
Decto del sole e de la luna è da dire de le stelle, (et)
dividese el tractato
loro in
quattro parti, e
prima, se le stelle sono
anemate et anemali;
secondo, se sono anemali ke cibo usano acciò ke vivano;
terço,
quale ène la casgione ke le pianete vano
contra el
corso naturale del
fermamento;
quarto, se le stelle caggiono da
cielo como mostrano de cadere.
L. II, pt. 2, cap. 3aPrimeramente dicemo se le corpora celestiali sono anemate, cioè le
stelle e le pianete.
Orígine
pose tutte le corpora celestiali anemate, al quale
Ieronimo
pare ke
consenta
exponendo l'
Eclesiastico de Salamone, (et)
dice ke Dio illustra ongne
cosa per Spirto S
anc
to. Augustino
pare ke prenda questo
dubioso, e
dice
Sopra el Genesi ke, se sono anemate, ke la loro a
ni
ma s'ap
artene
a la
conpagnia de li angioli.
E 'l maestro
Alardo
manifestamente pone ke sono anemate, e
dice ke
coloro
ke dicono ke le pianete e le stelle non abbiano a
ni
ma de verità se possono
dire ke sono sença a
ni
ma. E questo manifesta per tre rascioni: la prima
considerando el loco, la seconda considerando la conpositione, la
terça considerando la operatione.
Considerando el loco
dice così: se questa parte de sotto tenebrosa,
fecciosa,
tempestosa se reggie per a
ni
ma rationale, tanto magiurmente
quella
machina (et) regione pura ène convenevole ke per essa se regga. E se
ongne
simele ama simile, quanto ène sconvenevole cosa a
credare ke l'a
ni
ma
sì nobile non sia in quel nobele loco essendo in questo el quale ène a loro
dissimile.
Per conpositione prova così: essendo le stelle facte de
quattro
elementa, manifesto ène ke 'l foco in loro più signoreggia, e per lo loco e
per lo
colore se vede ke è vero. Questo foco o ène
perentorio, cioè
consumptivo (et)
destructivo come 'l fuoco nostro de fore, overo è
conservativo (et) a vita
retentivo como el nostro ch'avemo innel nostro
corpo. El primo foco non è in loro materia ké, con
ciò sia cosa ke
continuamente adoperi a
convertere a sé, de necessità
consumaria el suo
subiecto, el conposto, e
dissolvariano; dumqua seguita k'è
conservativo
come quello k'è in noi. Ma in quella materia dove signoreggia in questo
modo tale
elemento è ordinata a vita, e la vita è per l'a
ni
ma: dumqua (et) le
stelle, in le quali
maximamente signoregia tale
elemento, sono anemate.
Per l'operatione ène anco manifesto.
Dice el filosofo: «Qualunque
cosa se move overo se move per natura overo per força overo per voluntà.
Per natura non si movo inperciò che ki se move per natura sempre va
ad
un loco, o in suso come 'l fuoco o in giuso como la pietra; tale
movimento non
àno le stelle, è manifesto ke per natura non si movono. Per força non
ène, inperciò ke no
nn è magiure
forza che quella del cielo maggiore e le
pianete se movo incontra lui in contrario
movimento. Donqua seguita ke si
movano per voluntà, e
due ène voluntà? Si gli ène a
ni
ma dumqua sono
a
ni
mate».
E questa ène la sua ferma
credulità, la quale ène falsa secondo ch'io provai
de sopra; (et)
errano credendo ke là
due fosse tal
movimento fosse mestieri e
necc
essità l'unione del motore, cioè d'alcuna
creatura spirituale, como ène di
materia e forma, o corpo (et) a
ni
ma, ma assai basta ke questa unione ène
per
contacto de v
ertude. (Et) non se
nega ke non sia voluntaroso questo
movimento, ma
negasi ke non è a
ni
ma.
E questo
dice s
anc
to Agustino innel
libro
De la Trinitade, ke tucte li
cielestiali corpora sono serviti per spirto de vita. (Et) questo fo lo
intendimento
dei s
anc
ti decti de sopra, (et) la prova de ciò ène in la
questione del
cielo.
L. II, pt. 2, cap. 3b
Demostrato se li cielestiali corpora sono a
ni
mati, e decto ke
secondo alcuna oppinione sono a
ni
mate, (et) secondo alcuna
oppinione, (et) è milgliore, non sono anemate,
adimandase più innançi: "Se
sono a
ni
mate, sono a
ni
mali,
e sse sono animali alcuno
elemento
adomandano a loro conservatione;
adomando ora ke cibo usano questi
celestiali corpora acciò ke se conservino in esse (et) a vita".
R
esponde maestro
Alardo ke secondo ke quelli a
ni
mali
àno più nobile
materia e forma de questi ke sono infra noi, così el loro cibo ène più nobile e
soptile ke 'l nostro. E 'l cibo loro pone ke è
vapori terrestri e acquosi,
suptili e
purificati, ké sença grande
suptilità (et)
purificatione non porriano salire a
sublimità di tanta alteçça; e de quello cibo vivo.
Salva la sua gr
atia questo non puote essere, inprima perch'elli non
sono
anemati ma per v
ertute d'angelo se movono, el quale non abisongna
cibo; seconda, ke se fossero anemali, con
ciò sia cosa ke in principio non
abbia tutta
similitudine el cibo cum l'anemale, e avengna ke in alcuno modo
prenda
similitudine ricevuto innell'a
ni
male, non recevendo tutta
si
militudine in alcuno modo ène mestieri ke se
alteri in processo de
tempo l'anemali e trasmuti; ma con
ciò sia cosa ke in loro nulla tale alteratione
possamo conprendare, non prendono tale cibo.
Ancora, la cosa k'è
incorruptibile a che abisongna cibo, con
ciò sia cosa che 'l
cibo overo
augmenta (et) acrescie, overo ène a conservare l'anemale? A
loro non
abisongnaria cibo per
cresciare, ké non
crescono, né a conservare,
avendo natura
incorruptibile innella quale è privata
potentia
corruptiva
essendo fermate da Dio in somma stabilità.
Domqua non abisongnano cibo.
L. II, pt. 2, cap. 3c
Quale casgione, quale necessità ke le pianete se movano
contra el suo
fermamento? Non siria più convenevole e più naturale ke se
movessaro e
corrissaro col
fermamento ke andare
contra de lui?
Alcuni dicono ke questo ène a retardare la
velocità del
corso del
fermamento, ke volgendosi incontra de lui in alcun modo
inpedimentescie
l'
empetu forte del suo curso. Ma avengna ke questa opinione sia de molti
savi phylosofi, el maestro
Alardo asengna un'altra rasgione assai
apparevoli
bona ke le corpora celestiali sono in continuo
movimento, (et) pone,
secondo k'è decto avengna ke male, ke sono anemali, e così noi a lloro
similitudine, avengna ke alcuna fiada siamo
inpedimentiti per graveçça del
corpo in natural desiderio, essere in continuo
movimento: se quello del
cielo e de le pianete fusse
en
corso, tutto
e
ll'aire subitamente movendosi (et)
inpetuosamente nostro reposo
turbaria, seguitando el continuo
movimento de verità, e la nostra natura
recevaria grande alteratione,
né non
posso considerare ke la forteçça e la vertude del nostro cerebro
potesse soferire sì tostano
movimento.
L. II, pt. 2, cap. 3d
Consequentemente de le stelle se puote fare un'altra
demandasgione, se sono stelle quelle ke paiono
a le fiate de
nocte cadere,
como paiono; (et) se non sono stelle ke sono.
R
esponde maiestro
Alardo e
dice ke ène
aere percosso e per la
percossione aceso, o per percussione di ventora o per
inpetuosa
fractione de
ghiaccio congelato innell'aire, inella quale
fractione se
genera foco come serà manifesto innella sequente parte.
(Et)
dice ke non è sconvenevole a credere ke possa avenire quella
accensione da
veloce
moto del
fermamento. E ciò non mi
pare, ke con
ciò sia cosa ke quel
movimento continuo sia in uno modo
continuamente
siria questa accensione, (et) questo non ène: seguita ke non viene da
esso.
Credo magiurmente ke sia
vapore acceso e levato per vertude solare.
L. II, pt. 3
Decto del
cielo e de li cielestiali corpora, cioè de le pianete, ora in
questa terça parte diremo d'alcune
inpressione generate in questo
nostro
aere; e
prima, de li
tonitrua;
secondo, de le
flumina che
percotono;
terço, de le ventora.
L. II, pt. 3, cap. 1Innella prima parte diremo unde procedono le
tronora, sì orribili
(et) paurosa cosa a udire ke li ucelli
a le loro
fogliore e le bestie
a le
tane e li
ho
mini
a le case ritornano: unde ène tanto
inpeto di sono?
A questa
demandasgione r
esponde el maestro
Alardo (et)
dice ke,
secondo ke
ad ochi vedemo, le nebule salgono de l'acqua (et) de la humiditade
de la terra, (et) alcune sono rade (et) alcune sono spesse (et) alcune spessissime
in tanto ke si
convertono in nuvoli (et) per
fredeçça de ventora si
congelano innell'are, (et) per la largheçça del
ghiaccio, ke
àne molto
aere de
sopto, se sostene; o per caldo de sole o per
inpeto de vento contrario se
speçça, innella quale
speççatura per la grandeçça de la quantità (et) la
graveçça e l'alteçça sì se genera quello terribile suono; (et) inperò seguita
grandine
ghiacciosa, se per
caldeçça d'
aere non se
liqueface o
dimonge:
alcuna fiata è sì grande ke
àne morto l'omo (et) la bestia.
B
artolomeo: salvo el milglior iudicio non è vero, ké alcuna fiata si caderia
in sì grande largheçça (et) quantità,
maximamente in tempo di verno
quando el sole non tanto scalda, ke terria grande quantità de la terra et
insieme molti ho
mini
ocidaria. Ma secondo ke
dice 'l filosofo el
tronitruo
ène inpressioni generata de substantia d'acqua de nubili per movimenti
de
vapori caldi e secchi là (et) là fugiendo ei suoi
contrarii (et) de ciò
inflammati (et) constrecti da ongne parte: da le nubile
aquose per
violença
speççano, (et) in quella
scissura ène el suono. (Et) quello
vapore caldo e secco
per la percussione forte inell'aire ke
face, è gittato da esso
aere percosso la
saetta.
(Et) a tutto questo k'è decto vale lo exemplo de la
castangna messa nel
fuoco, ke 'l caldo dentro
vigorato volendo fugire la umidità de la
castangna (et)
venire al suo simile, cioè al fuoco, et l'umore
vigorandose, infine non potendo
sostenere vedete sono (et) furia ke
face (et) percussione, ke se truova k'à
speççata la tavola del tecto (et) alcuna fiata è andata de tanta
potença ke non se
n'è veduta nulla cosa.
L. II, pt. 3, cap. 2
Tractato de li
tonitrua seguita de dire de le fulmina e baleni, e de le
saiette volgarmente, o de quello ke percote.
Dei quali
ademandaste
quattro
cose:
prima, unde vengono;
seconda, ke è ciò ke non segono
ad ongne tuono;
terça, per la qual força
hedificia, (et) qualunque cosa percote,
aterra;
quarta, ke è ciò ke non insieme udimo el suono e vedemo el fuoco.
L. II, pt. 3, cap. 2aLa prima interrogatione ène unde vengono ei baleni.
R
esponde el maiestro
Alardo ke d'ongne violentia (et) sforçata
percussione (et)
fractione quella cosa k'è più leve più vaccio se
desolve (et)
escie de la cosa
fracta: sopra ongne cosa
sensibile el fuoco ène più leve (et)
inperciò de quella
inpetuosa
fractione, de la quale magiore non se
truova,
frangendose el
ghiaccio o per vento como di verno o per sole como
di
state
essciene 'l foco, (et) quello è el baleno.
B
artolomeo dice magiurmente: «El baleno se genera per
percussione de nuvoli insieme per operatione de venti
contrarii, de la
quale
violenta percussione esscie fuoco». (Et) in questo modo puote
essere baleno sença
tono, quando non è per
vapore caldo (et) secco, como
decto ène; ma
tono non puote essere sença baleno, inperciò ke sempre,
quando se genera el tuono, si vene violentissimo
movimento e
percussione, como decto ène, unde esscie fuoco.
L. II, pt. 3, cap. 2bLa seconda interrogatione: ke è ciò ke d'ongne tuono
non
escie baleno? Alcuna fiata udimo
tonare, avengna ke rado, (et) non
balenare, (et) alcuna fiata balenare (et) non ferire.
R
esponde maestro
Alardo (et)
dice ke rade fiate questo potemo vedere;
quando vene, quello è la necessità, (et) non pone solutione. Io dico: se io
recevo questa sua oppinione, ke ène falsa, de
due cose puote essare: l'una,
overo per più tepida
fractione de
ghiaccio, secondo ke decto ène;
overo ke, con
ciò sia cosa ke passi el baleno per nuvoli acquosi, ke si
aspengono in loro (et) così non puono pervenire al nostro aspecto.
A la seconda questione r
esponde (et)
dice: «Alcuna fiata e'
fende, alcuna
fiata
speçça (et)
intona, alcuna fiata tanto arde. Quando vene solo foco arde
alcuna fiata
e
ll'aire solo, secondo
picciolo
inpeto, (et) secondo grande
quel ke
tona». (Et) secondo questo modo non
pare ke fera, ma sempre
fere, o in
aere overo in terra.
L. II, pt. 3, cap. 2cSaputo de le generatione de le fulmina, o
aere o pietra overo
fuoco ke sia, con
ciò sia cosa ke sia
||sì
piccholino, come puote dare così gran
perchossa che
fende li alberi e
speza
edifici e niuna cosa è che non passi e
stroni?
Risponde maestro
Alardo: «Per lo
movimento
velocie ch'è per sua natura; onde
provata cosa è che sottile e debole
lancietta
ferrata spesso forte e grosso schudo à
passato s'ella va bene
velocie, onde e la perchossa delle
tronora tutte l'altre
velocità
passa: per tale
velocità dà sì gran perchosse».
L. II, pt. 3, cap. 2dNella quarta interrogatione, perché non si ode il sono e lla chiareza
del baleno insieme, che sempre vede l'uomo il lume inprima e poi per alcuna ora
ode il suono, rispondo che questo è dalla parte de' sensi nostri, che 'l viso è più
velocie che ll'udito, e per la spessitudine de' nuvoli el suono non puote sì avaccio
venire all'odito come il fuoco al viso. E di questo avemo essemplo che, sse l'uomo
istesse nel monte e nella valle fusse uno che tagliasse lengne, inprima vedi dare la
sechonda perchossa che oda la prima.
E chosì sono manifeste le quattro chose che ssi adomandavano di sopra.
Anchora è manifesto quando suona la chanpana e ll'uomo è dalla lunga, che
inanzi vede dare la sechonda perchossa che oda la prima.
L. II, pt. 3, cap. 3
E detto
de' troni e baleni e delle saette, delle
folgore, seghuita di dire
delle ventora, delle quali
cinque chose s'adimandano:
la prima, onde naschono;
la sechonda, se
ll'aire si puote muovere secondo parte essendo tutto in
quiete;
la terza, se
ll'una parte dell'aire mossa tutto si muova sanza fine e così sia
infinito il
movimento;
la quarta, perché apresso alla terra e non i
nn alto si muove il vento;
la quinta cosa, ond'elli vene tanto
inpeto e furore.
L. II, pt. 3, cap. 3aNel primo chapitolo s'adimanda onde nascie il vento.
Risponde maestro Alardo e dicie che alchuna volta prociede dalla terra e alchuna
volta dalla planeta dell'acqua: parte dell'aire spesso sale inn alto chon umiditade
d'acqua, il quale risolvendosi cade innel naturale loco, nella terra o nell'aqua, nella
quale vi nascie alchuno movimento d'aire onde si gienera vento. Vento è aire
spesso visibilmente mosso: dicie "aire" ch'è propia materia di vento, dicie "spesso"
a differentia dall'aire puro del quale non si fa vento, dicie "mosso" ché se non si
move in velocie moto non è vento, dicie "visibile" a differenza dell'altro aire,
che in alcuno modo si muove ma nonn è che ssi senta.
L. II, pt. 3, cap. 3b
Adimandasi in questo sechondo chapitolo: "Con
ciò sia
chosa che
no
nn è vento se non
aere mosso,
eccho che tutto l'aire è
quieto:
adomando se
alchuna parte puote avere
movimento, inperciò che qualunque cosa è mossa
d'alchun'altra è mossa; quella da chui è mossa o ella è in
quiete o in
movimento:
qualunque cosa è tutta in
quiete
pare inpossibile che possa muovere altra, dunque il
movimento sarà di quello nel quale è
movimento; e in cholui in chui è il
movimento
è mestieri che d'altrui sia mosso, dunque il
movimento sarà infinito, inperciò che lle
parti dell'aire saranno infinite, e chosìe delle
due cose saria l'una, overo che chotale
vento non porria essere overo che sse
cominciasse non averia mai fine, e
ciaschuno è inpossibile".
Risponde il maestro
Alardo e
dicie che lla cagione overo il prencipio del
moto è
la
quiete. Qualunque cosa mossa prendendosi propiamente è mosso d'alchun altro;
quello da cchui è mosso puote essere in
quiete e in
movimento: in
quiete, che
no
nn è mosso d'altrui, in
movimento, che movendo altri si move almeno
sechondo virtute, onde quanto a passione è in
quiete, che non
sostene, quanto
ad
azione è in
moto. E Dio trovamo che muove e non è mosso, dunque
falle che ogni
cosa che move sia mossa; anco vedemo inel focho che lla natura e lla
leveza il
muove secondo s
ub
stantia, essa
posante; così si puote muovere alchuna parte
dell'aire non movendosi tutto, potendo avere principio in
quiete.
L. II, pt. 3, cap. 3c
Nel terzo chapitolo si fa delle ventora tale quistione provando che
cominciato il vento non
dê mai finire, e così è vento sempre in questo
mondo.
Questo non si puote negare, che qualunque chosa è mossa sechondo loco sì muove
quella el quale loco
ochupa, e quella muove l'altra, e l'altra l'altra, e così infinito
sempre è vento: questo vedemo che
falle, qual è la cagione?
Risponde maestro
Alardo che 'l
movimento del vento è simile al
movimento
dell'acqua e
orbiculare, tornando alle volte alle parti ove
chomincia; alchuna volta
e
l'altro
fiere, el quale
movimento
inpedimentiscie e ritarda; e così à il
movimento
da una parte dell'aire e non si muove tutta, né un vento è continuo: sì cche il
movimento è
circhulare e ttorna al loco alle volte onde
comincia, sì cche ancora
ricieve inpedimento da altro vento, sì alle volte
debiliscie per l'aire, che à in lui
alcuna
sostengna, che a
ppocho a
ppocho perde
potenzia.
L. II, pt. 3, cap. 3d
Nel quarto capitolo si
domanda perché apresso la terra sono le
ventora che suso nell'aire, ch'è tal monte sopra la terra che per l'alteza nullo vento
vi fiata: maggior vento doverria essere nell'aire che nella terra,
massimamente per
lo molto
inpeto.
Risponde maestro
Alardo che questo è per la
speseza dell'aire che, dove è 'l
vento, overo che ssia vento
vaporoso,
umoroso, overo che ssia seccho, è mestieri
che ssia aiere spesso e grave, e per la graveza
fiere lungo la terra e non molto
ad
alto.
L. II, pt. 3, cap. 3eNella quinta parte si domanda onde vene al vento tanta furia e inpito
che atterra edifizia e sradica alberi e fa grandi pericoli.
Risponde mestro Alardo e dicie che lla terra è cavernosa, inella quale è molto
vento, onde recherendo bocca e uscita per venire al suo simile va cierchando per
le chaverne: quando truova uscita e l'uno aire spinge l'altro, onde nascie questo
enpito. Questo vedi sotto Montefiaschone, che 'l chomune vi spese molto a chavare
ché paria che fusse un gran fiume d'acqua in sono, e era vento, e fatto un picciolo
forame uscio parte con tanto enpito che l'omo cchacciò in terra.
E così sono manifeste le cinque cose che del vento s'adimandavano.
L. III
Detto d'alchune inpressioni fatte dall'aire seguita di dire del terzo trattato principale
del
libro, cioè delli
elimenti, delli quali la vostra sapienza
dischretamente e
saviamente in questo modo adimandò: "Noi udimo che ogni cosa che ssi vede e
toccha è chonposta di
quattro
elimenti;
adimando chome queste
elimenta sieno in
questo corpo conposte, e no
n mi
pare che vvi possano essere, che inpossibile
chosa è che cose contrarie possano insieme essere i
nn un loco, come e caldo e
freddo e umido e seccho, e sechondo più e meno che siemo conposti di
quattro
elimenti in ongni parte di noi averia in sé questa
contrariatà, la quale è inpossibile. E
Aristotile
dicie nel
libro delle
Predicamenta che lla sustanzia no
nn à
contrariatà.
Dunque
pare che lle
elementa non sieno nel chorpo conposto".
Rispondo che lle qualità delle
elementa sono insieme
chontrarie e ricievono più e
meno dalle qualitate
chontrarie: si nne puote formare meza qualitate, cioè che tiene il
mezo, come tiepido infra caldo e freddo e chome
palido infra 'l biancho e 'l nero,
che tiene natura di
ciaschuno
estremo; sicché lasciate le qualità
ecciellenti delle
elementa formasi d'esse una qualità tenente il mezo, la quale si fa e è propria qualità
del corpo
misto (et) conposto sechondo che
ll'
estremitadi si truovano nel mezo. E
non è p
er ciò in noi il mezo se no
n sechondo virtute: chome chaldo e freddo
sono inel tiepido, così le forme sustantiali delle
elementa nel conposto si salvano;
sono i
n le
chorpora
chonposte le forme e lle qualità delle prime
elementa non
sechondo atto a propia
essenzia ma sechondo virtute, e questo
dicie Aristotile nello
primo
libro
De generatione, che l'
elementa non sono inel corpo
chonposto
attualmente ma inn esso sta la virtù d'esse
elementa.
E chosì è soluta la quistione.
L. IV
In questo quarto trattato del
libro si tratta delle cose
elementate
disciendendo di
grado in grado:
primo, dell'acqua;
sechondo, della terra;
terzo, delli huomini;
quarto, delle fenmine;
quinto, delle fenmine e bruti animali
distinguendo
ciascheduna parte in diversi chapitoli.
L. IV, pt. 1Nella prima parte di questo trattato si tratta dell'aqua, della quale otto
cose s'adimanda:
primo, perché l'acqua del mare è salsa;
secondo, perché il mare trae e mette inanzi, overo che à corso e recorso;
terzo, perché l'entrata di tanti fiumi non chrescie il mare;
quarto, perché l'acqua del fiume non è salsa, che escie del mare;
quinto, come il chorso de' fiumi puote essere perpetuo;
sesto, per che natura e chagione l'acqua nascha inn alto loco;
settimo, se alchuno sono propi e veraci fonti;
ottavo, per che natura il vaso tutto forato di sotto, pieno d'acqua, se è ben
turato di sopra non escie goccia.
L. IV, pt. 1, cap. 1
Il primo chapitolo
adimanda perché l'acqua del
mare è salsa, e
spezialmente più quella del
mare
Occieano che l'altra.
Risponde il maestro
Alardo che questo è per lo chaldo del sole e de l'altre
pianete; di tutto il
mare e più dell'
Occieano perciò che 'l sole va più diritto sopra
esso, e questo è manifesto ché presa l'acqua d'esso
mare e posta al sole si fa forte
sale, inn altro
mare è mestieri in alchuna parte che ssi riponga al fuocho; e questo
dunque fa il chaldo, ch'è provato che alchuna acqua
dolcie stando molto al fuoco si
facie
sale.
L. IV, pt. 1, cap. 2Nel sechondo chapitolo s'adomanda che è chagione dell'acciesso e regresso
del mare.
Dichono alchuni che sono cierti schontrazi di bracci di mare chon inpito
chorrenti. Maestro Alardo dicie: «Bene concedo che questi schontrazi molto
adoperano a cciò ma non a soficienza e a bastanza perciò che, sse questo fusse, il
primo saria forte, il sechondo meno perciò che inpedimentito dal primo, e 'l terzo
più che meno: in tanto verria che non ne saria punto». Ma dicie che la potissima
causa è ll'ostachulo della terra e lla renverberazione de' monti, che non potendo
l'acqua mossa dal vento o da alchuno schontrazo andare inanzi per la terra torna
adietro e dietro truova simigliante l'altro ostachulo, et così è chontinovamente
perchossa.
L. IV, pt. 1, cap. 3
Lo terzo chapitolo
adimanda che, sechondo che 'l
volghare
dicie che
"ogni fiume
entra in mare", che è ciò che di ciò il mare non
chrescie.
Risponde maestro
Alardo che quelli che questo
dicie e' songnia, ché no
nn è
vero: bene ve n'
entrano maggior parte, e sechondo che v'
entrano così per
subterranei forami per altre parte n'
escie altretanto, e perciò non
chrescie.
L. IV, pt. 1, cap. 4Nel quarto capitolo si dichiara perché l'acqua del fiume, il quale
escie del mare salso, nnonn è salsa.
Risponde maestro Alardo: «La salseza del mare perde correndo sotto terra per
vertute della terra dolcerante essa».
L. IV, pt. 1, cap. 5Nel quinto chapitolo si manifesta ond'è tanta imfluenzia e abondanza
d'acqua che chontinovo chorre il fiume e non viene l'acqua meno: è questa acqua
infinita? Chon ciò sie chosa che ogni chosa chreata sia finita, com'ène?
Risponde maestro Alardo che quelli che ssì pensa ingniora et non sa la influenzia
dell'acque circhulare che entrasse da una parte e riuscisse da l'altra inn essa
medesima, e chosì e 'l fiume essendo da una parte del mare e entrando dall'altra.
L. IV, pt. 1, cap. 6
Nel
sesto chapitolo si muove una quistione e
dicie: "Vero è dell'acque
del piano che puote essere quello ch'è detto di sopra, ma del fiume
disciendente del
monte, e intorno à il piano senza acqua, e
escie continuo, onde vene?".
Risponde maestro
Alardo che puote essere che 'l fiume andando
sotterra vanno
pre
meati:
adiviene che per lo monte è el
meato aperto e intorno nel piano è lla
terra non
chonversa, sicché l'acqua
chostretta e sospetta dalla graveza della terra
seghuita,
sale per la chaverna del monte; e questo vedemo artificialmente
operare.
L. IV, pt. 1, cap. 7El settimo chapitolo chontiene "Chon ciò sie cosa, chosa che si è
detto, che l'acque fiuminale per via circhulare escie del mare e ritorna inn esso,
adimando se è alchuno naturale fonte da ssé".
Rispondo che ssì, che chome noi vedemo che 'l chorpo dell'uomo suda chosì la
terra inn alchuno locho, chresciente e abundante l'umore inn essa, umenta e goccia,
le quali goccie multiplichano da diverse parti, e ' locora multiplicano in fonte;
questo è sengnio che a tempo di state, che lla terra non à tanta 'midità, in alchuna
parte à neciessità di secchare.
L. IV, pt. 1, cap. 8
Nell'ultimo chapitolo s'
adimanda che è cciò che, sse
ll'acqua si mette
inn uno
vaso tutto di sotto forato e di sopra uno
pertuso, che, sse 'l
pertuso di
sopra si chiude e tura bene, che per li forami di sotto no
nn
escie punto
d'acqua.
Rispondo che, con
ciò sia cosa che tutto questo
sensibile
mondo sia
chomposto
di
quattro
elementa, essi sono in tanto naturale amore poste che
ll'uno sanza l'altro
stare non vuole, nullo luogo puote stare voto per essi, e inperciò chosì avaccio che
ll'uno si parte e
ll'altro inchontanente
subciede, e non si puote partire l'uno, per
naturale amore, se l'altro non vvi puote
entrare; dunque chiusa e turata l'
entrata
del succiedente, cioè dell'aire, non puote
essére il
recedente, cioè l'acqua, chon ciò
sie cosa che 'l loco che
llasciasse l'acqua non si puote riempiere d'aire, che no
nn
à donde
entri: che di sotto no, per l'acqua ch'è di sotto è otturato. E questo è
manifesto innel
vaso
chol quale si adacqua il
bassilicho.
E così sono manifeste le
otto cose che ss'adomandavano dell'acqua.
L. IV, pt. 2
Detto dell'acqua diremo della terra, della quale tre chose
principalmente
si possono adimandare:
la prima, per qual natura la terra si sostene in mezo dell'aire;
la seconda, se lla terra fusse tutta di sopra infin sotto forata, quanto andria
giuso la pietra i
nn esso foro gittata;
la terza, onde
nascono nella terra e tremuoti.
L. IV, pt. 2, cap. 1Nel primo chapitolo s'
adimanda, con
ciò
sie
chosa che intorno da ogni
parte della terra sia l'aire e lla terra sia sì grave e ponderosa e
sonvi suso tante
edificia, che
mantiene la terra esendo di sotto, di sopra e da llato l'aire? E l'aire
non, che noi vedemo che non puote tenere cosa grave, né
ll'acqua: che dunque è
che tiene la terra?
Rispondo che manifesta chosa è che lla
machina di questo
mondo è ritonda.
Ogni cosa
adimanda
locho simile alla sua natura
conveniente, le cose leve in suso e
lle gravi in giuso e in fondo, e quanto è più in fondo tanto la cosa grave più si
conserva e più è in suo loco convenevole, sechondo la quantità della graveza. Nel
corpo ritondo el più profondo
locho è il punto in mezo: come il più profondo
locho
dell'
uuovo è il
tuorllo, e nel
tuorllo è il punto
chonsiderato nel mezo del
tuorllo, il
qual punto si considera indivisibile per lo intelletto, così in tutto questo
mondo è
da
chonsiderare il punto in mezo, al quale
ciaschuna parte della terra per disiderio
naturale, sechondo ch'è chosa grave, volendo disciendere al suo loco
conveniente
sì si sforza di venire, e inperò intorno a quello punto
ciaschuna parte
premendosi el
mondo rimane fermo.
Ancora,
ciaschuna parte ama suo simile, e
ll'aire tira a ssé l'aire suo simile e
ll'acqua tira a ssé l'acqua e lla terra tira la terra, sicché per natura naturale
ciaschuna
chosa tira a ssé suo simile e
cchaccia da ssé il suo
chontrario, cioè quello che
no
nn è di sua natura; ond'è la terra cacciata dall'aire e dall'acqua per natura,
secondo che con suo simile
ciaschuna parte si
stringnie insieme.
L. IV, pt. 2, cap. 2El sechondo capitolo adomanda se fusse possibile che lla terra fusse
forata dall'una parte all'altra e gittassevisi una macina di pionbo o di pietra, quanto
andria giuso.
Rispondo che fino entro al mezo inperciò che, secondo che ogni natura ama e
seghuita il suo simile, chosì fuggie il suo contrario: a qualunque parte andasse
fore del mezo andria verso il contrario della sua natura, la quale è d'andare in giuso.
Nel mezo sta il punto del cientro del mondo, il quale è il più profondo: se esso è il
più profondo, dunque va fuore d'esso e va in suso, sechondo ch'è manifesto
nell'uovo che passando il mezo vai verso la coccia o garavoccio; chosì passando il
mezo della terra vai inverso il cielo, e il cielo sempre sta sopra della terra, chosì se
lla pietra passasse il mezo anderia in suso contra della sua natura che è d'andare in
giuso; e chosì non passeria il mezo.
L. IV, pt. 2, cap. 3
Nel terzo capitolo s'
adomanda onde
procciedono e naschono i
tremuoti: essendo la terra sì grave a
muoverlla e atterrare li
edificii, ond'è tanta
||
violença sì
inpetuosa?
R
espondo che, con
ciò sia cosa ke l'
aere ène vicino de la terra (et) la terra
sia
concavernosa (et) nullo loco sia voito, sotto
a la terra permane grande
quantità d'
aere, el quale per naturale desiderio desiderando de venire a
questo de fuore, venendo in pelle de la terra (et) adunandosi in grande
quantità, per força
inpetuosa volendo uscire (et) trovando obstaculo move
la terra; (et) tanto più quanto el loco è più
concavernoso l'
aere è più en
pelle.
L. IV, pt. 3
Decto de sopra de la terra ora seguita de dire d'alcune nature e
conpo
nitione de l'omo e de la femena comune; de li quali
xxviiij
interrogationi se fanno:
primo, perké l'omo non à corna come alcuni a
ni
mali;
seconda, come stano li
nerbora e le vene innel corpo de l'uomo;
terça, perké
coloro c'
àno buono ingengno
àno
mala retentiva;
quarto, per ke modo la fantasia, la rasgione (et) la memoria sia innel
cerebro;
quinto, perké
stae 'l naso sopra la bocca;
sexta, perké l'omo
incalvescie denançe;
septima, per qual natura udimo la
voce d'alcun homo;
octava, per qual natura la
voce passa ongne chiudenda quando va
a
l'udito;
nona, del viso;
decima, de lo spirto visivo, s'
elgli è s
ub
stantia o accidente;
undecima, come uno spirto in sì breve tempo vane infine
a le stelle;
duodecima, come quando l'occhio è chiuso lo spirto visivo non remane
de fuore;
xiij.a, come esso spirto mentre va et
torna non se
inpedimentescie;
xiiij.a, in ke rasgione l'a
ni
ma riceve le forme da lo spirto visivo;
xv.a, perké lo spirto visivo non receve
similitudine de la reverberatione
del
vetro biancho como da lo
specchio;
xvj.a, perké dal lume non se vede innello scuro come da lo scuro se vede
cosa k'è innel lume;
xvij.a, per qual natura odoramo,
gustamo (et)
toccamo;
xviij.a, per qual natura l'alegreçça ène casgione de
pianto;
xviiij.a, per qual natura d'una bocca esscie
fiato freddo (et) caldo;
xx.a, perké 'l
movimento del
ventilabra genera calore;
xxj.a, per qual natura la cosa calda, la qual non si puote sofferire in bocca,
(et) puoi k'è
golata se
soferiscie;
xxij.a, perké la palma e i
deta de le
mani non sono
uguali;
xxiij.a, perké incontenente ke l'omo è nato non anda come alcuno
anemale;
xxiiij.a, perké più tempo se
nutriscie l'omo de lacte ke le bestie;
xxv.a, perké 'l lacte non si
convene ai vecchi come ai
citoli;
xxvj.a, perké la proportione de le
elementa se
descorda innell'omo;
xxvij.a, perké l'omo se ciba sì spesso (et) li altri a
ni
mali, (et) quale ène la
casgione ke
a l'omo abisongna cibo;
xxviij.a, perké avemo paura de li ho
mini morti;
xxviiij.a, perké l'omo vivo vane a fondo
e
ll'acqua e 'l morto nota.
L. IV, pt. 3, cap. 1
In lo primo capitolo s'
adomanda, con
ciò sia cosa ke l'uomo
ène el più nobile a
ni
male ke veruno altro, perké a sua
defensione non à el
naturale istrumento, cioè le corna come alcune bestie,
colle quali se defenda,
overo la legiereçça come alcune altre
a le quali la natura à
negato ke non
l'abbiano,
a la quale
defensione
àno ke possano fugire.
R
esponde A
lardo: «
Credo ke l'omo sia più
caro a Dio (et) del quale la natura
più se cura ke veruno altro anemale: àe in loco de naturale arme, cioè di corna (et)
di
feroci denti (et) di grandi onghioni, la rat
io
ne (et) lo intellecto, per lo
quale
doma (et) signoreggia ongne a
ni
male et da tutte se
defende. (Et) se
questi naturali instrumenta avessaro li ho
mini, più spesse fiate fra loro
mortalmente se
offendariano k'ei non fanno».
L. IV, pt. 3, cap. 2
In lo secondo s'
adomanda in ke modo stanno ei
nerbi (et) le
vene in lo corpo de l'uomo.
R
espondo ke secondo ei savi fisici, (et)
experientia prova, ke stano
in tutto 'l corpo como rete sì ke veruna parte se porria dividere ke non se
recidessaro; (et) sono più
durevoli innell'animali, und'è provato, secondo in
carta sia, ke uno prese un corpo d'omo morto (et) posto in uno fiume tanto
vi stette ke tutta la carne (et) la
pelle se consumò (et) remasaro solo le
nerbora
(et) le vene.
L. IV, pt. 3, cap. 3
In lo terço s'
adomanda, con
ciò sia cosa ke la memoria sia
d'alcuna cosa inprima
emparata (et) recevuta da lo intellecto, perké
coloro ke
vaccio inparano male retengono (et) chi
tardi empara
retene bene.
R
esponde A
lardo ke l'a
ni
ma receve el corpo a sua operatione e
manifesta per diverse
membra, como ène manifesto; (et) perfectione
riceve mediante alcune
membra le quali sono
collocate in diverse parti del
corpo, come ingengno (et)
fantasico
moto (et) memoriale recordatione
innel cerebro, (et) lo intellecto nel
core. Onde l'omo prima intende,
secondo iudica de quello ke intende, (et) terço se ne fa memoria,
overo
comenda
a la memoria. Ma lo ingengno (et) la memoria sono in
potentia forte per diverse qualità, lo ingengno per humidità ma la
memoria per siccità, secondo ke per exemplo vedemo ke la cosa
molle
legiermente la ymagine del
sugello ve si forma (et) per la grande humidità
legiermente se struge, quello k'è secco (et)
duro difficilmente se guasta; così
chi
àne
humido el cerebro
àne buono ingengno ma in memoria s'
afatiga,
ma ki l'
àne secco
àne bona memoria e malo ingengno.
L. IV, pt. 3, cap. 4
In lo
iiij.o cap
itolo se demostra dove stane la memoria, la fantasia e
la rasgione overo el giudicio, el quale se chiama el senso comune inperciò ke
iudica de tutti le
sensora.
R
espondo ke Aristotile pone innel cerebro
tre celle: in quella dinançi ène
la fantasia, in quella de meçço ène la rascione overo el iudicio, in quella
derietro stane la memoria; e questo ène provato per diversi
lesione (et)
percussione
receute in quelli locora (et) perdute queste
potentie secondo
el loco percosso.
L. IV, pt. 3, cap. 5
In lo
v.o cap
itolo s'
adimanda, con
ciò sia cosa ke Dio sia
perfectissimo
artefico (et) maestro
e
llo quale ène somma
potentia, al quale
se
convene de operare non solo cosa utile,
veramente honesta (et) cortese,
perké el naso, del quale
escie tanto
fastidio, ène posto sopra la bocca, la quale
ène schifa: parria forse
ad alcuno più convenevole se la bocca fosse sopra 'l
naso.
R
espondo ke ongne cosa naturale è convenevole (et)
decevole (et) quello
k'è
contra natura, avengna ke
a li occhi alcuna fiada
paia
decevole,
considerata la rasgione molto se trova sconvenevole. La bocca e 'l naso non
sono principali
membra del corpo, sono forami necessarii a servire le
due
membra principali: la bocca serve
a lo
stomaco e 'l naso al cerebro; con
ciò
sia cosa che 'l cerebro ène humido per lo naso getta la superfluitate
sup
erh
abundante in esso, (et) lo
stomaco purga per lo canale de la bocca
superfluità leve
spumosa
exurgente per la
decotione
dei cibi: ma lo
stomaco
ène sotto al cerebro, così la bocca ène sotto al naso serventi a quelli così
ordenati.
L. IV, pt. 3, cap. 6
In lo
vj.o cap
itolo se
dimanda perké l'omo diventa
calbo
denançi (et) non derietro: con
ciò sia cosa ke l'omo sia più nobile denançi,
k'è manifesto perké la natura l'
àne più ornato che gli à posto tutte le
sensora,
dumqua ène sconvenevole cosa ke riceva
discinore del
perdimento
dei capelli
non
potendose sì ben coprire come derietro; (et) perké
canescie in
vechieçça.
R
espondo ke questo ène naturale (et) necessario ké lo
stomaco, recevuto el
cibo,
cocelo (et) la fumosità calda manda
a la bocca, (et) per alcuno
meato se ne
va parte al cerebro da la parte denançi k'è più presso al canale de la bocca, sì
ke per lo caldo ei pori de la carne (et) de la coccia del capo denançi sono più
aperti
che derietro, (et) questo se puote vedere
a la coccia del capo de l'uomo
morto; sì ke in processo de tempo è cascioni per l'apertione
dei pori
(et) de l'arçente caldo de
deradare (et) cadere ei capelli (et)
incalvare el
capo.
B
artolomeo dice ke l'omo diventa canuto in
vechieçça per la grande
humidità del cerebro, la quale
rafredandose in lo vechio el calore naturale non
puote essa humidità superflua consumare,
adevene ke
inputrescie enfra la
codenna e 'l
coccio, la quale putrefactione
resulta
innei capelli (et) in la
barba; (et) però
adevene più nel capo ke altro' però ke in esso habunda più
humidità per casgione del cerebro ke in altra parte del corpo.
L. IV, pt. 3, cap. 7In lo
vij.o cap
itolo s'
adimanda per qual natura udimo la
voce:
con
ciò sia cosa ke la
voce sia
aere, (et) l'
aere è corpo, e 'l corpo indiviso,
inpossibile ène ke possa essere in diversi locora, dumqua come una
voce resona
in diverse
urecchie, ke sono diverse locora? Ke se questo ène
segueta questo
inpossibile, ke un corpo indiviso sia in diversi locora.
R
esponde el phylosofo ke l'
aere percosso de la lingua formato in
voce
infra i labri e i denti percote el proximo
aere fore de la bocca (et)
dàlli la sua
forma, (et) quello percote l'altro, (et) così tutto l'
aere intorno, secondo la
potença de la
inpulsione del primo
aere formato in
voce, se ne
rempie,
(et) così ène una
voce quanto
a la forma ma molte
voci quanto
a la materia, et
così non è un corpo ma molti corpora. (Et) fa l'una
voce formando l'altra come
la petra gettata in una fonte, ke innell'acqua genera un
cierchio (et) quello
genera l'altro (et) così molti se ne generano secondo la percussione
grande (et)
picciola, (et) avengna ke tutti abbiano una forma de
cerchio no
nn
è però un
cerchio ma molti; (et) così ène innella
voce.
L. IV, pt. 3, cap. 8In questo viij.o capitolo se puote formare una forte questione,
(et) dice: "Decto ène de sopra ke la voce ène aere percosso cum
ymaginatione formato de naturali istrumenti, (et) alora ode l'omo la voce
quando l'aere percosso così formato vene a l'orecchie de l'uditore. Adimando
in ke modo quelli ke stesse serrato in una botte de ferro o de metallo odiria, se
l'aere del parladore non puote andare a lui".
Respondo ke ongne corpo metallico ène alcuno modo poroso, per li quali
pori la sottile parte de l'aere puote passare (et) per questo puote udire, ke se
non potesse passare inpossibile cosa saria a odire con ciò sia cosa ke ongne
cosa ke se percepe ène perceputa per inmediata congiontione de la cosa
perceputa a quella ke àne a percipere.
L. IV, pt. 3, cap. 9
Decto de l'
audito è da dire in questo
viiij.o cap
itolo del viso, del
quale sono tre oppinioni.
L. IV, pt. 3, cap. 9aL'una oppinione si ène ke dissaro alcuni phylosofi ke
innell'organo del viso ène uno spirto visivo vitale, e questo spirto esscie fore
ad
informarse de la cosa visiva e vae infine
a la cosa
colorata, e
recievuta la spetie e
la
similitudine retorna e questa
similitudine recevuta ministra
a l'altre
vertute.
A questo decto
contrastae maestro
Alardo (et)
dice ke se questo fosse
avaria alcuna fiata ' essere informato de contrarii
colori insieme, ke
prendaria
colore bianco (et)
neiro insieme secondo ke lo trovasse al
termene
duve vae, (et) cose contrarie in una cosa insieme essere non
possono.
L. IV, pt. 3, cap. 9bLa seconda opinione ène ke questo spirto decto vane
infine a meçça via, (et) la spetie de la cosa
colorata per vertù de l'
aere
illuminato sì li se fane incontra, (et) recevuta questa spetie retorna esso
spirto visivo
a l'organo de l'occhio (et) representa quella spetie
a lo intellecto,
informata prima innell'occhio.
(Et) questa opinione tene esso per fermo, la quale per mio iudicio la reputo
falsissima, (et) questo se mostra inpossibile per tre cose: inprima
considerando l'organo de l'occhio ke remane, secondo considerando lo
spirto visivo k'è messo a prendare la cosa visiva, (et) terço considerando la
cosa appresa per quello spirto.
Primo, considerando l'organo remanente (et)
mettente lo spirto a
prendare la cosa visiva ke, se questo fosse vero, infra quello meçço,
mentre vae (et) vene,
remarria non informato (et) non ve
demorria nulla cosa
infine ke non fosse tornato; ma questo vedemo
ad occhi k'è falso.
Secondo, se consideramo lo spirto mandato a recevare la forma ke,
con
ciò sia cosa ke sia bisongno k'elli sia sottilissimo essendo invisibile, se
ponemo ke sia vero, essendo falso, (et) la cosa semplice in acto in un ponto
d'una cosa sola se informa (et) così non potemo vedere se non solo quella
cosa ond'ène informata (et) più prossimana; ma visibilmente appare el
contrario, ke insieme vedemo el biancho e 'l nero.
Terço, considerando la cosa appresa ke, se la spetie biancha se fa
incontra a esso spirto, (et) così li altri
colori, (et) così molti contrarii
colori se
inpremarieno in una cosa semplice, secondo k'elli medesmo
pose per
inpossibile de sopra.
(Et) inperò per queste tre cose decte, (et) molte altre de le quali
toccaremo derietro, salva la sua
reverentia e 'l milgliore iudicio non veggo ke
possa stare.
L. IV, pt. 3, cap. 9c
La terça oppinione, la quale
pare ke se
confermi per
Aristotile, ène ke la cosa
colorata ke se vede multiplica la spetie sua per lo corpo
diafano, cioè per l'
aere k'è rado (et) trasparente, per vertute del lume infine
a l'occhio. Innell'occhio ène uno
homore
cristallino sença veruno
colore, (et)
reluce como
specchio, ke se non è
inpedimentito per alcuno grosso homore
ongne forma
colorata receve; dico ke quello homore è sença
colore in sé, ke se
fosse
colorato in sé non
recevaria ongne varietà de
colore se non quello del
quale fosse
naturalmente informato: unde adivene come el
vetro ke, se fosse
nero o
vermelglio, ongne cosa ke ve mettesse parria nera o
vermelglia. Così
ène l'occhio come lo
specchio, ke ongne cosa ke gli è presente essendo
illuminata se reluce in esso, (et) questo se vede
manifestamente se guardi la
pupilla d'alcuno, o de h
omo o de bestia, ke ve
vedaria entro la tua faccia come
in lo
specchio.
Onde nota ke
quatro cose se
convengono a vedere: primo, cosa
colorata;
secondo, l'
aere per lo quale
multiplica (et) passa la spetie; terço, el lume per
vertute del quale se
conduce quella spetie; quarto, l'organo de l'occhio pulito
(et)
expedito.
L. IV, pt. 3, cap. 10
In lo
x.o cap
itolo s'
adimanda se quello spirto visivo ke vane al
colore secondo la
erronica oppinione del predecto maestro ène
s
ub
stantia overo accidente, (et) provo k'ène s
ub
stantia ponendo la sua
oppinione.
(Et) questo potemo provare per
due rasgioni: la prima ène considerando
el
movimento, la seconda ène considerando la s
ua essentia. Quanto
a la
prima parte se pruova in questo modo: ongne cosa la quale in propria
potentia se move ène sustantia, quello spirto in propria
potentia vane e
torna, domqua ène s
ub
stantia. Secondo se prova in questo modo:
ongne cosa ke
stae per sé ène sub
stantia,
quello spirito mentacie va e viene e
sta per sé, dunque è substanzia.
Tuttora queste sono
false oppinioni secondo ke decto ène: non è in
questo modo spirto ke
esca fore (et) così non se move per sé, secondo la
prima rascione, (et) così non
stae per sé, secondo la seconda
probatione.
Et
devete notare ke se noi prendemo lo spirto visivo per la vertude visiva,
la quale ène in quello homore
cristallino
incolorato, potemo
veramente
respondare k'ène accidente, cum ciò sia
cosa ke riceva alteratione (et)
varietate variato l'organo e 'l fondamento là
due stane, (et) per sé non
possa essere; unde
dice 'l phylosofo nel
libro
De l'anima ke se 'l vechio
overo l'uomo antico avesse l'occhio del giovane
vedaria come el giovane.
(Et) inperò questa vertù
vesiva ène accidente come l'altre vertude ke
sono in lo corpo (et) in l'anema.
L. IV, pt. 3, cap. 11
In lo
xj.o cap
itolo se
domanda, posto lo spirto visivo k'è
spirto, come in sì breve tempo vane infino
a le stelle.
La responsione verace se fosse spirto, ma ène falso, si ène in lo tractato de
li angioli, ke 'l
movimento de li spiriti ène per
contacto di vertude sì ke
in ponto sono
duve volgliono sença
spatio quasi de tempo.
Ma la verità ène in lo cap
itolo del viso ke, come
e
llo
specchio sença
spatio
di tempo sì se representa (et) reluce ongne cosa ke lli è denançi, così in lo
viso come in lo
specchio reluce ongne cosa presente.
L. IV, pt. 3, cap. 12In lo xij.o capitolo se demanda, quando l'occhio ène chiuso, ke è
ciò ke lo spirto non remane de fuore.
Respondo ke ongne cosa spirituale passa ongne obstaculo, onde se
l'anima fosse in una fondata sì ne uscirea se non fosse constrecta da Dio;
onde così v'entra essendo chiuso come aperto.
(Et) io dico ke questo ène sengno ke non è spirto, ke se questo fusse
vedaria così a chiusi occhi come aperti essendo informato lo spirto visivo da
la cosa visibile.
L. IV, pt. 3, cap. 13
In lo
xiij.o cap
itolo se
dimanda come esso spirto, mentre ke vae
(et) vene, non riceve inpedimento nella via.
R
espondo: essendo cosa spirituale, per la quale lo spirto non se puote
inpedimentire da corporale, ongne cosa ke puote trovare mentre ke vae (et)
vene ène corporale, (et) così non puote recevare inpedimento.
L. IV, pt. 3, cap. 14In lo xiiij.o capitolo se dimanda in ke modo l'anima receve le
forme prese da lo spirto de le cose visive, (et) dice ke lo spirto così informato
representa le forme al senso comune, e 'l senso comune a la fantasia, (et) la
fantasia a lo intellecto, (et) lo intellecto a l'anima.
(Et) questo è vero, remosso lo spirto predecto, ke la vertute visiva
enformata de la cosa visibile enforma el senso comune, ke però è decto
"comune" ke iudica infra tutte le sensora; (et) discerne el senso comune (et)
informa la memoria e llì conserva; la memoria informata informa la
fantasia o l'estimativa, la quale sì dipurga la forma appresa da ongne
condictione materiale (et) in questo modo informa lo intellecto
possibile per vertù de lo intellecto agente, (et) questo intellecto informato
informa l'anima.
L. IV, pt. 3, cap. 15
In lo
xv.o cap
itolo s'
adimanda perké non se vede la figura
innel
vetro come nello
specchio.
R
espondo: el
vetro è corpo trasparente, non ce puote essere
reverberatione però ke passa la forma k'è dinançi, lo
specchio
àne
obstaculo del piombo sì ke non passa la forma ke dinançi li è posta (et) però
reverbera;
en l'acqua simelmente se fondo non avesse non se
vedaria
forma veruna, però k'è cosa trasparente non se porria fare
reverberatione.
L. IV, pt. 3, cap. 16In lo xvj.o capitolo s'adimanda perké stando al lume non se
vede cosa ke sia nello scuro, come de lo scuro se vede la cosa k'è al lume.
Dicendo el maestro Alardo molte parole, la somma verità è questo, ke
secondo ke decto ène la forma de la cosa visibile è mestieri ke sia
illuminata, (et) per vertute del lume la spetie de la cosa visibile se multiplica
(et) se conduce per l'aere in meçço existente infine a l'occhio: sì ke la cosa
non essendo illuminata non se puote vedere, (et) così la cosa k'è al lume se
puote vedere da lo scuro però k'è illuminata, la cosa k'è a lo scuro non se
puote vedere dal lume però ke non è illuminata.
L. IV, pt. 3, cap. 17
In lo
xvij.o cap
itolo s'
adimanda per qual natura toccamo,
gustamo (et) odoramo.
L. IV, pt. 3, cap. 17aQuanto a la prima cosa, cioè al tacto, è da sapere ke
secondo ke decto fo de sopra innell'omo sono le nervora come rete,
(et) per vertude d'esse avemo questo senso del tacto, ké per esso toccamo
per meçço naturale, cioè la carne, (et) avemo questo senso per tutto el corpo;
tutti li altri àno parte determinata. (Et) àne in sé questo senso forme (et)
qualitate temperate (et) non prende se no quello ke passi sua qualità in
frigideçça, calideçça, dureçça, molleçça, aspreçça, pianeçça, graveçça, leveçça,
secheçça, humedeçça. (Et) inperò ke l'omo à più temperata conplexione
ke veruno animale à milgliore tacto, (et) in esso la palma da la parte
derietro, (et) d'essa la sumità de le deta, (et) d'essi deta el deto anulare in
sumitate; (et) inperò i periti medici usano de toccare ei malori con esso.
(Et) queste cose decte de sopra dice Aristotile in lo secondo libro De
l'anima
L. IV, pt. 3, cap. 17b
El gusto ène in sumitate de la lingua (et) ène
nerbo coperto
de carne spongiosa, e 'l sapore el quale prende ène
vapore
saporito overo
odorifero: qualunque fiata esso
vapore se congiunge con la saliva, o
humiditate
salivare,
entra per quella spongiosa carne la quale ène in
sommità de la lengua, rende sapore
a lo spirto k'è innel
nervo dentro, (et)
inperò se la humidità
salivare ène
infecta d'amaritudine di
colera el gusto
iudica la cosa
dolce amara, però ke se
inmuta el
vapore saporito et adunase
cum la saliva, come ène manifesto in lo infermo.
Onde questo senso quasi
àne
doi meççi, cioè la carne spongiosa (et) la
humidità
salivare.
L. IV, pt. 3, cap. 17c
L'
odorato stane sopra el naso infra
ambedue le
celglia, (et)
sono
due
carnicole, (et) sono simile a
doe capita de
mamille overo
pocciole, (et)
pendono dal cerebro. (Et) l'odore, lo quale receve lo spirto
odorabile, innella
cosa nella quale ène se chiama odore, innel meçço, quando vene
a l'
odorato,
ène fumo overo
vapore resoluto (et) tracto de la cosa odorifera dal caldo; (et)
questa ène la casgione ke la cosa
hodorifera, come el pomo, molto spesse fiade
odorato diventa puçulente, inperò ke li homori
conservativi de la cosa (et)
de l'odore per l'
odoratione si traggono; (et) de
state rendono le cose magiure
odore ke di verno a casgione ke 'l caldo più trae. (Et) inperò ke 'l cerebro è
frigido, quanto l'anemale n'à più secondo sé (et) quelle
carnicole sono
più apresso d'esso tanto peggio odora, (et) inperò ke l'uomo
àne molto
cerebro secondo la grandeçça (et) la sua quantità, (et) le decte
carnicole li
sono apresso, come
dice 'l phylosofo peggio odora ke altro a
ni
male; el
cane,
perk'elli le
àne
e
llo naso bene da la longa dal cerebro
àne
mirabile
odorato, come
prova la
experientia.
L. IV, pt. 3, cap. 17d
Decto de le
.v. sensora,
adimandase perké sono tanto
.v. (et)
non più né meno.
R
espondo ke questo puote essere per
.v. elementi ei quali sono meçço di
questi
sensora, ke non sono più de
.v.. El viso se
semilglia al fuoco inperò ke 'l
meçço del viso per ke vedemo ène el lume, ké sença splendore (et) lume
vedere non potemo; l'udito se prende per l'
aere el quale ène suo meçço, ké
mediante l'
aere
udemo; el gusto per l'acqua ké, como decto ène, p
er la
umiditate
salivare
gustiamo; el
tacto apartene
a la terra inperò ke 'l meçço
perké
toccamo è la carne,
ch'è terra, (et) ongne cosa ke noi toccamo
àne
propetà terrea, cioè solidità
e fermeçça; (et) de ciò
dice
Plato
m
angnio
filosofo ke mediante el fuoco,
cioè splendore, vedemo, secondo ke
mediante
la terra, cioè solidità (et)
fermeçça, toccamo; l'
odorato apartene al
quinto
elemento, cioè al
vapore, ké avengna ke l'odore per
inmutatione
de l'
aere se possa prendare sença
dissolutione (et) venire
a l'
odorato
secondo ke 'l
colore al viso, ma per tanto più spesse fiade se resolve.
(Et) è decto el
vapore quinto
elemento però ke da esso molte cose se
creano (et) conservano (et) ène principio de molte cose, ké 'l
vapore ke se
leva sopra la terra ène principio de venti, de
corruscatione, de troni, de le
petre fulmine, de nubili (et) de molte altre cose innell'
aere, come sono stelle comate
ke
pare ke cagiano: quelli sono
vapori; quelli
vapori ke stano sotto terra
rescaldano le fonti de verno, sono principio de terremoti (et) d'essi se
generano le corpora mineria, cioè quelle cose ke se cavano, come
solfo, ke
scaldano le bagnora, pietre (et) argento vivo, (et) tutti li altri
metalli, le plante,
l'
erbe (et) molte altre cose.
Questo
vapore è decto meçço
elemento però ke tene meçço infra
l'acqua (et) l'
aere (et) nasce da essi, (et) ène
questo quinto
elemento più
sottile de l'acqua (et) più grosso de l'
aere. (Et) inperò ke non sono più
elementa ke possano servire a più
sensora non sono più sensi.
L. IV, pt. 3, cap. 18
In lo
xviij.o cap
itolo s'
adimanda per qual natura l'alegreçça è
casgione de
pianto, cioè ke quando l'uomo
àne una grande alegreçça, come
del filgliuolo o del fratello ke longo tempo non l'à veduto, ke quando el vede
si piange; (et) questo più ène innel vechi ke innel giovani.
R
esponde maestro
Alardo ke questo ène per
dissolutione (et)
resolutione de li omori, ké l'alegreçça sciampia el
core (et) manda li ardori
del desiderio per tutti li spiriti (et)
membra, sì ke per questa fiamma si fa
(et) genera grande resolutione de li omori.
(Et) trovase innelle
Storie scolastice ke quando el filgliuolo de
Tito udio
ke 'l padre avia venta Ierusalem volendo
diventicare la
morte del nostro
signore, per la grande alegreçça fo tanta la resolutione de li omori (et)
dissolutione
membrali ke deventoe paralitico; (et) per grande tristitia,
k'ène el suo contrario, se
resanò.
L. IV, pt. 3, cap. 19
In lo
xviiij.o cap
itolo se
dimanda per qual natura d'una bocca
esscie
fiato freddo (et) caldo.
R
espondo ke 'l
core ène
receptaculo (et) principio del calore naturale,
però ke, secondo ke
dice Aristotile, el
core ène principio (et) vena del
sangue; sì ke, essendo
membro nobilissimo et morbido, la natura a
refrenatione del caldo
àne ordenato el polmone,
che come mantacho e
chontinovamente si sbattono due alie ch'à il polmone intorno al
core recevente
l'aire fresco, e 'l
core se apre (et) manda da sé l'aire inprima recevuto e
reprende el fresco; sì ke venendo
a la bocca s'ei se manda sença obstaculo,
ke non se chiuda, vene caldo, ma se se intercide infra le labra remane
debile
(et) sottile (et) prende
temperamento (et) refrigerio in questo
aere; (et)
essendo
aspento fae vento, ké vento non è altro se non
voce,
aere
inpulso, (et) ongne vento ène freddo (et) così esso ène freddo.
L. IV, pt. 3, cap. 20
In lo
xx.o cap
itolo s'
ademanda perké
ventillandose
o
rostandosi alcuna
persona, in lui se genera magiur calore
reposato de
ventillare.
R
espondo ke ongne
contrario si vigorescie incontra del suo con
trario
per iscacciarlo (et)
fugarlo da sé sì ke,
essendo il vento freddo el quale
face
la rosta overo el
ventilabro, el calore
den
tro si invigorescie per non
perire (et) così s'
ingenera magiur caldo, com'ène exemplo in la fucina del
fabro ke l'acqua gittata in essa moderatamente non solo
resparamia ei
carboni ma
invigorescie (et) rescalda più la fucina.
L. IV, pt. 3, cap. 21
In lo
xxj.o cap
itolo se
dimanda per qual natura la cosa calda ke
non se puote soferire in bocca (et)
gollata si
soferiscie.
R
espondo per tre rasgioni: l'una si ène ke la bocca ène termino de l'
aere
caldo usciente dal
core, sì ke ongne simile desidera quanto più de
vaccio puote
de pervenire al suo simile, sì ke alcuno
reposamento se fa d'esso caldo più
e
lla bocca ke altroe in uscire.
La seconda rasgione si è ke in la bocca ène el senso del gusto el quale,
secondo ke decto ène, stane nel
nerbo sotto carne spongiosa, sì che 'l
caldo più vaccio passa verso del palato: ène per la nudità de la carne ke
'l
caldo de
vaccio gionge al
nerbo innel quale ène el senso del
tacto.
La terça rasgione ène per meno humidità k'è in bocca (et) per la più k'è da
la bocca in giuso, sì che 'l cibo receve
temperamento, el quale recevuto
perde del caldo.
L. IV, pt. 3, cap. 22
In lo
xxij.o cap
itolo se
dimanda perké le
deta de la mano non
sono
uguali, ke l'uno è longo (et) l'altro è
corto, (et) la palma no
nn è
uguale né
piana.
R
espondo: la natura sagace sempre adopera quello ke più ène sua
utilità in
conservatione d'essa, unde se le
deta de la mano fossaro
uguali (et) la palma
piana la mano non se
actuaria, (et) così non porria l'omo con essa bere
quando gionge
ad alcuna fonte sença
extraneo istrumento; (et) a molte altre
cose è utile la
atteçça d'essa mano secondo k'è manifesto
pensandove.
L. IV, pt. 3, cap. 23
In lo
xxiij.o cap
itolo se
dimanda perké l'omo non anda
incontenente k'ei nasce, como alcuno a
ni
male, avendo le
membra (et) le
istrumenta a cciò conpiute come li altri a
ni
mali.
R
espondo ke questo adivene per la
morbedeçça (et)
tenereçça de la
materia, ke l'omo sopra tutti li a
ni
mali
àne più morbida (et) più nobile
materia (et) carne secondo sé. (Et) questo se puote provare per lo
decto de
Plato grande filosofo, el quale
dice «El
datore de le forme», cioè de
l'a
ni
me, «a
ciascuno
dae la forma secondo la
dispositione de la materia,
(et) quanto ène più nobile la forma tanto ène più nobile la materia». Se
manifesta cosa ène ke l'a
ni
ma humana ène più nobile forma ke sia infra tutte
le
creature, inperò k'
àne tutte le perfectioni como l'altre a
ni
me (et)
sopra d'esse
àne lo intellecto rationale, ke non l'àe veruno a
ni
male, (et)
però àe più nobile (et) morbida
conplexione (et) natura, (et) per la
tenereçça
le
membra sono private de l'uso de la propria operatione infino a
tempo
determinato ke ricevono solidità (et)
fermeçça.
L. IV, pt. 3, cap. 24
In lo
xxiiij.o cap
itolo s'
adimanda per qual natura l'omo più
tempo se nutrisce de lacte ke altro a
ni
male.
R
espondo ke, secondo ke decto ène de sopra
inmediate, sopra tutti
li a
ni
mali l'omo
àne più nobile materia (et) più morbide
istr
umenta, onde
l'omo pungna più a mettare ei denti (et) a
formarli ke nullo a
ni
male, (et)
così la nobilità (et) la
tenereçça de la materia ène casgione de più tempo
suggere.
L. IV, pt. 3, cap. 25In lo xxv.o capitolo se dimanda perché el lacte non se dae così
ai vechi come ai giovani, con ciò sia cosa ke pare che i vecchi tornino en senno
citolino per lo defecto materiale, sença l'aiutorio del quale l'anima non
puote usare sua vertute.
Respondo che 'l lacte non solo se dae a sostentare la natura ma àne per un
modo fervente a nutricare (et) augmentare (et) acresciare, ké ello ène
convertibile sença modo. (Et) essendo el lacte humido e i vechi humidi, in
essi s'acresciaria nociva humidità, non avendo calore acto a digerere essa
humidità, (et) così cadaria in nocevoli homori. Innei citoli ène calideçça k'àe a
paidire e consumare la humidità (et) la superfluità de li homori habundanti
in essi, (et) con tutto ciò sì li viene el lactime, k'ène soprahabundantia
d'omori; ma el vechio ène frigido (et) humido, non è acto in natura di potere
paidire la humidità non solo accidentale ma la naturale, (et) inperò
incanutiscie e inmarciscie.
L. IV, pt. 3, cap. 26
In lo
xxvj.o cap
itolo s'
adimanda perké la proportione de
elementa se
discorda in l'omo.
R
espondo k'ène da notare ke in
ciascuno h
omo sono
quatro homori, in li
quali sono
dispositioni relicte da
iiij.o elementa (et) tengono la loro
proprietà (et) passione, (et)
àno
convenença con
quatro tempi de l'
anno
(et) cum
quatro
etate, cioè sangue,
colera, flemma (et) melenconia.
E 'l sangue ène
homore ke
àne qualità (et)
convenientia cum l'
aere, k'ène
elemento, cum la primavera, k'ène tempo, (et) cum la
infantia, k'ène
etate. Tutte
quatro queste cose sono
callide (et)
humide.
Colera ène humore c'
àne qualità
conveniente col foco, k'ène
elemento,
con la
state, k'è tempo, con la pueritia, k'è
etate. Tutte
quatro queste cose
sono
callide (et)
secche.
Flemma ène humore k'
àne qualità (et)
convenientia con l'acqua, k'è
elemento, con lo verno, k'è tempo, con la
vechieçça, k'è
etate. Tutte
quatro
queste cose sono frigide (et)
humide.
Malanconia ène humore c'
àne qualità
conveniente
a la terra, k'è
elemento,
a l'autunno, k'è tempo,
a la iuventute, k'è
etate.
Ciascuna de queste
quatro è
frigida (et) secca.
Unde, secondo ke queste
quatro
elementa sono contrarie, come 'l
fuoco k'è caldo (et) secco, l'acqua k'è frigida (et) humida, l'
aere k'è calda (et)
humida, la terra k'è frigida e secca, così le qualitate de l'uno homore c'à
convenientia cum l'uno
elemento sono contrarie a le qualità de l'altro
humore k'
àne
convenientia con l'altro
elemento contrario a quello; e 'l
contrario sempre
conbatte inverso del suo contrario
volendolo cacciare
da sé, (et) in questo modo ène
continua pugna naturale.
Enterviene
a le fiate
ke, per alcuno cibo preso, ke l'omore innel quale se
converte più el cibo
receve tanto vigore (et) alteratione ke
soprastae
a li altri (et)
discordase da essi;
overo per freddo o per accendimento de caldo, o per varietate de
etade,
secondo le
similitudine decte de sopra. (Et) in questo modo naturale (et)
accidentale seguita corruptione (et)
dissolutione innell'a
ni
male, per
pugna naturale (et)
agiongimento accidentale.
L. IV, pt. 3, cap. 27
In lo
xxvij.o cap
itolo s'
adimanda perké l'omo (et) li altri
a
ni
mali se cibano
continuamente.
R
espondo ke 'l caldo naturale
continuamente conbatte innel umido
radicale, onde, secondo ke lo
elemento del fuoco passa in sua qualità (et)
operatione tutte l'altre
elementa inperò ke tutti esso trasmuta de qualità
remanente esse, com'è manifesto de l'acqua k'è in proprietà frigida e 'l
fuoco la rescalda
remanenta acqua, ma el foco mai de propria qualità non se
puote mutare remanente foco, così el calore naturale ène più forte in ongne
operatione ke verun'altra qualità; onde, secondo ke 'l foco ardendo
rescalda, (et) rescaldando
desecca,
deseccando arde, ardendo
converte,
convertendo consuma, così el caldo naturale adopera inverso de l'umido
radicale; (et) inperò ke l'actione (et) operatione d'esso calore naturale
àne repente operatione sopra de l'umido,
a la quale operatione non
essendo sufficiente a contrastare l'umido
radicale abisongna l'umido
accidentale, cioè el cibo e 'l
poto. (Et) questo ène quando l'omo è
cresciuto
tanto k'è bastevole, ma infin'
entre a quell'ora abisongna ancho a
cresciare ke faccia la terça digestione (et)
decoctione: se
converte parte in
simile.
L. IV, pt. 3, cap. 28
In lo
xxviij.o cap
itolo se
dimanda perké ongne a
ni
male àe
paura se alcuno de sua spetie truova morto, (et) non d'altra spetie, come l'omo
se trova morto l'omo, cavallo el cavallo, (et) così de li altri.
R
espondo ke la cosa ke più s'ama più se teme de perdare: sopra tutte le
cose del
mondo ke più s'ami
naturalmente da ongne a
ni
male si è la vita, ke
ongne cosa ke l'omo adopera fa per bene vivare,
mutatione de cibi in
diversi tempora (et) de vestimenta, (et) aquisti; dumqua el suo apposito e
contrario perk'ei tolglie (et) priva la vita più se teme, (et) questo ène la
morte k'è privatione de vita, (et) de ciò
dice Aristotile ke la
morte ène fine de
tutte le terribili cose; ke vedendo l'omo, overo altro a
ni
male, alcuno de
sua spetie morto pensa de la privatione de la vita sua, cioè de la sua
morte, (et) così molto teme però ke la vita molto ama, se vede d'altra spetie per
la grande diversità ke ène infra l'una spetie (et) l'altra non se
recorda de
sé né de la
morte sua, (et) così non à paura.
L. IV, pt. 3, cap. 29
In lo
xxviiij.o cap
itolo s'
adimanda per qual natura l'omo vivo
vae a fondo e 'l morto nota con
ciò sia cosa ke
deveria essere el contrario
ké per
carença de li spiriti naturali k'àe sempre a traere in alto più ène
grave el morto ke 'l vivo, (et) così
deveria andare più vaccio a fondo.
R
espondo ke questo ène per casgione del
fele k'ène humore
malencolico
(et) in vertù (et) in effecto gravissimo; unde, secondo ke la vertute unita
(et) congregata insieme ène magiure ke sparsa, como se vede
ad occhi, ké
magiur caldo el foco innel forno
dae ke non fa s'elli ène
spaso innella piaçça, e
così mentre ke 'l
fele ène
intero, etiamdio poi k'ène morto l'omo, però k'è
humore gravissimo l'omo
stae a fondo, ke se l'omo non avesse
fele non
porria afondare, ma però ke 'l
fele se rompe (et) spargese per lo corpo (et)
per l'acqua l'omo morto nota, inperò ke 'l
fele
àne perduta la vertute (et)
la proprietà sua.
L. IV, pt. 3, cap. 30
Per qual natura, se 'l lupo sguarda inançi
a l'omo ke l'omo
ad
esso, gridando l'omo incontenente
afioca overo
arouca.
R
espondo: infra li altri a
ni
mali ke sieno innei quali
habundi humidità
in lo lupo habunda più, (et) però vedete ke veruno a
ni
male
incanutiscie se
non el lupo, avengna ke non sia ben propria
canuteçça; (et)
maximamente
in lui habunda humidità in la testa in tanta quantità ke 'l priva d'un
senso, cioè de l'
odorato, ke non sente ponto per odorato; (et) questa ène la
casgione perké urla, acciò ke i cani sentendo lui urlare
abaino, (et) per lo
abaiare el lupo sente in qual parte stano le pecore per l'odito. Sì ke l'omo
sguardando al lupo,
inbattonsi li occhi de l'omo con quelli del lupo ke sono
humidissimi: incontenente la natura trae a simile (et) per paura repente el
calore naturale fugendo al
core l'
estremitate remangono fredde, sì ke la
humiditate ène in sua
potissima vertute
confortata de fuore (et) dentro.
Questa rasgione si ène naturale.
Puoteve essere un'altra rasgione, ke
puote avenire per grande sforçamento angustioso (et)
paurevole sì ke la
voce
de ciò
acatarra.
Ma quando l'omo vede prima el lupo prende più
scigurtà, ke forse el
puote fugire se vole,
ynmagina innançi ke gridi.
L. IV, pt. 4
Decto de sopra de le proprietati (et) nature comuni
a l'omo (et)
a la
femena, seguita ora de le
propietati proprie (et) spetiali. (Et) de ciò se fano
viiij.e ademandasgioni:
la prima, perké la femena
àne più grosse le fondamenta, cioè le gambe (et)
le coscie, ke l'omo;
el secondo, perké li omini sono
pelosi (et) le femene sença peli;
terço, perké la femena
àne la casgione così en
pronto (et) l'omo no;
quarto, perké 'l primo
conselglio de la femena è melglio de li altri;
quinto, perké sença mesura la femena ama (et) inodia, àe
crudeltà (et)
misericordia, (et) l'omo no;
sexto, perké non puote tenere le secrete a liei decte, (et) l'omo sìe;
septimo, perké
àne sì grande voluntà de sapere alcuna cosa secreta;
octavo, perké la vechia quando comença a luxuriare fa peggio (et) più se
delecta de la giovane;
nono, perké la femena giace con lo leproso o
malacto, a lei non offende
e 'l primo h
omo ke usa con lei deventa leproso;
decimo, perké la femena non permane in stabilitate.
L. IV, pt. 4, cap. 1
In lo primo cap
itolo s'
ademanda perké la femena à più grosse le
gambe (et) le coscie ke l'omo.
R
espondo: per la frigideçça (et) humiditate ke habunda più in lei ke in
l'omo; onde vedete ke l'arbore
àne el pedone, el
tronco, grosso però ke
abonda più in humidità (et) frigidità però ke
stae longo la terra, (et) le
ramora,
ke sono
remosse da la terra (et) stano in
aere verso el caldo (et) non
habundano sì in
humiditate, sono sottili.
L. IV, pt. 4, cap. 2In lo ij.o capitolo se demanda perké li homini sono pelosi (et) le
femene sença peli.
Respondo ke questa ène una rasgione con quella de sopra, per
callideçça de l'uomo (et) frigideçça de la femena: ei peli, se noi consideramo bene,
sono per superfluitate di sangue surgente e nascente per resolutione
d'umori per callida conplexione, onde l'omo quanto più ène virile (et) callido
più ène peloso, però ke 'l caldo più resolve, (et) àe più le pori aperti, la femena
per la frigideçça àne li pori chiusi sì ke non se puote fare resolutione sì
vigorosa como a l'omo.
L. IV, pt. 4, cap. 3
In lo
iij.o cap
itolo s'
ademanda perké la femena àe la casgione
così in
pronto più ke l'omo.
R
espondo ke, secondo ke
dice Aristotile, la femena ène h
omo
inperfecto: però ke ongne cosa ke genera secondo natura studia
de generare suo simile, sì ke la vertute rationale
existente in essa non à
molte perfectioni a cercare, sì ke de
vaccio trova quello ke puote
avere.
La seconda rasgione si ène ke ella ène
naturalmente timida (et) paurosa
per la
modicitate del calore, però k'è frigida, sì ke la natura sagace acciò ke
non
peresca
convertese tutta a quello ke bisongna a lei; quella de l'omo
ène più
secura natura ké abonda più in lui el calore, non à la rasgione sì in
pronto.
La terça rasgione si ène ke la femena per la paura sì de
vaccio ke si
dispone
a fare alcuna cosa inlicita comença a trovare la casgione la quale 'ro
manifesta acciò ke la inlicita operatione non se
inpedimentesca
essendo a lei
dilecto.
Et
dirònne una cosa ke io trovai scripta. In
Ferrara era un nobile
cavallieri ke avia una sua molto bella (et) nobile donna, la quale era amata da
uno nobele
donçello d'essa terra. Lo quale non potendo parlare
a la donna
per veruna casgione ebbe un savio h
omo bello parladore (et)
promiseli
grande quantità de denari s'ei
potiva concordare questo facto; (et)
dede
casgione ke un suo
destrieri non potea stare nella sua
stalla ke la facia
aconciare: pregò el
cavallieri ke
loi tenesse in la sua, (et) quello bello
parladore era
scudieri. Lo quale essendo d'altre contradie non essendo
conosciuto se mostrava molto semplice; quando fo ben
asecurato innella casa
del
cavallieri, k'era tenuto sì semplice ke
potiva andare in ongne loco (et)
colla
donna poteva stare sença suspecto, quando vidde el tempo (et) elli
començò a parlare savio (et)
disponere lo facto, (et) tanto disse in
diversi tempora ke concordò el facto perk'elli stava.
(Et) usando la donna per grande tempo con lo
donçello per lo bello
parlare del fante fu
inamorata simelmente del fante sì ke avendolo un dì
e
lla
camera,
manifestòlli el suo intendimento. (Et) stando insieme in
dilecto, el
donçello vedendo el
cavallieri andare per la terra andoe
a la
donna (et) percosse l'
uscio de la camera; la donna quando l'udio
nascose el
fante deppo la
cortina, (et) stava col
donçello. (Et) stando così, (et)
ecco
tornare el
cavallieri (et) fue
a la camera (et) percosse
a l'
usscio; la donna in
istante disse al
donçello: "Trae fore el coltello (et) apri forte la camera, (et) non
parlare a
persona (et) mostrate adirato (et)
minaccia dicendo
'Se io non
l'
ucido morto sia io
'". Como disse el
donçello così fece (et)
usciendo de la
camera el
cavallieri tutto
enterrio e 'l
donçello minacciando si andò per li
facti suoi non respondendo a nulla parola al
cavallieri.
Entrando el
cavalieri nella camera la donna chiamoe el fante, ch'era doppo la
cortina, (et)
disse al cavalieri ke perké el
donçello trovoe el
destrieri
empastoiato sì 'l
volea ucidare, sì ch'elli
recovaroe innella
camora (et) a peina l'avia potuto
defendare. (Et) così
scusò sé del
donçello (et) del fante; non mandoe el
dolçello deppo la
cortina però ke non volia k'ei trovasse el fante, sì ke 'l
donçello non seppe niente del fante, (et) esso fante fusse
scusa del
donçello.
L. IV, pt. 4, cap. 4
In lo
iiij.o cap
itolo s'
ademanda perké el primo
conselglio de la
femena è melglio de li altri, (et) non adivene così nell'omo.
R
espondo ke se noi ben consideramo questo cap
itolo se solve per
alcune cose decte de sopra innel proximo cap
itolo, ke la femena non
avendo in sé perfectione come
àne l'omo quella ke
àne incontenente
la trova (et) sempre ène la milgliore, però ke, secondo ke
dice Aristotile, a ke
se
converte tutta se
converte; sì ke ongne
consilglio k'ène doppo el primo
ène pegiore d'esso. L'omo ène perfecto,
àne molte cose rasgionevole per le
quali la
potença rationale puote avere
descorso (et) vedere la cosa perké è
bona (et) l'altra perké è milgliore (et) pegio.
La seconda rasgione puote essere innella femena per
poca
experientia, ké non s'à
ad
inpacciare se non in
masaritie de casa, (et)
l'omo
àne udite (et) vedute molte cose, sì ke per longa (et) molta
experientia
iudica melglio quanto più pensa.
L. IV, pt. 4, cap. 5In lo v.o capitolo se dimanda perké la femena ama (et) inodia, à
misericordia (et) crudeltà sença mesura, ma l'omo con mesura.
Respondo ke, secondo k'è decto de sopra inmediate, la femena per
la inperfectione ène molto convertibile, (et) a ke se converte,
secondo ke dice Aristotile, tutta si chonverte; però dicie Aristotile ke la femena
àne la natura del citolo, ke ongne cosa fano sança mesura, unde dice «Pueri
et mulieres omnia faciunt valde», cioè sença modo (et) mesura: se tutto el
mondo pendesse per un filo quando ène adirata sì lo romparia.
L. IV, pt. 4, cap. 6
In lo
vj.o cap
itolo s'
adimanda perké la femena non puote tenere
le cose secrete a loro decte.
R
espondo ke la femena àe ymaginatione
ferventissima sença modo
(et), secondo k'è decto de sopra, tutta se
converte sì che
ymaginando la cosa ke gli è decta,
inmaginala sì in una parte ke non la
ymagina in altra, cioè in
pericolo ke ne possa
essire; ben alcuna fiata questo
ymagina (et) quando esso
pericolo
ymagina no 'l
dice, ma quando
ymagina el secreto tanta ène l'abundantia ke àe d'essa cosa decta a lei ke
non la puote sofferrire.
La seconda rasgione ène ke la femena ama molto
honore
naturalmente e
libertà, sì ke
pare ke alcuna signoria li s'aquisti sopra quando li se
dice
"Non dire cotal cosa", sì ke in tanto quanto l'omo più li veta magiur
voluntà e
içç'à de
dirlo; unde sopra d'una fiata non li se vorria dire, ma ke se
converria fare di
sponerli li
pericoli de la cosa secreta se venisse a
manifesto, (et) spesse fiate
redurli a memoria, sença vetamento.
L. IV, pt. 4, cap. 7
In lo
vij.o cap
itolo s'
adimanda perké la femena, quando el
marito o altra
persona
dice ke sae alcuna cosa secreta, àe sì grande volontà de
saperla quando leva prova de non dirla.
R
espondo ke per tre rasgioni adivene.
La prima ène la
conversione forte (et) repente sopra la cosa
ymaginata
da lei, com'ène decto de sopra.
La seconda rasgione ène ke per questo vole provare se 'l
marito o
amico li vole bene per
manifestarli le sue secrete (et) però sempre, se lli
odono dire, quando si tengono, de non manifestare: "Veggio ke tu non
m'
ami".
La terça rasgione ke pensano ke in quel secreto non sia alcuna cosa
ke abatta da l'amore infra 'l
marito o amico (et) lei, o alcun'altra cosa
incontra de lei.
L. IV, pt. 4, cap. 8
In lo
viij.o cap
itolo s'
adimanda perké la vechia, quando
comença a luxuriare,
face peggio de la giovane (et) più se delecta, quando
non comença non se ne cura (et) la giovane sìe.
R
espondo ke la giovane ène
calida (et)
seccha sì ke per la calideçça
continuamente
appete, la vecchia ène frigida (et) humida sì ke se non
comença per la frigideçça non
appete, ma quando comença comença a
discurrere li omori luxuriosi, per la humidità grande k'àe in sé no 'l puote
tenere, (et) però ke in quello acto ène grande
dilecto (et) in essa humidità
più habunda de la giovane più se delecta.
Altre rasgioni lasso stare però ke non è materia molto honesta.
L. IV, pt. 4, cap. 9
In lo
viiij.o cap
itolo se
dimanda perché se 'l leproso giace cum
alcuna femena
ad essa femena non offenda, (et) el primo h
omo ke usa
co· llei
carnalmente deventa leproso; (et) questa è
doctrina ke l'omo se
dia
molto guardare da le peccatrici.
R
espondo ke la femena, secondo k'è decto de sopra, ène frigida (et)
humida (et) per la frigideçça àe li pori chiusi (et)
strecti, (et) questa è la
casgione perké conporta el verno a lavare ei panni sença offensione
nell'acqua fredda (et) l'omo ne
morria, però ke 'l freddo trovando ei pori
chiusi non
pote passare dentro,
a l'omo li trova per la calideçça aperti,
incontinente passa dentro; sì ke 'l seme infecto (et) corropto
dissimile
a la
natura de la femena per la molta humidità (et)
chiudeçça
dei pori non puote
passare a
luogoro ke abbia o possa a lei ofendare, e l'omo in quello acto ène
callido (et) secco, tutti ei pori li se aprono (et)
maximamente del
membro
naturale per la
confricatione
actuale, truova el seme infecto a sé simile,
recevelo per li pori, (et) così, secondo ke 'l
fermento overo levame tutta la
massa corrumpe, così quello seme infecto corrompe tutto l'omo.
L. IV, pt. 4, cap. 10
In lo
x.o cap
itolo se
dimanda perké la femena ène così mobile
ke non permane in stabilità, unde sole dire el savio «Mulier in
mora septies
mutatur in hora».
R
espondo ke, secondo ke decto ène de sopra, la femena ène molto
convertibile et
à natura in ciò, secondo ke
dice Aristotile, del
citolo, ke
ongne cosa
crede: sì ke credendo (et) essendo mobile ène
convertibile,
non permane in odio né in amore, como
coloro ke
ripentemente (et) de
vaccio s'adirano et de
vaccio ritornano così de
vaccio s'
achina (et) de
vaccio se
parte; unde h
omo
strainero
mostrandoli amore
crede ke sia così como li
dice
(et) demostra, (et) ella
àne natura inchinevole: se altra vergongna o paura non
la tene non sae servare fede.
L. IV, pt. 5
Decto d'alcune spetiali nature de li ho
mini (et) de le femene in ke
sono differenti seguita de dire d'alcune nature d'a
ni
mali inrationali. (Et)
de ciò se fano
v ademandasgioni:
prima, se
demanda perché alcuna bestia ruguma (et) alcuna no;
secondo, perché i
cavalli non
rugumano, ke
pare k'ei
debbiano rugumare;
terço, perké alcuno h
omo non ruguma, ke
pare k'ei
debbia rugumare;
quarto, perké 'l bove se
colca denançi (et) levase derietro;
quinto, perké li ucelli bevendo come li a
ni
mali non
urinano.
L. IV, pt. 5, cap. 1In lo primo capitolo se dimanda perké alcune bestie rugumano (et)
alcune no, come 'l bove, pecore (et) molte altre.
Respondo ke questo è per defecto del calore naturale ke non è sì
potente in loro ke per la prima infragnitura del cibo potesse paidire, sì ke
infranto el cibo (et) stando a macero (et) mastecando la seconda fiata la
natura non è sì afatigata a paidirlo.
L. IV, pt. 5, cap. 2
In lo
ij.o cap
itolo se
dimanda perké el cavallo, e alcun altro
a
ni
male, essendo de frigida natura come quelli ke
rugumano non ruguma.
R
espondo ke puote essere cascione ei denti, ke puote melglio
mastecare de
la pecora (et) d'alcuni altri ke se chiamano bidenti: (et) se lli
à
nno no· lli
à
nno
così acti a
masticare.
L. IV, pt. 5, cap. 3In lo iij.o capitolo s'adimanda perké alcuno homo essendo
molto frigido non ruguma.
Respondo k'è per doe rascioni. L'una si è ke, avengna ke alcuno homo
sia frigido per respecto agli altri homini, nullo è ke non sia callido per
respecto a le bestie ke rugumano. La seconda rascione ke, secondo ke
decto ène, àe li denti acti a masticare bene el cibo, sì ke 'l calore naturale
non àe tanta fatiga a paidire.
L. IV, pt. 5, cap. 4In lo
iiij.o cap
itolo se
demanda perké 'l bove se
colca denançe
(et) levase derietro, con
ciò sia cosa ke 'l più
debele
deveria innançe cadere
e 'l più forte innançe levare.
R
espondo ke 'l bove ène molto
debele derietro (et) denançi molto forte,
secondo ke prova la
experientia; denançi ène quasi tutto 'l peso e la
forteçça, sì ke s'elli se
colcasse derietro tutto 'l peso del bove verria sopra le
gambe (et) le coscie derietro, sì ke no seria sença grande sua
lesione; denançi
ène forte, sì ke essendo inginocchiato dinançi non àe peso derietro.
El levare fa derietro per
doe rascioni: l'una, ke dinançi ène afatigato però
ke giace sopra le ginochia (et) la spalla (et) derietro ène posato, sì ke àe recevuto
força (et) vigore, come el
vangatore quando ène posato ke prende magiur
vangata. La seconda perké denançi àe troppo grande peso (et) derietro no,
sì ke sença difficultate se puote levare derietro, (et) levata la parte derietro
dae
adiutorio a levare quella denançi.
L. IV, pt. 5, cap. 5In lo v.o capitolo s'ademanda perké li ucelli bevendo como
l'anemali non orinano come essi animali.
Respondo ke questo è per grande callideçça ke àne a consumare quella
cotale humiditate, sì che non abisongna a loro come a li altri animali
quadrupedi.
L. V
Conpiuto el quarto
libro ora diremo del quinto
libro, lo quale tracta
de'
vitii,
acciò ke fugano, (et) de le vertute, acciò ke se adempiano. Unde secondo ke
dice
Boetio inprima ène da
sterpare le vitia (et) poi ène da piantare le
vertute, al modo del savio lavoratore ke inprima
sterpa le rie
erbe (et)
nocevoli de l'orto (et) poi pianta l'
erbe utile (et) bone; così questo modo
tenendo inprima diremo d'alcuni
vitii (et) poi soventemente diremo d'alcune
bone vertute.
Et questi sono li capitoli de li vitia de le quali intendemo di tractare, li quali
sono capitoli
xxvj:
primo, como se pecca;
secondo, de la superbia;
terço, de
ira;
quarto, de invidia;
v.o, de luxuria;
vj.o, de avaritia;
vij.o, de furto;
viij.o, de usura;
viiij.o, de simonia;
x.o, de fornicatione;
xj.o, de adulterio;
xij.o, de homicidio;
xiij.o,
de' seminatori de
discordia;
xiiij.o,
dei
concettuosi;
xv.o, de la
dolositate;
xvj.o, de la
malignitate;
xvij.o, de li ingannamenti;
xviij.o,
dei gridatori;
xviiij.o, del molto parlare;
xx.o,
dei
mormoratori;
xxj.o, de li
schirnitori;
xxij.o,
dei falsi
losenghieri;
xxiij.o, de la
pigritia;
xxiiij.o, de la ingnorantia;
xxv.o, de la
gola;
xxvj.o, de la vanagloria.
De tutti diremo, (et) prima come nasce el peccato.
L. V, pt. 1
Il primo cap
itolo tracta in qual modo nasce el peccato; (et) trovamo
ke in tre modi (et) da tre radici
àne
nascimento.
L. V, pt. 1, cap. 1Inprima
àne
nascimento dal diavolo per
sugestione come fo
manifesto innel primo h
omo, (et) secondo che apparve alora visibile
sub dissimulata spetie de fuore, così ora appare invisibile innella
mente
aportando
continuamente spetie
dei peccati per ymaginationi.
Del quale
dice s
anc
to Pietro:
«Fratres sobrii estote et vigilate in
orationibus quia adversarius vester dyabolus tamquam leo rugiens
circuit querens quem devoret, cui resistite fortes in fide», cioè
'Frati siate
sobrii (et) solleciti (et) veghiate innell'orationi ké l'aversario vostro, el
demonio, secondo ke 'l
lione
va attorno sença posa cercando ke possa
devorare
'.
Et s
anc
to Gregorio
dice «In assidua tentatione el diavolo
tenta acciò ke
per tedio (et) increscimento almeno vencha».
Unde s
anc
to Bernardo volendo manifestare le sue
malitie pone le
similitudine como appare, non ke visibilmente così appaia ma ke in tentare
prende loro natura, (et)
dice: «
Versuto ène lo nostro nemico (et)
tortuoso, (et)
le vie sue et tentationi non
facilmente se possono congnoscere, né le
spetie sue se possono sapere: ké ora è qui ora è là», ora è in questo loco ora in
quello, «ora agnello ora lupo, ora tenebra ora luce se demostra; secondo
diverse
conplexioni et
mutationi de tempi diverse
dae
temptationi».
Et s
anc
ti
Grisosto
dice ke se acosta
a'
dolci suoni d'
istromenta, ai sapori
de' cibi (et)
de'
vini,
dàsse
a li odori,
congiongese con li
colori a noi.
Domqua se reserva d'essere sempre de lui in paura (et) in ongne cosa
temerlo (et)
considerarlo.
L. V, pt. 1, cap. 2Secondo, el peccato àe nascimento da la delectatione la
quale procede da la sensualità, unde poi ke 'l diavolo porge la tentatione del
peccato la sensualità in primo aspecto parli suave, delecta: questo ène el
pingnatto ardente el quale vidde Ieremia, ke incontenente doppo la
tentatione la sensualità inchina (et) incende.
L. V, pt. 1, cap. 3Terço, el peccato àe nascimento dal consentimento el quale
procede da la rasgione, onde el diabolo tempta, la sensualità delecta, la
rascione consente e così el peccato è conpiuto: queste sono le tre lancie
per le quali more l'anima.
L. V, pt. 1, cap. 4
Et nota ke in tre modi se pecca: per ignorantia, quando l'omo
non conosce sé peccare né non remane da lui ke no 'l
conosca ma per
defecto de natura o
carença de senno, overo ke non ène ki l'amaestri,
overo ke quello ke fae ne
crede piacere a Dio (et) fare bene, come
fu
s
anc
to Paulo.
Peccase per infermitate, per tentatione grandissima ke la natura
non è potente sença grande pena a
resistere, o per paura come fue in
meser s
anc
to Pietro ke
negoe Dio, ké sì grande fue la paura k'ebbe de la
morte ke non si
recordò del suo signore.
Questi
doi modi di peccare
facilemente se perdona.
Peccase per malitia, quando in propria sciença sença grande
tentationi altri conmette grave peccato, come fue
Iuda che 'l suo signore,
dal quale avia
recievuto tanto guidardone ke l'avia facto signore de li apostoli e
corporalmente de sé medesmo, k'era spenditore, aviali perdonata tanta
nequitia c'avia conmessa d'
occidare el padre (et) de giacere carnalmente
con la madre, (et)
tradarlo per
xxx.ta denari, ke se de ciò avesse avuto grande
avere seria potuta forse iudicare d'alcuna infirmità, ma fo per sì poco preçço
ke mostrò ke fosse per propria malitia (et) per magiur viltà del Signore.
(Et) questo tene superlativo grado de graveçça de peccato.
L. V, pt. 1, cap. 5
Ite(m) nota quod triplex e(st) peccatu(m): criminale, mo(r)tale (et)
ve(n)iale.
Criminale peccato ène quello ke per la leggie se punisce, come furto,
homicidio, falso testimonio,
periurio e molti altri, innei quali ki ve pecca ène
punito.
Mortale ène ke perké altri el conmetta non è punito temporalmente, come
adirarse l'omo infra sé, biastimare (et)
inodiare altrui. Unde ongne
criminale è
mortale, ma ongne mortale non è
criminale.
Peccato veniale ène ke
facilemente àe
venia (et) perdonança, come sono
ei primi movimenti del peccato innançi ke la rasgione o rationale
potentia consenta, ma alcuno illicito
delecto receve; ke, secondo ke
dice
s
anc
to Augustino, questi primi
moti non sono in nostra podestà, ke nullo
è sì s
anc
to ke d'essi se possa guardare se non quelli ke
s
anc
tificati fuoro
in corpo de la
matre. (Et) de ciò
dice s
anc
to Ioh
anni: «Se noi dicemo ke noi
non aviamo peccato, noi ne
'ngannamo (et) veritade non è in noi».
Questi peccati, quando l'omo se reduce a rasgione (et) conosce k'àe mal
pensato, s'ei
dice sua colpa o per
espersione d'acqua s
anc
ta, per
visione del corpo di Cristo, per basciare la mano al vescovo sì se perdona.
Vero ène ke alcuno àe più rascione de peccato (et) de graveçça ke l'altro,
secondo ke l'omo medesmo puote considerare; (et) de ciò
dice s
anc
to
Paulo ke alcuni passano con
fieno ke incontenente s'arde, (et) passa el
purgatorio con un caldo, alcuni cum
stoppioni, ke
dura alcuna cosa la pena loro
in
purgatorio, alcuni con lengna, (et) quella de costoro è più forte pena; (et)
intendi pena ke se dà per peccata
veniali, però ke
dice ke de
vaccio
passano.
L. V, pt. 2
Decto in ke modo vene (et) nasce el peccato (et) como se pecca (et)
quanti sono li peccati in genere, seguita de dire de la superbia, k'è
principio d'ongne peccato. (Et) k'è in ongne peccato sì se intende: però
ke in qualunque peccato l'omo pecca fae
contra del suo signore, (et) fare
l'omo
contra del suo signore è grande superbia, dumqua vedete ke la
superbia ène principio d'ongne male, ké sì vaccio ke l'omo pensa de fare
male
contra del suo signore conmette superbia.
Superbia ène
elatione de la
mente in Dio overo innel proximo in
qualità ke non li se
convenga, unde
dice s
anc
to Augustino «Grande
vitio ène la superbia». La quale non solo li angeli volse a Dio
coequare ma li
ho
mini volse deificare, quando
Adam
credette essere como Dio s'ei
mangiava el pomo vetato. Et àe in sé malo e contrario effecto, ke quanto
la
creatura più se
inalça in superbia per voluntà più se
depreme (et)
avilescie (et) abassa in operatione (et) in effecto.
Unde fae tre mali:
perverte lo stato naturale, tolle la belleçça
vertuale (et)
caccia del loco formale. Queste tre cose el
dimonio perdeo: lo stato naturale, ke
d'angelo se fece
demonio; perdeo l'
ornamento
vertuale, ke de vertuoso se
fece malitioso (et) de bello se fece laido; perdeo loco formale, che 'l
cielo era loco
ke se
convenia
a la sua forma (et) natura (et) elli cadde in inferno. Ène
manifesto del
demonio magiure, del quale
dice
Ysaia p
roph
eta: «Perché
cadesti del
cielo,
Lucifero, lo quale splendiva la matina? ke
diciva nel tuo
core
"Salirò in
cielo (et) sopra de li
astri del
cielo porrò la sedia mia (et) sarò simile
a
l'Altissimo"; dove cadde, perk'elli volse salire sì in alto, in infimo loco de
l'inferno». Se noi volemo dire de la belleçça, sença numero era bello in tanto
k'era appellato "Lucifero", cioè
'aporta luce
', ké la
stella
Diana ène chiamata
Lucifero; se noi volemo dire de li vestimenta odi ke
dice
Ysaia: «Ongne petra
pretiosa el vestimento tuo:
sardius, topatius, jaspis, berillus, grisolitus, onix,
saphyrus, carbunculus, smagraldus»; ora com'ène bello odilo innella
Storia de sancto Bartolomeo, quando el
demostroe al populo k'era come
gheçço grandissimo, la sua faccia più nera de fuligine (et) acuta, li occhi como
ferro di fornace
stillante
faville de fuoco, de la bocca uscia flamma
solphuria e
le spinose come
istrico avia.
Odi ke fece la superbia a
Nabuchodonosor rex perk'elli disse "Questa ène
Babillonia k'eo
hedificai innel vigore de la mia forteçça (et) innella gloria de la
mia belleçça". (Et) non avendo ancora conpiuto de dire (et) una
voce
venne
da
cielo (et) disse "A te se
dice,
Nabuchodonosor:
rengname ài perduto (et) da li
ho
mini sarai cacciato (et) starai
colle bestie (et)
pasciarai
fieno come bove,
infine ke
septe tempi se
mutarano sopra de te (et)
connosciarrai ke
l'Altissimo rengna innel rengno del
cielo (et) a cui vorrà sì 'l
darà"; (et) tutte
queste cose fuoro adempiute in lui.
Onde la superbia la grande torre de Babillonia destruxe, la lengua
divise,
occise
Golia, sospese (et)
inpiccoe Aman,
occise
Nicanore (et)
Antiocum
(et)
Senacherib,
Faraone somerse in mare, (et) fae infiniti mali.
D'essa superbia
dice
Iob «Se la superbia salirà infine al
cielo e 'l suo capo
toccarà le nuvola, infino de l'
abisso lo
cacciaròne»;
Davit p
roph
eta
dice «Viddi
lo
inpio superbo
sopraexaltato (et)
elevato sopra li cedri del Libano:
quando passai non v'era,
cercai (et) non si trovò el loco suo». Onde el
superbo ama el primo loco innel
parlamento, stare in capo di mensa,
essere salutato innelle piaççe (et) essere chiamato da ongne
persona
"
Mesere", come
dice el
Vangelio.
Trovase de uno phylosofo ke volendo l'
arrogantia d'un re
reprehendere,
ke se
faciva adorare, andoe innançi da lui (et) longo
steso l'adoroe, onde el re
non dicendo "Leva suso" sença licentia se levoe (et)
asedettesi a lato el re. El re
maravilgliandosi sapendo k'era filosofo
demandoe perké avea facte
queste cose. Respose el filosofo: "Overo tu
se' Dio overo h
omo: se
se' Dio
debbote adorare, se tu
se' h
omo potei a lato tuo sedere". In tanto el re
saviamente respose: "Se so h
omo non me dovesti adorare, se non so Dio
dovesti a lato mio sedere". (Et) così prudentemente el filosopho
schiernio la
superbia del re.
Onde
dice Salamone
nei
Proverbii «L'omo
inpio (et) superbo come la
tempestate passa e non se trova, li iusti sono secondo k'è fondamento
sempiternale». Considera ke
dice
Davit: «Ongne carne (è)
fieno (et) omne
sua gloria come el fiore del
campo».
L. V, pt. 3
Decto de la superbia seguita de la
ira, la quale è divisa da essa
avengna ke
ad alcuni
paia una cosa: la superbia ène
exaltamento (et)
aprendemento d'ardire di fare o di volere alcuna cosa la quale a suo stato in
tanto per verun modo si
convene;
ira è
accensione de offendare altrui.
(Et)
devete sapere ke
doe
ire se trovano, licita (et) inlicita, bona (et) ria. Licita
ène quando h
omo s'adira d'alcun male ke vede o sente fare (et) d'alcun bene
ke se
deveria fare ke vede o sente
obmettere, ke non se fae. (Et) questa
ira se
convene
ad ongni rectore spirituale (et) temporale (et) a
ciascuno
padre de
famelglia, (et) questa
ira ène comandata ke se
debbia avere, onde
dice
David
p
roph
eta
«Irascimini et nolite peccare», 'adiratevi (et) non peccate
'; in
questo modo non se pecca quando s'adira per modo di
correctione.
Ène un'altra
ira
pericolosa (et) ria la quale è, secondo ke
dice el filosofo
nel primo
libro De l'anema, «
Ira ène accensione de sangue intorno al
core in offensione del proximo», onde
dice ke «
ira ène appetito (et) desiderio
de vendecta». (Et) questa ène ria (et)
pericolosa per tre rasgioni: inprima
per l'
ofuscatione de la veritate, secondo per l'ofensione de la maiestate,
terço per lo
chiudimento de la pietade.
Primo, ène
pericolosa l'
ira per
offuscamento de la veritate, ke
quando homo ène in
ira non
discerne el vero dal falso, come
dice
Cato:
«Ira
inpedit animum ne possit cernere verum», cioè
'l'
ira inpedisce
l'a
ni
mo acciò ke non possa conosciare la verità
'; ke per l'
ira
infamarà
colui a cui porta
ira de falso:
esconne falsi testimonii,
periurii (et) rixe, onde
dice Salamone
nei
Proverbii «Como la
brasgia (et) le lengna al foco, così
la irosa
suscita le brighe»; però
dice s
anc
to Iacobo «L'
ira de l'omo mai non
adopera iustitia». (Et) così è manifesto ke l'
ira
ofusca la verità.
Secondo, offende la maiestate, ke
derittamente l'
ira ène
contra di lui
inperò ke Dio ène tutta caritade (et) concordia (et) l'
ira propriamente
genera hodio (et)
discordia, como
dice
Cato:
«Ira hodium generat,
concordia nutrit amorem», cioè
'l'
ira genera hodio (et) la concordia
nutrica amore
'. Dumqua come l'odio è
contra l'amore così l'
ira (et)
l'iracondo ène
contra Dio, k'ène caritate (et) amore.
Terço, l'
ira chiude le porte de la misericordia (et) de la pietade, unde
dice
Cristo innel
Vangelio «Se voi non perdonarete al proximo la iniuria
ke ve
face, né 'l Padre celestiale perdonarà a voi». Unde
dice s
anc
to Paulo
«se 'l tuo nemico à
fame pascilo, se à
sete dalli bere», (et) Cristo
dice innel
Vangelio «Amate li vostri nemici (et)
benfacite a cui v'
àne in odio acciò ke
siate filgliuoli del Padre vostro ke
stae in
cielo», unde ki non ama el nemico
non puote essere filgliuolo de Dio, dumqua ène filgliuolo del
demonio. (Et)
però
dice s
anc
to Agustino ke «Quelli ke se vole
venticare da la iniuria ke lli
è facta, non solo ke da Dio trovi misericordia
dei peccati ke farae, ma quelli
k'àe facti, ond'è presa (et) facta penitentia,
tornarano a vendecta». (Et)
così chiude la via de la misericordia ke, secondo ke
dice Salamone in li
Proverbii:
«Ira non habet misericordiam», cioè
'l'
ira non
àne
misericordia
', (et) inperò
dice in esso loco «grave ène el sasso (et) l'
arena,
così l'
ira de lo stolto è più grave de questi».
L. V, pt. 4
Decto de l'
ira ène da dire de la invidia, la qual è
dolore de la felicità (et)
bene del proximo sença
utilità de lo
invidiante. Questo vitio ène molto
rio (et)
pericoloso per
quatro rasgioni: prima, per
carença d'utilitate;
secondo, per l'ofensione principale; terço, per li mali ke derietro s'à a
menare; quarto, ke da Dio
àne a separare.
Primo, la invidia è ria k'ène sença
utilità: ongne altro peccato àe in sé alcuna
utilità in apparentia, overo
delectatione, da fuore la invidia, como
superbia, vanagloria
àne appetito d'onore, furto (et) avaritia
àne appetito
d'avere, luxuria (et)
gola à appetito de delectare,
ira à appetito de
diventicare, ma
la invidia nulla
utilità, nullo bene né apparente né
existente raporta, né utile né
delectevole né honesto.
Secondo, la invidia è
pericolosa per la offensione principale, ke lo
invidioso inprima offende sé ch'altrui (et) en più se offende, sé (et) non lo
invidiato, ké quante fiate vede lo invidioso li beni de lo
invidiato tante fiade
se
tormenta innel
core
a le fiate nulla cosa
sapendone lo
invidiato, sença el
tormento ke
a le fiade Dio li
dae in questo
mondo (et) innell'altro. (Et) de
ciò
dice Salamone in li
Proverbii «L'omo ke
festina
arichire (et) invidia
altrui non sae ke appresso li ène la povertade».
Terço, arecha doppo sé la invidia grandi
nocimenti, ke la invidia fo
casgione del primo homicidio, ke
Caym vedendo ke lo
holocausto k'ei facia a
Dio Dio non l'
acettava (et) quello del fratello sìe, e 'l fratello Abel
multiplicava
in richeççe (et) elli
inpovaria, mosso in invidia (et)
ira (et)
occise Abel suo
fratello.
Leggese d'un re ke volse sapere quale era più
pericoloso peccato, o
quello de la invidia o quello de l'avaritia. (Et) ebbe el più avaro homo (et) un
altro lo più invidioso ke potesse trovare in lo suo
rengname (et)
rachiuseli in una
camera, (et)
promise a loro per fede ke infine a
doi dì qualunque cosa
adimandassero
daria a loro in questo modo, ke ki adimandava derietro
avaria el
doppio più de qualunque cosa adimandasse el primo. Conpiuti
doi
dì lo re mandò per costoro, (et) nullo era ke innançi volesse
chiedere; e 'l re
dede a loro
termine un altro
die. Innell'altro
die vedendo lo invidioso ke
l'avaro non volia dire innançi (et)
tormentandosi se l'avaro avia più de lui
adomandoe inprima ke a lui fosse tracto uno occhio acciò ke
a l'avaro fossaro
tracti
amendoi. (Et) così fo facto. Unde vedete ke la invidia è
pericolosa
a
lo invidioso (et) a colui a cui s'àe invidia, ké per invidia molti mali se mette a
fare lo invidioso.
Quarto, la invidia s'areca Dio in odio ke àe a separare da lui lo invidioso,
però ke la invidia ène
contra la caritade ke comanda d'amare el proximo
quanto sé medesmo, Dio ène caritate (et) ki
stae in caritate
stae in Dio (et) Dio
stae in lui, ki àe invidia ène separato da la caritate dumqua ène separato da Dio.
(Et) a questo demostrare Dio maledixe
Caym (et) disse "Maledecto sia sopra
de la terra": chi ène maledecto da Dio ène separato da esso.
Dumqua la invidia ène
pericoloso peccato.
L. V, pt. 5
Decto de la invidia seguita de la luxuria, la qual ène acto illicito (et)
inmoderato carnale: però ke
dice "illicito" se intende cum
persona (et)
in modo ke non se
convenga,
però che dicie "inmoderato" intendesi più che
non si convenga, dumqua cum
persona licita com'ène molglie. La
graveçça de questo peccato se puote vedere per lo suo effecto, lo quale se
trova molto
pericoloso; unde da questo peccato infra li altri infiniti mali ke
face tre mali ne
rescono: primo ène la privatione del senno (et) de lo
intellecto, secondo la corruptione de l'affecto, terço la
provocatione
de l'
ira de Dio innel subiecto.
Lo primo
pericolo (et) male ke
face la luxuria ène la privatione del
senno (et) de lo intellecto ké, secondo ke
dice 'l filosofo, in acti venerei,
cioè luxuriosi, non v'è intendimento. Unde
dice un poeta:
«Considera
Virçilio, Merlino cum Sansone, | l'alto re Davit col filgliuol Salamone: | ciascuno
per la femena perdeo stato (et) honore», ke
David ve perdeo sì el senno ke
sopra l'adulterio
perpetrò
tradimento e homicidio, Salamone in tanto
venne
per la filgliuola de
Faraone ke abandonò el suo Dio, ke li avea
data tanta
sapiença (et) avialo posto in tanta sublimità (et)
excellentia ke l'avia facto
sì grande re, (et) adorò l'idoli sì deventoe stolto, Sansone ne fue cieco (et)
occiso, Merlino fue vivo
sepellito,
Verçilio
obprobriosamente
schiernito, a
Salamone regname diviso. Et inperciò
David p
roph
eta considerando
ke quel peccato tolle sìe el senno (et) lo intellecto
dice (et) grida innel
Salterio:
«Nolite fieri sicut equus et mulus in quibus non est
intellectus», cioè
'non voliate essere facti secondo che 'l cavallo e 'l
mulo
ne' quali non è intendimento'; il mulo in volontà non à modo, el
cavallo quando puote in quel acto non à
refrenamento, però ke non
àno
intendimento: in tanto l'omo è
mulo quando in luxuria pecca in voluntà e
cavallo quando non se
refrena in operatione.
El secondo
pericolo ène la corruptione de l'affecto, ké quasi ongne
peccato stancha l'omo se non questo ke sempre
renfresca, (et) quando
non è in opera né puote essere si ène in voluntà, (et) veruno peccato ène
dal quale l'omo quando comença non se possa più vaccio partire ke da
questo. Unde se legge de Salamone ke, puoi k'avia avute trecento regine (et)
lxx concubine, essendo vecchio s'ennamorò de la filgliuola de
Faraone per la
quale se partio da Dio.
Leggiese innella
Ystoria de sancto Andrea ke uno
k'avea nome Nicolao era visso in luxuria
lxx anni: venendo a s
anc
to Andrea,
per verun modo l'orationi de s
anc
to Andrea non li giovavano ke si potesse
guardare da questo peccato infine ke s
anc
to Andrea non
degiunò per lui
.v. die. Sì ke questo peccato corrumpe molto l'affecto ke facendo tanto
male quanto
dice 'l poeta:
«Femina corpus, opes, animam, vim lumina
voces | destruit, anichilat, necat, arripit, orbat, acerbat», cioè
'la femena
' (et) la
luxuria
'destrugge le richeççe,
anichila el corpo,
occide l'anima, tolglie la força,
menema el vedere (et) tolle (et) guasta la buona
fama
', non se remane per
tutti questi mali ke
face ke non la seguiti; dumqua questo vitio è molto
pericoloso.
Terço, ène molto gravoso però ke per questo peccato de la luxuria se
provoca più l'
ira di Dio ke per veruno altro, ké no
nn è veruno per quale
troviamo facto tanto male quanto per questo; ke al tempo de
Noè
quelli k'erano del p
op
ulo de Dio vedendo le filgliuole de quelli k'erano del
p
op
ulo gentile, k'erano belle, acesi de luxuria
presarle per molglie: a
questo fue adirato Dio (et) disse questa parola: "Pentomi k'io fece l'omo", (et)
per questo peccato in tanto
fenio el
mondo; per questo peccato periero le
due grande citade Sodoma (et) Gomorra; per questo peccato per una
femena di Naçareth periero del p
op
ulo de Dio, k'erano
adoste, sopra quel tribo
c'aviano conmesso el peccato più de
lxx miliaia, (et) questo
permise Dio
acciò ke fussaro bene
adiçati a
destruggiare quel tribo k'avia conmesso el
peccato luxurioso con quella femena; anco per la filgliuola de
Iacob tutti li
ho
mini d'una cità ne fuoro morti. Per veruno peccato troviamo Dio avere
facte tante vendecte in
ira sua quante per questo.
Per queste tre cose
dice Salamone in li
Proverbii: «Filliolo mio,
prende la sapiença nel tuo
core (et) abbia prudentia innella bocca. Guardate
da la ria femena k'àe
dolce le parole più ke 'l
mele, la
gola
splendente più k'oleo,
la fine sua amara più ke
senço (et) acuta come coltello c'
àne
doi talgli»,
e dicie
"due tagli" però ke
occide l'anima e 'l corpo, onde seguita «ei piedi suoi
descendono
a la
morte e i suoi passi tendono
a lo inferno».
(Et) così è manifesto el
pericolo de questo peccato.
L. V, pt. 6
Decto de la luxuria seguita de l'avaritia, la quale ène continuo
desiderio inmoderato d'avere (et)
tenacità più ke se
convenga de tenere.
De la quale avaritia
dice s
anc
to Agustino «L'avaro è pronto a
dimandare,
tardo a dare (et)
frontoso a negare; (et) se alcuna cosa
spende, tutto li
pare
perdare. Ène tristo,
lamentevole, clamoso, sollecito, sospecto,
dubio, de l'altrui
largo, del proprio scarso. Voita la
gola per acresciare l'
arca,
asotilglia el corpo
per acresciare lucro. La mano à
ratracta a dare, destesa a recevare, a dare
chiusa,
a recevare aperta»; onde
dice Salamone «L'inferno e l'avaro sono
insatiabili». Questo peccato de l'avaritia è grande per tre rascioni:
primo per cascione de
renovatione, secondo per
perversa
reclinatione, terço per cascione de
inmiseratione.
Prima, per cascione de
renovatione: ongne vitio a meno per
inpotentia se invecchia, sola l'avaritia sempre
ingiovenescie (et) in
voluntà (et) in operatione, ke vedete se l'omo è largo in gioventute in
vecchieçça deventa avaro, tanto magiurmente se ène avaro in gioventute; (et)
inperciò
dice la
Scriptura «Cum cetera vitia senescant sola avaritia
iuvenescit», cioè
'cum ciò sia cosa ke tutti ei
vitii
invechino sola l'avaritia
ingiovenescie
'. (Et) questa è cosa molto
pericolosa, ke l'omo non
s'amenda del vitio ma sempre v'è più giovane.
La seconda rasgione perké ène
pericoloso ène per
perversa
reclinatione, ké l'omo ène facto ricto de fuore de la natura de li altri anemali
per
esguardare el
cielo secondo ke
dice el poeta:
«os homini sublime dedit
celumque tueri», ène facto rationale per considerare de Dio (et) de
le cose celestiali, (et) elli sguarda
a le cose
terrene (et) esse considera cum tutto
core. Ciò è ke
dice
David p
roph
eta:
«oculos suos statuerunt declinare in
terram»; s
anc
to Gregorio
dice
«Trahit enim cor ad infima et per
consequens retrahitur a supernis, quia tanto quis a supernorum amore
subiungitur quanto inferius delectatur», 'l'avaritia trahe el
core
a le cose
terrene (et)
retrahelo da le celestiali, ke tanto l'omo se parte da le cose
supernali quanto in questo
mondo nelle cose
terrene se delecta
'. Ène
facto perk'ei servia (et) adori Dio (et) quelli serve (et) adora la pecunia
k'è di terra, ond'è l'anema rationale k'à
similitudine de la terra, e questa
ène
perversa declinatione; onde l'avaro è chiamato
ydolatra k'è servo de
l'ydole de
metallo, (et) ciò è ke
dice s
anc
to Paulo:
«Omnis avarus quod est
ydolorum servitus non habet partem in regno Cristi et Dei», cioè
'ongne avaro perké l'avaritia è servituti de l'ydoli non à parte in lo
rengno de Dio
'.
Per la terça rasgione ène gravissimo questo peccato però ke
descaccia
la misericordia (et) conmette
inpietade. Da questo peccato vengono
furti,
symonia, inganni, usura, tradimenti (et)
deceptioni, deventa l'omo
crudele a Dio (et) al proximo. Questo peccato
conmosse
Iuda a tanta
nequitia (et)
inpietà, a tradere el suo signore (et) maestro, como
dice s
anc
to
Ieronimo:
«O infelix Iudas! Dampnum ex fusione unguenti magistri
pretio reconpensare voluisti», cioè
'O sciagurato
Iuda, ke 'l
danno
dei
xxx
denari c'avesti de lo spargimento de l'unguento
', quando la s
anc
ta
femena
unxe el capo a Cristo,
'volesti
reconpensare in preçço del tuo
maestro
'. Questo peccato facia fare el tempio, ch'era casa de Dio, casa de
mercatanti e spelunca de latroni. Questo fu el peccato ke a
Gieci,
desciepolo
d'
Elyseo,
condusse la
lepra k'avia
Namam principe
de' re de
Syria.
(Et) infiniti mali (et)
pericoli (et) pene sono avenute per questo vitio, ma
per magiur brevitate basti quello k'è decto.
L. V, pt. 7
Decto de l'avaritia seguita del furto, el quale ène tollimento de la cosa
altrui
contra voluntà del vero possessore. La graveçça del quale vitio se
puote vedere per tre rascioni: prima, per l'ofesa de la maiestà, seconda, k'è
contraria
a la carità, terça, k'è turbatione de l'università.
Primo, per l'ofensa de la maiestà: Dio comandò
a l'omo quando elli
peccò
«In sudore vultus tui vescieris pane tuo», cioè
'In sudore
', cum
fatiga,
'de la tua faccia
mangiarai el tuo pane
'. Anco spetialmente questo peccato
Dio el veta innel
Vecchio Testamento, (et) è uno
dei comandamenti
scripti in taula col
deto proprio de Dio:
«Non furtum facies»,(et)
confermato per la bocca de Cristo innel
Nuovo, ke disse
«Non
furaberis». Domqua ki conmette 'l furto offende
a la divina maiestà.
Secondo, è contraria
a la carità (et) pietà, ke la carità
dice "Ama el
proximo como te medesmo (et) non fare quello ke non volessi recevare", la
pietà
dice ke "Sovenga al proximo (et) abbi misericordia de lui", onde
l'omo ke fura fae
contra a
ciascheduna; ke se
a lo
extremo iudicio, come
dice el
Vangelio de sancto Matheo, serà
remproverato «
Vedestime nudo (et)
non me vestisti», magiurmente, come
dice s
anc
to Agustino, serà
remprovarato «
Vedestime vestito (et)
spolgliastime».
Terço: questo vitio è gravoso per la turbatione de la università, ke
quando alcuna
persona è robbata ène turbatione e paura infra ongne
gente de la contrada, (et) però tutto 'l
mondo, ongne natione (et) gente
àne
leggie ke ki conmette questo peccato sença
reconparamento
vituperosamente sia morto (et) apiccato; (et) alcuno statuto a questa sentença
non è incontra. (Et) questo ène per la universale turbatione, la quale
àe in sé grande graveçça: ke al prencipe se confà de permettere alcum
male se de quello ne
rescie alcun bene comune (et) per cessare
scandalo
comune, magiurmente domqua offende (et)
rationevolemente
merita
grande pena ki offende (et)
perturba la università, (et) questo fa l'
ascarano
e 'l ladrone. Domqua el furto
àne rasgione de grande
pericolo ké perde
l'avere (et) la
persona, unde
dice Salamone innei
Proverbii «Furatur
enim ut exurientem inpleat animam, deprehensus quoque reddet
septuplum (et) omnem substantiam domus sue tradet», cioè
'l'omo fura
acciò ke satii l'a
ni
mo affamato (et)
cupido, essendo preso rende
septe
cotanto più (et) tutta la substantia de la sua
||chasa dà
', e questo è sanza il
pericholo dell'anima, ché mai il pecchato del furto non si perdona se non si
ristituiscie la cosa tolta, e chosì sta e va a rischio della
persona, e fassi
chonservatore di quello che non è suo se vuole avere salvatione.
L. V, pt. 8
Detto del furto seguita dell'usura, ch'è altra spezie e ramo d'avarizia:
usura è
doloso lucro e
involuntaria largizione per mutua
promessione,
neciessitate
interciedente, dal prossimo fatta. Questo vizio è gravissimo per molte
ragioni, ma
diremo solo delle tre: primo, che fa
chontra il
chomandamento della maiestà,
sechondo ch'elli non guarda sollennità, terzo che 'l prossimo
denuda in
chrudeltà.
Primo, è grave però che ffa
chontro al chomandamento della maiestà, e inperò
che questo è uno
de'
chomandamenti della leggie schritta
cholla mano di Dio:
«Non
usuraberis prossimo tuo», e Cristo
confermò questo chomandamento, e
dicie «Date
mutuum
nicchil inde
sperantes», cioè
'Prestate e nullo
merito sperate
d'avere del prestato
'. Anche è
contro
all'altro chomandamento che
dicie
«Loquimini
veritatem unusquisque ad prossimum suum», cioè
'Parlate e
dite verità
ciascheduno
al suo prossimo
', e l'usura fa mentire tutte le charte, e 'l notaio che lle schrive e
esso che
presta, che sempre pone il
dubbio di quello che
presta. Onde il profeta
adimandando Dio e diciendo «
Domine,
quis
abitabit in
tabernaculo tuo,
quis
requiescit in monte santo tuo?», intra l'altre cose rispuose
«Qui pecuniam suam
non dedit ad usuram et munera super inocentem non acciepit», 'Messere, chi
abiterà nella tua casa e si riposerà nel tuo santo monte?
', risponde Iddio
'A cholui
che lla sua pecunia non dà
ad usura e non toglie guidardone
dallo
innociente
'.
Dunque
choloro che sono usurai perché fanno
chontra il chomandamento di Dio
non
possono avere gloria: grave peccato è questo che priva il possessore di tanto
bene,
felicitate e gloria.
Secondo, è grave questo pecchato che non à posa né guarda solennità. Ongni
pecchato a tempo posa, il venerdì santo, il dì della Donna, le
pasque; ma questo
peccato
dì e
notte,
fiere e
pasque mai non posa né à
requie, e chosì la loro pena sarà
sanza
riposo veruno che, secondo che si leggie nel
Zaccheria:
«Iniquitas sedet
super talentum plumbi», cioè
'la inniquità siede sopra il
danaio di pionbo
', che
lla
graverrà nello inferno, che non si porrano regere se non come
dicie santo
Iob:
«Transibunt ab aquuis nivium ad calorem nimium», cioè
'passerano dall'acqua
di
neve al calore grandissimo
' del fuoco
penacie.
Terzo, è gravissimo per la nudità e
crudeltà c'à inverso del prossimo, che
dì e
notte
chonsidera mettendo ragione e
contando il tempo, considerando le
possisioni
e ' beni del prossimo, in che modo el possa
depauperare e ssé
arichire e lle rede
del prossimo
inmendicare: non vale miserichordia chiamare né indugio
adimandare, ma chon sue charte istudia il prossimo di distruggiere e
amattare, e
inperò è gravissimo e
merita grande pena. La quale gravitate e pena dimostra
Davit
profeta nell'ultimo salmo
de' mattini che
dicie
«Deus laudem meam ne tachueris»,
nel quale
dicie «
Cierchi lo
usuraio tutta la sua sustanza e li stranieri li tolghino tutto
il suo guadangno, non abbia aiutatore veruno e non sia
persona ch'abbia
miserichordia
de' suoi figliuoli, sieno li figliuoli
condotti a
morte e in
giuna
gieneratione il suo nome vituperoso s'
aspenga, i· memoria torni il pecchato suo
a Dio e 'l pecchato della sua madre non s'aspenga, sia sempre Iddio
contra lloro e
disperdali et chacci della terra la loro memoria, però che non si sono
richordati di
fare miserichordia, ch'elli
ànno perseguitato l'uomo povero e mendicho e cierchato
di
mortificharlo, e inperò sieno fatti i suoi figliuoli
orfani e lla sua
mogle vedova. E
sopra di lui sia il pecchatore, il diavolo dalla sua
diritta parte stia, quando sarà il
giudicio sia condannato e lla sua oratione sia
convertita in peccato». E molti altri
pericholi
narra. E nullo pecchato né vizio truovo del quale dicha tanto
Davit profeta
quanto di questo, e però è manifesto la sua gran graveza.
L. V, pt. 9
Detto dell'usura, ch'è spezie dell'avarizia, diremo della
simonia, che
similemente è spezie d'essa:
simonia è illicito lucro dato o ricievuto per alchuna
cosa spirituale con cierta scienza da parte del
dante e del ricievente, che io che
dò
per quello
dono intendo di ricevere la spirituale cosa e io che ricievo intendo di
darlla per lo
dono ricievuto. E questo pecchato è grave e
pericholoso per tre
cose: primo, è
pericholoso da parte del signore onde questa cosa spirituale prende
nome e forza e virtute; sechondo, da parte della cosa spirituale, la quale venale si
dispone; terza, da parte del servo che dà e ricieve per esso guidardone.
Primo, è gravoso
chonsiderando el singniore onde queste spirituali chose
ànno
forza e
valore, onde esso Iddio onipotente una volta fu venduto e tutto il suo
sanghue diede in prezo per noi e se medesimo, sechondo che
dicie l'appostolo:
«Non
sete
reconperati del
churruttibile oro e argiento ma del prezioso sangue di
(Iesù) Cristo». Onde essendosi dato esso in prezo per
richonperarci e
darci
salvazione, grande ingiuria li si fa quando le chose dove sta la nostra salute essendo
sì altamente chonperate, chon tanto amore e charità aquistate, che ssi vendono a
modo di Simone mago, per lo quale fu chiamata "
simonia", a cchui fu detto da san
Piero
«Pechunia tua sia techo in perdizione». E inperò
dicie Dio nel
Vangelio
«Gratis acepistis gratis date», cioè
'Gratiosamente avete ricievute queste chose
spirituali e così graziosamente
', cioè sanza prezo,
'l'
elargite
ad altrui
'.
Sechondo, è gravoso
chonsiderando la spirituale cosa che venale si
dispone.
Manifesto è che ogni cosa à tanto di nobiltà e di dengnità quanto à di vertù e di
perfettione: le chose spirituali
ànno virtute e
potenzia infinita, chome sono le
sagramenta, dunque esse sono infinite nobili; le
benifitia sono pociessioni di Dio
essenti da ogni signioria
secholare, sì cche Dio è infinito chosì le sue chose
nobilitate ricievono
infinitate; la chosa infinita non si
dea
chomperare per chosa
vile e finita ma graziosamente sanza
dono
elargire, dunque, se fa il contrario,
grande ingiuria e abassamento d'onore si fa
ad esse chose spirituali.
Terzo, è gravoso
chonsiderando il servo che dà o ricieve d'essa ghuidardone,
che cholui che 'l dà in questo modo per
simonia no· llo può dare e è per sempre
privato, dunque dà quello che no
nn è suo e fura, quelli che llo ricieve
similmente
è privato d'esso senza speranza d'
averllo. E l'uno e l'altro se sono
cherici è
inregulare, onde il rettore della chiesa è prochuratore e servidore e governatore
de' beni d'essa chiesa, e 'l prochuratore e 'l servo non
debba dare prezo ma
maggiormente ricievere, che ss'elli dà prezo acciò che ssia prochuratore, servo e
ghovernatore delle chose del singniore è sengnio che à volontà di furare e di
fraudare le chose che à a governare. E inperò è schritto «
Nec
quisquam
asumat
sibi
onorem sed qui
vocatur a Deo
tanquam
Aron»,
'veruna
persona questi onori
per sé
debba prendere se non cholui ch'è
vocato da Dio
Aron
'; medesimamente
cholui che 'l dà no 'l
debba
vendere per le chagioni dette di sopra, onde
Gezi
volendo
vendere la grazia di Dio quando fu risanato
Nama
nn forte fu perchosso di
libbra. E però
ghuardisi ongni prete di non dire
messa per
patto né a speme
d'
averne prezo: se gli si dà puollo torre, se non no· llo
debba adimandare, né di
veruno sagramento; onde
sonlgliono dire alchune fenmine
ingnioranti "Per quanto
mi dirai
chotante
messe?", e alchuno prete vi risponde stoltamente, sicché
leggiermente chade l'uomo in questo pecchato: per veruno modo, né inn orazione
né in sagramento alchuno né in
sepultura né in chosa ispirituale
patto vi
dia avenire;
tuttavia i parrocchiani sono da amonire di tenere la buona e laudabile usanza, inperò
che dengnio è l'operario della sua
merciede e elli offendono nelle
decime e inn altre
chose onde il prete doverria onoratamente
vivere:
debbono sodisfare in altre
limosine.
L. V, pt. 10
Detto della
simonia seguita della
fornichatione, la quale è spezie di
lussuria. E è
doppia
fornichatione, spirituale e charnale.
Spirituale in questo modo: tutti noi siamo sposati a Cristo e Cristo è sposo di
tutti li cristiani, onde
dicie nella
Cantica «Sponsabo te micchi in fide», 'Io ti
sposerò in fede
'; e questo sposare è nel battesimo, quando renuntia alle ponpe
del
dimonio e
dàssi a Cristo, onde vedete che, sechondo che nel matrimonio acciò
che ssia vero s'
adomanda il
mutuo
consentimento dello sposo e della sposa, chosì
nel battesimo, onde
adimanda il prochuratore di Cristo, cioè il prete che prende la
sposa per Cristo, che
adomanda fede, cioè di tenere e avere fede a Cristo:
"Vuoti battezare?", "Voglio", chome
dicie "Vuo'
chostui per tuo
marito?", e in
tanto
chonsente il prete per Cristo quando risponde "E io ti
batezo nel nome del
Padre e del Figliuolo e dello Spirito Santo", cioè
'Io ti prendo per sposa non
per me ma in nome del Padre
' e
c
etera, e mettegli l'anello dell'untione dell'olio
santo, ché sechondo che l'anello è sengnio e sanza esso no è matrimonio, chosì
quelle
untioni sono in sollennitate e in sengnio di purità del matrimonio spirituale.
Di questo matrimonio
dicie l'apostolo
«Dispondi enim vos uni viro virginem
castam esibere Cristo», 'Io ò
disposto voi in
verginità e in castità di
darvi per
isposa a Cristo
'. In tanto questa sposa
chonmette
fornichatione quando per lo
pecchato fa
fallimento a Cristo suo sposo e chon tanti amadori fornica quante
sono le vizia che chonmette, onde
dicie Isaia
«tu autem fornicata es cum
amatoribus multis», 'chon molte vizia tu sse' fornicata
';
dicie Dio per Isaia "con
molti amatori", ma diversa è la conditione del
mondo e di Dio, ché quel del
mondo
raro perdona ma Dio sempre, e però seghuita
«tamen revertere ad me et ego
recipiam te», 'ma
torna a me e io ti
ricieverò
'. E secondo che lla fenmina che
fornica ronpe fede al
marito così la sposa di Cristo rompe fede a llui quando
pecca, ch'ell'à rifiutato nel battesimo al
dimonio e a tutte le sue ponpe: le ponpe del
dimonio sono le peccata, dunque chi peccha rompe fede a Dio, ch'è il suo sposo, e
chosì chonmette
fornichatione spirituale.
La sechonda è fornicazione charnale, la quale si conmette qualunque volta
l'uomo usa chon altra donna che
cholla sua
mogle legittima. E questo si divide in
fornichatione semplicie, in adulterio, in
mechia, in incesto e in
defloratione.
Semplicie
fornichazione è quando peccha soluto, sanza
mogle, chon
suluta, cioè
che non à
marito. Adultero è quando peccha soluto
cholla maritata, overo
amogliato con
suluta, e questo è più grave che lla semplicie
fornichatione perché
qui è
frangimento di fede spirituale e
coniungale. Mecchia è
fornichazione ch'è
fra congiugato e
congiugata, e questo è ancho più grave pecchato però che qui è
tre
fornichazioni, di fede spirituale e
congiugale da
due parti.
Inciesto è pecchato o
fornicazione che ssi chonmette infra
parenti, e questo è gravissimo pecchato di
turpare la charne e 'l sangue suo: questo è che
dicie il profeta
Davit
«Conputruerunt iumenta in stercore suo», 'Elli sono
inpuzolenti e
sozati nella
sozura loro
', cioè nel sangue loro; inperò che
doppio è parentado, spirituale e
carnale, così è
doppio
inciesto, carnale come detto è di sopra, e spirituale è come
comare (et) chonpare, e chome lo spirito è meglio della carne chosì questo tengho
più
pericholoso di quello; è ancho quella fornicatione che ssi chonmette chon
religiose, e questo è gravissimo pecchato perché per voto e saramento
solenne
sono maritate a Dio, sicché grande ingiuria si fa al Singniore quando chon chotali si
peccha che ssono
diritte sue sposate.
Defloratione è
fornichazione che ssi
chonmette chon alchuna
vergine, e questo è molto gravissimo pecchato a togliere
fiore di tanta purità e
excellenzia, che la
virginità è
sorella de li angeli, chonpagnia
di Dio, onore della nostra Donna, odore di gloria,
colore di virtuti e adornamento
de' giusti: toglere tanta
chorona è gravissimo pecchato.
Onde vedete come si
distingue la
fornichazione, che è da ffare fuggire il
chonsorzio e lla conpagnia delle fenmine che, come
dicie Salamone:
«Conloquium
mulieris quasi ingnis exardescit», 'El parlare delle fenmine così come il fuocho
infianma
'; onde
dicie santo
Aghostino
«Cum aliis nempe viziis potest expettari
conflictus sed hanc fugite ne procsimetis», 'Con
ciò sia
chosa ch'
agli altri
vitii
si possa aspettare battaglia,
tamen la fornicazione fuggiate e
ad essa non vi
aprossimate
'; onde Salamone in
Eclesiastico «si accieseris ad illam suscipient
te dentes leonis», 'Se
ad essa t'
apressimerai prenderatti i denti del leone
'. Onde
troviamo d'uno santo prete che essendo in transito, e una donna li chiudeva li
occhi, incontanente
invigorò la natura e gridò "Cessa la paglia che ancho vive il
fuoco".
Delli suoi
pericholi bastino quelli che furono detti della lussuria.
L. V, pt. 11
Detto della
fornichazione e delle sue spezie seghuita dello omicidio, il
quale avendo ragione di pecchato è volontario e malizioso
astengnimento d'animale
razionale. Dico "volontario e malizioso" ché quelli che per sentenzia sono morti
choloro che lli uccide non
chonmettono tale
'micidio che alchuna ragione abbia di
peccato; se volontariamente no· llo fanno, chi per difendere sé, o per caso o
fortuna che gittasse pietre di vingnia o d'orto in luogo non usato per huomo e
per caso
chogliesse a uno ed
uccidesselo, o per cavallo restio il quale non
potesse
ritenere alchuna
persona uccidesse, avengnia che ssia omicidio non à ramo,
graveza e ragione d'omicidio perché non è volontario.
L'omicidio che à ragione di pecchato in
cinque modi si truova
distinto.
Primo è per volontà, onde
dicie santo Agostino
«Deus non respicit quantum
sed ex quanto», 'Dio non guarda quel fai ma di che volontà tu 'l fai
'; onde nel
Sesto Libro de' Dechretali è regola di ragione che
dicie
«Ratihabitionem
retrotrahi, et mandato non est dubium conparari», che
'se alchuna chosa si fa in
tuo nome e tu l'ài in piacere
' non
avendone tu saputo nulla chosa
'chosì è come se
ttu l'avessi fatto fare
'; onde
dicie santo Giovanni
«Qui odit fratem suum omicida
est», 'Chi à inn odio il suo fratello è micidiale
'.
Sechondo è per chomandamento, onde assai è micidiale il singniore che
chomanda che
occida; inperò Pilato fu iudicato omicidiale che disse
«Accipite eum
vos et crucifigite», 'Prendetelo e ssì llo
chrocifiggiete
'.
Terzo è omicidiale per
aiutorio overo
favore, che non pone mano a uccidere
ma sta che non sia offeso cholui che uccide
achonpangniando l'
ucciditore, overo
dandoli baldanza a cchi uccide inanzi che uccida di ricoverarlo s'egli è mestieri,
overo che
insengni
maliziosamente cholui che
debba essere morto, come fu Giuda.
Di tutte queste chose dette
dicie
Regula iuris «Qui causam dat damni
damnum dedisse videtur», 'Qualunque è chagione d'alchuno
danno, o d'alchuno
male, per simile
debbasi iudicare ch'elli abbia fatto quel
danno e male
'.
Quarto è quello che ssi conmette per
consiglio, quando alchuna
persona
chonsiglia l'altro che uccida. E in questa spezie d'omicida fu micidiale
Chaifas che
chonsigliò che Cristo fusse morto quando disse
«Expedit unus moriatur pro
populo ne tota gens pereat», 'E bisognia che uno muoia
pe
l popolo acciò che tutta
la gente non perischa
'. Questi chotali che
danno sì fatto
consiglio sono micidiali
se non si fa in oservazione e in vigore di giustizia, e questa tale
persona che
chonsiglia
debba avere scienza e ofitio di ciò potere fare, che
debba essere giudicie;
onde quanto vuole abbia scienza e sappia che per la leggie sia dengnio di morire
e' sia signiore a
poterllo fare, se llo fa sanza
chonsiglio di giudicie omicidiale e
giudicato. Di ciò
dicie
Davit «Sede sopra il trono», ch'è sedia propia di giudicie,
«quelli che giudicha la giustizia»: però che
dicie "trono" pone che
dia
necciessariamente avere ofitio
giudicale.
Il quinto omicidio è permanevole operazione chon iscienza e volontà
d'uccidere, e questo tiene il
potissimo grado d'omicida.
E questo vizio è gravissimo per tre cose principali: primo,
chonsiderando la
nobiltà della chreatura uccisa, sechondo,
chonsiderando la
similitudine in lei
inpresa, terzo,
chonsiderando la pena che di ciò seghuita.
Primo, è gravissimo
chonsiderando la nobiltà della chreatura uccisa, la quale
nobiltà si puote vedere e conprendere dalla parte della sua perfezione e
dallo ofizio a
llei dato. Primo, da parte di perfettione in questo modo: quella chosa è più nobile
nella quale maggiore e più perfetione si truova, e questo è l'uomo, dunque l'uomo è
più nobile chreatura che verun'altra, e questo si pruova in questo modo: l'uomo
participa propiamente e nature sechondo nobiltà di tutte le
chreature, ch'elli à
ad
essere
colle pietre e chon quelle chreature che sono solo corporee, a
vivere
cholle
piante e chon tutte quelle che sono vegitabile, a sentire chon tutti li animali e a
ratiocinare cogl'angieli, sechondo che
dicie santo
Greghorio, sicché participando
propietà e natura di tutte le chreature e d'altra non essendo participato dimostra
sua nobiltà sopra tutte le chreature; e questo dimostrò Cristo nel
Vangielio
quando disse
a' disciepoli «
Predichate il
Vangielo a ogni chreatura»:
dispone
santo Gregorio «cioè all'uomo, che participa d'ongni chreatura»; onde chi uccide
l'uomo fa grandissimo male quando sì nobile e tanta
chriatura uccide. Sechondo, la
sua nobiltà si prende dalla parte dello ufizio, ché Dio à posto l'uomo signiore e
rettore di tutte le chose
chreate, sechondo che
dicie
Davit profeta:
«Omnia
subiecisti sub pedibus eius, oves et boves universas, insuper et pecora campi,
volucres celi et piscis maris, qui peranbulant per semitas maris»; onde
l'uomo essendo signiore di tutte le chreature, chi uccide lui offende
ad ogni
chreatura, e 'l numero d'ongni chreatura è infinito, chosì questo male è infinito.
Secondo, è gravissimo per la
similitudine in lei inpresa, che Dio à ffatto
l'uomo alla sua inmagine e
similitudine, e di ciò
dicie
Davit profeta
«Singnatum est
super nos lumen vultus tui, domine»; e avengnia che alchuni dicano che questa
similitudine sia nelle
potenzie dell'anima,
tuttasora esse
potentie non
ànno
operatione
e
l'anima sanza il chorpo, e però non disse Dio "Facciamo l'anima
dell'uomo" ma disse «l'uomo», e l'anima no
nn è huomo ma l'anima rationale
insieme chol chorpo è huomo; dunque chi uccide l'uomo distruggie e
ghuasta la
similitudine e inmagine di Dio, e questa è gravissima niquità, sechondo ch'è
manifesto.
Terzo, è gravissimo considerando la grande pena che nne seghuita, che
sechondo la leggie di Dio e del
mondo, se non si tempera per istatuto,
«Qui
occidit reus est mortis», 'Chi uccide
dee essere morto
'.
Onde questo pecchato è infinito per la parte dello infinito signiore a chui
s'offende la sua propia e principale opera, la quale
cholle sue
mani formoe a
dimostrare la dengnità d'essa
chriatura come
dicie santo
Iob:
«Manus tue, domine,
fecerunt me et plasmaverunt me», uccidendo e la sua inmagine e
similitudine
distrugendo e infinite
creature sechondo che detto è, ingiuriando la miserichordia di
Dio che udendo ch'elli
morio per dare all'uomo vita ciello uccide; e inperò che
infinitamente offende
merita pena infinita.
E molte altre
ragioni si potrieno
assengniare, ma per brevitate queste bastino.
L. V, pt. 12
Detto dello omicidio seguita della
discordia, il quale è vizio gravissimo.
La gravità del quale si manifesta in tre modi: el primo, che chiude e dischaccia la
charità, sechondo, che
similitudine prende di somma
malingnità, terzo, si pruova
per
salamonicha autorità.
Primo, la
discordia divide e discaccia la charità, ch'è somma virtute; onde
dicie
santo Gregorio che sechondo che lla charità congiungnie le
persone che sono
assenti e dalla lunga così la
discordia
disparte li congiunti e presenti, onde la charità
à a
chongiungniere inn amore e lla
discordia '
disgiungniere per odio, onde,
sechondo che lla carità per quella propietà è sovrana virtute, così la
discordia per
contraria propietà è pessimo vizio.
Secondo, è gravoso per la
similitudine
diabolicha la quale prende, onde
Cristo dà
similitudine nel
Vangielio dell'uomo che seminò buono seme nella
sua terra,
venne il suo nimicho e sopra seminò la
zenzania: questo nimico è il
dimonio, al quale è propio di
seminare
discordia e
zenzania, onde il seminatore
della
discordia e
zenzania è simile al
dimonio.
Terzo, la sua graveza si pruova per
salamonicha autorità:
dicie Salamone che
«
sette sono quelle cose che à inn odio Iddio, e lla settima tiene il sonmo grado
dell'odio: il primo è nelli occhi
alteri, la lingua
mendacie, le
mani che
sparghono il
sanghue
innociente, el
core pensante le pessime
chogitazioni, ei veloci piedi a
correre al male, el testimonio
fallacie e 'l settimo, che ttiene sonmo grado d'odio, è
colui che semina infra ' prossimi
discordia».
E così è manifesto la sua graveza.
L. V, pt. 13
Detto della
discordia seguita della contenzione, la quale è suo esempro e
ramo. La contentione per li santi chosì si
difiniscie:
«Contentio est inpugnatio
veritatis per chonfidentiam clamoris», 'La contenzione è
inpungniazione della
verità per
confidenza di gridare
'. La graveza del quale vizio si
chonprende
per tre parti poste nella sua diffinizione: primo, ch'è atto e operazione di sonma
niquità; secondo, che questo vizio
dirittamente contasta alla sonma maestà; terzo,
per
chonsideratione
elata di propia malvagità.
Primo, sua graveza manifesta perch'è atto e operatione di sonma niquità, cioè
di
demonio, e questo è manifesto però che
dicie "è
inpungniatione", cioè
chonbattimento e
chontastamento, e questa è propia operatione di
dimonio fare
contro alla pacie e al
riposo della
mente. In questo vitio, come si leggie nel
Vita patrum, volse il
dimonio fare cadere
due frati ch'erano in grandissima
pacie e concordia diciendo a lloro che lla loro vita no
nn era buona sanza
esercitio
di parole, e
'nsengnòlli che della
schodella nella quale mangiavano
amendue
com'una l'uno diciessi "Questa è mia" e l'altro "In contrario, anzi è mia". E così
feciono diciendo chosì per una ora; e l'uno fu adirato, e l'altro incontanente disse
"E tua sia": incontanente il
dimonio visibilmente con grande
bocieria lassando
grande
fiatore
disparve da lloro; sicché vedemo che lla
chontentione è propia
operatione del
dimonio.
Sechondo, questo vizio contrasta
dirittamente alla sonma maestà, e questo si
manifesta in ciò che
dicie che lla contenzione è contraditione della verità, ma Dio è
verità secondo che
dicie
«Ego sum via veritas et vita», 'Io sono via e verità e vita
',
dunque la
chontenzione essendo
chontro alla verità è
chontro a dDio. Questo è
quello che
dicie Moisè
a' figliuoli d'Isdrael:
«Vidi cervicem vestram et
contentionem vestram, quia semper inique egitis contra dominum deum
vestrum», 'I' ò veduto la superbia vostra e la vostra contentione, ché sempre
avete
inniquamente operato
chontro a dDio vostro signiore
'.
Terzo, questo vizio è grave per
chonsiderazione della malvagità, onde il
chontenzioso per romore e grido
adimanda e disidera vettoria della
falsità e di ciò
seghuita
elazione della
mente, superbia e vanagloria del
core, e
confusione al
prossimo; e queste sono gravissime peccata.
Dunque questo pecchato è gravissimo et da fuggire.
L. V, pt. 14
Detto della
chontentione seguita della
dolosità, che sechondo li santi
chosì è difinita:
«Dolus est cum aliud agitur et aliud simulatur», 'La
dolosità è
quando uno
dicie e dimostra di fare una cosa e
fanne una altra
', in
demerito del
prossimo. Questo vizio è molto grave per tre
ragioni.
Prima, per
inprovisa offensione, la quale è molto
pericolosa che, come
dicie
santo Gregorio:
«Minus enim iacula feriunt que previdentur», 'El
pericholo
proveduto non sì forte offende chome quello che viene
inproviso
'; onde il
pericholo della
dolosità venendo
inproviso, però che mmi mostra di fare una
chosa e fai un'altra, è molto
pericholoso, e di ciò
dicie Salamone ne'
Proverbi
«Sicut nosius qui mittit lanceas et sagittas in mortem, sic vir qui fraudulenter
nocet amico suo», 'Sechondo come il
nocievole che manda la lancia e lla saetta a
uccidere, così l'uomo che fraudolentemente
nuocie
all'amico e 'l prossimo suo
'.
Sechondo, questo vizio è grave per
acumulatione e
adunatione di molti vizi,
che questo vizio non si puote operare sanza
chonchorso di molti altri vizii, cioè
sanza
mendacii, vanagloria, fraudolenzia, odio e molti altri vizi, onde
dicie
Salamone ne'
Proverbii «Labis suis intelligitur inimicus cum in corde
trattaverit dolum: quando sumiserit vocem suam ne chredideris ei quia settem
nequizie sunt in corde illius», 'Allo parlare
de' labri s'intende il nimico quando
nel quore pensa la
dolosità: quando parla no gli
chredere inperò che
sette nequizie
sono nel suo quore
'.
Terzo, questo vizio è grave però che è ispezie di
tradimento e di
proditione, il
quale è pessimo vizio e abominevole a Dio, del quale
dicie
Davit profeta
«Sepulcrum patens est guttur eorum lenguis suis dolose agebant: iudica illos
Deus», 'La
gola di
coloro che parlano
dolosamente è chome
sepultura puzolente, e
inperò Dio giudica cotali
persone
'.
E così è manifesto la graveza di questo vizio.
L. V, pt. 15
Detto della
dolosità seguita della
malingnità, la quale avengnia che ssia
in apparenza quasi vizio gienerale, ma sechondo che troviamo
disposto per li
santi è vizio speziale:
malingnità è
mala volontà quando l'uomo non puote più;
alchuni dicono che lla
malingnità è non rendere grazie
de' benificii ricievuti, e in
questo modo è una cosa
colla ingratitudine; altri dichono che
malingnità è
quando non solo non si rende bene per bene ma quando si rende male per
bene. E in queste tre
acciezioni si pruova questo vizio
pericholoso per la volontà
corrotta, secondo, per la mutua carità remossa, terzo, per la pravità
a la quale el
possessore di questo vizio s'accosta.
Primo, è
pericholoso per la volontà corrotta però che
dicie che lla
malingnità è
mala volontà: quando non puote più male adoperare adopera
cholla volontà, che
no
nn è
dolente del male ch'à fatto ma è
dolente che non puote più fare male. E
questa è
pericolosa condizione, che quello che ss'
adomanda
principalmente in
salute per questo vizio si
chorronpe, cioè il quore e lla buona volontà. E però
dicie
«Filii da michi cor tuum». Onde troviamo che santo Bernardo
adomanda il
dimonio "Che
potavamo fare a Dio che più li piaciesse?", rispuose che l'uomo li
dia
il mezo della luna, tutto el sole e 'l capo della rota: el mezo della luna è el
c,
tutto il sole è nel
o, e 'l capo della rota è le
r: cor, e questo è 'l
core; onde
per la
malingnità è
chorrotto il
core di non amare Iddio né ssé né 'l prossimo, e
«Qui non diligit manet in morte», 'Chi non ama
' dicie santo Giovanni,
'è in
morte
', onde grande è questo vizio per lo quale s'acquista
morte.
Sechondo, questo vizio è grave per la mutua charità rimossa, e questo è
secondo la sechonda
acciezione, cioè che non rende gratie
de' benifici ricievuti; e in
questo modo à ragione d'ingratitudine, la quale secondo santo Bernardo è vento
ardente e
diseccante la vena della
misserichordia di Dio; onde la mutua carità
adimanda che ssi renda bene per bene, se non chiude la via della misericordia,
sechondo che detto è.
La terza ragione perché questo vizio è grave è la grande
malingnità alla quale il
possessore di questo vizio s'achosta sechondo la terza
eccietione, in quanto rende
male per bene. Questi tali
veramente sono simili a
lLucifero magiore
dimonio,
al quale Dio facciendo tanta gratia ch'era infra li angeli come la
stella
Diana infra lle
stelle e pieno di scienza e di virtute, e elli non conosciendo tanto benificio si volse
fare non solo simile a Dio ma magiore di lui quando disse «Sopra l'
astra del
cielo», cioè della Trinità, «
exalterò la mia sedia»; e per questo vizio chadde nel
fondo dello inferno.
E però è manifesto la graveza di questo vizio.
L. V, pt. 16
Detto della
malingnità seghuita dello ingannamento:
inghannamento è
dolosa e fraudolente
decetione sotto l'orazione di parole fatta e studiosa scienza
dello
inghannante e in semplicie dello
inghannato. Lo
inghannamento si divide
in
due spezie: è ingannamento reale e
personale;
inghannamento
personale veste
spezial nome di
tradimento, reale puote alchuna volta essere sanza
tradimento; onde
diremo inprima del reale e poi spetiale chapitolo diremo del
personale.
L. V, pt. 16, cap. 1
Decezione reale è là
dove no
nn è né s'intende
pericolo
personale,
fatta in propia
utilità e in
detrimento dello ingannato su ornati e
cholorati sermoni
dimostranti
utilità dello ingannato; e questo
dicie Salamone:
«Inretevit eum
sermonibus et circhunvenit pauperem in ascondito», 'Elli il prese nelle reti delle
parole e ingannò il povero nell'
oschuro
'; in quanto che
dicie "
iretio di parole"
dimostra la
coloratione delle parole
colle quali si piglia lo ingannato, in quanto che
dicie "povero" dimostra la
utilità temporale dello
inghannante e lla
depauperazione
dello ingannato. La gravezza di questo vitio si dimostra in tre cose: in
expresione
del
mendacio, nella
dolosità del prossimo, nella pena del
suplicio.
Primo, in
espressione del
mendacio, ché raro questo vizio si chonmette sanza
esso, e secondo la
Schrittura «Os quod mentitur uccidit animam», 'La
boccha di cholui che
mente uccide l'anima
', onde greve è il vizio onde l'anima muore.
Sechondo, è greve per
dolosità che ssi mostra inverso il prossimo, il quale
sechondo la leggie è tenuto d'amare come se medesimo e elli studia
d'
inghannarllo molte volte in parole
choperte o per modo di
schusa ponendo
comuni vizii, e quelli che à chon quelli che no
nn à, proferendo in modo per lo
quale al prossimo no
nn è però
palese il vizio, come nelli
cavallivendoli o nelli
chozoni li quali con loro
dicieria comune e usata
mentovano tutti e malori infra ' quali
mettono alchuno vizio il quale sentono la bestia avere non
esperando più esso
vizio il quale à che quello che no
nn à. Tutte queste sono spezie di
decietione né
non si
schusano per tale
dicieria comune, onde brievemente nota che in tutte
vendite e conpere o
canbi nelle quali o per
menzongne o per
colorate parole il
prossimo s'inchina a conperare o canbiare, in tutto in che se
dannaggia esso
prossimo
sedutto per tali
inghannamenti è tenuto a sodisfare quanto
ad anima, però
che Dio chomanda che ttu puramente
ami il tuo prossimo chome tte.
Terzo, questo pecchato è grave per la pena la quale chotale avere aquistato chon
questi
inghanni aducie dopo sé, onde
dicie l'appostolo
«Divizie vestre putrefatte
sunt et vestimenta vestra a tineis comesta sunt, aurum et argentum vestrum
eruginavit et erugo eorum erit vobis in testimonium et manducabit carnes vestras
sichut ignis», 'Le vostre richeze sono fracide, le vostre vestimenta dalle tingniuole
mangiate, l'oro e l'argiento vostro è
inrugginito: essa
ruggine sarà infine in loro
testimonio e mangierà la vostra charne come foco ardente
'; onde adimandò il
profeta a dDio "Chi andrà in gloria e salirà nel monte santo?", rispuose "Chi non va
chon
dolosità inverso del prossimo né no· llo
inghanna", onde per contrario
chi fa queste chose, che llo
inghanni e
dolosamente e fraudolentemente vada
chontra llui, non
vvi puote salire.
E però è manifesto la sua graveza.
L. V, pt. 16, cap. 2
Detto dello ingannamento reale seguita del
personale, lo quale ricieve
nome di
tradimento e, sechondo la
resonanzia del nome,
pericholosa traditione per
mentire fatta, ché cchi trade
mente d'amare. È gravissimo questo vizio per tre
ragioni: prima, per la malizia del
tradente, sechondo, per la innocienzia e
inprovedenza del
patiente, terzo, per la pena seghuente.
Primo, per la malizia del
tradente: è nel
mondo più abominevole nequizia che
sotto spezie d'amore
occidere e sotto spetie di maggiore virtute forare
mortalmente
il
core? Di questi
dicie Salamone ne'
Proverbii «Meliora sunt vulnera diligientis
quam fraudulenta oscula odientis», 'Migliori sono le ferite dell'amico
che ' fraudolenti baci del nimicho
', cioè del traditore, che
ll'amicho s'elli fere
prochura di risanare e 'l traditore s'elli bacia
procchura d'uccidere e d'amazare. Di
questo
dicie il profeta
Davit
«Etenim omo pacis mee in quo speravi, qui edebat
panes meos, magnificavit super me suplantationem», 'E l'uomo della mia pacie
',
cioè il quale mostrava essere tutta mia pacie,
'nel quale mi
chonfidava, mangiando il
mio pane
ordinò la mia distrutione e
morte
'. Onde questi chotali
mentendo
d'amare offendono.
Sechondo, è grave questo pecchato per la innocienzia e
inprovisione del traduto:
non è grande niquità quella che
ll'uomo amando sia odiato, fidandosi sia sfidato,
chontra ogni natura e ogni animale? Che nullo animale è che sse
congnioscie
d'essere amato che non
ami se no
nn è il traditore, che
fermamente vede ch'è
amato e quelli inodia. È grave per la
inprovisa offensione, che l'uomo non la
puote prevedere facciendosi sotto spezie d'amore; li
pericholi che ssi
proveghono
meno offendono, come
dicie santo Gregorio:
«Minus enim iacula feriunt que
previdentur», onde quelli che non si
proveghono molto offendono; è ciò che
dicie
Davit profeta:
«Si inimichus meus maledississet micchi sustinuisem utique, et
si is qui oderat me super me magna locutus fuiset ascondissem me forsitam ab eo;
tu vero unanimis, dus meus et notus meus, qui dulces capiebas cibos, in domo
domini anbulavimus cum consensu», 'Se llo mio nimicho avesse detto male di me
averielo
sostenuto, e se cholui che me innodiava avesse mostrato in parole
lo 'nganno forse mi saria
naschoso da llui; ma ttu eri una anima chon mecho, e era
mio rettore e amicho, e
mangiavi il mio pane
'; onde in quanto che
dicie «da questi
cotali l'uomo non si puote
naschondere» questo è vizio
pericholoso, del quale non
si puote avere difesa.
Terzo, è grave questo vizio per la grave pena che seghuita questo vizio,
corporale e spirituale:
chorporale ché
choloro che
cchagiono in questo pecchato qual
pena maggiore si puote pensare è dengnio di ricievere, e lli loro figliuoli di
redare, e
questo
dicie
Davit profeta in
«Deus laudem meam ne tacueris»; onde Giuda in
questo pecchato
crepò per mezo il
core, però che per pravità
contranaturale si
comette in
chore
merita gravissima pena; spirituale ché, come
dicie il predetto
profeta: «Stia
chontra di lui il pecchatore e 'l diavolo sia dalla sua dritta parte»,
«Vengha la
morte sopra di loro e viventi essi
disciendano allo inferno».
E però è manifesta la graveza di questo vizio.
L. V, pt. 17
Detto dello ingannamento reale e
personale seguita del gridare e garrire,
lo quale vitio prociede da
inpito d'animo per gloria aquistare a ssé e
ad altri
depriemere. Questo vizio è grave per tre cose: primo, per l'
ira
inpetuosa,
sechondo, per gloria viziosa, terzo, per offensione niquitosa.
Primo, è grave per
ira
inpetuosa: el garrire non prociede se non da animo
furioso, inordinato, acieso in vendetta, e però questi tali sono
asimigliati a cani
latranti ché per
ira di vendetta
latrano, e di questi
dicie
Davit profeta
«Circhundederunt me canes multi», 'E mi
circhundarono molti cani
', cioè
gridatori
maldicienti; e inperò essendo i
nn esso il vizio dell'
ira tutti li
pericholi e
lle graveze che sono nel chapitolo dell'
ira si possono qui redurre e
intendere. E
non solo tali pecchano in sé ma pecchano in altrui, i quali per loro gridare
conmuovono a simile
ira e
gharrire.
Sechondo, è grave per gloria viziosa la quale intende d'aquistare il gridatore e
'l
gharritore, che per suo gridare
chrede avere vittoria e però
exalta la sua
vocie che
lla sua sia udita e quella del prossimo
deprensa e abatuta, e però suole dire l'uno
all'altro "Non m'
abatterai di parole", e sse l'uno grida e l'altro grida; sicché
questo vizio no
nn è sanza vanagloria, la quale secondo che ssi dirà è gravissimo
vitio. Questi tali sono
assomigliati al
lione che
chollo mugito intende abattere
ogni
fiera, e di ciò
dicie santo Agostino
«Leo est propter inpetu, draco
propter insidias: leo aperte irascitur, draco occulte insidiatur»; parla del diavolo
principalmente, il quale si puote dire
de' gridatori e
de' traditori: il gridatore è leone
per
inpito, che
apertamente s'adira, e 'l traditore è
draco, che
occhultamente
offende, e chosì questi tali
simigliandosi a queste bestie per queste
propiatà, e al
dimonio
similmente, manifesta cosa è che questi tali sono simili al
dimonio.
Terzo, per offensione niquitosa, che 'l gridatore e
garritore per potere depremere
il prossimo e
ridurllo a niente e per la
acciensione del sangue e dell'
ira e
rischaldamento del gridare à per niente di dire la
falsità e lle
menzognie e
infamare
inniquamente il prossimo e
depremiarlo e abatterlo. E
dicie il profeta
«Exarserunt
sicut ingnis in spinis», 'Elli mi vennono adosso ardenti come il fuoco infra lle
spine
', che ogni cosa arde.
E
massimamente questo vizio rengna nelle fenmine, che avaccio
colghono
furiosa
ira e
clamosa per tostana
inclinatione e per la inperfezione della ragione,
chome fu detto nel trattato della natura delle fenmine. E d'esse
dicie Salamone
ne'
Proverbii «Mulier clamosa et stulta plenaque ilecebris et nichil omnino
sciens sedet in foribus domus sue super sellam in excelso urbis loco ut vocaret
transeuntes per viam, et vecordi locuta est», cioè
'La fenmina
clamosa
',
gharritricie,
'e stolta, piena di male
dilettazioni e al postutto semplicie
', sanza
sapienza,
'sede inanzi la sua casa i
nn alto loco gridando, chiamando
choloro che
passano e malvagità di
core parlando
'.
E così è manifesto la graveza di questo vitio.
L. V, pt. 18
Detto del gridare e garrire seghuita del
moltoloquio overo molto parlare, lo
quale è grave vizio per tre
ragioni: primo, è grave questo vizio per la offesa del
chreatore, sechondo, per lo tedio dello uditore, terzo, per lo
inchontento del sermone.
Primo, dicho ch'è grave questo vizio per l'offesa del chreatore inperò che nel
molto parlare rade volte vi vengono meno
menzongnie; inperò
dicie Salamone ne'
Proverbi «In multiloquiis non deest peccatum, qui autem moderatur labia
sua prudentissimus est», cioè
'in molto parlare non viene meno pecchato, chi
tempera le sue labra è prudentissimo
'; e inperò si suole dire
volgharemente
«Chi molto parla spesso
falla», in mentire spesse volte parlando del prossimo e in
molti modi onde si
cogle la offensione del chreatore.
Sechondo, è rio vizio per lo tedio dello uditore, al quale gienera
inchrescimento
d'udire tanto parlare e
consequentemente fuga l'amore inverso del parlatore.
Achresciesi per questo vizio infamia e schifamento di
soziale chonpagnia per
inchrescimento del molto parlare, ed è chiamato parlatore e
menzoniere però che
sanza
menzognie rade volte puote essere.
Terzo, è grave questo vizio per lo
inchontento del sermone overo della chosa che
si parla, che s'ella è buona la
facie diventare
inchontenta, vile e schifata dalli uditori.
Onde santo
Geronimo
amuniscie li predichatori e tutti i
prenutiatori della parola di
Dio che brievemente
debbano dire aciò che 'l cibo spirituale che
debba
confortare e
nutrichare l'anima non si
converta in
inchontento e in tedio dello uditore, e così
onde
debba uscire
merito e
premio ne
riescha
demerito (et)
tormento. Onde se
questo chomanda delle parole di Dio, che sono cibo
chonfortativo dell'anima,
quanto
maggiormente dell'altre chose
mondane, che overo sono
ad essa contrarie
overo non utile? Onde inn ogni chosa che
ll'uomo à a parlare
debba avere regola e
modo, e inn esso molto si
chonoscie la
persona inperò che 'l parlare procciede dalla
meditazione del quore, onde è proverbio romano «Parla, mo te conoscho».
L. V, pt. 19
Detto del
moltoloquio è da dire della
mormoratione, la quale è tedio e
inchrescimento d'alchuna filicità del prossimo chon
mormorità di
vocie manifestato
con
iscusa di
zelo chomune overo spetiale. La graveza del quale vizio si
manifesta per tre
ragioni: primo, perché è spezie e
menbro d'invidia, secondo, che
non
care e
abrama livore e
discordia, terzo, per autorità
salamonica.
Primo, però ch'è spezie e parte d'invidia, però che ogni
mormoratione prociede
da invidia e
dolore che à il
mormoratore d'alchuna filicità che vede al prossimo di
chui
mormora, sechondo ch'è manifesto nella sua difinitione; onde la graveza
che ssi tratta della invidia puote essere
similmente di questo vizio, come è manifesto
a cchi bene lo considera, però che ongni cosa ch'apartiene al genere è alla spezie in
quanto non discrepa da essa.
Sechondo, è grave però che non
care e
abrama
discordia e
zinzania, che mestieri
è che dove è la
mormoratione e 'l
mormoratore lì sia livore,
zinzania e
discordia;
onde tutta la graveza del vizio della
zinzania e
dischordia si puote induciere a questo
vizio, chome
manifestamente appare.
Terzo, per grave offensione e
schandolo che alle volte inducie al prossimo,
chom'è manifesto per
salamonicha autorità, onde
dicie ne'
Proverbi «Verba
susurronis quasi sinplicia et ipsa pervertunt intima ventris», cioè
'Le parole del
mormoratore paiono quasi semplici: esse alle volte trapassono il
core
'; e però
dicie
Salamone inn esso
libro «Parti da tte la boccha malvagia e ' labri
mormoratrici
dilunga e dischaccia da tte».
L. V, pt. 20
Detto della
mormoratione seghuita delli schernitori. Lo schernire non è
altro se non el prossimo con
elazione e
inchontento per atto o per parlare
dispregiare. La graveza di questo vizio si dimostra in tre chose: primo, nella
pericholosa maladizione, sechondo, per poco frutto e grande pena che inducie allo
schernitore, terzo, per autorità di Salamone.
Primo, mostrasi questo vizio pravo e grave nella
pericholosa maladizione, ché
per questo vizio si
ricievé la prima
maladitione data da uomo che
induciesse
pericholo: trovamo che
nNoè giusto
plantando la prima vingnia ed esso inprima
ch'altra
persona
innebriando e
dischoprendosi, della sua vergognia
palese
dimostrando, il suo figliuolo
Cham sì llo schernio e rise, e l'altro figliuolo,
Seth, lo
choperse e
vergogniòne; il padre, cioè
Noè, tornando inn istato e
richordandosi di
quello ch'era stato maladisse il suo figliuolo Cam e disse
«Maledittus Cam qui
non operruit verenda patris sui», cioè
'Maladetto sia Cam ché non coperse la
verghognia de suo padre
', e poi benedisse
Seth; e di questo seghuitò che d'esso
Cam naquono figliuoli per li quali fu la fine del
mondo, e
naquorne gioganti
cananei,
pessima generatione.
Sechondo è grave questo pecchato per
poca
utilità e grave pena che inducie allo
schernitore, sechondo ch'è
palese nel ladrone
schernente Cristo quando era nella
chrocie che nn'aquistò pena
etternale, e l'altro per
divozione (et) pietà e fede
aquistò gloria
senpiternale.
Terzo, è manifesta la sua graveza per detti di Salamone, lo quale
dicie
ne'
Proverbii «Abominatio domini omnis illusor et illusores ipse deludit»,
'L'
abominatione di Dio è ogni schernitore, e esso Iddio
scherniscie li
schernitori
'.
L. V, pt. 21
Detto delli schernitori seghuita
de' falsi lusingatori e
de' lusingamenti, el
quale vizio è
pericholoso per tre
ragioni: primo, considerato il falso
lusinghatore,
sechondo,
chonsiderato della falsa
lusinga
ricievitore, terzo,
chonsiderato il
pericholoso fine e
condutione.
Primo, è
pericholoso
chonsiderato il falso lusingatore che
falsamente lusingando
chonmette adulatione,
tradimento e 'nghanno, onde tutti e
pericholi che ssono detti
nelli chapitoli di questi tre vizi si possono redurre a questo vizio, onde se lli vuogli
sapere
ciercha inn essi di sopra.
Sechondo,
chonsiderato il lusinghato il quale è pieno di fe' e di speranza ed è
innociente quanto in questa parte, il quale si
chonducie quasi in desperatione
trovandosi essere inghannato, come fu manifesto ne li amici di
Giob.
Terzo, per lo
pericholoso fine al quale
conducie il lusingato, come fu manifesto
in Sansone che fu ciecho per le
lusinghe di
Dalida,
Iudit a
Eloferne
taglò la testa, e
diversi mali n'
eschono; e di ciò
dicie Salamone ne'
Proverbii «Labia meritricis
favul distillans et nitidius oleo guttur eius, novissima autem eius amara quasi
asintium et aguta quasi gladius biceps», cioè
'E labri della puttana
', cioè del
lusingatore che non à fronte chome la puttana,
'sono come il
fiadone del
mele e lla
sua
gola lucida come oleo, la sua fine è più amara ch'
asenzio e aghuta come coltello
da
due tagli, ei suoi piedi
chorrono a
morte e lle sue vestigie
e
ll'inferno
'; onde
molte altre parole diciendo seguita «
Acchappialo in rete di molte parole e chon molte
lusinghe il trae a ssé: inchontanente lo
inghannato seghuita lo 'ngannatore
sechondo che 'l bue si mena a uccidere, e chome l'
angniello è
ingniorante che a'
leghacci delle
lusinghe sia tratto, per fine a tanto che lla saetta della
lusinga non
passa il suo
fegato», cioè per infino a tanto che 'l
dannaggio della
lusinga non
passa il quore poi che 'l sente; onde Salamone molto di ciò parla.
Però si puote questo vizio chonprendere
grava.
L. V, pt. 22
Detto delle
false
lusinghe e
lusinghatori seguita della
pigritia. Questo
vizio è
pericholoso per tre
ragioni infra l'altre: primo, che
chonducie il possesore
a
otiosità, secondo, sì 'l
conducie a
povertà, terzo, sì 'l
conducie a
pericholoso
termine
finale.
Primo, la pigrizia
conducie l'uomo
ad
otiosità, che l'uomo ch'è pigro
d'
exercitare la sua
persona diventa ozioso e per l'
oziosità chade in molti vizii di
pericholose cogitazioni carnali e
mondane e in tanto il diavolo prende arme e
potenzia sopra dell'uomo, onde
dicie santo Bernardo
«Fuge otium et senper
aliquid boni facito ut te diabolus inveniat occupatum», cioè
'Fuggi l'
otiosità e
sempre fa alcuna chosa di bene, acciò che 'l diavolo ti truovi
occhupato
'.
Sechondo, la
pigritia
conducie l'uomo a non volontaria
povertà, onde
dicie
Salamone ne'
Proverbii «Usquequo pigher dormis? Quando consurges ex
sopno tuo? Paululum dormies, paululum dormitabis, paululum conseres manibus pettus,
et veniet tibi quasi viator egestas et pauperies quasi vir armatus», adomanda
Salamone e
dicie al pigro
'Rispondi, pigro: quanto
dormirai? Quando ti leverai del
tuo sonno? Poco
dormi, poco
dormirai, poco ti
liscierai il tuo petto, e sechondo che
uno
corrieri la
carestia verrà
contro a tte, e lla
povertà come huomo armato
' dal
quale non potrai champare né difenderti; e inperò dà buono
consiglio e
dicie
«Vade ad formicam, o pigher, et disce sapientiam que, cum non habeat ducem
nec precettorem nec principem, parat estate cibum sibi et congregat in mense
quod comedat; si vero inpigher fueris veniet ut fons messis tua et egestas longe
fugiet a tte», 'O pigro, va alla
formicha e prendi da essa sapienza che, chon ciò sia
chosa che non abbia signore né prencipe né rettore, nella
state aduna tanta
biada
che per tutto l'
anno basta a mangiare; se ttu non sarai pigro la
biada tua e lle vittuali
risurgeranno come fonte e lla
povertà dalla lungha fuggirà
'.
Terzo, la
pigritia
chonducie a
pericolosi e
obrobiosi fini, a furti, a tradimenti per
povertà, overo che lli fa stento; e per questo è
pericholosa e molto da fuggire
||.