Leggenda AureaAnonimoConsiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto Opera del Vocabolario ItalianoBeato Iacopo da Varagine, Leggenda Aurea, Volgarizzamento toscano del Trecento, a cura di Arrigo Levasti, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 1924-1926, voll. 3.Leggenda AureaAnonimo14001351AL-00200tosc.fior.did. rel. 1351-1400
TitoloQueste sono le leggende di Santi ordinate da messere frate Iacopo, arcivescovo di Genova, de' Frati Predicatori.
PrologoTutto il tempo de la vita presente si divide in quattro: cioè nel tempo de lo sviamento, nel tempo del rinnovellamento, nel tempo del riconciliamento, nel tempo de la pellegrinazione. Il tempo de lo sviamento fue da Adamo, poi ch'egli si sviò da Dio, e durò insino a Moises; e questo tempo rappresenta la Chiesa da la Settuagesima insino a la Pasqua. Onde allotta si legge il libro del Genesi, nel quale si pone lo sviamento che fecero da Dio lo primo nostro padre e la prima nostra madre. Il tempo del rinnovellamento, ovvero richiamamento, cominciò da Moises e durò insino a la natività di Cristo. Nel qual tempo furono gli uomini, per li profeti, richiamati a la fede e rinnovati. E questo tempo rappresenta la Chiesa da la prima domenica de l'Avvento insino a la nativitade di Cristo. Onde allora si legge lo Isaia, nel quale apertamente si tratta di questo rinnovellamento. Il tempo del riconciliamento è il tempo nel quale noi siamo riconciliati per Cristo; e questo tempo rappresenta la Chiesa da la Pasqua insino a la Pentecoste. Onde allora si legge l'Apocalissi, ove pienamente si tratta del misterio di questo riconciliamento. Il tempo de la pellegrinazione è il tempo de la presente vita, nel quale noi siamo pellegrini e in battaglia continua. E questo tempo rappresenta la Chiesa da l'ottava de la Pentecoste insino a la prima domenica de l'Avvento. Onde si leggono allora i libri de' Re e de' Maccabei, ne' quali si tratta di molte battaglie per le quali sono significate le nostre spirituali battaglie. Ma quello tempo ch'è da la nativitade insino a la Settuagesima, parte si contiene sotto il tempo de la riconciliazione, il quale è tempo di letizia, cioè da la nativitade insino a l'ottava de la Befania, e parte se ne contiene sotto 'l tempo de la pellegrinazione, cioè da l'ottava di Befania insino a la Settuagesima. E puotesi imprimieramente qui prendere la variazione di questi quattro tempi secondo i quattro tempi de l'anno, sì che il verno si rechi al primo, la primavera al secondo, la state al terzo, e l'autonno al quarto. E la ragione di questa appropiazione è assai manifesta. Secondamente si puote prendere questa variazione de' tempi secondo la distinzione de' quattro tempi del die, sì che la notte si rechi al primo, la mattina al secondo, il meriggio al terzo, il vespro al quarto. E avvegna che prima fosse lo sviamento che rinnovellamento, tuttavia la Chiesa più anzi comincia tutti i suoi ufficii nel tempo de lo rinnovellamento, che nel tempo de lo sviamento, cioè più anzi ne l'Avvento che ne la Settuagesima. E questo fa per doppia ragione. La prima è acciò che non paia ch'ella si cominci da errore; e così tiene e pone la cosa non seguitando l'ordine del tempo, secondamente che fanno i Vangelisti, spesse volte, nel Vangelo. La seconda ragione è però che per lo avvenimento di Cristo tutte le cose sono rinnovate; per la qual cosa questo tempo è detto tempo di rinnovellamento, sì com'è scritto ne l'Apocalissi: "Ecco io fo nuovo tutte le cose". Convenevolemente adunque, in questo tempo del rinnovellamento, la Chiesa rinnovella tutti i suoi uffici. E acciò che l'ordine del tempo distinto da la Chiesa s'osservi, prima tratteremo de le feste le quali corrono infra 'l tempo del rinnovellamento: il quale tempo rappresenta la Chiesa da lo Avvento insino a Natale. Nel secondo luogo tratteremo di quelle che corrono infra 'l tempo che, parte si contiene sotto 'l tempo de la riconciliazione, e, parte, sotto 'l tempo de la pellegrinazione: il qual tempo rappresenta la Chiesa, da la nativitade insino a la Settuagesima. Nel terzo luogo tratteremo di quelle che corrono infra 'l tempo de lo sviamento, il quale si rappresenta da la Settuagesima insino a la Pasqua. Nel quarto luogo tratteremo di quelle che corrono infra 'l tempo de la riconciliazione, il quale rappresenta la Chiesa da la Pasqua insino a l'ottava di Pentecoste. Nel quinto luogo tratteremo di quelle che corrono infra 'l tempo de la pellegrinazione, il quale è da l'ottava di Pentecoste insino a l'Avvento.
cap. 1, L'AvventoL'avvenimento del Signore si fa per quattro settimane a significare che quattro sono li suoi avvenimenti, cioè in carne, in mente, a la morte e al giudicio. Ma la sezzaia settimana appena si compie; imperò che la gloria dei santi, che si darà nel sezzaio avvenimento, giammai non avrà fine. E quinci è che 'l primo risponso de la prima Domenica dell'Avvento, compitando il Gloria Patri, hae quattro versi, acciò ch'elli significhi questi quattro avvenimenti. Ma a qual di questi maggiormente si convegna, il savio leggitore sì 'l ponga mente. E avvegna che quattro sono gli avvenimenti, la Chiesa spezialmente de' due pare che faccia memoria, cioè de lo avvenimento in carne e de lo avvenimento al giudicio, sì come si manifesta ne l'ufficio di quel tempo. Quinci è ancora che 'l digiuno de l'Avvento è parte d'allegrezza e parte di pianto; per cagione de lo avvenimento in carne è detto digiuno di letizia; per cagione de lo avvenimento al giudicio, è detto digiuno di pianto. E a ciò dimostrare canta allora la Chiesa certi canti di letizia; e questo fa per l'avvenimento de la misericordia e de l'allegrezza, e alquanti canti lascia per l'avvenimento de l'aspra giustizia e pianto. Quanto a l'avvenimento in carne due cose si possono vedere, cioè la convenevolezza de l'avvenimento e l'utilitade. La convenevolezza de l'avvenimento si mostra prima da la parte de l'uomo, il quale, ne la legge de la natura, fue convinto che per se medesimo non potea conoscere Iddio; onde allora cadde in pessimi errori d'idolatria, e però fu costretto di gridare, dicendo: "Allumina, Signore, gli occhi miei acciò ch'io non dorma ne la morte". Poscia venne la legge comandata, ne la quale fue convinto del non potere, con ciò fosse cosa ch'egli imprima gridasse, dicendo: "Ben ci è chi farebbe, ma non è chi comandi". Quivi solamente fu l'uomo ammaestrato, ma non fue liberato del peccato,fue atato, per alcuna grazia, a operare lo bene; e imperò fue costretto di mutare, e di dire: "Ben è ch'io comandi, ma non è chi adoperi". Convenevolmente adunque venne il figliuolo di Dio, quando l'uomo era già convinto del non conoscere e del non potere; ché, se imprima fosse venuto, avrebbe l'uomo creduto essere salvato per li suoi meriti medesimi, e così non sarebbe grato e conoscente al medico. Secondariamente si mostra la convenevolezza de l'avvenimento da la parte del tempo, imperò che venne quando fu adempiuto il tempo, del quale avevano detto le Scritture, sì come dice san Paolo apostolo ne la Pistola che mandò a quegli di Galata: "Quando venne l'adempimento del tempo, mandòe Iddio il suo figliuolo". E santo Agostino dice che molti dicono: "Perché non venne Cristo più tosto? imperò che ancora non era venuto l'adempimento del tempo, modificando colui per lo quale son fatti i tempi". E quando venne l'adempimento, venne quelli che noi liberò dal tempo, e, liberati dal tempo, verremo a l'eternitade là ove non è tempo. Nel terzo luogo si mostra la convenevolezza de l'avvenimento da parte de la fedita e infermità universale. Imperò che la infermitade era universale, convenia che si desse medicina universale. Onde dice santo Agostino: "Che allora venne il gran medico quando per tutto 'l mondo giaceva il grande infermo". Onde la Chiesa, in sette antefane, che si cantono anzi Natale, dimostra le molte infermitadi e di catuna domanda il rimedio del medico. Innanzi a l'avvenimento del figliuolo di Dio in carne eravamo come ciechi, sanza conoscimento, obbligati a le pene eternali, servi del diavolo, vinti di mala consuetudine di peccare, adombrati di tenebre, sbanditi e discacciati da la patria. E però abbisognavamo d'ammaestratore, di ricomperatore, di liberatore, di guidatore, d'alluminatore e di salvatore. Adunque, però ch'eravamo sanza conoscimento, abbisognava d'essere ammaestrati da lui. E però ne la prima antefana gridiamo: "O sapienza che de l'Altissimo uscisti, vieni ad ammaestrare noi parole di saviezza". Ma poco gioverebbe se fossimo ammaestrati e non ricomperati, e però domandiamo d'essere ricomperati da lui, quando noi gridiamo ne la seconda antefana: "O Adonai e guidatore de la casa d'Israel, vienci a ricomperare nel braccio disteso". Ma che gioverebbe essere ammaestrati e ricomperati, se ancora fossimo imprigionati? E però domandiamo d'essere liberati, quando ne la terza antefana gridiamo: "O radice di Gesse, vieni a liberare, e non tardare". Ma che gioverebbe a' pregioni essere ricomperati e liberati, se non fossero da ogni legame sciolti, e fossero in loro podestade, o liberamente andassero là dove volessero? Certo poco prode ci sarebbe suto se ci avesse ricomperati e liberati, s'ancora ci tenesse legati. E però da ogni legame di peccato domandiamo d'essere sciolti, quando ne la quarta antefana gridiamo: "O chiave di David, che chiude e neuno apre, apri, e neuno chiude, vieni, e trai coloro che sono legati de la casa de la carcere". E però che quelli che lungo tempo sono stati in carcere hanno gli occhi ottenebrati e non possono vedere chiaro, poi che siamo de la carcere liberati, domandiamo d'essere alluminati, quando ne la quinta antefana gridiamo: "Oriente, splendore de la luce eternale, vieni, e allumina coloro che seggiono ne le tenebre e ne l'ombra de la morte". Ma se fossimo ammaestrati, e al tutto da e' nemici liberati, che varrebbe se noi non ci dovessimo salvare? E però ne le due sezzaie antefane domandiamo d'essere salvati, quando gridiamo: "Vieni, salva l'uomo lo quale tu formasti del limo"; e anche "Emmanuel, vieni a salvarci, Signore Iddio nostro". Ma ne la prima domandiamo la salute de' pagani, che non erano del popolo di Dio, onde diciamo: "O Re de le genti". Ne la seconda domandiamo la salute de' giuderi, a' quali Dio diede la legge, onde diciamo: "O Emmanuel, duca e dottore nostro de la legge!". Nel secondo luogo si puote vedere l'utilitade de l'avvenimento. L'utilitade de l'avvenimento del figliuolo di Dio è da diversi santi in diversi modi assegnata, ché nel Vangelo di santo Luca Cristo nostro affermaessere venuto per molte utilitadi, e dice così: "Lo spirito del Signore è sopra me"; e aggiugne sé essere mandato a predicare a li poveri e dare loro consolazione, a sanare i percossi nel cuore, a deliberare i pregioni, ad alluminare i ciechi, a perdonare li peccati, a ricomperare tutta l'umana generazione, e a guiderdonare i buoni. Santo Agostino n'assegna tre utilitadi, e dice: "In questo secolo maligno che abbonda, se non nascere, affaticare e morire? Queste sono le mercatantie del nostro paiese, e a cotali mercatantie discese quello mercatante. E imperò ch'ogni mercatante dà e toglie, dàe quello che hae, e toglie quello che non hae, Cristo in questa mercatantia diede e tolse: tolse quello che qui abbonda, cioè nascere, affaticare e morire; diede rinascere, risucitare e eternalmente regnare. Esso medesimo, mercatante celestiale, venne a torre da noi vergogna e dare onore, sostenere morte e dare vita, ad avere disonore e dare gloria". San Gregorio pone quattro utilitadi, e dice così: "Studiavano li superbi ingenerati de la schiatta d'Adamo a disiderare le cose dilettose di questa presente vita, e a schifare le cose aspre, a fuggire le vergogne, a seguitare gloria. Venne intra noi il Signore incarnato volendo l'aspre cose, e le dilettose sprezzando, abbracciando le vergogne, e fuggendo la gloria". Anche dice "Cristo, aspettato, venne; vegnendo, nuove cose ammaestrò; ammaestrando, adoperòe cose maravigliose; faccendo opere maravigliose, sostenne cose malvage". San Bernardo pone altre cagioni, e dice: "Di tre infermitadi miseramente eravamo affaticati, e, affaticati, siamo agevoli ad ingannare, debili ad operare, fragili a contrastare; se vogliamo scernere tra 'l bene e 'l male siamo ingannati. Se ci proviamo di fare il bene, vegnamo meno; se ci sforziamo di contrastare al male, siamo soperchiati. Adunque fue necessario l'avvenimento del Signore acciò ch'abitando in noi per fede, allumini la nostra ciechitade, e, permagnendo con noi, aiuti la nostra infermitade, e stando per noi difenda la nostra fragilitade, e per noi combatta". Quanto al secondo avvenimento, al giudicio, due cose si vogliono vedere: cioè le cose ch'andranno innanzi al dì del giudicio, e le cose che, insieme quasi, verranno col giudicio. Le cose che andranno innanzi sono due, cioè i segni terribili, e l'avvenimento di Cristo. I segni terribili ch'avverranno sono cinque. Secondo il Vangelo di Luca saranno, ciò dice, segni nel sole, ne la luna, ne le stelle, e, in terra, pressura di genti per la confusione del suono del mare e de le tempestose onde. I tre primi segni si diterminano ne lo Apocalissi. "Il sole, ciò dice, è fatto nero sì come sacco di cilicio, e la luna è fatta sangue, e caddero le stelle del cielo". Il sole è detto oscurare quando è privato del suo lume, sì che il padre de la famiglia di tutte le criature, cioè l'uomo, morendo, paia quasi il sole piagnere; ovvero è detto d'oscurare per sopravvenimento di maggiore luce, cioè sopravvegnendo la grandissima chiarezza di Cristo; ovvero quanto a simiglianza di modo di parlare, quasi dica: "Sì sarà crudele la vendetta di Dio, che 'l sole non ardirà di guatarla". Il cielo del quale dice che cadranno le stelle, è questo aere; e le stelle che hae, cadranno. Son vapori accesi ed alti in questo aere, e son chiamati Assub; i quali vapori accesi hanno, quanto al nostro vedere, somiglianza di stelle. E dicono volgarmente le genti rozze che le stelle caggiono di cielo quando quello cotale vapore acceso, c'ha nome Assub, scende giuso; onde la Scrittura si conforma al comune modo di parlare de le genti. E, allora, spezialmente sarà quella impressione ne l'aere e accendimento di vapori, che parrà che molte stelle vadano caggendo e movendosi per l'aere. E questo farà Iddio a spaventamento de' peccatori. Ovvero saranno dette cadere le stelle del cielo, imperò che catuna parrà ch'abbia un viluppo di fuoco ch'esca di lei; ovvero che molti, che parevano stelle ne la Chiesa per isplendore di dottrina e di belli costumi, cadranno; ovvero che le vere stelle fisse nel cielo ritrarranno a sé il loro lume, e non si vedranno. Del quarto segno, che sarà pressura ne le terre, si legge nel Vangelo di san Matteo che sarà allotta tribulazione tale chente mai non fu dal cominciamento del mondo. Il quinto segno, cioè la confusione del mare, alcuni stimano che sia che 'l mare con gran fragore si muterà da la sua qualitade di prima, secondo quella parola de l'Apocalissi, che dice: "Il mare già non è"; ovvero, secondo che dicono altri: "Quel gran suono sarà nel mare, quando elli si leverà sopra se medesimo, alto quaranta braccia sopra tutt'i monti, e poscia diverrà più piccolo che non era prima". Ovvero, secondo il detto di san Gregorio: "Sarà allora una e giammai non udita perturbazione de le tempestose onde del mare". San Gregorio trovòe in uno libro, che si chiama Annale, che sono certi libri de li Giudei, XV segni ch'andranno innanzi al giudicio. Ma s'elli debbiano essere continuvi l'uno a lato a l'altro, ovvero mettendo tempo in mezzo, nol dice. Il primo die si leverà il mare in alto quaranta braccia sopra tutte l'altezze de' monti, stando nel luogo suo come mura. Il secondo die scenderà tanto che appena si potrà vedere. Il terzo die li pesci del mare appariranno disopra, e metteranno sì grandi mugghi ch'andranno insino al cielo, e i loro mugghi solo Iddio intenderà. Il quarto die arderàe il mare e l'acqua. Il quinto die gli alberi e l'erbe daranno gocciole di sangue, e, secondo che alcuni dicono, tutti gli uccelli si raguneranno ne' campi, catuna schiatta per sé, nel suo ordine, non mangiando, né beendo, ma spaventosi aspettando l'avvenimento del giudice. Il sesto die rovineranno tutti i difici, e, secondo che si dice, fummi di fuoco si leveranno dal ponente, contra la faccia del fermamento, correnti infino al levante. Il settimo die le pietre si percoteranno insieme, e fenderannosi insieme in quattro parti, e catuna parte, si dice, che percoterà l'altra, e quel suono non saprà altri che Dio. L'ottavo die saràe generale terremoto, cioè che, per tutto quanto il mondo, tremerrà la terra di sì gran maniera, che nullo uomo, né animale potrà stare ritto, ma tutti cadranno a terra. Il nono die si ragguaglieranno tutti i monti e la terra, e torneranno in polvere. Il decimo die usciranno gli uomini de le caverne, e andranno come smemorati e non si potranno insieme parlare. L'undecimo die si leveranno tutte l'ossa de' morti e staranno sopra i loro sepolcri, e, tutt'i sepolcri, dal levante insino al ponente, s'apriranno, perché i morti ne possano uscire fuori. Il duodecimo die caderanno tutte le stelle e tutte le pianete, e le stelle fisse spargeranno fiamme di fuoco, e dicesi che ogni animale verranno a i campi e non mangeranno,berranno. Il tredecimo die morranno tutti gli uomini, acciò che risuscitino poscia insieme con i morti. Il quattrodecimo die arderàe il cielo e la terra. Il quindecimo die fia cielo nuovo e terra nuova, e tutti risuciteremo. La seconda cosa ch'andrà innanzi al giudicio, andrà e sarà la faccia d'Anticristo, il quale, secondamente che si dice, trarrà a sé tutta quanta gente; imperò che in quattro modi si sforzerà d'ingannare ogni persona. Prima, per maliziosa lusinga e falsa sposizione de la Scrittura, sforzerassi di mostrare e conformare per la Scrittura com'egli sia Messia, promesso ne la legge di Cristo, secondo che dice il salmo: "Ordina Signore Iddio, datore di legge". Sopra loro la Chiosa spone e dice: "Ciò è Anticristo apportatore di mala legge". E Daniel dice: "E darà abbominazione e distruzione nel tempio". Ove dice la Chiosa: "Anticristo sedrà nel tempio di Dio sì come Iddio, acciò che tolga la legge di Dio". Secondariamente, per operazione de' miracoli, sì come dice san Paolo di lui ne la Pistola che mandò a Timoteo: "Il cui avvenimento fia secondo l'operazione di Satenasso in ogni vertude e maraviglie, e alte operazioni bugiarde". E ne l'Apocalissi si scrive di lui: fece maraviglie, sì che eziandio facesse scendere il fuoco di cielo in terra. Ove dice la Chiosa: "Secondamente ch'è a gli apostoli dato lo Spirito Santo in ispezie di fuoco, così egli darà lo spirito maligno in ispezie di fuoco". Nel terzo luogo per largimento di doni, onde dice Daniel. "Darà a lui podestà in molte cose, e partirà la terra graziosamente". Dice qui la Chiosa: "Anticristo donerà molte cose a coloro a cui li averà ingannati, e partirà la terra al suo esercito. E coloro che per paura non potrà sottomettersi, sottometteralli per avarizia". Nel quarto luogo per crudeli tormenti, onde dice Daniel: "Egli guasterà le cose assai più che noi non possiamo pensare". E san Gregorio dice così d'Anticristo: "Egli ucciderà i forti quando coloro, che ne la mente non possono essere vinti, vincerà nel corpo". La terza cosa ch'andrà innanzi al giudicio, sarà il grandissimo fuoco ch'andrà innanzi a la faccia del giudice. E quel fuoco manderà il Signore primieramente per rinnovellare il mondo. Egli purgherà e rinnovellerà gli elementi onde, secondamente che l'acqua del diluvio fue XV braccia sopra tutte l'altezze dei monti, così quel fuoco andrà alto, imperò che l'opere de l'uomo poterono cotanto salire. Secondamente per purgare gli uomini, imperò che a quelli che vivi si troverranno, sarà quel fuoco in luogo di purgatorio. Nel terzo luogo per maggiore tormento de' dannati. Nel quarto per maggiore lume de' santi, imperò che, secondo che dice san Basilio: "Fatta la purgazione del mondo, Dio dividerà il caldo da lo splendore di quel fuoco, e tutto il caldo manderà di sotto al paese de' dannati, acciò ch'eglino abbiano più tormento; e tutto lo splendore manderà al paese de' beati, acciò ch'abbiano più allegrezza". Le cose che, quasi insiememente verranno col giudicio, saranno molte. La prima fia l'esaminamento del giudice. Il giudice scenderà ne la valle di Giosafat e allogherà i buoni dal suo lato diritto, e i rei dal manco. E dovemo credere che sarà il luogo sì alto, che ogni uomo il potrà vedere. E non si dee intendere che tutti si rinchiudano in quella vallicella, ché questo sarebbe detto di fanciulli, secondo che san Geronimo dice, ma che saranno quivi e ne' luoghi d'intorno. In piccola terra si possono allogare migliaia d'uomini sanza novero, spezialmente quando si stringono, e, se sia bisogno, gli eletti saranno in aria per la leggerezza de' loro corpi. E anche vi potranno essere i dannati per la virtù di Dio che li leverà in alto. E allotta il giudice disaminerà li rei, e riprenderalli de l'opera de la misericordia che non ebbero in loro, per lui. E allora piagneranno tutti sopra se medesimi, come dice san Giovanni Grisostomo: "Piangeranno sopra se medesimi li Giuderi, veggendo vivere e vivificare gli altri, colui lo quale, sì come uomo, stimavano morto. E convincendo se medesimi, riconoscendo il corpo di Cristo fedito, il loro peccato non potranno celare". Piangeranno li pagani, i quali, ingannati per le vane disputazioni de' filosofi, pensarsi che fosse grande stoltizia adorare Iddio crocifisso. Piagneranno li cristiani peccatori, i quali maggiormente amarono lo mondo che Cristo. Piagneranno li eretici che pensarono lo Crocifisso ch'è puro uomo, acciò che veggano colui essere giudice nel quale punsero gli giuderi. Piangeranno sé tutte le schiatte de la terra, imperò che non ci è vertude di contrastare contra di lui, né possibile fia di fuggire dinanzi a la faccia sua, né luogo di penitenza, né tempo di soddisfare. E per l'angoscia di tutte le cose, non rimarrà loro altro che pianto. La seconda è la differenza de l'ordine, che, come dice san Gregorio: "Nel giudicio saranno quattro ordini: due da la parte de' dannati, e due da la parte de li eletti". Però che alcuni saranno giudicati e periranno, sì come a colui a cui fia detto: "Io ebbi fame, e non mi desti da mangiare". Altri non sono giudicati e periscono, sì come coloro a i quali si dice nel Vangelo di san Giovanni: "Chi non crede, già è giudicato"; imperò che non ricevono le parole del giudice coloro, che le parole de la sua fede non vollero servare. Altri sono giudicati e regnano, sì come sono coloro a i quali sarà detto: "Ebbi fame, e destimi mangiare". Altri non sono giudicati e regnano, sì come gli apostoli e gli uomini perfetti, che giudicheranno gli altri, non dando la sentenzia - che ciò solamente s'appartiene al giudice - ma stando presenti al giudice. Il quale stato sarà a grande onore de' santi. Grande onore sarà a sedere col giudice, sì come egli promisse loro, quando disse: "Voi sederete sopra dodici sedie, giudicando le XII tribù d'Israel". Secondariamente sarà il loro sedere a conformazione de la sentenzia; imperò che approveranno la sentenzia del giudice, secondamente che quelli che stanno presenti ad alcuno giudice, appruovano e scrivono la sua sentenzia. Onde il salmo dice: "Acciò che faccia il loro giudicio insieme scritto, e questo è gloria a tutt'i santi suoi". Nel terzo luogo a condannamento de' rei, i quali ellino condanneranno mostrando la sua migliore vita a loro. La terza cosa è i segnali de la passione, cioè la croce, i chiavelli e le margine de le fedite. E queste cose saranno primieramente in dimostranza de la sua gloriosa vettoria; e però appariranno in eccellenzia di gloria. Onde dice san Giovanni Grisostimo sopra 'l vangelo di san Matteo: che la croce e le margini saranno più lucenti che 'l razzo del sole. E dice: "Guarda quanta è la virtù de la Croce! Il sole oscurerà e la luna non darà il suo lume, acciò che tu appari a sapere come la Croce è più lucente che la luna e più chiara che 'l sole". Secondariamente saranno in dimostramento de la sua misericordia, acciò che quinci si dimostri come i buoni misericordevolmente sono salvati. Nel terzo luogo saranno in dimostramento de la sua giustizia, acciò che appaia come giustamente i rei sono dannati, imperò che tanto prezzo del suo sangue sprezzarono. Onde dice san Giovanni Grisostimo sopra 'l vangelo di san Matteo, ch'egli rimproverrà loro in queste parole: "Io per voi fatto uomo, legato, schernito, battuto e crocifisso; dov'è il frutto di tante mie ingiurie? Ecco il prezzo del sangue mio, lo quale io diedi in ricomperamento de l'anime vostre; ov'è il servigio vostro che m'avete dato per prezzo del sangue mio? Io v'ebbi sopra la gloria mia più cari, con ciò sia cosa ch'io fossi Iddio apparente uomo, e facestemi più vile che tutte le vostre cose. Certo ogni cosa vilissima de la terra amaste più che la mia giustizia, e che la mia fede". Queste cose dice san Giovanni Grisostimo. La quarta cosa si è la speranza del giudice che non si piegherà per paura, imperò ch'è potentissimo. E dice san Giovanni Grisostimo che non è vertude di contrastare a lui, né per donamenti si piegherà, imperò ch'egli è giustissimo. Onde dice san Bernardo: "Verrà quel die nel quale più varranno i puri cuori che l'astute parole, e più la coscienza buona che la borsa piena. Elli non si lascerà ingannare per parole, né non si piegherà per doni gli fossono promessi". E santo Agostino dice: "È aspettato quel die del giudicio, ove sarà quel giustissimo giudice che non riguarderà persona di veruno potente; il palazzo del quale, con ariento e con oro, nullo vescovo, nullo abate, nullo conte potrà corrompere, né con errore, imperò ch'egli è savissimo. Onde dice Leon Papa: "Questa è la scienza del gran giudice e sovrano, questo è il suo spaventoso aspetto, al quale è trasparente ogne cosa soda, e aperta ogne cosa secreta, al quale le cose oscure sono chiare, le mutole li rispondono, il silenzio li si manifesta, e, sanza boce, gli parla la mente. E con ciò sia cosa che la sua sapienza sia tale e tanta, contra essa non varranno l'allegagioni de li avvocati, né le fallaci de' filosofi, né 'l bello parlare de li ambasciadori, né le malìe de li incantatori". E di queste quattro cose dice così san Gregorio: "Quanti sanza lingua e mutoli saranno quivi più inventurati che que' che sono parlanti, quanto a la prima; quanti pastori più inventurati che filosofi, quanto a la seconda; quanti villani più che gli ambasciadori, quanto a la terza; quanti rozzi saranno innanzi a li argomenti di Cicerone, quanto al quarto. La quinta cosa è l'accusatore orribile. Tre accusatori staranno contro a' peccatori: il primo è il diavolo, onde dice santo Agostino: "Il diavolo sia presente, allora racconteranno le parole de la nostra promessa e opporanci ciò che avemo fatto, e in che luogo, e in che ora peccammo, e che bene avremo potuto fare e dovuto. E queste cose dirà quello avversario: "O giustissimo giudice, giudica che questi sia mio e da dannare a me, per la sua colpa, il quale non volle essere tuo per grazia. Egli è tuo per natura, e mio per miseria; tuo perché il creasti, mio perché lo 'ngannai; a te disubbidente, a me ubbidente; da te ricevette la stola di potere non morire, da me ricevette questa gonnella cencialosa, de la quale egli è vestito. La tua vesta ha lasciato, e qua è venuto con la mia. Giustissimo giudice, giudicalo che sia mio e sia dannato a me. Guai, guai! potrà quel cotale la bocca sua aprire, il quale sarà trovato tale che, giustamente, col diavolo debba essere diputato?". Il secondo accusatore sia il proprio peccato; imperò che i proprii peccati accuseranno catuno; onde scritto è nel libro de la Sapienza: "Verranno temorosi nel pensiero del lor peccato e menerannogli a lo incontro le loro iniquitadi". E san Bernardo dice: "Allotta diranno le parole e l'opere insieme a l'uomo: tu ci hai fatto, tua opera siamo, non ti lasciamo, ma sempre saremo teco al giudicio, e al giudicio teco verremo". E così di tutt'i suoi peccati l'accuseranno. Il terzo accusatore sarà tutto il mondo; onde dice san Gregorio: "Se domandi chi ti accuserà, dico tutto 'l mondo, imperò che, offeso il Criatore, è offesa tutta la criatura". E san Giovanni Grisostomo dice: "In quello die non potremo rispondere nulla là ove il cielo, la terra, l'acqua, il sole e la luna, il die e la notte, e tutto il mondo staranno contra di noi, accuseranci fortemente". La sesta cosa sarà il testimonio infallibile. Il primo testimonio fia sopra sé, cioè Dio, lo quale sarà giudice e testimonio, come dice Ieremia profeta: "Io sono giudice e testimonio, dice il Signore". Il secondo fia dentro a sé, cioè la coscienzia; onde dice santo Agostino: "Qualunque tu se' che temi il giudice che dee venire, correggi la presente tua coscienzia; la parola del tuo piato è il testimonio de la tua coscienzia". E san Paolo dice ne la Pistola a' Romani: "Rendete testimonio loro la loro coscienzia, e fra se medesimi accusando i pensieri, ovvero difendendo nel die, quando giudicherà Dio le secrete cose de li uomini, secondo il Vangelo mio, per Jesù Cristo, signore nostro". Il terzo fia a sé, cioè l'angelo che li fue dato in sua guardia, il quale renderà testimonio di tutte le cose che, presente lui, fece. Onde dice Job: "Reveleranno i cieli, cioè gli Angeli, la sua iniquitade". La settima cosa sarà lo strignimento del peccatore; del quale dice san Gregorio: "Oi, come saranno strette le vie a i peccatori là ove il giudice sarà disopra adirato, disotto lo inferno aperto, da la parte diritta li peccati accusanti, da la manca li demoni sanza novero che ti tireranno al tormento, dentro la coscienzia rimordente, di fuori il mondo ardente! Adunque il misero peccatore dove fuggirà? Il nascondere fia impossibile, l'apparire fia da non potere comportare". L'ottava cosa è la sentenzia irrevocabile, a la quale non si potrà appellare. Per tre cagioni non si riceve appellagioni ne le sentenzie de' giudici. La prima si è per la eccellenzia del giudice; onde quando il re la sentenzia nel suo reame, non vi si puote appellare, imperò che non v'ha suo maggiore; e così da lo imperadore e 'l papa non si puote appellare. La seconda è per lo manifestamento del peccato, onde, quando la colpa è notoria e manifesta, non è licito l'appellare da la pena, s'ella già non si trasandasse troppo la ragione. La terza è per la cosa che non è da indugiare, sì come quando la cosa non riceve indugio. E per queste tre ragioni non si potrà da quella sentenzia appellare. Imperò che quel giudice è eccellentissimo sopra tutti e travalica tutti gli altri da eternitade, da dignitade e da potenzia. Dal papa in alcuno modo si puote appellare a Dio; ma di Dio a nullo altro si puote appellare. Anche per lo manifestamento del peccato, tutti quanti i mali de' peccatori saranno manifesti ad ogni gente. Onde dice santo Geronimo: "Verrà quel die nel quale i fatti nostri, come in una tavola dipinti, si mosterranno". Anche per la cosa da non indugiare, però che quello che quivi si fa non riceve indugio; ma tutte le cose in un punto e in uno battere d'occhio vi si faranno.
cap. 2, Sant'Andrea apostoloFue bello ne la vita, risplendente ne la dottrina de la sapienzia, forte ne la battaglia e "antropos" ne la gloria; la cui passione scrissero li petri d'Accaia, cioè di Grecia, secondamente che videro coloro con gli loro occhi. Andrea, e alquanti altri discepoli, tre volte furono chiamati da Dio. Imprima gli chiamò il Signore a farsi conoscere quando, stando Andrea un die con Giovanni Batista, suo maestro, e anche con un altro discepolo di san Giovanni medesimo, udìe dire di Jesù a san Giovanni: "Ecco l'agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo"; e incontanente con quell'altro discepolo venne a vedere dove stava Jesù, e stettero appo lui quello dì. Ed allora Andrea menò Piero, suo fratello, a Jesù, e poi l'altro die si tornarono a pescare. La seconda volta gli chiamò a sua famigliaritade quando un die le turbe, grande calca a Jesù essendo lungo il lago di Genesaret, lo quale è detto mare di Galilea, esso Jesù salìo ne la nave di Piero e Andrea, suo fratello, e, presa grande moltitudine di pesci, e chiamati a loro san Iacopo e san Giovanni ch'erano ne l'altra nave, seguitarono allora Jesù. E poi anche sì si ritornarono a casa loro. La terza volta gli chiamò ad essere suoi discepoli, quando, andando elli lungo quel medesimo mare, disse a loro: "Venite dopo me, farovi essere pescatori d'uomini"; e ellino lasciarono tutte le cose e seguitarollo, e sempre poi furono con lui, e non ritornarono poi più a casa loro. Dopo l'ascensione del Signore, divisi gli apostoli in diverse provincie, Andrea n'andò a predicare in Siria, e Matteo in Borgogna; e non ritenendo gli uomini di Borgogna la predicazione di Matteo, cavarogli gli occhi e legari il misero in carcere e, dopo pochi dì, ordinarono d'ucciderlo. Apparve infrattanto l'angelo di Dio a santo Andrea e comandolli ch'andasse a san Matteo in Borgogna. E dicendo Andrea che non sapeva la via, comandolli l'angelo ch'andasse a la riva del mare ed entrasse ne la prima nave che trovasse. Quelli, adempiendo il comandamento, a guida de l'angelo venne a la detta cittade là dov'era santo Matteo, abbiendo il vento prosperevole. E trovando aperta la carcere, vegnendo lui, san Matteo pianse dirottamente e fece orazione a Dio. E Dio rendeo gli occhi a san Matteo; il quale alluminato si partìo quindi e venne in Antioccia; e Andrea rimase in Borgogna. E sappiendo coloro sì come Matteo era scampato, furonne molto adirati, sì che presoro Andrea e legarongli le mani e' piedi e, così legato, lo straziarono per la piazza; e spargendosi il sangue suo, pregò Domenedio per loro e convertilli a Cristo per la sua orazione. Ma questo miracolo non pare degno di fede, però che in sì grande Vangelista non si dee porre bassanza veruna, sì com'elli non potesse accattare per sé quello che santo Andrea poteo così agevolmente; ma non fue per non potere, ma fue però che la persona non prega così agevolemente per sé come per altrui, in cotale articolo. Un nobile giovane contra volere del padre e de la madre accostandosi a lo apostolo, il padre e la madre missero fuoco ne la casa là ove questo giovane insieme con lo apostolo abitava. E crescendo la fiamma già molto in alto, il garzone tolse una ampolla d'acqua e versolla in su la fiamma, e incontanente il fuoco si spense. E dicendo coloro: "Il figliuolo nostro è diventato incantatore", e saliendo eglino su per la scala, furono in tal modo accecati da Dio che, in veruno modo, potevano vedere la scala. Allora gridò uno, e disse: "Perché di stolta fatica vi consumate? certo Iddio combatte per loro, e voi non ve ne accorgete. Rimanetevene, acciò che l'ira di Dio già non incrudelisca contro a voi". E molti, veggendo allora questo miracolo, credettoro in Dio, e 'l padre e la madre di costui poi dopo cinquanta dì si moriro, e amendue furono soppelliti in uno avello. Una femmina, moglie d'un micidiale, non potendo partorire, disse a una sua sirocchia: "Va' e priega per me la nostra dea Diana". A la quale pregato rispuose il diavolo, e disse: "Perché mi chiami tu, con ciò sia cosa ch'io non ti posso aiutare la tua sirocchia?". Questa se ne venne a l'apostolo, e menollo a la sirocchia che parìa. Disse a lei l'apostolo: "A grande ragione hai questo male, imperò che male ti maritasti, maliziosamente concepesti, e chiamasti in aiuto le dimonia; ma tuttavia pentiti, e credi in Cristo, e gitta via il parto che farai". La quale, credendo e stipandosi, gittò fuori, e cessò il dolore. Uno vecchio ch'avea nome Niccolaio, andòe a l'apostolo e disse: "Ecco che già settanta anni sono scorsi ne la vita mia, nel qual tempo sempre ho servito a la lussuria, e alcuna volta ho tolto il Vangelo di san Matteo, pregando Iddio che oggimai mi donasse continenza; ma io sono sì inviluppato in questo peccato e allettato da la mala concupiscenzia, che incontanente ritorno a le usate opere. E una volta intervenne che, non ricordandomi io del Vangelo lo quale io portava sopra, infiammato di concupiscenzia andai al luogo de le rie femmine con esso; e incontanente mi disse la meritrice: "Esci fuori, vecchio, imperò che l'angelo di Dio è teco; non mi toccare, né sia ardito di venire qua: io veggio sopra te maraviglie". E spaventato io a le parole de la meritrice, ricordommi ch'io avea meco il Vangelo. Priegoti adunque, santo di Dio, che tu prieghi per la mia salute". Udendo questo l'apostolo cominciò a piangere, e da l'ora de la terza infino a la nona stette in orazione; e levandosene non volle mangiare, anzi disse: "Non mangerò, né berrò infino a tanto ch'io non sappia se 'l Signore mio ha avuto misericordia di questo vecchio". E con ciò fosse cosa che digiunasse cinque dì, venne una boce a Andrea, e disse: "Andrea, tu hai accattato grazia al vecchio; ma come tu t'hai afflitto per digiuni, così egli s'affligga con digiuni, acciò che sia salvo". E così fece che sei mesi digiunò in pane e in acqua e poscia, ripieno di buone opere, si riposòe in pace. Venne ancora la boce per l'angelo, e disse: "Per la tua orazione, Niccolaio, lo quale io aveva perduto, sì l'ho racquistato". Uno giovane cristiano segretamente disse a santo Andrea: "La mia madre veggendomi bello m'ha richiesto d'operazione non licita; a la quale io non consentendo per veruno modo, andossene ella al giudice in me ritorcere il peccato di cotanta inquitade. Priega dunque Iddio per me, acciò ch'io non muoia di tanta inquitade ingiustamente; imperò ch'io, richiesto a la Corte, al postutto tacerabbo, volendo anzi perdere la vita che infamare la mia madre così sozzamente". Il giovane fue richiesto a la Corte, e santo Andrea andò con lui. La madre accusa costantemente il figliuolo com'elli la volle corrompere. Domandato il giovane per più volte dal giudice se ciò fosse vero: "In verun modo" rispuose. Allora Andrea disse a la madre: "O crudelissima sopra tutte le femmine, che per tua lussuria vuogli che 'l tuo unico figliuolo perisca! "Allora quella disse al giudice: "Messere, il mio figliolo s'accostò a questo uomo da poi che questa mala operazione giammai fare non poteo secondamente com'elli volle". Allora il giudice adirato comandò che 'l giovane fosse messo in uno sacco impeciato e imbitumato, e fosse gittato così nel fiume; e comandòe che Andrea fosse riserbato in carcere infino a tanto ch'e' pensasse che morte gli dovesse fare patire. Ma, orando l'apostolo, fue fatto un grande terremuoto, il quale ispaventò ogni uomo, e fecegli cadere a terra; e la femmina percosse de la saetta folgore e, inarsicciata, cadde morta, sì che tutti gli altri pregarono l'apostolo che non perissono. Quelli pregò Iddio per loro, e tutti questi pericoli cessarono; e credette in Dio il giudice, e tutti quelli di casa sua. Essendo l'Apostolo ne la città di Nocea, dissero a lui i cittadini che fuor de la cittade, lungo la via, s'avea sette demoni, i quali uccidevano tutti gli uomini che vi passavano. I quali dimoni, per comandamento de lo apostolo, vennero dinanzi a l'apostolo in figura di cani. E l'apostolo comandò loro ch'andassero in luogo là ove mai a veruno non potessoro nuocere. E quelli incontanente si partirono. Coloro, veduto questo, credettoro, e ricevettoro la fede di Cristo. Vegnendo l'apostolo a la porta d'un'altra cittade, portavasi di fuori un giovane morto. Dimandando l'apostolo che li fosse intervenuto, fugli risposto che sette cani vennero e ucciserlo nel letto. E lagrimando l'apostolo disse: "Sappo, Signore, che questi furono i cani ch'io cacciai de la città di Nicea". E disse al padre del morto: "Che mi darai s'io lo risucitarò il tuo figliuolo? "E 'l padre disse: "Nulla cosa posseggio più cara che lui, lui ti darò". E fatta l'orazione, il risucitò; e aggiunsesi a l'apostolo. Vegnendo XL uomini per nave a l'apostolo per ricevere da lui ammaestramento de la fede, venne il diavolo e turbò il mare sì che tutti affogarono. Essendo i loro corpi andati a la riva del mare, furono portati dinanzi a l'apostolo e incontanente furono resucitati da lui; i quali gli narrarono ciò che a loro era intervenuto. Onde in uno inno di santo Andrea si canta: "Quaranta giovani, affogati per le tempeste del mare, rendeo a gli usi de la vita". Stando santo Andrea in Accaia, tutta la riempiette di chiese, e il popolo convertìo a la fede di Cristo. La moglie di Egea, preconsolo, ammaestrò ne la fede e battezzolla. Udendo ciò Egea, andossene ne la città di Patras a costrignere li cristiani di fare sacrificio a l'idole. Al quale si fece incontro santo Andrea, e disse: "Convenia che tu, che se' giudice de li uomini, conoscessi il giudice tuo del cielo, e conoscendo il coltivassi, e coltivando lui, il quale è vero Iddio, levassi l'animo tuo da quelli che non sono Dei". Al quale disse Egea: "Tu se' Andrea il quale distruggi i templi de li dei, e predichi la malvagia setta, la quale i principi romani comandaro che fosse sterminata". Al quale rispose Andrea: "I principi romani non hanno ancora conosciuta la veritade, come il figliuolo di Dio, vegnendo, ammaestròe come l'idoli erano dimoni e come, per adoralli, è offeso Iddio, e come, offeso, si parte da quelli che l'offendono, e come, spartito da loro, non li esaudisce e, non esaudendo, siano presi dal diavolo, e, presi, siano tanto trastullati, mentre che gnudi escono de le corpora non portandone seco altro che peccato". Al quale disse Egea: "Queste sono cose vane a predicare il vostro Jesù, il quale fu confitto ne la croce". Rispuose Andrea: "Per lo nostro ristoramento, non per sua colpa, ricevette elli volontierosamente il tormento de la croce". Al quale disse Egea: "Con ciò sia cosa che fosse tradito dal suo discepolo e tenuto preso da li giuderi e crocifisso da li cavalieri de' Romani, come di' tu che spontaneamente ricevette il tormento de la croce?" Allora Andrea cominciò a mostrare, per cinque ragioni, come Cristo ricevette passione di sua libera volontade. La prima si è in ciò che la sua passione previde dinanzi, e disse a li discepoli com'ella dovea essere, per queste parole: "Ecco che noi saliamo in Gerusalem, e 'l figliuolo de la Vergine sarà dato a i prencipi de' sacerdoti e condannerannolo a morte". La seconda si è in ciò che incontro a Piero, il quale lo volea ritrattare da la passione, s'indegnòe duramente dicendo: "Va' dopo me, Satanas, tu se' scandalo a me, imperò che tu non sai quelle cose che sono di Dio". La terza è in ciò che si mostrò d'avere podestà di patire morte e di risucitare, quando disse: "Io abbo podestà di porre l'anima mia e di ripigliarla". La quarta è in ciò ch'e' conobbe dinanzi il suo traditore, quando gli porse lo pane intinto, e però nol volse vietare. La quinta è ciò che l'aspettòe in quel luogo là ove e' sapeva che doveva venire. E a tutte queste cose affermòe Andrea sé essere stato presente. Ancora disse Andrea che grandissimo è il misterio de la Croce. Al quale disse Egea: Non si può dire misterio, ma tormento; ma tuttavia, se tu a i detti miei non assenti, farotti provare quello cotale misterio". Al quale rispuose Andrea: "S'io mi spaventassi del tormento de la croce, non predicherei la gloria de la croce; e voglio che tu oda il misterio de la croce se per la ventura tu credessi e fossi salvo". Allora gli cominciò a predicare il misterio de la croce; e come fosse convenevole e ragionevole, gli mostrò per cinque ragioni. La prima si è che 'l primo uomo, per lo legno, ci apportò la morte, travalicando il comandamento di Dio; convonevole fue adunque che 'l secondo uomo, per lo legno, scacciasse la morte, sostegnendo pena. La seconda fue imperòe che de la terra non maculata era stato fatto il travalicatore; convonevole fu che de la Vergine non maculata nascesse il racconciatore. La terza è imperò che Adamo, al cibo vietato non astegnendosi, stese le mani; convonevole fue adunque che 'l secondo Adamo le mani sanza macula stendesse a la Croce. La quarta è imperò che Adamo assaggiando soavemente il cibo divietato, convonevole cosa fue, acciò che 'l contrario si cacciasse per lo suo contrario, che Cristo fosse pasciuto d'esca di fiele. La quinta è che, acciò ch'elli desse a noi la sua immortalitade, convonevole fu che prendesse in sé la nostra mortalitade. Se Dio non fosse fatto mortale, non diventerebbe l'uomo immortale. Allora parlò Egea e disse: "Queste cose vane narrale a i tuoi, e acconsenti a me, e adora li Iddei onnipotenti". Al quale rispuose Andrea: "A lo onnipotente Iddio offero io cotidianamente uno agnello sanza macula, lo quale, poi che da tutto il popolo è mangiato, vivo in eterno persevera". Dimandando Egea come questo fosse, disse Andrea: "Se tu il vuogli sapere, piglia forma di discepolo". Al quale rispuose Egea: "Io apprenderò queste cose da te con tormenti". E, adirato, comandò che fosse rinchiuso in carcere. E la mattina vegnente venne Egea, e sedea in su la sedia sua, e mandò per Andrea costrignendolo di fare sacrificio a l'idole. E disse Egea: "Se tu non mi acconsentirai, io ti farò conficcare in quella croce che tu hai tanto lodata". E minacciandolo di molti tormenti, anche disse Andrea: "Ciò che ti pare maggiore infra ' tormenti, pensalti; tanto sarò io più grazioso al mio re, quanto per lo suo amore io permarrò più costante nei tormenti". E minacciando Egea di molte cose, disse Andrea: "Io mi doglio del tuo perdimento, non mi conturbo de la mia passione. Ogne pena o ella è leggiere e puossi patire, o ella è grave e tosto caccia l'anima del corpo; la mia pena sarà un die o due, o forse tre; ma la tua pena è la tua morte, e, per mille migliaia d'anni non potrà venire a fine. Adunque se pena veruna è da temere, si è da temere quella che non ha fine; se da temere sono i dolori, questi sono da spaventarsene ch'essi cominciano. Adunque ti pensa ciò che maggiore ti pare ne' tormenti. Allora Egea comandò che Andrea fosse battuto da XXI uomini e, così battuto, gli fece legare le mani e' piedi in su la croce, acciò che per più tempo avesse tormento, penando a morire. E quand'elli era menato a la croce, trasse làe la moltitudine del popolo dicendo così: "Il sangue innocente è dannato sanza cagione". L'apostolo li pregò che non impedissono il suo martirio. Veggendo Andrea la croce da lunga, sì la salutò, e disse: "Dio ti salvi, Croce, la quale se' consecrata nel corpo di Cristo e da le sue membra, sì come da margherite se' ornata. Innanzi che 'l Signore fosse posto in te, avevi in te spaventamento e paura terrena; ma aguale hai in te amore celestiale, e per grande desiderio se' ricevuta. Adunque sicuro e allegro vegno a te, acciò che tu chetamente riceva me, discepolo di colui il quale pendette in te, Cristo, maestro mio; imperò ch'io fui sempre amatore di te e sempre desiderai d'abbracciare te. O buona Croce, la quale ricevesti onore e bellezza de le membra del Signore, lungamente desiderata e sollicitamente amata, continuamente cercata e già a l'animo desideroso apparecchiata, toglimi da gli uomini, e rendimi a Cristo, maestro mio, sì che elli mi riceva per te, il quale mi ricomperò per te". E dicendo queste cose si spogliò, e diede le vestimenta a gli giustizieri, i quali, sì come era loro comandato, il sospesero in su la croce, ne la quale, vivendo otto dì, predicava a XX migliaia d'uomini che 'ntorno gli stavano. Allora il popolo minacciando Egea, e sì gli diceano che non dovea sostenere che l'uomo santo, mansueto, e puro, sostenesse queste cose; e volevallo sciogliere. Veggendo l'apostolo Egea, sì li disse: "Perché se tu venuto qua, Egea? se tu vieni per penitenzia, troverralla; se tu vieni per levarmici, sappi ch'io son vivo, non scenderò de la croce. Io veggo già il re mio, che m'aspetta". E quando eglino il vollero sciogliere, nol poteano in veruno modo toccare, però che le braccia loro stupidieno immantanente. E veggendo Andrea che il popolo il volea sporre de la croce, fece questa orazione ne la croce, secondamente che dice santo Agostino nel libro de la Penitenzia: "Non permettere, Signore, me vivo scendere di quinci, imperò ch'egli è tempo che tu accomandi il corpo mio a la terra. Io l'abbo tanto portato, e sopra la greggia che mi raccomandasti ho tanto vegghiato, e tanto mi sono in esso affaticato ch'io vorrei essere liberato da questa obbidienza. Ricordomi quanto io mi sono affaticato in comportare coloro di che danno molto peso in domare li superbi, in consolare l'infermi, in costrignere coloro che troppo s'allegrano. Tu sai, Signore, quante volte si sono sforzati di ritrarmi de la purità, de la contemplazione, e ingegnatisi di svegliami dal sonno del tuo riposo dolcissimo, e quante e quante volte elli mi domandava dolere. E però che così lungo tempo, benignissimo padre, io hoe contrastato al combattente, e col tuo aiuto l'abbo vinto. A te, giusto e pietoso guiderdonatore, adomando che tue nol mi raccomandi più; ma io, tenendo il deposito, raccomandalo ad altrui che 'l guardi tanto ch'elli risuciti, e renderallo, acciò che d'elli medesimo riceva, allotta, merito de la sua fatica, e me di lui, oggimai, non me ne dare più briga. Raccomandalo questo mio corpo a la terra, sì che oggimai non mi convenga più vegghiare, ma liberamente pervenire a te, fontana d'allegrezza che mai non viene meno; fa me, la quale io desidero, né, da quinci innanzi, mi ritraggo o impedimentisca da te". Insino qui dice Agostino. Quando santo Andrea ebbe detto queste cose, venne un grandissimo splendore da cielo e intorneollo per una mezza ora, sì che neuno il potea vedere; e, partendosi il lume, rendette lo spirito a Dio insieme con quel lume. E Massimilla, la moglie di Egea, si tolse il corpo de lo Apostolo e seppellillo onorevolmente. E Egea, innanzi che tornasse a casa, fu preso e dibattuto dal dimonio e, entro la via, dinanzi a tutta la gente, cadde morto. Dicono alcuni che del sepolcro di santo Andrea si esce manna a simiglianza di farina e olio di soavissimo odore; ne le quali cose si conosce l'anno vegnente se dee essere abbondanza o no. Imperò che, se n'esce poca manna e poco olio, saranno l'anno vegnente pochi frutti; e se abbondevolemente n'esce, la terra menerà abbondanza di frutti. E forse che ciò fu anticamente vero, ma aguale il corpo è traslatato in Constantinopoli. Uno vescovo d'onesta e religiosa vita avea in grande reverenza santo Andrea, sopra tutti gli altri santi; intanto che in ogni sua operazione poneva questo titolo dinanzi: "Ad onore di Dio e di messere santo Andrea". Abbiendogli invidia il nimico antico, con tutta sua sottilezza si misse ad ingannarlo, e trasformossi in figura d'una bellissima femmina, e venne al palagio del vescovo dicendo che si voleva confessare da lui. E 'l vescovo comanda ch'ella si vada a confessare dal suo penitenziere, al quale egli ha commessa tutta la sua autoritade. E quella rinunzia, e dice che a veruno uomo non rivelerebbe li secreti de la sua coscienzia se non al vescovo. E così, convinto il vescovo, comandò ch'ella andasse a lui. E quella li disse: "Priegoti, signor mio, che tu abbi misericordia di me. Io, secondo che voi mi vedete, sono molto fanciulla del tempo, e dal cominciamento de la mia fantilitade sono delicatamente nodrita, e, nata di schiatta di re, sono venuta qua, sola, in abito di pellegrina. Il padre mio, re potentissimo, mi volea maritare ad un grande barone; al quale io rispuosi che da sposarmi a uomo carnale al tutto m'era abbominevole, però ch'io aveva perpetualmente consacrata la mia verginitade a Cristo Signore, e però non potea consentire in congiugnimento carnale. Finalmente costretta che mi convenia o consentire al suo volere o sostenere diversi tormenti, vo fuggendo nascostamente, volendo anzi andare per lo mondo che rompere fede a Cristo, mio sposo. Sì che io, udendo la fama de la vostra sanitade, sotto l'alie de la vostra santitade sono venuta, sperandomi di tenere appo voi luogo di riposo, sì ch'io possa prendere secreti silenzi di contemplagione, e schifare i pericoli del mondo de la vita presente, e fuggire le turbazioni del mondo". Sì che il vescovo, mirando in costei la gentilezza del nascimento, la bellezza del corpo, e 'l grandissimo fervore, il piacevole e bello parlare, con benigna voce rispuose; "Sta sicura, figliuola, e non dubitare; imperò che colui, per lo cui amore tu hai sprezzato te e i tuoi e le tue cose, così vertudiosamente te ne renderà, in questa presente vita, accrescimento di grazia e, ne l'altra, ti donerà plenitudine di gloria. Ed io sono servo; me e le mie cose proffero, e eleggi quale luogo più ti piace per abitare; e voglio che ti piaccia di stare oggi a desinare con esso meco". E quella disse: "Non volere, padre, non volere pregarmi di questo, acciò che sospeccione neuna non potesse nascere di questa cosa e lo splendore de la vostra fama non potesse in alcuno modo annerire". E il vescovo rispuose: "Noi saremo più e non saremo soli; laonde non si potrà veruno scrupolo d'infamia generare". E vegnendo ambedue a la mensa, il vescovo e ella sedettero a dirimpetto l'uno a l'altro, seggendo gli altri di qua e di là. Ragguarda il vescovo spesse volte in lei, e non cessava di guatare la sua faccia e di maravigliarsi de la sua bellezza. E così, mentre che l'occhio in lei s'affigge, l'animo si fiede e sozza, e, mentre che non si rimane di sguardare la sua faccia, l'antico nemico trapassa il cuore suo di crudeli fedite. E quando s'avvide d'essere guatato, la sua bellezza crebbe maravigliosamente. Ed essendo già il vescovo presso al consentire di richiederla d'operazione illicita quando avesse l'agio, venne subitamente allora uno pellegrino a l'uscio e, con grandi boci e spesso picchiando, domanda che gli sia aperto. Quegli con molto bussare e con grandi boci diventando impronto, il vescovo domandò la donzella se le piacesse che quello pellegrino venisse dentro. E quella disse: "Siali proposta una grave questione, e se egli la saprà sciogliere, sia ricevuto; e, se non, sia cacciato come uomo grosso, indegno de la presenza del vescovo". Piacque a tutti il detto di costei, e, domandandosi tra loro chi fosse sofficiente a proporre la quistione e non trovandosi veruno sofficiente, disse il vescovo: "Quale di noi puote essere sofficiente come voi, madonna, la quale tutti noi trasandate di sapere e di bello parlare? Proponete adunque voi questa questione". Allora disse quella: "Sia domandato il pellegrino qual è il maggiore miracolo che Dio facesse mai in piccola cosa". E dimandato di ciò il pellegrino, per lo messaggio rispuose così: "La diversitade de le facce. Fra tutti gli uomini che furono mai dal cominciamento del mondo e saranno insino a la fine, non si possono trovare due le facce de' quali al tutto si somiglino; e in quella così piccola faccia ha Domenedio posti tutti e cinque li sensi del corpo". Udendo coloro la risponsione di costui e maravigliandosi di ciò, dissero: "Verace e ottima è l'assoluzione di questa quistione". Allora rispuose la donna: "Siagli proposta la seconda quistione più forte che la prima; ne la quale potremo meglio conoscere la sua sapienzia. Sia domandato in quale luogo la terra è alta sopra tutti i cieli". E domandato di ciò, il pellegrino sì rispuose: "Nel cielo empireo, là ove risiede il corpo di Cristo, lo quale, avvegna che sia di terra, più è alto ch'ogni cielo". Rapportata il messo la risposta del pellegrino, e appruovano tutti il detto suo e grandemente lodano la sua sapienzia. Allora disse anche la donna: "Siagli fatta la terza gravissima quistione, e nascosta e malagevole e oscura a solverla; e così, ancora la terza volta, si provi la sua sapienzia, e magnificamente sia ricevuto a la mensa del vescovo. Sia domandato quanto spazio sia da la terra infino al cielo". E domandato di ciò, il pellegrino risponde in questo modo: "Va' a colui che ti manda a me, e di questa cosa domanda lui diligentemente, ch'egli il sa meglio di me; e però egli te ne risponderà meglio, però ch'egli misurò quello spazio quando di cielo cadde in abisso; ma io non caddi di cielo, né non misurai quello spazio caggendo. Egli non è femmina, anzi è diavolo che s'è posto in figura di femmina". Udendo ciò il messo fu spaventato sopra misura, e quelle cose che udìo raccontò dinanzi a tutti, e, maravigliandosi tutti e spaventandosi, il diavolo sparve in mezzo di loro. E il vescovo, ritornando a se medesimo, e del peccato ch'avea commesso domandava perdonanza con grandi lamenti, e rimandò il messo a fare menare dentro il pellegrino; ma elli non fu più ritrovato. Allora il vescovo ragunò il popolo, e apertamente spianòe tutte queste cose per ordine, e comandòe a tutti che stessero in orazione e in digiuni, acciò che Dio degnasse di rivelare ad alcuno chi fosse essuto il pellegrino, lo quale l'avea campato di tanto pericolo. E fue rivelato quella notte al vescovo che quello pellegrino era stato santo Andrea, il quale per lui liberare si puose in abito di pellegrino. E così il vescovo ebbe da indi innanzi maggiore divozione in santo Andrea. Con ciò fosse cosa ch'uno signore preposto d'una città avesse tolto un campo a la chiesa di santo Andrea, e per questa cagione orando il vescovo, il detto preposto fosse preso da grande febbre, fu pregato il vescovo che facesse orazione a Dio che 'l guarisse, e elli promettea di rendere il campo. Sì che, orando il vescovo, quelli ricevette sanitade, ma il campo fu ritolto e risurpato. Allora il vescovo si diede ad orazione e tutte le lampane de la chiesa ruppe, così dicendo: "Qui non si accenderà mai lume infino a tanto che Andrea non si vendicherà del suo avversario e la chiesa riabbia quello che l'è tolto". Ed eccoti il preposto rinfermato di febbri gravissime, e mandò al vescovo che orasse per lui e renderebbeli il campo suo, e anche ne gli accrescerebbe un altro simigliante. Al quale il vescovo rispuose: "Io feci a l'altra volta orazione a Dio per te, e fui esaudito dal Signore". Allora il preposto si fece portare a lui e fecelo constrignere ch'entrasse ne la chiesa ad orare. Ma entrando il vescovo ne la chiesa, il preposto morìo di subito, e 'l campo fu renduto a la chiesa.
cap. 3, S. NiccolòLa sua leggenda scrissero li preti d'una città di Grecia, la quale, secondo che dice Isidoro, è chiamata Argos, onde i greci si chiamano argolici. E 'n altro luogo si legge che Metodio patriarca la scrisse in greco, e poscia la traslatò in latino Giovanni diacono, e più cose v'aggiunse. Niccolaio fue cittadino d'una città la quale si chiamava Patera, e 'l suo nascimento trasse da ricchi e da sante persone, come fu il suo padre e la sua madre; ed ebbe nome il padre suo Epifanio, e la madre ebbe nome Giovanna. I quali, abbiendo ingenerato nel fiore de la loro gioventudine questo figliuolo Niccolaio, da indi innanzi vissono in continenza e castitade, faccendo vita onesta. Questo Niccolaio, il primo die che fue bagnato, stette per se medesimo ritto nel bacino, e due dì de la settimana, cioè il mercoledì e 'l venerdì, solamente una volta per die prendea il latte. E, fatto giovane, schifava le dissoluzioni e le vanità de gli altri giovani, e usava la chiesa maggiormente, e quivi, ciò che potea intendere de la Scrittura santa, tutto il si riponea ne l'arca de la mente. Sì che, morto il suo padre e la sua madre, cominciò questi a pensare in che maniera potesse tante ricchezze dispensare, non a lauda umana, ma a gloria di Dio. In quel temporale era un suo vicino, assai gentile uomo, pervenuto a grandissima povertà, intanto che tre sue figliuole vergini ordinò di mettere al peccato, acciò che di quella vituperosa mercatantia potesse nutricare sé e le sue figliuole. Per la qual cosa sentendo il santo di Dio Niccolaio così scellerata intenzione, vennegliene sopra un grande spavento, e, mosso da zelo di pietate, tolse una massa d'oro e così, legata in uno panno, di notte tempo venne e gittolla segretamente per la finestra di questo gentile uomo, e partissi di celato. La mattina, quando l'uomo si levòe, trovata questa massa de l'oro, rendette grazia a Dio, e tolselo e maritonne la prima di queste tre figliuole. E non stette grande tempo che Niccolaio simigliante operazione fece inverso il detto uomo; ed elli, trovando così la seconda massa de l'oro, gittossi a fare grandissima laude a Domenedio e maritonne la seconda figliuola. E puosesi in cuore di vegghiare sollicitamente ogni notte per sapere chi fosse colui, che così misericordievolemente sovvenìa a la sua povertade. E da indi a pochi Niccolaio tolse una massa d'oro raddoppiata da l'altre e gittolla in casa di quello uomo. Ed elli al suono di quella si svegliò e corse dietro a Niccolaio il quale fuggìa tostamente, e cominciolli a parlare: "Rattienti un poco, non ti nascondere da me!" E così, correndo più forte, cognobbe ch'egli era Niccolaio. Sì che gli si gittò a' piedi incontanente in terra, e volevali basciare i piedi. Niccolaio non sostenne ciò, ma fecesi promettere a colui che mai non manifesterebbe a uomo vivente, mentre che fosse vivo in questo mondo. Dopo questo intervenne che, morto il vescovo de la cittade di Mirea, ragunaronsi tutti i vescovi d'intorno per provvedere di vescovo a quella terra. Era tra loro un vescovo di grande autorità, sì che, cui elli avesse eletto, la sentenzia di tutti gli altri pendea in lui. E con ciò fosse cosa che questi ammonisse tutti gli altri stessero in digiuni e in orazioni, in quella notte udì una boce dicente a sé che, a l'ora del mattutino, stesse a le porti de la chiesa e ponessevi cura, e, quelli che vedesse venire imprima a la chiesa, il quale ha nome Niccolaio, lui eleggesse e consegrasse vescovo. E revelando questo a gli altri vescovi ammonigli, che stessero tutti in orazione, e elli starebbe a guardare a le porti de la chiesa. Maravigliosa cosa! ne l'ora del mattotino, innanzi a tutti, sì come mandato da Domenedio, venìa Niccolaio a la chiesa, com'era sua usanza di venire. Il vescovo che stava a la guardia a le reggi de la chiesa, sì 'l prese e domandollo qual era il nome suo. E quelli, sì come s'era usato, pieno di colombina semplicitade, col capo inclinato, disse: "Niccolaio, servo de la vostra santitade". Allora il vescovo lo menòe dentro ne la chiesa e mostrollo a gli altri vescovi; e così tutti insieme, avvegna che molto contradicesse, sì 'l puosero in su la sedia vescovile. E Niccolaio, così sublimato, tutta quella umilitade ch'avea da prima, e tutta quella gravezza di costumi osservava in tutte cose, vegghiando molto in orazioni, macerando il proprio corpo, fuggendo la dimestichezza de le femmine. Era umile a ricevere ogni persona e vertudioso parladore. Dicesi che santo Niccolaio fue nel concilio di Nicea, secondamente che si truova in una Cronica. Uno die alquanti marinari pericolavano nel mare; feciono questa orazione con lagrime: "Niccolaio, servo di Dio, se vere sono le cose le quali udiamo di te, piacciati che noi le proviamo ora in noi medesimi". Incontanente apparve uno in sua similitudine e disse: "Ecco, io sono presente! certa cosa è che voi mi chiamaste". E cominciò ad atarli ne l'antenne e ne' canapi e ne l'altre cose. E incontanente cessò la tempesta. E poi che furono liberati da la tempesta, venendo a la sua chiesa, sanza essere loro mostrato, cognobbero santo Niccolaio, lo quale giammai più non avevano veduto. Allora renderono grazie a Dio e a lui de la loro liberazione. Santo Niccolaio gli ammaestrò che la riconoscessero da la misericordia di Dio e non da' suoi meriti. Avvenne un tempo una grande carestia e fame, la quale percosse tutta la provincia di santo Niccolaio in tal modo, che a ogni persona erano venute meno le cose da vivere. Sì che, udendo santo Niccolaio ch'al porto de la sua cittade erano arrivate navi cariche di grano, vassene là incontanente, e priega i marinai ch'almeno in cento moggia di grano per catuna nave piacesse loro di sovvenire a la sua provincia, la quale moriva di fame. E gli marinari gli rispuosero: "Non saremo arditi, padre, di farlo, imperò che noi lo ricevemmo in Alessandria; il grano è tutto misurato, e a quella medesima misura il ci conviene porre ne li granai de lo imperadore". E 'l santo disse: "Fate aguale quello ch'io vi dico; ed io vi prometto, in virtù di Dio, che voi non troverete scemato il grano appo l'esattore del re". Coloro fecero come san Niccolaio avea detto loro, e ritrovando appo gli ufficiali de lo imperadore il grano interamente a quella misura ch'ellino aveano ricevuta, manifestarno il miracolo, e lodano Domenedio nel suo servo Niccolaio. E santo Niccolaio distribuìe lo detto grano secondo il bisogno di catuno, sì saviamente come maravigliosamente, e non tanto per vivere ma per seminare bastò loro due anni abbondevolmente. Con ciò fosse cosa che quella provincia infra l'altre più adorasse gl'idoli, il popolo adoravasi ferventemente l'idolo de la pessima Diana, che, infino al tempo di santo Niccolaio, gli uomini rozzi servivano a lei di religione grande ma dannevole e sotto uno albore, consecrato a quello idolo, facevano certi sacrifici al modo de' pagani. I quali modi e sacrificii san Niccolaio spense di tutta la provincia, e quello albore fece tagliare. De la qualcosa adirato contro di lui, l'antico nemico confettò uno olio che arde ne l'acqua e ne le pietre, contro a natura, il quale olio ha nome Mediacon, e, trasfigurandosi in forma d'una religiosa femmina, fecesi incontro a certi che andavano per nave a san Niccolaio, e parlò loro in questa maniera: "Deh! ch'io vorrei con voi insieme venire a l'uomo di Dio santo Niccolaio; ma io non posso. Priegovi adunque che portiate questo olio a la sua chiesa, e ugnatene a mio nome le pareti della chiesa". E, detto ciò, incontanente sparette. Ed ecco che veggiono venire un'altra navicella carica di persone, tra ' quali n'avea una somigliante a san Niccolaio, il quale disse così a loro: "Oimè, or che vi disse ora quella femmina, e che vi recò?" E coloro raccontarono ogni cosa per ordine. A i quali questi rispuose, e disse: "Quella fue la svergognata Diana, e, acciò che voi conosciate com'io dico la verità, gittate cotesto olio in mare". E coloro gittarono l'olio in mare, e grandissimo fuoco vi s'accese entro, e vedealo ardere contro a natura ne l'acqua per grande ora. E vegnendo loro al servo di Dio, sì li dicevano: "Veramente tu se' quelli che ci apparisti nel mare, e diliberastici da li agguati del diavolo. In quel tempo erasi ribellata una gente da lo imperio di Roma, contro a la qual gente lo 'mperadore mandò tre baroni: Nepoziano, Urso e Apilione; i quali, avendo il vento contrario, arrivarono al porto Adriatico. E santo Niccolaio gl'invitò che dovessero venire a mangiare con lui, volendo ch'elli constrignessero la gente loro da le forze e da le rapine, le quali facevano ne le fiere de' mercati. Infrattanto, essendo santo Niccolaio in altre parti, il consolo che signoreggiava in una terra, corrotto per pecunia, comandò che a tre cavalieri, innocenti e sanza colpa, fossero tagliate le teste. La qualcosa san Niccolaio udendo, pregò que' tre prencipi ch'andassero con lui insino là; e, vegnendo a quel luogo, andarono là dove dovevano essere smozzicati, e trovarono che già erano inchinati con gli occhi fasciati, e 'l giustiziere avea già levato il colpo de la spada per fedire. Allora Niccolaio, acceso di buono zelo, arditamente si gittò addosso al giustiziere, e levolli la spada di mano, e ritolse coloro che non erano colpevoli, e menonnegli seco sani e salvi. E incontanente se n'andò san Niccolaio a la casa del consolo, ed entrò dentro, stando le porte serrate. E 'l consolo gli si fece incontro e salutollo; la qual salute san Niccolaio sprezzando, sì li disse: "O nimico di Dio, trapassatore de la legge, come fosti ardito, cognoscendo in te tanta iniquitade, di guardare ne la mia faccia?" E quando l'ebbe duramente ripreso, a priego di que' tre principi, lo ricevette a penitenzia. E questi messi de lo 'mperadore, ricevuta la benedizione dal santo, andarono in loro viaggio, e sanza spargimento di sangue riconquistarono i nemici, e sottomiserli a lo 'mperio di Roma. Laonde lo imperadore di Roma gli ricevette magnificamente a la loro reddita. Sì che alcuni portarono invidia al grazioso stato che costoro avevano ne la corte de lo 'mperadore. Indussero, tra per prieghi e per prezzo, il prefetto de lo 'mperatore che dovesse accusare costoro appo lo 'mperadore di tradimento. E mettendo ciò in orecchie a lo imperadore il prefetto, lo imperadore, ripieno di grande furore, sì li fece incarcerare, e, sanza veruna disaminazione, comandò che in quella notte fossero morti. Quando costoro ebbero spiato il fatto da le guardie, sì si stracciarono tutti i panni indosso, e cominciarono a piagnere dirottamente. Allora uno di coloro, e questi fu Nepoziano, si ricordò come san Niccolaio aveva liberati quelli tre cavalieri innocenti, e confortòe i compagni che si raccomandassero a lui divotamente, adomandando il suo aiuto. Orando costoro, in quella notte apparve Niccolaio a Costanzio imperadore, e disse: "Perché hai presi così ingiustamente quelli principi e, sanza colpa, gli hai condannati ad essere morti? Levati incontanente, e comanda tosto che sieno lasciati, e se non, io priego Iddio che ti susciti battaglia ne la quale tu caggi, e diventi cibo a le bestie". Al quale rispuose lo 'mperadore: "Chi se' tu, che se' intrato stanotte nel mio palagio e se' ardito di dire cotali parole?" Rispuose Niccolaio: "Io sono Niccolaio, vescovo di Mirea". E per somigliante visione spaventò il prefetto, e disse: "Perduto de la mente e del senno, perché consentisti ne la morte di coloro che non hanno colpa? Or va' tosto, e studiati di camparli, e se non, il corpo tuo menerà vermini, e la casa tua tostamente fia distrutta". E il prefetto rispuose: "Chi se' tu, che fai tale minacce?" E quelli rispuose: "Sappi ch'i' sono Niccolaio, vescovo di Mirea". Svegliati amendue, disse insieme l'uno a l'altro la visione; e, incontamente, mandano per quelli pregioni. A' quali disse lo 'mperadore: "Che arti d'incantesimi fate voi, che tutta notte ci schernite con sogni?" E quelli rispuosero che incantatori non erano, né non aveano meritato la sentenzia de la morte. Allora rispuose lo 'mperadore: "Conoscete voi uno uomo che ha nome Niccolaio? "Udendo coloro ricordare questo nome, levarono le mani a cielo e pregarono Iddio che per li meriti di santo Niccolaio gli liberasse di quello pericolo. E udendo lo 'mperadore da coloro de la vita e de' miracoli del santo, disse a loro: "Ora andate, e rendete grazie a Dio, che v'ha per li suoi meriti liberati, e portategli de le nostre gioie, pregandolo che da quinci innanzi non ci minacci più, ma faccia orazione a Dio per me e per lo mio regname". Da indi a pochi dì i detti principi vennero al servo di Dio e incontanente si gittarono a' piedi suoi, così dicendo: "Veramente se' servo di Dio, vero coltivatore e amatore di Cristo. E poi che ebbero detto ogni cosa, come era stata inverso di loro, egli levò le mani a cielo rendendo grandissime laude a messere Domenedio e, bene ammaestrati, i detti principi rimandò a le loro magioni. Quando il Signore lo volle chiamare a sé, sì 'l pregò che li dovesse mandare li suoi angeli. E inchinato il capo vidde venire a sé gli angeli, e detto ch'ebbe il salmo: "In te domine speravi" insino "in manus tuas, domine, commendo spiritum meum"; allora rendeo lo spirito a Dio ne li anni domini CCCXLIII. E poi che fu seppellito in una tomba di marmo, da capo uscìa una fontana d'olio, da piede una fontana d'acqua. E insino al dì d'oggi de le sue membra esce olio sagrato, il quale è valevole a molte infermitadi. Dopo costui fu vescovo un buono uomo, il quale da certi invidiosi sì fu scacciato de la sua sedia; il quale, essendo scacciato, incontanente ristette l'olio d'uscire. Ma poi che fu richiamato e rimesso ne la sua sedia, l'olio ricominciò ad uscire come di prima. Dopo molto tempo vennero gli turchi, e, distruggendo la cittade di Mirea, apersero la tomba di santo Niccolaio e, l'ossa sue notando ne l'olio, reverentemente, ne portarono ne la cittade di Bari, ne gli anni Domini MLXXXVII. Uno uomo accattò in prestanza da uno giudeo una quantità di moneta giurando di rendere per santo Niccolaio, però che non potea trovare altro mallevadore che tanto piacesse al giudeo. Sì che, tenendo costui lungo tempo la pecunia, il giudeo gliele raddomandava; e quelli affermava come gliel'avea renduta. Il giudeo il fece menare a la Corte, e il giudice fa giurare il debitore. Quando il debitore sentì che dovea andare a la Corte, pensòe malizia, e tolse in mano un bastone cavato (e votollo dentro ovvero una canna) e missevi dentro oro trito di più valuta che non dovea rendere, e portavalo quasi come s'andasse appoggiando con esso. Sì che, quando andò a fare il saramento dinanzi al giudice, diede quel bastone intanto a serbare al giudeo, e giurò che gli avea renduto più che 'l giudeo non gli avea prestato. E quando ebbe giurato, si fece rendere il bastone; e 'l giudeo, non conoscendo la malizia, sì glielo rendeo. Tornando a casa questi ch'avea commessa la frode, addormentossi in uno crocicchio di via, e un carro, tratto con grande empeto, lo scalpitò, ed ebbelo morto. E l'oro ch'era nel bastone si sparse. La qualcosa udendo il giudeo, corse tosto làe, e fue veduta la malizia di costui. Allora dicendo al giudeo molti ch'erano tratti là a vedere che si togliesse tutto quello oro, disse che non lo torrebbe, se, per li meriti di santo Niccolaio, quel morto non fosse prima recato a vita; affermando, se questo fia, egli riceverà il battesimo e farassi cristiano. Incontanente il morto si levò suso sano e salvo. E 'l giudeo fu battezzato nel nome di Cristo. Allora veggendo uno giudeo che messere santo Niccolaio avea grandissima virtude in fare miracoli, fecesi dipignere la sua imagine e allogollasi in casa. E partendosi questo di casa, tuttavia accomandava la casa e le cose sue a questa imagine, in questo modo dicendo: "Ecco, Niccolaio, ch'io ti raccomando e commettoti a guardia tutte le mie cose; le quali, se voi non guarderete bene, io farò la vendetta sopra voi, con battiture e con tormenti". Intervenne una volta che questo giudeo non c'era, vennero i ladroni e tutta la casa rubarono, non lasciandovi nulla se non solamente la imagine. Sì che, tornando il giudeo e trovandosi così spogliato, cominciò a parlare a la imagine, e a dire a questo modo: "Messer Niccolaio, non vi avea io posto in casa mia per guardia di tutt'i miei beni, acciò che voi guardaste tutte le mie cose da' ladroni? Che è questo che voi faceste? perché non cacciaste voi via i ladroni? Dicovi che duri tormenti riceverete e piagnerete il peccato de' ladroni, e così ricompenseraggio il mio danno ne' vostri tormenti e 'l mio furore raffredderabbo ne le vostre battiture". E, dette queste parole, tolse il giudeo la imagine e duramente la percuoté e battella. Maravigliosa cosa e soprammodo pensosa: partendo i ladroni la ruberia tra loro medesimi, il santo di Dio, sì come avesse in sua persona ricevute le battiture, apparve a loro, e disse: "Per qual cagione son io così duramente battuto per voi? perché così crudelmente fragellato? perché ho io ricevuto cotanti tormenti? vedete il corpo mio com'elli è livido! vedete come rossicca per lo 'nsanguinare de le battiture! Andate tosto, e tutte le cose rendete, e riportatele colà dove voi le trovaste, e, se nol farete, l'ira di Dio onnipotente s'incrudelirà contro a voi in tal modo che la vostra fellonia sarà pubblicata e palesata innanzi a tutta gente, e catuno di voi sarà impiccato. Allora rispuosero coloro, e dissero: "E chi se' tu che ci di' cotali cose"? E quelli rispuose: "Io sono Niccolaio, servo di Cristo, il quale, per le cose ch'avete tolte, m'ha così crudelmente governato il giudeo". Ispaventati costoro vengono al giudeo e raccontano il miracolo, e da lui udirono ciò che avea fatto a la imagine, e ogni cosa li vennero rendendo. E in questo modo i ladroni tornarono a la diritta via di ben fare; e 'l giudeo abbracciòe la fede del salvatore Jesù Cristo. Uno, per amore d'uno suo figliuolo il quale studiava, faceva ogni anno la festa di santo Niccolaio. Venne una volta per la festa, che 'l padre del fanciullo fece un grande convito, e invitò molti cherici, sì che, mangiando tutta questa gente, venne il diavolo in abito di pellegrino, e domandava limosina. Il padre comandò immantanente al figliuolo che gliela portasse. Va il fanciullo e, non trovando il pellegrino, andogli dietro. E quando l'ebbe per darli la limosina, il pellegrino prese il fanciullo e ebbelo strangolato. Udendo ciò il padre, vennegli grande dolore e maravigliosamente fu turbato con lacrime, sì che tolse il corpo del fanciullo e puoselo in sala, e cominciò per lo grande dolore a gridare, e a dire: "Figliuolo mio dolcissimo, or come stai? Santo Niccolaio, è questo il merito che tu mi rendi de l'onore che già lungamente t'ho fatto?" E dicendo lui queste e simiglianti parole, incontanente il garzone, come si svegliasse dal sonno, e aperse gli occhi e risuscitò. Un gentile uomo pregò san Niccolaio che gli accattasse grazia da Domenedio d'avere uno figliuolo, promettendo che quello cotale figliuolo elli menerebbe lui a la casa, e offerebbegli una coppa d'oro. Sì che nacque il fanciullo, e pervenne a etade, e la coppa fu fatta. La quale piaccendo molto al padre, tolsela per sé e operavalasi, e fecene fare un'altra di somigliante pregio. Navicando ellino verso la chiesa di santo Niccolaio, dice il padre al figliuolo che, in quella coppa bella di prima, gli vada a porgere de l'acqua. E 'l fanciullo quando volle attignere de l'acqua, cadde in mare, e già più non apparve. Il padre piagnendo amaramente non lasciò però il boto suo di compiere. Sì che venendo lui a l'altare di santo Niccolaio, e offerendo la seconda coppa, cadde la detta coppa come fosse gittata via d'in su l'altare, e, così ricogliendola e ripognendola in su l'altare, vieppiù a lunga ne fu cacciata a terra. Maravigliandosi tutti a così grande vedimento, eccoti il fanciullo venire sano ed allegro, e portare in mano la prima coppa, e narrò davanti a tutti come, caggendo lui in mare, incontanente santo Niccolaio fu presente e mantennelo sano e salvo. E rallegrandosi di ciò il padre, offerse l'una coppa e l'altra. Uno ricco uomo ebbe per li meriti di santo Niccolaio un figliuolo, al quale e' puose nome d'Adiodato. E fece questi in casa sua una cappella ad onore di santo Niccolaio, e ogni anno faceva la festa solennemente. Ed era la contrada di costui a lato a la terra de' saracini, sì che fu una volta preso questo garzone da un saracino e fue diputato al servizio del re loro. Sì che l'anno vegnente, faccendo il padre suo divotamente la festa di santo Niccolaio e 'l garzone tegnendo in mano la coppa e servendo il re, raccordossi com'egli era allora pregione e quanto potea essere allora il dolore del padre e de la madre e quanta era l'allegrezza che in cotale die si facea ad onore di santo Niccolaio, e cominciò forte a sospirare. Allora il domandò il re qual fosse la cagione di tanti sospiri, e 'l garzone dicendogliele, il re disse: "Che si faccia il tuo Niccolaio, tu pure sarai con esso noi". E subitamente venne un vento, il quale commosse tutta la casa, e 'l fanciullo con la coppa in mano subitamente fue rapito e posto dinanzi a le porti de la chiesa, là dove il padre e la madre sua facevano la festa. E così fu fatta l'allegrezza grande al padre e a la madre sua, e a tutta la gente.
cap. 4, S. LuciaLucia, vergine de la città di Saragozza, nobile di sua generazione, udendo che la fama e la nominanza di santa Agata si divolgava per tutta Cicilia, mossesi insieme con Eutizia, sua madre, la quale aveva continuamente, sanza rimedio di medicina, perduto il sangue per quattro anni; e andarono a visitare il sepolcro di santa Agata. Sì che essendo queste ne la chiesa di santa Agata, allora si cantava il Vangelo che narra come il Signore guarie una donna da simigliante infermitade. Allora disse santa Lucia a la madre: "Se tu credi quello che si legge, e che Agata abbia sempre avuto presente colui per lo cui nome sostenne passione, tocca il sepolcro suo e riceverai perfetta sanitade". E, partendosi la gente, rimasero. E Lucia s'addormentò, e vide santa Agata stare in mezzo de gli angeli, ornata di gemme, e diceva a lei: "Serocchia mia Lucia, vergine a Dio devota, perché domandi tu a me quello che tu potrai incontanente prestare a la madre tua? Ecco che, per la fede tua, ella è sanata". E svegliata Lucia disse a la madre: "Madre mia, or ecco che tu se' guerita; ora io ti priego, per amore di colei che t'ha guerita con le sue orazioni, che tu non mi ricordi giammai marito; ma quello che tu mi dovevi dare per dote, dallo a' poveri". Rispuose la madre: "Chiudimi prima gli occhi, e poscia farai de le possessioni mie ciò che tu vorrai". Disse Lucia: "Quello che tu dai a la morte, tu lo dai perché tu non lo ne puoi portare con teco; dallo dunque mentre che tu vivi, e averane merito da Dio". Ed essendo tornate a casa, ogne die traevano le cose di casa fuori, e davalle a' poveri. E distribuendosi così il patrimonio, venne questo fatto a gli orecchi de lo sposo. E lo sposo domanda la balia di queste cose, e ella disse che la sposa sua aveva trovata una più nobile possessione, la quale s'avea posto in cuore di comperare, e però ha distratte certe cose e vendute. Credettelosi quelli, e cominciò ad essere egli medesimo facitore de le vendite, e, vendute tutte le cose e date a' poveri, lo sposo la fece menare dinanzi a Pasquasio consulare, e disse che ell'era cristiana e facea contra le leggi de l'imperadori. Invitandola dunque Pasquasio a sacrificare a l'idoli, quella disse: "Il sacrificio che piace a Domenedio si è vicitare li poveri e sovvenire loro. E però ch'io non ho più che offerire, io medesima mi do a essere offerta". A la quale rispuose Pasquasio: "Queste parole potrai raccontare a uomo simigliante a te; ma a me che osservo le leggi de' principi, tu le di' invano". Disse Lucia: "Tu osservi le leggi de' tuoi prencipi, e io osserveròe la legge del mio Iddio; tu temi i prencipi, io temo Iddio; tu non vuogli offendere loro, e io mi guardo d'offendere lo mio Iddio; tu disideri di piacere a loro, e io desidero di piacere a Cristo; fa dunque quello che tu conosci che ti sia utile; io farò quel ch'io guaterò che sia utile a me". A la quale disse Pasquasio: "Tu hai speso il patrimonio tuo co' corrompitori, e però parli come meretrice". E quella disse: "Lo mio patrimonio abbo riposto in buono luogo; ma corrompitori, né di mente né di corpo, non seppi giammai che si fossero". Disse Pasquasio: "Quali sono i corrompitori de la mente e del corpo?" Rispuose Lucia: "Corrompitori de la mente siete voi, che confortate l'anime di lasciare il loro Creatore; ma corrompitori del corpo sono coloro che 'l diletto temporale dinanzi pongono a' diletti eternali". Disse Pasquasio: "Le parole rimarranno quando saremo venuti a le battiture". E quella disse: "Le parole di Dio non possono venire meno". Disse quelli: "dunque se' tu Iddio?" Rispuose Lucia: "Io sono ancilla di Dio, il quale disse: Quando voi starete davanti al re e a' signori non pensate come (ovvero come) voi dobbiate parlare, imperciò che vi sia dato in quell'ora quello che parliate; ché voi non siete quelli che parlate, ma lo spirito del Padre vostro è quelli che parla in voi". Disse Pasquasio: "Dunque lo Spirito Santo è in te?" Rispuose Lucia: "Coloro che vivono castamente sono tempio de lo Spirito Santo". E quelli disse: "Io ti farò menare al mal luogo, acciò che, quando tu sarai vituperata, làe fugga da te lo Spirito Santo". Disse Lucia: "Non si sozza il corpo se non consente la mente. Ché se tu mi farai corrompere, non volonterosa, la castità mi fia raddoppiata a la corona. Ma tu non potrai mai la mia volontà recare a consentimento di peccato. Ecco il corpo mio apparecchiato ad ogni tormento. Perché dimori? Comincia, figliuolo del diavolo, ad operare in me li desideri de le tue pene". Allora Pasquasio fece venire roffiani, e disse loro: "Invitate tutto il popolo che vada a lei, e tanto sia schernita ch'ella sia annunziata per morta". Volendola coloro tirare al mal luogo, di tanto peso la fermòe lo Spirito Santo, che al postutto muovere non la potessero. E fece Pasquasio venire altri uomini, e fecele legare le mani e i piedi, ma pertanto coloro non la poterono muovere. Allora con mille uomini furono aggiunti molte paia di buoi, ma ella stette ferma com'uno monte. Furono chiamati magi per incantarla ch'ella si movesse; ma ella stette sempre ferma. Allora disse Pasquasio: "Che malefici sono questi, che una fanciulla tirata da cotanti in veruno modo non sia mossa?" E quella disse: "Non sono malefici questi, anzi sono benefici di Dio; ché se tu n'arrogessi diecimilia, sì mi vedrai ferma come prima". E pensando Pasquasio, secondo che compuosero alcuni, che contano li malefici si cacciassero per lavatura, comandò che fosse bagnata di lavatura. E, non potendo per tutto questo essere mossa, Pasquasio, pieno d'angoscia, comandò che un gran fuoco le fosse acceso d'intorno, e fossevi messo entro pece e regina con olio bogliente. Disse Lucia: "Io abbo interpetrato da Domenedio indugio del mio martirio, acciò che a coloro che credono tolga paura d'essere passionati, sì che i non credenti non possano levare coda a coloro che credono. Ma veggendo gli amici di Pasquasio lui angosciare, dierle d'uno coltello per la gola, entro la quale, neente perdendo la favella, sì disse: "Io annunzio a voi la pace renduta a la Chiesa per Massimiano, oggi morto, e per Diocliziano scacciato del reame; e sì come la mia serocchia Agata è data per difenditrice a la città di Catania, così sono io conceduta da Dio per pregatrice a la città di Saragozza. E dicendo lei queste cose, ecco li ministri de' Romani dinanzi da lei vegnono, e Pasquasio, legato, ne menano a lo 'mperadore. Lo 'mperadore avea udito di lui che tutta quella provincia avea turbato; venendo dunque a Roma accusato al sanato di Roma, e convenuto, sì gli fu tagliato il capo. E la vergine Lucia di quello luogo dov'ella fu percossa non si movette, né non rendette lo spirito a Dio infino a tanto che non vennero li preti, e diederle il corpo di Cristo; e tutti quelli ch'erano presenti rispuosero: "Amen, domine". E in quel luogo medesimo fu seppellita e fatta ivi la chiesa, e ricevette passione al tempo di Costantino e di Massenzio, d'intorno a gli anni Domini CCCX.
cap. 5, S. Tommaso ap.Tommaso apostolo, essendo a Cesaria, sì gli apparve il Segnore, e disse: "Il re d'India, che ha nome Gundofero, sì ha mandato un suo proposto, che vada cercando uno uomo che sia bene ammaestrato de l'arte di lavorìo di palagi; vieni adunque e manderotti a lui". Al quale disse Tommaso: "Messere, dovunque ti piace mi manda, fuori che a quelli d'India". Disse il Signore: "Va' sicuramente, ch'io sono guardia di te. E quando tu arai convertiti quelli d'India a me, sì ne verrai a me con vittoria di martirio". Al quale disse Tommaso: "Tu se' mio Signore, e io sono tuo servo: sia fatta la volontà tua". E con ciò sia cosa che 'l preposto andasse per lo mercato, il signore Cristo sì li disse: "Che vuo' tu comperare, giovane? "E quelli disse: "Il Signore mio sì m'ha mandato, acciò ch'io gli meni uomini bene ammaestrati ne l'arte di fare palagi, e che li sia fatto un palagio al modo romano". Allora Cristo sì li disse: "Tolli Tommaso", affermando ch'elli era molto savio di quella arte. Navicando dunque costoro, giunsero ad una città, là dove il re di quel luogo faceva le nozze de la figliuola. E aveva fatto mettere bando che tutti fossero a le nozze, altrimenti si terrebbe offeso il re. Sì che intervenne che Abbanes e l'apostolo si furono a quelle nozze. Or avvenne che ci ebbe una giullaressa, la quale a ciascuno dava la sua loda, con una sua sampognetta ch'ella tenea in mano. Vedendo costei l'apostolo, intese che questi era ebreo in ciò che non mangiava, ma tenea fissi gli occhi in cielo. Ed essendo la garzonetta dinanzi da lui cominciò a cantare, e diceva: "Uno è lo Dio de gli ebrei, il quale fece il cielo e la terra". E l'apostolo la confortava ch'ella ripetesse quelle medesime parole. Sì che veggendo il siniscalco del re che quelli non mangiava né beeva, ma ragguardava solamente in cielo, si percosse l'apostolo entro la guancia. Al quale disse l'apostolo: "Non mi leverò quinci infino a tanto che la mano che m'ha dato, mi sia recata qui da i cani". Costui andando ad attignere l'acqua, venne il leone e uccise lui, e si bevve il sangue, e, lacerando li cani il corpo suo, venne uno cane nero e tolse la mano ritta e portolla nel mezzo del convito. Vedendo ciò tutta la gente stupidìo, e la giullaresca, raccontando le parole de l'apostolo, gittò via la sampogna, e gittosi a' piedi de lo apostolo. Questa cotale vendetta fatta ripruova Agostino nel libro che fece contro a Fausto, e afferma che questo ci fue mischiato da falso uomo. E però questa leggenda, quanto a più cose, è avuta per sospetta. Ma potrebbesi ben dire che l'apostolo l'avesse detto non per animo di bestemmiare, ma per modo di predicerlo dinanzi. Allora l'apostolo, a la domandagione del re, sì benedisse la sposa e lo sposo, così dicendo: "Signore Iddio da' a questi giovencelli la benedizione de la tua mano diritta, e ne le loro menti sembra seme di vita". E, partendosi l'apostolo, fu trovato in mano de lo sposo un ramo di palma pieno di datteri; e, mangiando lo sposo e la sposa di questi datteri, amendue videro uno sogno, e parea loro ch'uno re, pieno di gemme, gli abbracciasse, e dicesse: "L'apostolo mio sì v'ha benedetti, acciò che voi siate benedetti e partecipi de la vita eterna. E svegliati costoro e rapportando il sogno l'uno a l'altro, entròe l'apostolo a loro, e disse: "Così il re mio sì vi apparve ora, e me, con le porte serrate, sì m' ha menato qua drento, acciò che la mia benedizione faccia frutto sopra voi, e abbiate la verginità de la carne, la quale è reina di tutte le virtudi e frutto di salute perpetuale. La verginitade si è sirocchia de li angeli e possessione di tutti beni, vittoria de le carnalitadi, trionfo de la fede, scacciamento de le demonia e sicurtà de l'eternali allegrezze. De la lussuria s'ingenera corruzione, de la corruzione nasce sozzamento, del sozzamento nasce peccato, del peccato si genera vergognamento". Dicendo l'apostolo queste cose due angeli apparvero e dissero: "Noi siamo gli angeli che siamo diputati a vostra guardia; se voi osserverete beni gli ammonimenti de l'apostolo, noi offeremo dinanzi a Dio tutti i vostri desiderii". Sì che l'apostolo gli battezzò e ammaestrogli diligentemente ne la fede. E, dopo molto tempo, la sposa ch'avea nome Pellagia, fue consegrata a Dio col santo velo, e poi martirizzata; e lo sposo che avea nome Dionigio, fu fatto vescovo di quella cittade. Dopo tutto questo l'apostolo e Abbanes vennero al re d'India, sì che l'apostolo gli disegnò uno meraviglioso palagio, e, ricevuto dal re molto tesoro per farlo fare, il re si partì per andare in altra provincia. E l'apostolo diede tutto il tesoro a' poveri di Dio, sì che, tutto quel tempo che 'l re non fu presente, l'apostolo soprastette a la predicazione e convertì popolo sanza numero a la fede. Tornando il re e sappiendo quello che Tommaso avea fatto, sì lo rinchiuse nel fondaccio de la prigione, lui e Abbanes, acciò che poscia li facesse scorticare vivi e poi arderli. Infrattanto morìo Gad, fratello carnale del re, e cominciollisi ad apparecchiare uno sepolcro con grande boria. Sì che il quarto die, quelli ch'era morto sì risuscitò e, stupidita tutta la gente e fuggendo qua e là, sì disse al suo fratello: "Fratello mio, questo uomo che tu ti ponevi in cuore di scorticare e d'ardere, si è amico di Dio, e tutti gli angeli gli servono, i quali mi menarono in Paradiso e mostrarmi uno palazzo maravigliosamente fatto d'oro e d'argento e di pietre preziose. E maravigliandomi de la sua bellezza, sì mi dissero: "Il tuo fratello se n'è renduto indegno; se tu vi vuogli stare dentro pregherremo il Signore che ti degni risuscitare, acciò che tu 'l possa comperare dal tuo fratello, rendendoline la pecunia che si pensa avere perduta". E, dette queste cose, corse a la carcere domandando che fosse perdonato al suo fratello; e, rotti ch'ebbe i ferri, cominciò a pregare l'apostolo che degnasse di torre uno vestimento prezioso. Al quale disse l'apostolo: "Non sai tu che coloro, che vogliono avere parte in cielo, non disiderano veruna cosa carnale, né terrena?" E uscendo l'apostolo de la carcere, il re gli si fece incontro e gittollisi a' piedi chiedendoli perdonanza. Allora disse l'apostolo: "Molta grazia v'ha Dio fatta di mostrarvi li suoi segreti. Credete dunque in Cristo e battezzatevi, acciò che siate partefici de lo eternale regno". Disse a lui il fratello del re: "Io vidi il palagio che tu facesti al mio fratello, e ho meritato di comperarlo". Al quale disse l'apostolo: "Questo è ne la podestà del tuo fratello". Disse il re: "Esso sarà mio; e l'apostolo te ne faccia un altro, e, se non potesse farlo, questo uno sarà a comune tra me e te". Disse l'Apostolo: "In cielo ha palagi sanza numero, apparecchiati dal principio del mondo, i quali si comprano col prezzo de la fede, con le limosine. Le vostre ricchezze vi possono andare innanzi ad avere de gli altri, ma venire dietro non vi possono". E, dopo un mese, fece raunare l'apostolo tutti gli uomini di quella provincia, e, fatto ciò, fece stare spartiti i deboli e l'infermi e fece orazione sopra loro. E abbiendo detto: Amen, coloro che v'erano ammaestrati, venne uno splendore da cielo, e abbattéo sì l'apostolo come gli altri, e bene per una mezza ora, in tal maniera che tutti si pensavano essere caduti di percossa de la saetta folgore. E rizzandosi l'apostolo disse così: "Levatevi su che 'l Signore mio venne come folgore, e havvi tutti sanati". E levandosi tutti sani, lodarono Iddio e l'apostolo. Allora l'apostolo gli cominciò ad ammaestrare, e insegnò loro i XII gradi di vertudi. Il primo fue che credessero in Dio, il quale è uno in essenzia e sono tre persone; e diedene loro tre essempri sensibili, come in una essenzia sono tre persone. Lo primo essemplo si è che la sapienza ne l'uomo si è una, e di quell'una prende intendimento, memoria ed ingegno. Lo 'ngegno si è che quello che tu non hai appreso, tu l'apprendi; la memoria è quello che tu hai appreso non dimentichi; intendimento si è che tu pigli quelle cose che si possono mostrare, ovvero insegnare. Il secondo essemplo si è che in uno albore hae legno, foglie e frutti. Il terzo essemplo si è che un corpo hae quattro sentimenti, ché, in un capo, sarà vedere, udire, odorare e gustare, e impertanto queste sono più cose, ed è un capo. Il secondo grado si è che ed eglino ricevessino il battesimo. Il terzo si è che s'astenessino da la fornicazione. Il quarto che si temperassono de l'avarizia. Il quinto si è che si ristrignessero de la gola. Il sesto è che e' tenessono la penitenzia. Il settimo è che e' perseverassono in queste cose. L'ottavo che e' tenessoro albergheria di poveri e amasserla. Il nono che in quelle cose ch'e' avessero a fare cercassero il volere di Dio, e quello compiessero per opera. Il decimo quello medesimo volere di Dio cercassero ne le cose, che non fossero da fare, e quello schifassero. L'undicimo che a gli amici e a' nimici avessero amore. Il duodecimo che a guardare queste cose avessero buona rangola. Dopo la predica furono battezzati IX migliaia d'uomini, trattini i fanciulli e le femmine. Dopo questo sì se n'andò ne l'India disopra, ne la quale risplendette d'infiniti miracoli. E alluminovvi l'apostolo una ch'avea nome Sinticen, amica di Midonia, moglie di Carisio, cognato del re. Disse Midonia a Sinticen: "Credi tu ch'io il potessi vedere?" Allotta Midonia, per consiglio di colei, si mutò in altro abito, e tra le povere femminelle se ne venne colà dove l'apostolo predicava. Cominciò a predicare l'apostolo de la miseria di questa vita, dicendo fra l'altre parole come questa vita è misera, sottoposta a molte cadute ed è tanto fuggitiva, che, quando altri la crede tenere, si fugge che non se ne guarda altri. Poi cominciò a confortargli per quattro ragioni che la parola di Dio udissero volentieri, assimigliando la parola di Dio a quattro generazioni di cose: primieramente a l'acqua da occhi, in ciò ch'ella allumina l'occhio del nostro intendimento; anche al beveraggio, in ciò che purga e monda il nostro affetto da ogni amore rio; anche a lo impiastro, in ciò che sana le piaghe de' nostri peccati; anche al cibo, in ciò che ci sazia e diletta de l'amore de le cose celestiali. E disse: sì come queste cose non vagliono a lo 'nfermo sed egli non le riceve in se medesimo, così a l'anima inferma non fa prode la parola di Dio, s'ella non l'udirà divotamente. E, predicando l'apostolo, credette Midonia, e non volle da quindi innanzi giacere col marito. Allora Carisio impetrò dal re che l'apostolo fosse messo in carcere. Vegnendo a lui Midonia sì 'l pregò che li perdonasse ciò che per lei era messo in carcere. E l'apostolo, consolandola benignamente, affermòe che tutte queste cose sofferiva volentieri. Ma Carisio pregò il re che mandasse la reina, sirocchia de la sua moglie, a lei per poterla rivocare da questo stato. Mandata, la reina è convertita da colei la quale ella volea supervertire. Ché veduto ella tanti miracoli che l'apostolo faceva,disse: "Ben son maladetti da Dio coloro che non credono a tante operazioni". Allora l'apostolo tutti coloro ch'erano presenti, ammaestrò di tre cose, brievemente; cioè che amassero la Chiesa, onorassero li preti e cotidianamente si raunassero a udire la parola di Dio. E tornando la reina, sì le disse il re: "O perché se' tu tanto stata?" E quella disse: "Io pensava che Midonia fosse stolta, ma ella mi pare savissima, ch'ella m'ha menata a l'apostolo, e hammi fatto conoscere la via de la verità, e sono troppo matti coloro che non credono ne lo Iddio Cristo". E non volle la reina da indi innanzi più giacere col re. Sì che stupidito il re disse al cognato suo: "Volendo me ricoverare la moglie tua sì ho perduta la mia, ed èmmi diventata peggiore a me la mia che a te la tua". Allora il re comandò che l'apostolo gli fosse mandato dinanzi con le mani legate, comandando a lui che egli rivocasse le mogli a i loro mariti. Ma l'apostolo gli mostrò per tre essempli che quanto tempo eglino stessono in errore, elle non dovessono ciò fare. E prima per lo essemplo del re, per l'essemplo de la torre, e per l'essemplo de la fontana. Onde disse così: "Con ciò sia cosa che tu sia re, non vuogli avere i servigi maculati, ma tu vai cercando i servigi mondi e netti, e così medesimamente le fancelle; quanto maggiormente dei tu credere che Dio ama i casti e netti servigi! perché dunque sono io incolpato, s'io predico che Dio ama ne' servi suoi quello che tu ami ne' tuoi? I' ho fatta una torre alta, e tu mi di' ch'io la disfaccia; i' ho cavata la terra profonda e tratto una fonte di nabisso, e tu mi di' ch'io la turi?" Allora il re comandò adiratamente che fossero recate piastre di ferro calde e roventi, e fece stare l'apostolo sopra esse co' piedi ignudi; ma immantanente per volontà di Dio uscì di quel luogo una fontana, e sì le spense. Allora il re, per consiglio del suo cognato, sì 'l fece mettere dentro a una fornace ardente; il quale vi stette con tanto rifrigero là entro che, l'altro die, n'uscì fuori sano e salvo. Disse dunque Carisio al re: "Fa ch'egli faccia sacrificio a lo Dio del sole, sì che e' caggia ne l'ira del suo Iddio, il quale lo libera da queste pene". Ed essendo costretto a ciò, disse al re: "Se tu più se' buono che la tua fattura, come dunque annighittisci Dio, e adori la dipintura? Tu pensi, come dice Carisio, che lo Dio mio s'adiri con meco poi ch'io avrò adorato lo Dio tuo; ma lo Dio mio s'adirerà col tuo, e minuzzerallo. Andiamo dunque ad adorare, e se, adorando me, lo Dio mio non tramezzerà il tuo, io sagrificherò a lo Dio tuo; ma s'egli il farà tramazzare, tu crederai a lo Dio mio". Al quale disse il re: "Ancora contendi tu meco di pari". L'apostolo dunque comandò in ebreo al demonio, ch'era ne l'idolo, che sì tosto, come s'inginocchiasse, attritasse l'idolo. Inginocchiandosi l'apostolo disse: "Ecco ch'io adoro, ma non l'idolo, né metallo, non la statua; ma lo Dio mio, Jesù Cristo, nel cui nome io ti comando, dimonio, che tu attriti cotesto idolo". Incontanente si strusse come cera. Allora tutt' i pontefici e sacerdoti del tempio missero una grande mugghiata come tori. Ma il pontefice maggiore trasse fuori il coltello e trapassòe l'apostolo, così dicendo: "Io vendicherò la 'ngiuria de lo Iddio mio". Ma il re a Casirio fuggirono, veggendo che 'l popolo voleva vendicare l'apostolo e ardere lo pontefice. Ma li cristiani tolsero il corpo de lo apostolo e seppellirollo con onore. E dopo lungo tempo intorno a gli anni Domini CCXXX, il corpo de l'apostolo fu traslatato ne la sua cittade ch'avea nome Edessa, a comandamento d'Alessandro, faccendo ciò per li prieghi de' Soriani. In quella città non può vivere neuno eretico, né giudeo, né pagano, né tiranno veruno le puote nuocere. E massimamente da poi che 'l re Abagaro, il quale ne fu signore, meritò d'avere la Pistola scritta per mano dal Salvatore. Ché se alcuna volta è venuta gente veruna contra quella cittade, uno fanciullo battezzato, stando sopra la porta, legge quella Pistola, e quel die, sì per la scrittura del Salvatore come per li meriti de l'apostolo, li nemici fuggono o vegnono a pace insieme. Di questo apostolo parla in questo modo Isidoro nel libro che fece de la Vita e de la Morte de' Santi, e dice così: "Tommaso, apostolo di Cristo e simigliante al Salvatore, udendo fue incredulo, e veggendo credette. Questi predicòe il Vangelo a i Parti e a i Medi e a quelli di Persida e a gli Ircani e a' Brattiani, ed entrando ne la orientale piaga e trapassando le 'nteriori contrade de' pagani, ivi condusse la sua predicazione infino a la morte. Questi morette per trafitture di lance". Queste cose dice Isidoro in questo libro, come detto è. Ma Giovanni Grisostomo sì dice che, essendo venuto Tommaso a la contrada di quelli Magi che vennero ad adorare Cristo, sì li battezzò, e fur fatti aiutatori de la fede cristiana. Abbiendo detto delle feste che corrono infra 'l tempo del rinnovellamento, il quale cominciò da Moisé e da' Profeti, e duròe insino a l'avvenimento di Cristo in carne, lo quale tempo rappresenta la Chiesa de la prima domenica de l'Avvento insino al Natale; seguita ora a vedere de le feste che corrono fra 'l tempo che parte contiene del tempo del racconciliamento, e parte del tempo del pellegrinaggio, lo quale tempo rappresenta la Chiesa dal Natale infino a la Settuagesima, sì come detto è disopra, nel prolago dinanzi.
cap. 6, Natività G. CristoIl nascimento del nostro Signore Jesù Cristo, secondo la carne, sì avvenne, come alcuni dicono, compiuti dal tempo d'Adamo cinque milia ducento ventinove anni; ma, come dicono altri, furono semilia anni. Ma secondo che dice Estochio Sebio ne le Croniche sue furono V.m.CCLXXXXVIIII anni, ma si fue al tempo d'Ottaviano imperadore; il cominciamento di VI.m. anni sì fu trovato da Merodio maggiormente per figura che per cronica. A quel tempo che il figliuolo di Dio venne in carne tanta pace era ne l'universale mondo, che uno solo imperadore de' romani signoreggiava pacificamente tutto il mondo. Ché, sì come elli volse nascere per darci la pace del tempo e la pace de l'eternitade, così eziandio volse che neente di meno la pace del tempo alluminasse il suo nascimento. Adunque lo 'mperadore, signoreggiante a tutto il mondo, volse sapere quante provincie e quante cittade e quante castella e quante ville e quanti uomini fossero nel mondo. Comandò adunque, come si dice ne le Storie Scolastiche, che tutti gli uomini andassero a la cittade donde erano nati; e catuno offerisse al signore de la provincia uno danaio d'argento che valesse diece danari de la usuale moneta; per lo quale danaio confessasse sé sottoposto a lo 'mperio di Roma. E faceane professione, però che quello cotale danaio portava la imagine de lo imperadore e la soprascritta del nome. Ed era detta professione in ciò che quando catuno uomo rendea al signore de la provincia il capocenso, cioè quel danaio (che così si chiamava) sì 'l poneva in sul capo suo e con la sua bocca confessava sé sottoposto a lo imperio di Roma. Onde era detta professione, cioè a dire quasi con la propria bocca confessione; e faceasi ciò dinanzi a tutto il popolo. Descrizione era detta, per ciò che 'l numero di coloro che portavano il capocenso, si era determinato per certo numero, ed era recato in iscritte. Questa discrizione fu fatta primieramente dal signore de la Sorìa ch'avea nome Cirino. Ed è detta la prima, imperciò che, come si trova in quelle Storie Scolastiche, prima la fece Cirino per ciò che vide la provincia nel miluogo de la terra che s'abita; sì che fu provveduto che in quella si cominciò di prima e poi per l'altre contrade d'intorno. Ovvero ch'è detta la provincia la prima, cioè la prima universale, per ciò che l'altre particulare andarono innanzi. Ovvero, per la ventura, la prima de li capi ne la città era fatta dal signore, la seconda de le cittadi era fatta ne la provincia dal legato de lo 'mperadore, ma la terza de le provincie era fatta in Roma dinanzi a lo 'mperadore. Essendo dunque Gioseppo de la schiatta di David, sì se n'andò da Nazzarette, là dov'egli abitava, in Betleem. E con ciò fosse cosa che si approssimasse il tempo del partorire de la vergine Maria e elli non sapesse de la sua tornata, sì la prese e menonnela seco in Betleem, non volendo il tesauro commesso a lui da Dio lasciarlo in mano altrui, ma elli stesso trattarlo con le sue mani e guardarlo con grande solennitade e sollecitudine. E appresso n'andossi a Betleem (come racconta frate Bartolomeo, in uno libro che e' compuose), dove dice che la Vergine vidde parte del popolo rallegrare e parte piangere. La qualcosa sponendogli l'angelo, disse: "La parte del popolo che s'allegra, si è il popolo pagano, il quale nel seme d'Abraam ricoverrà l'eternale benedizione; la parte che piange si è il popolo de' giuderi, riprovata da Dio, per li suoi mali meriti". Ed essendo giunti ambedue in Betleem, non poterono avere albergo, e sì perché erano poveri e sì perché gli alberghi erano già tutti presi da gli altri. Cansaronsi dunque ad una coperta la quale è detto Diversorio, sotto la quale i cittadini ne' dì da non lavorare si ragunavano a sedere e a ragionare insieme, e anche per lo tempo rio e' non potevano stare fuori. Gioseppo apparecchiò iveritto una mangiatoia al bue e a l'asino; ovvero, secondo che vogliono dire altri, ivi era fatta la mangiatoia per ciò che quando i foresi venivano al mercato, legavano in quel luogo i loro animali. Sì che entro la mezzanotte de la Domenica la Vergine santissima partorette il suo figliuolo e sopra lo fieno lo richinòe ne la mangiatoia; lo quale fieno, come si truova ne le Storie Scolastiche, santa Elena portò poi a Roma. Da notare è adunque che 'l nascimento di Cristo fu fatto maravigliosamente, fu mostrato per molte guise e fu donato utilmente. Imprima dico che fu maravigliosamente fatto sì da la parte de la ingenerante, sì da la parte de lo 'ngenerato e sì da parte del modo de lo 'ngenerare. Imprima da parte de la 'ngenerante, imperciò ch'ella fu vergine innanzi al parto e dopo il parto. Ched ella partorisse stando vergine, per cinque modi fu mostrato. Imprima per la profezia di Isaia profeta, nel settimo capitolo: "Ecco, dice, una vergine conceperà e partorirà". Il secondo modo per la figura, imperciò che fu ciò figurato per la verga d'Aron, la quale fiorìo sanza ogni studio umano, e per la porta d'Ezechiel, la quale stette sempre chiusa. Il terzo modo per la guardia, ché Gioseppo sì la guardò e fu testimone de la sua verginitade. Il quarto modo per sperienzia per ciò che (sì come si truova ne la compilazione di Bartolomeo e pare che fosse tolto del libro De Infantia Salvatoris) con ciò fosse cosa che 'l tempo del partorire fosse presso, Gioseppo, avvegna che non dubitasse che Dio dovea nascere di Vergine, ma volendo tenere l'usanza del paese, sì chiamò due balie; le quali ebbe l'una nome Zebel e l'altra Salomè. Sì che Zebel considerando e cercando e vedendo ch'ella era vergine, sì gridò che ella avea partorito stando vergine; ma Salomè non credendo, ma volendo provare ciò, altressì ponendo la mano là, incontanente diventò arida. Ma per comandamento de l'angelo che l'apparette, sì toccò il fanciullo e tosto fue sanata. Il quinto modo per lo manifestamento del miracolo: ché a Roma, sì come testimona Innocenzio papa terzo, fue pace XII anni. Onde li romani ordinaro uno tempio di pace bellissimo e puoservi la statua di Romolo. Ma chiedendo consiglio a lo Dio Apolline quanto tempo quel tempio durerebbe, ed ellino ebbero risposta che tanto durerebbe ch'una vergine parturisse. Udendo ciò dissero: "Dunque durerà eternalmente"; però che vergine partorire giammai non sarà possibile; sì che ne le reggi del tempio scrissero questo titolo: "Tempio di pace eternalmente durabit". E in quella notte che la vergine partorette, rovinòe il tempio infino dal fondamento; e ivi è ora la chiesa di santa Maria Nuova. Secondariamente fu maravigliosamente fatto il nascimento da la parte de lo ingenerato. Onde dice san Bernardo: "In una medesima persona si raunarono maravigliosamente cosa eternale e cosa vecchia e cosa nuova. L'eternale ciò fu la divinità; l'antica ciò è la carne tratta d'Adamo; la nuova ciò è l'anima tratta di nuovo". Ancora, come dice elli medesimo: "Oggi fece Iddio tre mischiature, ovvero tre opere sì maravigliosamente singulari che tali non furono mai fatte né mai sono da fare più; ché sono congiunte insieme Dio e uomo, madre e vergine, fede e cuore umano. La prima è molto maravigliosa, ché sono congiunti insieme il fango e Dio, la maestade e la infermitade, cotanta viltade e cotanta altezza, che neuna cosa è più alta che Dio e neuna è più vile che 'l fango. La seconda neente di meno fu anche maravigliosa, ché dal secolo non fu giammai udito che vergine veruna fosse che concepesse e partorisse e, dopo il parto, fosse vergine. La terza è più bassa che la prima e che la seconda, ma non meno forte; ché grande maraviglia fue come il cuore umano diede fede a queste due cose, e come si poté credere che Dio fosse uomo e che stesse vergine quella ch'avesse partorito". Queste cose disse san Bernardo. Il terzo modo fu maravigliosamente fatto da parte del modo de lo ingenerare, però che 'l suo parto fu sopra natura, in ciò che vergine concepette; fu sopra ragione, in ciò che ingenerò Dio; fu sopra condizione umana, in ciò che partorette sanza dolore; fu sopra usanza, in ciò che concepette di Spirito Santo, però che non ingenerò la Vergine di seme d'uomo, ma di Spirito Santo. Ché lo Spirito Santo scelse del castissimo e purissimo sangue de la Vergine e formonne il corpo di Cristo. E così mostrò Dio il quarto modo maraviglioso di fare l'uomo; però che in quattro modi mostrò Dio padre l'uomo, sì come dice Anselmo: "Il primo si è sanza uomo e sanza femmina, come fece Adamo; il secondo si è d'uomo sanza femmina, e così fece Eva; il terzo si è d'uomo e di femmina, come si fa tutto die; il quarto rimaneva a fare di femmina sanza uomo, e questo è fatto oggi". Secondariamente il suo nascimento fue in cotale die per molte guise mostrato, per la ragione ch'avemo presa di ciò ch'ella ingenerò Dio sopra condizione umana, e di ciò ch'ella partorette Dio sopra usanza, e di ciò ch'ella concepette di Spirito Santo. Però che mostrato fu, per tutt'i gradi de le criature, ch'elli è criatura la quale ha solamente essere, sì come quella ch'è pura corporale, come le pietre; altra è c'ha essere e vivere, come le piante; altra è c'ha essere e vivere e sentire, come gli animali; altra è c'ha essere e vivere e sentire e discernere, come l'uomo; altra è c'ha essere e vivere e sentire e discernere e intendere, come l'angelo. Per tutte queste creature fue mostrato oggi il nascimento di Cristo. La prima criatura, cioè pura corporale, si è in tre guise, cioè oscura, trasparente e chiara. Imprima dunque fu mostrato per quella che è pura corporale oscura, sì come per la destruzione del tempio de' Romani, come detto è, e per lo cadimento de la statua di quello Romolo, la quale cadde allora e stritolossi; e, brievemente, tutti gli altri idoli e le statue che in altri luoghi n'aveva più, tutti caddero. Leggesi che Ieremia profeta, discendendo ne lo Egitto dopo la morte di Godolia, sì diede segnale a i re ovvero a' sacerdoti de l'Egitto che i loro idoli cadrebbero quando la vergine partorisse figliuolo. Per la qualcosa i sacerdoti de gli idoli, in uno segreto luogo del tempio, ordinarono una imagine di vergine portante uno garzone in grembo, e ivi sì l'adoravano. Ma richiesti poscia dal re Tolomeo, dissero che questo era misterio di paternale ordinamento, che i loro maggiori aveano avuto da santo profeta; e così credeano che dovesse avvenire infatti. Secondariamente per la pura corporale transparente, ché in quella notte l'oscurità de l'aiere si mutò in chiaritate di chiaro. Anche, sì come testimonia Orosio e Innocenzio papa terzo, a Roma una fontana d'acqua si mutò in licore d'olio, e, uscente fuori, e' corse insino al Tevere. E la sibilla avea profetato che quando rampollasse fontana d'olio, allora nascerebbe il Salvatore. La terza per la pura corporale chiaritade, sì come per li corpi sopracelestiali; però che in quello dì di Natale, secondo che alcuni vogliono dire, come dice Grisostomo, adorando i Magi sopra un monte, una stella apparve appresso di loro, la quale avea forma di bellissimo garzone e nel suo capo risplendea la croce; la quale, parlando a' Magi, sì disse loro: "Andatene in Giudea e ivi adorate il garzone nato". Anche in quello die apparetteno in oriente tre soli, i quali, a poco insieme, tornarono in uno corpo solare. In ciò significava che a tutto il mondo soprastava il conoscimento di Dio in tre persone e in una essenzia; ovvero che quelli era nato nel quale erano tre cose in una persona, cioè divinità, carne a anima. Ma ne le Storie Scolastiche si dice che questi tre soli apparvero non il dì di Natale, ma per alcuno tempo dinanzi, cioè dopo la morte di Giulio Cesare; le quali cose eziandio afferma Eusebio ne le sue Croniche. Anche Ottaviano imperadore, come dice Innocenzio terzo, abbiendo sottomesso tutto 'l mondo a lo 'mperio romano, intanto piacque a' sanatori di Roma ch'elli il voleano coltivare per Domenedio loro. Ma il savio imperadore, sappiendo ch'elli era mortale, non si volse prendere nome de lo immortale Iddio; ma a loro importuno preghiero fece venire la Sibilla profetessa, volendo sapere per li suoi detti, se maggiore di lui dovesse nascere nel mondo. E con ciò fosse cosa che il die di Natale di Cristo richiedesse consiglio sopra ciò e la Sibilla stesse in orazione ne la camera de lo imperadore, entro il mezzodì apparve uno cerchio d'oro intorno dal sole, e nel mezzo del cerchio era una vergine bellissima portante uno garzone nel suo grembo. Allora la Sibilla mostròe queste cose a lo 'mperadore e, maravigliandosi molto lo 'mperadore per la detta visione, udì una boce che li disse: "Questo è l'altare del cielo". E disse a lui la Sibilla: "Questo fanciullo è maggiore di te, per ciò sì l'adora". Sì che quella camera è consegrata in onore de la Vergine Maria; onde infino al dì d'oggi è chiamata santa Maria d'Ara Celi. Intendendo dunque lo 'mperadore che questo fanciullo era maggiore di sé, sì li offerette oncenso, e rifiutò da indi innanzi essere chiamato Iddio. Di questo parla Orosio: "In questo modo al tempo d'Ottaviano ne l'ora intorno a la terza, subitamente, essendo il tempo chiaro, apertamente apparve un cerchio a modo de l'arco celestiale, e attorneòe la ricondita del sole, come se dovesse venire colui il quale sole avea fatto, e reggea il sole e tutto quanto il mondo". Di questo dice Orosio e, quello medesimo dice Eutropio. Secondariamente il nascimento fu mostrato e manifestato per le creature che hanno essere e vivere, come sono le piante e gli albori. Ché in questa notte (come testimonia Bartolomeo ne la sua compilazione) le vigne d'Engaddo, le quale menavano balsamo, fiorirono e feciono frutto e diedero licore. Nel terzo luogo fu mostrato per le criature che hanno essere, vivere e sentire, come sono gli animali, ché andando Joseppo in Betleem con Maria, sua moglie, gravida, menò seco il bue e l'asino. Il bue forse per venderlo e pagare il trebuto per sé e per la Vergine, e de lo rimanente vivessero; l'asino forse per portarvi suso la Vergine. Sì che il bue e l'asino, per miracolo cognoscendo Iddio, con le ginocchia piegate sì lo adorarono. E innanzi al nascimento di Cristo per alquanti dì, dice Eusebio, ne la Cronica sua, che arando alcuni i buoi, sì dissero a li aratori: "Li uomini verranno meno e le biade faranno prode per se stesse". Nel quarto luogo fu mostrato per la creatura che ha essere, vivere e sentire e discernere, come per li pastori. E in quella ora vegghiarono i pastori sopra la greggia loro, sì come usavano di fare l'anno due volte, cioè ne le più lunghe e ne le più corti notte de l'anno. Per ciò che costumanza fu anticamente de' pagani che, in catuno solitazio, cioè quello di state, per la festa di san Giovanni Batista, e quello de verno per la festa del Natale, guardavano le vigilie de la notte per riverenza del sole. Il quale costume già era molto cresciuto appo i giuderi per l'uso di coloro che abitano tra loro. Sì che l'angelo di Dio apparve a' pastori e annunziò loro il Salvatore nato, e diede loro segnale com'eglino il troverebbero. E immantanente con quello angelo fu fatta la moltitudine de li angeli, che diceano: "Gloria sia a Dio ne le alte cose, e in terra sia pace a gli uomini di buona volontà". Sì che i pastori vegnendo e trovando tutto come l'angelo avea detto, sì il narrarono poi a gli altri. Così anche fu manifestato per lo 'mperadore, il quale diede allora comandamento che veruno nol chiamasse Signore, sì come testimonia Orosio, forse perché vide quella visione d'intorno al sole; e ricordandosi de la rovina del tempio, e de la fontana de l'olio, intendendo ancora che nel mondo si era nato uno maggiore di lui, non volse essere chiamato né Iddio, né Signore. Anche fu manifesto per li soddomiti, i quali furono tutti spenti in quella notte, come dice santo Geronimo sopra quella parola: "Luce è nata a loro", ché nata fu quella luce che spense tutti coloro ch'erano maculati di quello vizio; e ciò fece Cristo per levarli di terra, acciò che ne la natura ch'elli avea presa non si trovasse da quinci innanzi tanta sozzura. Però che dice santo Agostino che, veggendo questo vizio ne l'umana natura, poco meno che non rimase d'incarnare. Nel quinto luogo per la criatura che ha essere, vivere, sentire, discernere e intendere, come l'angelo. Per ciò che sì come detto è: "Gli angeli sì annunziarono a' pastori il nascimento di Cristo fatto". Nel terzo luogo il nascimento di Cristo fu dato a noi utilmente, però che 'l diavolo non ha tanta potenzia sopra noi che elli aveva prima. Onde si legge che l'abate Ugo Clunacense ne la vigilia del Natale di Cristo vidde la beata Vergine Maria tenere il figliuolo in braccio, e dicea: "Ora è il die che le scritture de' profeti sono rinnovellate. Ov'è dunque il nemico che innanzi a questo die avea potenzia sopra la generazione umana?" A questa voce uscì il diavolo de la terra per contrastare a le parole de la nostra Donna, ma il peccato gli mentìo, per ciò che quando elli cerca le luogora de' frati, la devozione lo caccia de l'oratorio, la lezione de la Messa lo caccia del refettorio, li vili letticelli dal dormentorio, la pazienzia dal Capitolo. De l'utilitade del nascimento di Cristo parla san Bernardo: "Tre mali aveva la generazione umana nel principio e nel mezzo e ne la fine; cioè nel nascere e nel vivere e nel morire. Il nascere era immondo, il vivere perverso, il morire pericoloso. Venne Cristo e contro a questi tre mali recòe tre remedii, però che nacque e visse e morìo. Il suo nascimento purgòe il nostro; la sua vita ammaestròe la nostra, la sua morte distrusse la nostra". Queste cose disse san Bernardo. Ancora de l'utilitade di quello nascimento di Cristo dice Agostino nel libro de la Trinitade, ne l'ottavo capitolo: che l'umiltà del figliuolo di Dio, la quale mostrò a noi ne la sua incarnazione, fue a noi in essemplo convenevole, in sacramento e in medicamento. In essemplo convenevole il quale l'uomo tenesse in sacramento alto, per lo quale fosse sciolto lo legame del peccato nostro; e in sommo medicamento, per lo quale l'enfiatura de la nostra superbia fosse sanata". Queste cose dice Agostino. Ché: "la superbia del primo uomo fu sanata per l'umiltà di Cristo". Ed è da notare che l'umiltà del Salvatore risponde convenevolmente a la superbia del traditore. Ché la superbia del primo uomo fu contro a Dio, per ciò che fue contro al suo comandamento ch'egli avea dato, che non mangiasse del frutto del legno de la scienza del bene e del male; fue anche infino a Dio, però che appetìo la divinitade, credendo quello che 'l diavolo gli avea detto, cioè: "Sarete come dii"; fue anche sopra Dio volendo quello che Iddio non volea che volesse, come dice Anselmo, ché allora soprappuose la sua volontade a quella di Dio. Così per contrario, il Figliolo di Dio, come dice Giovanni Damasceno, s'umiliò per li uomini, non contra li uomini, infino a li uomini e sopra li uomini. Per li uomini per ciò che per la loro utilitade e salute, infino a gli uomini per lo modo similiante del nascere, sopra gli uomini per lo modo del nascere dissimiliante. Però che il suo nascimento, secondo alcuna cosa fu simigliante a noi, cioè perché nacque di femmina e per una medesima porta di schiatta; e secondo alcuna cosa fue dissimigliante, per ciò che nacque di Spirito Santo e di Maria Vergine.
cap. 7, S. AnastasiaAnastasia, tra ' Romani nobilissima figliola, di pretassato gentile molto ma pagana, e la madre sua Fausta, cristiana, dal beato Grisogono pienamente fue ammaestrata de la fede di Cristo. E fu data per moglie a Publio; ed ella infignendosi d'essere inferma, sempre s'asteneva d'accompagnarsi con lui. Il quale, udendo che con una sola ancella in vile abito andava cercando la carcere de' cristiani e servìa de le loro necessitadi, sì la fece guardare strettissimamente in tale maniera che eziandio gli alimenti le sottraea, e voleala sì per questo modo uccidere, acciò che potesse ne le grandi possessioni di lei diventare lassivo. Sì che ella pensando morire, mandava a Grisogono le dolorose lettere, e quelli le rimandava consolative. Infrattanto morì il marito, e ella fu tratta di carcere. Costei avea tre cameriere bellissime, le quali erano sirocchie carnali; l'una de le quali era chiamata Agapete, e l'altra Tionia, e l'altra Irenen. Le quali, essendo cristiane e non volendo per niuna guisa ubbidire a li ammonimenti del prefetto, sì le rinchiuse entr'una cameretta, là dove si riponevano la masserizie de la cucina. Sì che il prefetto invaghito troppo di loro, andòe a loro per compiere la sua mala volontade con esse. Quegli impazzato, pensavasi di malmenarle le vergini,abbracciava e basciava i paiuoli e le caldaie e le pentole e le padelle e simiglianti cose. Ed essendo saziato di ciò, uscì fuori tutto nero e disformato. I servi suoi che l'aspettavano a la porta, veggendo costui così concio, pensavano che fosse fatto uno demonio, si 'l batterono molto bene, e, fuggendo, si 'l lasciarono solanato. Quegli andando a lo 'mperadore per porre richiamo di ciò, altri il batterono con le verghe, altri gli sputarono nel volto, altri gli gittavano il loto e la polvere perché tutti sospiciavano che fosse fatto pazzo. Ma gli occhi suoi il teneano che non si vedesse così sozzo; per la qualcosa si maravigliava molto ch'egli era così schernito da tutti, il quale soleva essere onorato da tutti. E parea a lui ch'egli e tutti gli altri fossono vestiti di vestimenti bianchi. Ma quando ebbe saputo da gli altri ch'elli era così sozzo, pensossi che quelle garzonette gliel'avessano fatto per arte magica. Comandò adunque che fossono spogliate dinanzi da lui per vederle almeno ignude; ma i loro vestimenti s'appiccicarono sì a le loro carni che per veruno modo potevano essere spogliate. Ma il prefetto, per la maraviglia, s'addormentò sì fortemente russando, e, picchiando gli altri, non si potea destare. A la perfine le vergini furono coronate per martirio, e Anastasia fu data da lo imperadore ad uno prefetto, che, se la potesse fare sacrificare, poi la si togliesse per moglie. Sì che quelli menandola ne la camera e volendola abbracciare, immantanente divenne cieco. Allora se n'andò a li Dei per domandarli se potesse campare. E que' dissero: "Imperò che tu hai contristata santa Anastasia, tu se' dato a noi; e oggimai sarai sempre con esso noi tormentato nel ninferno". Ed essendo rimenato a casa, fra le mani de' suoi servi finìo la vita sua. Allora Anastasia fu data a un altro perfetto che la tenesse in guardia. Ma udendo quelli ch'ella avea infinite possessioni, sì le disse segretamente: "Se vuogli essere cristiana, or fa quello che comandò lo Dio tuo: E' sì comandò che chi non rinunzierà a tutto ciò che possiede non può essere suo discepolo. Dunque mi da ciò che tu hai, e va dove ti piace". E quella rispuose: "Lo mio Dio comandò che si vendesse ogni cosa, e dessesi a' poveri e non a' ricchi. Onde, con ciò sia cosa che tu sia ricco, io farei contro al suo comandamento se io ti dessi alcuna cosa". Allora Anastasia fu messa in crudele pregione per essere poi tormentata, ma ella fue nutricata da cibo celestiale da santa Teodora per due mesi; la qual santa era già coronata per martirio. A la perfine fue menata a l'isole Palmarie con dugento vergini, là dove molti, per lo nome di Cristo, erano stati mandati. E dopo alquanti dì il prefetto le si fece tutte venire, e sì fece legare Anastasia ad uno palo, e fecela ardere, e l'altre uccidere per diversi tormenti. Tra ' quali n'avea uno il quale, essendo più volte spogliato di molte ricchezze, sempre dicea: "Almeno Cristo non mi torrete voi". E Apollonia tolse il corpo di santa Anastasia e solennemente il seppellìo nel giardino suo, e fatta ivi la chiesa. Passionata fu intorno a gli anni Domini CCLXXXVII.
cap. 8, S. StefanoStefano fu l'uno de' setti diacani ordinati da gli apostoli a servire, però che crescendo il numero de' discepoli, quelli ch'erano convertiti de' pagani cominciarono a mormorare contro a coloro ch'erano convertiti de' giuderi, di ciò che le loro vedove erano spregiate nel ministerio cotidiano, ovvero perch'ell'erano gravate più che l'altre nel detto ministerio, cioè amministragione. Ché li apostoli, acciò che più speditamente soprastessono a predicare, aveano commesso l'amministragioni a le vedove. Vogliendo dunque gli apostoli acquetare il mormorio ch'era nato, ragunata tutta la moltitudine sì dissero: "Non è egual cosa che noi lasciamo la parola di Dio per servire a le mense". Dice la Chiosa: "Per ciò che migliori sono i mangiari de la mente che del corpo". "Dunque considerate, voi fratelli, alcuni uomini di buona testimonianza, in sette, che siano pieni di Spirito Santo, e di sapienzia, i quali ordiniamo sopra questa opera". Di ciò la Chiosa dice: "Che amministrano, ovvero che sieno sopra gli amministratori". E noi soprastaremo a l'orazione e a la predicazione". E piacque il detto a tutti, e scelsorne sette, de' quali, santo Stefano fu il primo, e principale. E menarolli dinanzi a li apostoli, e elli puosero le mani sopra loro. Sì che Stefano, pieno di grazia e di fortezza, facea maraviglie e segnali grandi nel popolo. Abbiendone astio gli giuderi, disideravano di soperchiarlo e di convincerlo; e in tre modi l'assalirono, cioè con disputazione, con producimento di testimoni, e con tormenti. Ma elli sì li soperchiò ne la disputazione, e convinse i testimoni ch'erano falsi, e de' suoi tormenti ebbe vittoria. E in ciascuna battaglia gli fu dato aiuto da cielo. Ché ne la prima gli fu dato lo Spirito Santo che gli apparecchiò il bello parlare; ne la seconda gli fu dato il volto angelico, il quale spaventòe i falsi testimoni; e ne la terza fu veduto Cristo apparecchiato ad atarlo, il quale confortòe lo martire. Ed in ciascuna battaglia pone tre cose, cioè assalimento di battaglia, aiuto dato e trionfo acquistato; sì che, scorrendo brievemente la storia, potremo vedere tutte queste cose. Faccendo santo Stefano molte maraviglie e predicando spesso al popolo, li giuderi l'assalirono prima per la disputazione. Ché si levarono alquanti da la sinagoga de' libertini, ch'erano così chiamati da la contrada, ovvero libertini, cioè figliuoli di liberti (ciò sono coloro che sono tratti di servitudine e fatti liberi, cioè franchi). E così furono di schiatta di servi quelli che prima contrastettero a la fede, e di Cirenensi, cioè de la città di Cirene, e d'Alessandria, e di quelli ch'erano da Cilicia e d'Asia, e vennero a disputare con Istefano. Ecco la prima battaglia; ma odi la vittoria: "e' non poteano, ciò dice, contrastare a la sapienza"; poi pone l'aiuto: "e a lo Spirito Santo, il quale parlava". Veggendo dunque che per disputazione nol poteano soperchiare, brigarsi di convincerlo con falsi testimoni e sommissero due falsi testimoni, che l'accusassero di quattro maniere di bestemmia, cioè contro a Dio, e contro a Moises, e contro a la legge, e contro al Tabernacolo, ovvero tempio. Ecco la battaglia; ma odi l'aiuto: e isguardando in lui, ciò dice la storia, coloro che sedevano nel concilio viddero il volto suo come volto d'angelo. E seguita la vittoria: i falsi testimoni di tutte queste cose furono confusi, imperò che 'l prencipe de' sacerdoti il domandò se queste cose fossono così. Allora santo Stefano si scusò di quelle quattro cose che gli erano apposte. E prima si scusò de la bestemmia contra Dio, dicendo che Dio il quale parlò a' Patriarchi e a' Profeti si fu Iddio di gloria. Laddove loda Domenedio in tre modi, secondo che questa parola in tre modi si puote sporre. Ched e' sia Iddio di gloria, cioè datore di gloria, come dice nel primo libro de' Re secondo capitolo: "Chiunque mi farà onore, io il glorificherò". Ancora Iddio di gloria, come dice nel libro de' Proverbi ottavo capitolo: "Meco sono le ricchezze e la gloria". Anche Dio di gloria, cioè al quale si dee dare da la criatura gloria, come dice san Paolo a Timoteo, la prima Pistola nel primo capitolo: "Al re de' secoli non mortale e invisibile, solo Iddio, sia onore e gloria". Lodato dunque che sia pieno di gloria e glorificativo e da essere glorificato. Nel secondo luogo si scusa de la bestemmia contro Moises lodandolo per molte guise. Ch'egli il loda massimamente da tre cose, cioè da fervore di zelo, per ciò ch'elli uccise quelli d'Egitto percotente; anche da operazioni di miracoli, i quali e' fece ne l'Egitto e nel deserto; anche da consolazione di Dio, ovvero familiaritade, per ciò che più volte parlava con Dio familiarmente. Nel terzo luogo si scusa de la bestemmia che doveva avere detta contro la legge commendandola per tre modi, cioè per ragione di colui che la diede, cioè Iddio; e per cagione di colui che la amministròe, ciò fue Moises, così grande e cotale uomo; e per ragione del fine, cioè perché dà vita. Ne l'ultimo luogo si scusa de la quarta e ultima bestemmia che doveva avere detta contro al Tabernacolo, ovvero tempio, commendandolo di quattro cose, cioè che fu comandamento di fare da Dio, anche fue mostrato per visione, anche fu compiuto da Moises, e perché contenea in sé l'arca. E 'l tempio disse che succedesse al Tabernacolo. E così il beato Stefano del peccato a lui posto si scusò ragionevolmente. Veggendo dunque gli giuderi che in questo modo nol potevano soperchiare, a la terza battaglia mettono mano, cioè di soperchiarlo almeno non tormenti. De la qual cosa accorgendosi il santo, volendo servare il comandamento del Signore de la correzione fraternale, in tre modi si sforzò di correggerli e di ritrarli da tanta malizia, cioè per vergogna, per paura e per amore. Per vergogna, rimproverando loro la durezza del cuore loro e la morte de' santi, dicendo così: "O voi col capo duro e che non siete circumcisi de' cuori e de l'orecchie, voi sempre avete contrastato a lo Spirito Santo, sì come fecero li padri vostri. Or quale de' profeti non perseguitarono i padri vostri e ucciserseli, i quali annunziavano l'avvenimento del giusto Iddio?" Là dove pone la Chiosa tre gradi de la loro malizia, cioè che contrastettono a lo Spirito Santo, e che perseguitarono li profeti, e che crescendo la malizia loro sì li uccisero. Ma udendo loro queste cose sì si squarciavano li cuori loro e stridìano co' denti contro di lui. Poi gli corresse con paura per quello che disse che vedea Jesù a la diritta parte de la virtù di Dio stare ritto quasi apparecchiato ad atarlo ed a condannare gli avversari. Che, con ciò sia cosa che fosse pieno di Spirito Santo, guardando in cielo vidde la gloria di Dio e disse: "Ecco che veggio il cielo aperto e 'l figliuolo de la Vergine stare a la diritta parte de la virtù di Dio". E avvegna ch'elli gli avesse corretti per vergogna e per paura, non ristettero per ciò ancora, ma diventarono peggiori che prima: ché gridavano a grande boce e turavansi gli orecchi. Dice la Chiosa: "Per non udire il biastemmiare". E tutti d'uno animo fecero assalto contro a lui, e cacciandolo fuori de la città sì 'l lapidarono, credendo in ciò fare secondo la legge, la quale aveva comandato che 'l biastemmiatore fosse lapidato fuori de le mura. E quei due falsi testimoni che la prima pietra gli doveano gittare, secondo la legge che dicea: "La prima mano de' testimoni lapiderà lui", sì puosero le vestimenta loro, acciò che al suo toccamento non si macchiassero e per essere più spediti a lapidare, a' piedi del giovane ch'era chiamato Saolo e poi fu chiamato Paolo; il quale, guardando le vestimenta di coloro che lapidavano, in ciò ch'egli li fece più spediti a lapidare, sì 'l lapidò quasi con la mano di tutti. Ma non potendoli rimuovere di tanta malizia né per vergogna né per paura, aggiunse un altro modo di ritrarli, almeno per amore. Or non fu elli grande amore, quand'elli pregò per sé e per loro così divotamente? Ché per sé pregò Iddio che la sua passione non si prolungasse e coloro non avessero maggiore peccato. Lapidavano, ciò dice, Stefano chiamante e dicente: "Messere Jesù Cristo ricevi lo spirito mio". E poste che ebbe le ginocchia in terra, gridò con grande voce e disse: "Messere non ordinare loro questo peccato". Vedi caritade mirabile che, per sé pregando, stette ritto; ma pregando per loro s'inginocchiò, quasi desiderando d'essere più esaudito de la orazione che facea per coloro, che di quella che facea per sé. E ben fece che, sì come dice la Chiosa, in quel tempo la 'niquitade di coloro, ch'era maggiore, sì richiedeva maggiore rimedio di pregare. In ciò seguitò questo martire Cristo, il quale ne la Sua passione pregò perdicendo: "Padre ne le tue mani raccomando lo spirito mio". E per coloro che 'l crocifiggevano disse: "Padre, perdona loro, ché non sanno che si fare". Ed abbiendo detto questo, dormìo nel Signore. Dice la Chiosa: "Bel detto fue dormìo e non morìo, che però ch'egli sofferette sacrificio d'amore, dormìo ne la speranza de la resurressione. Fatto fue il lapidamento di Stefano ne l'anno che Cristo montò in cielo, nel prossimo mese d'Agosto, tre entrante. E santo Gamaliel e Niccodemo, i quali erano per li cristiani in tutti i concilii de' giuderi, sì lo seppellirono nel campo d'esso Gamaliel e fecero il pianto grande sopra di lui. Allora fu fatta grande persecuzione a li cristiani ch'erano in Gerusalem. Morto che fu santo Stefano, il quale era uno de' grandi prencipi, si cominciarono a perseguitare gravemente gli altri, intanto che tutti fuggirono; ché gli apostoli, i quali erano più forti, s'andarono spandendo per tutta la provincia de' giuderi, secondo che 'l Signore Cristo avea loro comandato: "Se vi perseguiteranno ne l'una città, fuggite ne l'altra". Racconta Agostino, nobile dottore, che santo Stefano fece miracoli sanza novero e sucitò sei morti per li suoi meriti e molti infermi curòe da diverse infermitadi. E fuori di questi racconta altri miracoli degnamente da ricordare. Ché dice che fiori erano posti in su l'altare del beato santo Stefano e, tolti dond'erano, posti sopra gl'infermi, e immantanente erano sanati. Ancora i panni presi del suo altare e posti sopra gl'infermi erano a gli 'nfermi medicina che, sì come egli dice nel XXII capitolo nel libro de la Città di Dio: "I fiori tolti d'in su lo altare suo e posti sopra gli occhi d'una femmina cieca, incontanente riebbe il vedere". Dice anche in quello libro che uno uomo de' maggiorenti de la città, il quale avea nome Marziale, essendo infedele e non potendo essere convertito a la fede con ciò fosse cosa che fosse infermo, il genero suo molto fedele se n'andò a la chiesa di santo Stefano e tolse de' fiori ch'elli trovò in su l'altare di santo Stefano, e puoseli al capo del letto del suocero, nascosamente. Quando quelli v'ebbe dormito su, immantanente innanzi che fosse la mattina, gridò che fosse mandato al vescovo. Non essendovi il vescovo, venne un prete a lui e, dicendo che credeva, sì 'l battezzòe. Costui mentre che visse sempre ebbe in bocca questa parola: "Cristo ricevi lo spirito mio"; non sappiendo egli che queste furono le sezzaie parole che disse santo Stefano. Anche racconta simigliantemente un altro miracolo d'una donna ch'avea nome Petronia, la quale, essendo tormentata lungo tempo di gravissima infermità e aggiugnendo molti rimedii, non sentìa via veruna d'essere liberata. A la perfine ebbe consiglio con uno giudeo, il quale le diede uno anello con una pietra e appiccogliele al collo, acciò che per vertù de la pietra ricevesse beneficio di santade. Ma veggendo che non le valea nulla, andonne ratto a la chiesa del primo martire e pregòe perseverantemente santo Stefano per la sua sanitade. Subitamente, non essendo sciolta la cordella e rimagnendo senza danno l'anello, sì le saltò dal collo, e immantanente si trovò sanata perfettamente. Anche racconta un altro miracolo non meno da maravigliare. Ché a Cesaria di Capodoccia avea una gentile donna abbandonata dal sollazzo di marito, ma attorniata di nobile moltitudine di figliuoli, che dieci figliuoli si dice che ebbe, i sette maschi e le tre femmine. Sì che una volta essendo offesa da loro, sì diede loro la sua maladizione, e subito dopo la maladizione venne la vendetta di Dio; e tutti furono percossi d'una simigliante e orribile pena: ché a tutti tremavano orribilmente tutte le membra. Per la qualcosa troppo dolorosi e non patendo d'essere veduti da i loro cittadini, per tutto il mondo cominciarono ad andare scorrendo, e dovunque andavano ogni persona gli guatava per maraviglia. Li due di costoro, fratello e sirocchia, ciò fu Paulo e Paladia, venoro ad Ippone, a quella città dove Agostino era vescovo, e contarolli quelle cose che erano loro intervenute. Sì che usando la chiesa di santo Stefano bene quindici dì anzi la Pasqua, abbiendo con molti prieghi domandato santade al detto martire, in quello die de la Pasqua essendo il popolo spesso ne la chiesa, Paolo subitamente entrò nel cancello de l'altare e, con molta fede e reverenza, si gittò in orazione dinanzi a l'altare; e con ciò sia cosa che coloro ch'erano presenti aspettassono la fine del fatto, subitamente si levò sano e lieto, che mai poscia non ebbe triemito veruno nel suo corpo. Essendo menato ad Agostino, elli l'appresentò al popolo, e 'l seguente die promisse di dare al popolo un libello del raccontamento di lui. E parlando Agostino in questa maniera al popolo, la serocchia di colui era presente, entròe ne' cancelli di santo Stefano, incontanente, sì come ella si levasse da dormire, si levò subitamente sana. Ella essendo simigliantamente menata nel mezzo dinanzi al popolo così liberata, grandi grazie furono rendute e al suo martire santo Stefano. Orosio tornando da Gironimo ad Agostino, sì li portò alcune reliquie di santo Stefano, a le quali i predetti miracoli e molti altri furono fatti. E nota che in questo die non fu passionato santo Stefano, ma in quello die, ciò si dice, che si fa festa de la invenzione del corpo suo; la cagione perch'ella fu mutata, sì diràe quando noi parleremo de la invenzione. Basti al presente quello che detto è, che la Chiesa per due ragioni volle ordinare queste tre feste che vegnono dopo il Natale. La prima cagione si fu per aggiungere a Cristo, il quale è sposo e capo, tutti i suoi compagni; ché nato Cristo, sposo de la Chiesa, in questo mondo tre compagni s'aggiunse, de' quali compagni dice la Cantica: "Il diletto mio e candido e vermiglio, scelto tra migliaia". Candido quanto ad Joanni vangelista, prezioso confessore; vermiglio quanto a Stefano primo martire; scelto tra mille quanto a la turba verginale de li Innocenti che furono morti dal re Erode. La seconda cagione si è, acciò che la Chiesa adunasse così le generazioni di tutti i martiri insieme secondo il grado de la dignità, de' quali martiri la nativitade di Cristo fue cagione. Ch'elli è martirio in tre modi: il primo si è di volontade e opera; il secondo si è di volontade e non d'opera; il terzo è d'opera, ma non di volontade. Il primo fue del beato santo Stefano, il secondo fue del beato santo Giovanni, il terzo fue ne' santi Innocenti.
cap. 9, S. Giovanni ap.La vita sua scrisse Mileto, vescovo di Laudicea, e Isidoro l'abbreviò nel libro che fece de la vita e de la morte de' santi Padri. Giovanni, apostolo e vangelista, amato dal Signore, ed eletto vergine dopo la Pentecoste, essendo partiti gli apostoli se n'andò in Asia, là dove molte chiese fondòe. Sì che Domiziano imperadore, udendo la sua fama, sì mandò per lui e comandò che fosse messo in una caldaia d'olio bogliente dinanzi a la porta latina. Ma esso n'uscì fuori senza veruno male, sì come egli era straniero da corruzione di carne. Veggendo dunque lo 'mperatore che per questo non si rimanesse di predicare, sì 'l mandò a' confini ne l'isola di Patmos; nel quale luogo stando solo scrisse l'Apocalissi. In quello medesimo anno lo 'mperadore per la troppa crudeltà ch'era in lui, sì fu morto, e ciò ch'elli avea fatto sì fu cassato e reso vano dal sanato di Roma. E così avvenne che 'l beato Giovanni, il quale con ingiuria era trasportato in quell'isola, si ritornò in Efeso con grande onore. E feceglisi incontro tutta la moltitudine d'uomini e di femmine dicendo: "Benedetto sia que' che viene nel nome del Signore". Ed entrando ne la cittade, Drusiana, la quale sempre l'avea seguitato, si era portata morta di fuori. Sì che elli li si fecero incontro da presso le vedove e li orfani dicendo: "O santo Giovanni, ecco Drusiana morta, che la portiamo a sotterrare, che sai ch'ella obbediva a li tuoi comandamenti, e tutti noi nutricava, e sempre desiderava che tu tornassi, e dicea: Or s'io vedrò l'apostolo di Dio innanzi ch'io muoia! Ecco che se' venuto, e non t'ha potuto vedere". Allotta fece portare giù il cataletto e isciogliere lo corpo, e dinanzi a tutti disse con chiara voce: "Il Signore mio Jesù Cristo sì ti desta, Drusiana, leva su, e vattene a casa tua e apparecchiami da mangiare". Quella si levò incontanente e cominciò ad andare sollicita del comandamento de l'apostolo; e pareale ch'ella fosse destata anzi dal sonno che da la morte. Allora fu fatto un grido di popolo bene per tre ore, e dicevano: "Uno è lo Dio lo quale predica Giovanni, uno è il Signore Jesù Cristo". L'altro die Craton, filosofo, nel mercato chiamòe il popolo per mostrare come il mondo era da sprezzare; e avea già a due ricchissimi fratelli giovani fatto barattare tutto 'l patrimonio loro e comperarne gemme preziose; e quelle avea comandato che fossero spezzate dinanzi a tutto il popolo. Sì che avvenne che l'apostolo passava indi, onde chiamò a sé il filosofo e dannòe questo sprezzamento di mondo che non fosse buono per tre ragioni: Primieramente perché è lodato per bocca d'uomini e condannato per giudicio di Dio; secondariamente perché di cotale spregio non sono purgati li vizii, e però si è vano, come la medicina è detta vana quando la 'nfermità non è curata; nel terzo luogo perché cotale spregio non è meritorio quando l'uomo non dà il suo a li poveri, come disse il Signore a quello giovane: "Se tu vuogli essere perfetto va e vendi ciò che tu hai, e dà a' poveri, e vieni dopo a me". Disse Craton filosofo: "S'elli è veracemente Iddio il maestro tuo, e vuole che il prezzo di queste gemme si dea a' poveri, fa sì ch'elle diventino intere, acciò che quello ch'io feci a laude de li uomini, tu il faccia a gloria di colui lo quale tu ricordi che fu tuo maestro". Allora santo Giovanni raccogliendo i minuzzoli de le gemme, fece orazione e disse: "Signore Jesù Cristo, il quale per la croce riparasti lo mondo, che rendesti lume a colui ch'era nato cieco e che richiamasti Lazzaro a vita, che tutte le 'mfermitadi curasti, per la tua virtude, or ricovera queste pietre per le mani di santi angeli, le quali sono spezzate a loda de gli uomini dico loro che non sanno che sia il frutto de la limosina". E rispondendo i fedeli "Amen", rassaldate sono le rotture de le gemme, e diventarono intere com'erano imprima. Incontanente il filosofo, con quelli due giovani e con tutti gli altri discepoli, credette, e vendendo le gemme, tutto diedero a' poveri e seguitarono l'apostolo. Anche due altri giovani orrevoli, che l'uno avea nome Azzio e l'altro Cugio, ad essemplo di costoro, venduto ogni cosa e dato a' poveri, seguitarono l'apostolo, il quale per la divina vertude facea molti miracoli. Sì che un die costoro veggendo i servi loro splendenti di preziose vestimenta e sé vestiti d'un mantello misero e bisognosi, sì si cominciarono a contristare. L'apostolo, veggendo ch'elli erano tristi ne la faccia, si fece recare verghe e pietre minute da la riva del mare e convertille in oro e in gemme preziose; e per comandamento de l'apostolo andarono cercando e mostrandole per sette dì a tutti gli orafi e gemmieri; e poi tornarono e dissero che coloro non aveano mai veduto così puro oro, né così preziose gemme. Disse a loro l'apostolo: "Or andate e ricomperatevi le terre che voi vendeste, però che voi avete perduto i guiderdoni del cielo. Siate fioriti, acciò che infracidiate; siate ricchi temporalmente, acciò che mendichiate perpetualmente". Allora l'apostolo cominciò a disputare lungamente contra le ricchezze, mostrando che sei cose sono quelle che ci debbono ritrarre dal distemperato appetito de le ricchezze. La prima cosa si è la Scrittura, onde raccontòe la storia del ricco ghiotto, lo quale il Signore riprovòe, e di Lazzero povero, lo quale elesse. La seconda cosa sì è la natura, però che l'uomo nasce ignudo, sanza ricchezze, e così si muore. La terza si è la criatura, per ciò che 'l sole, la luna, e le stelle, e l'aere, e la pioggia a tutti comunemente danno li loro benefici; e così fra gli uomini dovrebbono essere tutte le cose a comune. La quarta si è la ventura; ché dice che il ricco diventa servo del danaio e del diavolo; del danaio, ché non possiede le ricchezze, ma è posseduto da esse ricchezze maggiormente; del diavolo, ché l'amatore del danaio, secondo il Vangelio, è servo di Mammona. La quinta è la sollecitudine, però che molta sollecitudine hanno di die e di notte, ora in acquistare, ora in conservare, ché le ricchezze s'acquistano con fatica e conservansi con paura. La sesta si è il danno; e mostra che le ricchezze sono cagione di due danni, l'uno in acquistamento di doppio male, cioè del male nel tempo presente, lo qual è superbia, e del male nel tempo che deve venire, lo quale è l'eternale dannazione; e l'altro si è il perdimento di doppio bene, cioè del bene nel tempo presente, lo quale è la grazia, e del bene nel tempo che dee venire, lo quale è l'eternale gloria. Dicendo dunque santo Giovanni queste cose contro a le ricchezze, ecco venire uno giovane morto che si portava a sotterrare, il quale era stato pure XXX con la moglie ch'egli avea tolta e menata. Venendo dunque la madre vedova e tutti coloro che 'l piangevano con lagrime, si gittarono a' piedi de l'apostolo, pregando ch'elli suscitasse il giovane com'elli avea fatto Drusiana. Sì che piangendo l'apostolo per colui lungamente e stando in orazione, il giovane ch'avea nome Stattes si levò suso immantanente; e, fatta l'orazione, comandò che fosse isciolto il corpo, e disseli: "O giovane, il quale tratto per l'amore carnale tosto perdesti l'anima, i' ho fatto priego al Signore per la ignoranza tua che ti risusciti, sciolto del legame de la morte". E comandolli che dicesse a quelli due discepoli in quanta pena fossero caduti e quanta gloria avessero perduta. Allora il giovane cominciò a narrare molte cose ch'elli avea vedute de la gloria di Paradiso e de le pene de lo inferno, e disse: "O voi miseri, io vidi gli angeli vostri piangere e li demoni ridere; voi avete perduti li eternali palagi li quali sono splendienti, di gemme fabbricati, e contengono chiarezza maravigliosa, e ripieni di copiosi mangiari e pieni di delicatezza e gloriosi d'allegrezze e che perpetualmente debbono permanere". Anche disse otto pene ch'erano in ninferno, le quali si contengono in questi versi: Vermini e tenebre, tormento, freddo e fuoco, Aguardamento di demoni, confusione de' peccati e pianto. Allora quelli ch'era suscitato e quelli due discepoli, Azzio e Cugio, gittandosi a' piedi de l'apostolo, lo pregarono di misericordia. A i quali disse l'apostolo: "Fate penitenzia XXX dì e infra questi pregate che le verghe e le pietre ritornino ne la loro prima natura". E fatta la penitenzia, disse loro: "Andate, e sì le riponete colà donde voi le recaste". E fatto ciò, e tornate le verghe e le pietre ne la loro natura, ricevettoro tutta la grazia de le virtudi, la quale eglino aveano avuta di prima. E predicando santo Giovanni per tutta l'Asia, li coltivatori de li idoli commovendo il popolo a romore, traevano l'apostolo al tempio di Diana per costrignerlo di farle sacrificio. A' quali l'apostolo diede cotale partito che od elli al chiamamento di Diana facessero rovinare lo tempio di Cristo, ed elli adorerebbe gl'idoli; o esso al chiamamento di Cristo facesse rovinare il tempio di Diana, ed ellino credessimo in Cristo. E consentito a questa sentenzia da la maggiore parte del popolo, uscendo tutti del tempio, l'apostolo fece orazione e il tempio cadde e la imagine di Diana si minuzzò tutta quanta. Allora si convertirono in quel die dodicimila di pagani, trattone i fanciulli e le femmine, e furono tutti battezzati. Sì che Aristodemo, prencipe ovvero pontefice de gl'idoli, commosse un grande romore nel popolo, sì che l'una parte s'apparecchiava a combattere con l'altra. Al quale disse l'apostolo: "Che vuogli tu ch'io faccia acciò che tu sia placato?" E quelli disse: "Se tu vuogli ch'io creda ne lo Iddio tuo io ti darò a bere veleno e, se non ti farà male veruno, si mostrerà che 'l tuo Iddio sia verace signore". Disse l'apostolo: "Or fa come tu hai detto". E quelli disse: "Io voglio che tu ne veggia morire altrui acciò che tu n'abbia maggiore paura". Andonne dunque Aristodemo al proconsolo de la terra, e fecesi dare due uomini da essere giustificati a la morte e d'essere smozzicati, e diede loro bere il veleno dinanzi a tutta la gente. Sì tosto come l'ebbero bevuto, si morirono quelli due uomini. Allora l'apostolo tolse il calice e, armandosi col segno de la santa Croce, bevette tutto il veleno e non gli fece male veruno; per la qualcosa tutti cominciarono a lodare Iddio. Allora disse Aristodemo: "Ancora sono rimaso in dubbio; ma se tu risuciterai questi che sono morti del veleno, sanza dubbio crederò veramente". Allora l'apostolo gli diede la tonica sua. E quelli disse: "Perché m'hai tu dato la tonica tua?" Disse l'apostolo: "Hollati data perché tu così vituperato ti parta da la tua infedelità". E quelli disse: "E farammi credere la tonica tua?" Disse l'apostolo: "Va e polla sopra i corpi de' morti, e di' così: l'apostolo di Cristo m'ha mandato a voi, ché voi vi leviate nel nome di Cristo". E fatto ciò, tanto tosto si levarono vivi ritti. Allora il pontefice e il proconsolo credettero con tutto il loro parentado. L'apostolo gli battezzo nel nome di Cristo. E spezzando l'idole loro, e' sì fecero una chiesa ad onore de l'apostolo. Racconta santo Clemente, come si truova nel terzo libro de la Storia Ecclesiastica, che ad un tempo avvenne che l'apostolo convertìo un bellissimo giovane e forte a la fede, e raccomandollo a uno vescovo sotto nome di diposito. Ma dopo alcuno tempo il giovane abbandonòe il vescovo e diventòe capitano di ladroni. Allora l'apostolo se ne venne al vescovo e raddomandògli il suo diposito. E il vescovo intendendo d'alcuna quantità di pecunia e di ciò maravigliandosi fortemente, l'apostolo gli disse: "Io ti raddomando quello giovane ch'io ti raccomandai con cotanto studio". E quelli disse: "Padre santo, elli è morto ne l'anima, e sta nel cotale monte con li ladroni, ed è loro capitano". Quelli, udendo ciò, istracciò il vestimento suo e, battendosi il capo con le palme, sì disse: "Buono guardiano ti lasciai de l'anime del prossimo!". Incontanente si fece apparecchiare uno cavallo, e montovvi suso, e corse a quel monte sanza nessuna paura. E 'l giovane veggendolo, per la grande vergogna incominciò a fuggire. L'apostolo, ch'era smontato del cavallo, vi risalì suso, e quegli fugge più ratto. Allora l'apostolo, dimenticata l'etade, punse fortemente il cavallo con li sproni, e grida forte dietro a colui che fuggìa, e dice: "Perché, figliuolo dolcissimo, fuggi tu' padre? perché hai paura l'armato del disarmato? non temere, figliuolo mio, che per te renderò ragione a Cristo, e per te saddisfarò. E certamente per te morrò volentieri come Cristo morì per noi. Ritorna, dolce figliuolo, ritorna al Padre tuo, però che Cristo mi manda a te". Quegli, udendo ogni cosa, ebbe contrizione nel cuore, ritornòe e pianse amarissimamente. E l'apostolo gli si gittò a' piedi, e cominciogli a basciare la mano come fosse già purgato per la penitenzia. Sì che digiunando e pregando l'apostolo per colui, sì li accattò perdonanza, e poi lo fece vescovo. E leggesi in quella medesima Storia Ecclesiastica, e truovasi ne la Chiosa sopra la seconda Pistola canonica di santo Giovanni, che essendo egli ad Efeso entrato in uno bagno per lavarsi, trovovvi entro uno eretico ch'avea nome Cerinto. Sì che immantanente n'uscì fuori così dicendo: "Fuggiamo quinci acciò che non ci rovinino le bagnora addosso, ne' quali è lavato Cerinto, nemico de la fede". E dicono alcuni che sì tosto come ne furono usciti, le bagnora rovinarono. Anche essendo a san Giovanni offerto un uccello vivo, ch'è chiamato starna, e elli il toccasse quasi dileticando con la mano, uno giovane, udendo ciò, sì rise e disse a' compagni suoi: "Vedete come quello vecchio si trastulla con l'uccello com' uno fanciullo!" La qualcosa conoscendo l'apostolo per spirito, chiamò a sé il giovane e disseli: "Che tieni tu in mano?" E quelli disse: "Tengo l'arco con che io saetto a le bestie e a li uccelli". Disse l'apostolo: "Tendi l'arco". Quando quelli l'ebbe teso e tenevalo così teso in mano e l'apostolo non gli diceva più nulla, sì distese l'arco. Disse l'apostolo: "Perché stendesti l'arco?" E que' disse: "Però che se fosse tenuto teso lungo tempo, e' sarebbe più debole a li strali che si gittano". Disse l'apostolo: "Così è, figliuolo mio, l'umana fragilitade, che diventerebbe meno forte a la contemplazione se sempre stesse ne la sua fortezza e se l'uomo rifiutasse d'inchinarsi alcuna volta a la sua fragilità. Ché l'aquila, la quale vola più alto di tutti gli uccelli e vede il sole più chiaramente, impertanto sì scende a basso per la nicistà de la natura. Così è l'animo de l'uomo, quando egli si ritrae un poco de la contemplazione; per ispesso rinnovamento si va più ardentemente a le cose celestiali!" La sua predica confermava con molti miracoli in tale maniera che per lo toccamento de la sua vesta erano sanati l'infermi e scacciate le demonia e mondati i lebbrosi. Ma con ciò fosse cosa che 'l beato Giovanni fosse venuto infino a l'ultima vecchiezza e dimorasse in Efeso, come dice Jeronimo, in tal modo che appena era portato a la chiesa fra le mani de' discepoli, non potendo dire molte cose, ad ogni riposata dicea queste parole: "Figliuoli, amatevi insieme". A la perfine coloro che con lui erano, maravigliandosi che elli dicea spesso quelle medesime parole, sì li dissero: "Maestro perché parli tu sempre quelle medesime parole?" E quelli disse: "Perché gli è comandamento del Signore, e se questo solo è fatto, sì basta ed è amato Cristo. Anche racconta ch'elli n'andò che, dovendo Giovanni vangelista scrivere il Vangelo, imprima impuose il digiuno acciò che pregassero Iddio che gli desse a scrivere degne cose. E dicesi ch'egli oròe per quel luogo segretissimo, nel quale era cansatosi a scrivere le divine cose, ched elli non vi patisse ingiuria veruna di vento né di piova mentre che soprastesse a quella opera. E questa reverenza fanno gli elementi a quello luogo infino al dì d'oggi. Con ciò fosse dunque cosa ch'elli avesse LXXXXVIII anni da la passione di Cristo, secondo che dice Isidoro, ne gli anni LXVII sì li apparve il Signore con li discepoli suoi, e disse: "Vieni, amato mio, a me, ch'egli è tempo che tu mangi co' tuoi fratelli ne la mensa mia". Sì che levandosi, l'apostolo cominciò ad andare. E disse lo Signore: "Domenica, il die de la mia resurressione, che sarà da oggi a cinque die, ne verrai a me". Vegnente la Domenica, tutto il popolo si ragunò ne la chiesa ch'era fatta al suo nome. E elli dal primo canto dov'elli predicòe loro, confortandogli, dice che stessono fermi ne la fede e ferventi ne li comandamenti di Dio. Poscia fece fare una fossa quadrata lungo l'altare e gittare la terra fuori de la chiesa; e scendendo ne la fossa con le mani levate al cielo, e' sì disse: "Io invitato al tuo convito, Signore Jesù, ecco che vegno e fotti grazie che mi degnasti invitare a' tuoi mangiari sappiendo, Signore mio, ch'è con tutto il cuore". E, fatta l'orazione, tanta luce e splendore sopra lui risplendette che nessuno lo poteva vedere. E, partendosi il lume, la fossa fu trovata piena di manna, e infino al die d'oggi vi si genera in quel luogo in tal modo che nel fondo de la fossa pare che rampolli al modo di rena minuta, come suole avvenire ne le fontane. Nel quale luogo sono liberati tutti da tutte infermitadi e pericoli, e sono esauditi de' loro prieghi. San Eadsmondo, re d'Inghilterra, non negava mai nulla a chi domandasse nel nome di santo Giovanni evangelista, onde avvenne che un pellegrino domandava al re limosina molto improntamente nel nome de l'apostolo, non essendovi il camarlingo. Al quale il re, non abbiendo che dare di presente, il prezioso anello che teneva in mano sì li porse. E dopo molti dì un cavaliere d'Inghilterra, essendo oltremare, ricevette il detto anello da quello pellegrino che 'l dovesse rimandare al re con queste parole: "Quelli a cui e per lo cui amore tu desti questo anello, sì 'l ti rimanda". La qualcosa udendo il re molto ne fue lieto. Onde apertamente si manifesta che santo Giovanni gli fosse apparito in forma di pellegrino. Dice Isidoro nel libro de la Vita e de la Morte de' Santi Padri: "Santo Giovanni mutòe in oro le verghe frondute de la selva, e le pietre de la riva del mare in gemme, e le rotture de le gemme ne la loro natura. Al suo comandamento risucitò la vedova, e il corpo morto del giovane; rimagnente l'anima, sì riparòe; bevendo beveraggio mortale, campòe il pericolo, e gli abbattuti del veleno, sì li recò a stato di vita".
cap. 10, SS. InnocentiInnocenti son detti per tre ragioni, cioè per ragione de la vita, per ragione de la pena e per ragione de la innocenzia acquistata. Per ragione de la vita, però che non nocquero a nessuno, né a Dio per disubbidienza, né al prossimo per ingiustizia, né a loro medesimi, per alcuna macola di peccato, come disse il Salmo: "Li innocenti e diritti s'accostarono a me". L'innocenti de la vita, e diritti ne la fede. Anche per ragione de la pena, però che innocentemente e sanza colpa furono morti, come dice il Salmo: "Sparsero lo sangue innocente". Anche per ragione de l'innocenzia acquistata, per ciò che in esso martirio furono battezzati nel sangue loro, ed acquistarono la innocenzia battismale e furono mondati dal peccato originale. Dice il Salmo: "Guarda la innocenzia, e vedi l'aguaglianza", cioè a dire, guarda la innocenzia del battesimo, e poi vedi l'aguaglianza de la buona operazione. Li innocenti furono morti da Erode Ascalonita. Tre Erodi furono molto infamati di crudeltade. Il primo fu detto Ascalonita, sotto il quale nacque il Signore, e che uccise l'innocenti fanciulli per uccidere Jesù. Il secondo fu detto Antipas, il quale dicollò Giovanni Batista. Il terzo fu detto Agrippa, il quale uccise Jacopo Maggiore e incarcerò san Piero. Onde ne sono fatti versi: Lo Strilonita uccise i fanciulli, e Antipas Giovanni Batista: Agrippa santo Jacopo, rinchiuse in carcere san Pietro. Veggiamo prima la storia del primo Erode brievemente. Antipater Idumeo, come si legge ne le Storie Scolastiche, ebbe per moglie la nipote del re de li Arabi de la quale ebbe uno figliuolo ch'ebbe nome Erode, il quale poi fu detto Ascalonita. Questi ebbe da lo imperadore il reame di Giudea, e allora di prima fu tolta la verga reale da la schiatta de' giudei. A costui nacquero sei figliuoli: Antipater, Alessandro, Aristobolo, Arcolaeo, Erode Antipas e Filippo. Li due, cioè Alessandro e Aristobalo, nati d'una medesima madre la quale fu giudea, sì li mandò a Roma a studiare ne l'arti liberali, e poscia li richiama da lo studio. Ed era Alessandro grammatico e Aristobolo agrissimo contenditore, sì che già licitamente tencionavano col padre di subcedere al reame. De la qualcosa offeso, il padre si sforzava di porre Antipater innanzi a loro. Sì che trattando questi due de la morte del padre e per questo essendo cacciati dal padre, sì se n'andarono a lo 'mperatore a porre richiamo de la ingiuria del padre. Infra questo tempo vegnono i Magi in Gerusalem a domandare diligentemente del nascimento del novello re. Erode, udendo ciò, sì si turbòe temendo che de la schiatta di coloro che dovevano essere veraci re, non fosse nato alcuno il quale il cacciasse come persona ch'avesse assalito il reame; sì che pregòe li Magi che, comunque l'avessero trovato, sì glielo dovessero annunziare, infignendosi di volerlo adorare, lo quale egli voleva uccidere. Ma i Magi tornarono per un'altra via ne la contrada loro. Ma veggendo Erode che non tornarono da lui, credette che fossono ingannati per la veduta de la stella, e così per vergogna non fossono tornati da lui; e però avea ritrattato l'animo da fare inquisizione del fanciullo. Ma udendo quello che i pastori aveano detto e quello che aveva profetato Simeone e Anna, ebbe grande paura e credettesi essere beffato da' Magi. Allora Erode cominciò a trattare de la morte de' fanciulli ch'erano in Betleem, acciò che, uccidendoli, uccidesse colui lo quale per se medesimo non sapea quale fosse esso. Ma a l'ammonizione de l'angelo, Gioseppo col fanciullo e con la madre fuggìe in Egitto ne la città di Ermopoli, e stettervi sette anni, insino a la morte di Erode. E intrando dunque il Signore ne lo Egitto, secondo la profezia d'Isaia, tutte l'idole cadranno. E sì come ne l'uscita de' figliuoli d'Israel de l'Egitto non rimase casa in Egitto dove non giacesse morto il primogenito, così ora non fu tempio dove non rovinasse l'idoli. Dice ancora Cassiodoro ne la Storia Tripartita che in Ermopoli di Tebaida hae un albore, ch'è detta perside, valevole a molte infermitadi; se lo frutto o la foglia o parte de la corteccia sia legata al collo de l'infermi, li sana. Sì che fuggendo la beata Vergine Maria col suo figliuolo, questo albore s'inchinòe insino a terra e adoròe umilemente il fanciullo. Infino a qui dice Cassiodoro. Sì che ordinando Erode la morte de' fanciulli, fue richiesto per lettere da lo 'mperatore che andasse a rispondere a le accuse de' figliuoli. Il quale, faccendo passamento per la città di Tarso, intese come le navi di Tarso aveano trasportato li Magi. E per ciò, in ispirito, forte comandò che fossero arse le navi, sì come predetto era per lo profeta: "Ne lo spirito forte abbatterrà le navi di Tarso". Sì che litigando il padre co' figlioli dinanzi a lo 'mperadore, fue sentenziato che i figliuoli in tutto ubbidissono al padre, ed elli lascerebbe lo reame a cui volesse. Tornando dunque Erode, e per la sua confermagione fatto più ardito, mandòe e fece uccidere tutti i fanciulli ch'erano in Betleem e in tutti i suoi confini, da due anni in giuso, secondo il tempo ch'egli avea spiato da' Magi. Ma questo si puote intendere in due modi: l'uno modo che dica così l'ordine del tempo, e sarà a dire da due anni, e da indi in giù, cioè de' fanciulli di due anni infino a' fanciulli d'una notte. Ché Erode avea apparato da' Magi il die che la stella era apparita di prima a loro, e però che già era scorso uno anno in ciò ch'era andato a Roma e tornato. Onde credeva che 'l Signore fosse d'uno anno e ancora d'alquanti dì. E però sopra la natura sua infino a quelli di due anni e, da indi in giù, infino a quelli d'una notte, in tutt'i fanciulli incrudelìo, temendo che 'l fanciullo, al quale servivano le stelle, non si trasformasse ne la faccia più su che la sua etade, ovvero da indi in giù. E questa sentenzia è più comunale ed è tenuta più verace. Ma Grisostomo dice che in giù, dica l'ordine del novero, e sarà a dire di due anni in giù, cioè da fanciulli di due anni infino a fanciulli di cinque anni. Però che dice la stella apparì a li Magi uno anno prima che Cristo nascesse. Ed Erode, poi ch'ebbe saputo da' Magi queste cose, andando a Roma indugiò anche uno anno, ché credea che 'l Signore fosse nato allora quando la stella apparve a' Magi. E però credea che 'l fanciullo avesse due anni. Onde fece uccidere i fanciulli di due anni, cioè quelli c'avessono due anni e, da indi innanzi, infino a quelli c'avessono cinque anni, ma non toccòe di meno di due anni. E uccisegli sopra l'etade, e da indi in giù, per la ragione di sopra. Al quale detto pare che si debba dar fede, ché si truovano alcune ossa de li innocenti sì grandi, che non possono essere di fanciulli di due anni. Ma puossi rispondere che allora erano assai di maggiore grandezza gli uomini che non sono oggi. Ma esso Erode immantinente in quel fatto fue punito che, come dice Macrobio e truovasi in una Cronica, uno figliuolo piccolino di Erode per avventura v'era stato dato a nutricare, il quale con esso gli altri fu morto da' giustizieri. Allora fu compiuto quello ch'era stato detto per lo profeta: "Voce di pianto e d'urlato de le pietose madri fu udito in alto". Ma Iddio, il quale è giudice giustissimo (come si legge in quelle Storie Scolastiche), non patette che tanta malvagità d'Erode rimanesse non punita. Ché per giudicio di Dio avvenne che colui il quale n'avea molti padri spogliati de' loro figliuoli, egli miserabilemente fue spogliato de li suoi; però che Alessandro e Aristobolo furono un'altra volta fatti sospetti al padre loro, ché uno de' loro compagni confessò che Alessandro gli avea promesso di fare molti donamenti, s'elli desse a bere veleno al padre suo; confessòe altressìe il barbiere di molti doni promessi a lui s'elli, mentre che radesse la barba del padre, egli l'uccidesse immantinente; anche aggiunse che Alessandro doveva avere detto che non era da porre la speranza in vecchio, che si tignesse i capelli bianchi per parere giovane. Per la qualcosa il padre, adirato, il fece uccidere e ordinòe che Antipater fosse re dopo sé e, dopo Antipater, succedesse nel reame Erode Antipas. Soprattutto questo Agrippa e Erodia i quali Erode avea ricevuti d'Aristobolo sì li nutricava con paternale amore. E per queste due cagioni Antipater concepette mirabile odio contro al padre, intanto che prese d'ucciderlo con veleno; la qualcosa sentendo Erode, sì 'l misse in prigione. Onde si dice che lo 'mperatore, poi ch'ebbe udito che Erode avea ucciso i figliuoli, dovette dire: "Io vorrei anzi essere porco d'Erode che suo figliuolo; però che con ciò sia cosa che sia straniero, perdona a' porci e uccide i figliuoli". Ma esso Erode, avendo già LXX anni, cadde in una grandissima infermitade, ché con la febbre forte era tormentato di pizzicore di corpo, di continuvi tormenti di collo, d'enfiature di piedi, inverminati gli erano i coglioni. Onde da' medici fu messo in uno bagno d'olio e funne tratto fuori quasi come morto. E udendo che li giuderi con grande allegrezza aspettassero la sua morte, sì misse in pregione li più nobili giovani raccolti di tutta la provincia di Giudea, e disse a Salomè sua sirocchia: "Io so che li giuderi si rallegrano de la morte mia; ma io potrò avere piagnitori e gentile mortorio, se tu vorrai ubbidire a li miei comandamenti, cioè che quando io avrò mandato fuori lo spirito, che tu uccida coloro tutti quanti i quali io abbo ne la prigione, acciò che tutta la Giudea mi piagna benché contro voglia. Ora avea egli in costume, ogni volta dopo mangiare, di mondare una pesca e mangiarla, sì che tenendo il coltello in mano, venuto a lui una grande tossa, ponendosi mente intorno ch'altri non lo impedimentesse, levòe la mano diritta per fedirsi, ma un suo cugino gli tenne la mano e impedillo di ciò fare. In quell'ora si levòe uno grande romore di pianto ne la casa del re quasi com'elli fosse morto, la qualcosa udendo Antipater sì si rallegra e promette di dare molte cose a le guardie s'egli è lasciato. La qualcosa sappiendo il padre Erode, più ebbe a grave l'allegrezza del suo figliuolo che la sua propia morte, e mandando là i berrevieri, sì lo fece uccidere. E puose che Arcolaio regnasse dopo sé. E così dopo cinque dì morìo quelli il quale fue tra li stranieri molto avventuroso. E la sua serocchia Salomè prosciolse tutti i pregioni, i quali il re avea comandato che fossero morti. Ma dice Remigio, ne l'originale sopra Matteo, che elli s'uccise col coltello col quale elli avea mondata la pesca e che Salomè uccise tutti quelli nobili, sì come ella avea ordinato col fratello.
cap. 11, S. Tommaso Cont.Tommaso di Conturbia essendo ne la corte del re d'Inghilterra e veggendovi fare cose contrarie ad onestade, sì la lasciòe e missesi ne le mani de l'arcivescovo di Conturbia, dal quale fu fatto arcidiacano. Ma a' prieghi de l'arcivescovo ricevette la cancelleria del re acciò che con la prudenzia, de la quale egli era ornato, vietasse gli assalti de gli uomini maligni ne la Chiesa di Dio. Lo quale il re amò tanto che, dopo la morte de l'arcivescovo, procacciò ch'elli fosse levato in su la sedia cattedrale. Il quale, avvegna che molto contastasse a la elezione, ma a la perfine sottopuose gli omeri a portare. Ma subitamente si cambiò in altro uomo, e cominciò a macerare la carne sua con grandi digiuni e con cilici. E non solamente portava cilicio per la camisa, ma i panni di gamba, cioè le brache e calze portava di cilicio lunghe infino al ginocchio. La sua santitade occultava sì sottilmente che sempre, salva l'asprezza d'onestade, sotto convegnenza di vestimenti e adornamento di masserizie, s'accordava con lui li costumi di ciascuno. A dodici poveri lavava ogni dì li piedi, inginocchiandosi, e poi che gli avea pasciuti, dava a catuno quattro danari d'argento e poi gli rimandava. E 'l re si sforzava d'inchinarlo a la sua volontade in danno de la Chiesa, volendo che l'usanze, le quali e' suoi antecessori avevano avute contra la libertà de la Chiesa, fossero confermate da lui simigliantemente. Il quale non volendo al postutto consentire, si commosse contro di sé ad ira il re e li baroni. Ma una volta egli con gli altri vescovi fue sì costretto dal re ch'elli il minacciò di sentenzia di morte; e elli, ingannato dal consiglio de' grandi uomini, con parole diede assentimento al valore del re. Ma veggendo per questo il pericolo de l'anime sopravvenire, se medesimo poi tormentòe ne la penitenzia più gravemente, e sospesesi da l'ufficio de l'altare infino a tanto ch'elli meritasse d'esservi restituito dal Sommo Pontefice. A la perfine lo richiese il re che quello ch'elli avea detto con parola, fermasse con iscrittura. E elli il contradisse valentremente, e partissi da la corte immantanente portando a sé la croce ritta, gridando i rei uomini contra di lui: "Pigliate il ladro, impiccate il traditore!" Ed eccoti venire due grandi baroni e fedeli a lui, tutti lagrimosi; e affermavano con giuramento che molti baroni hanno e fanno congiurazione d'ucciderlo. Sì che l'uomo di Dio temette più il danno de la Chiesa che de la sua persona, e cominciò a fuggire; ed essendo ricevuto ne la città di Sennon, da Papa Alessandro fue raccomandato a uno monasterio de l'ordine di Cestella, poi se ne venne in Francia e infino in Fiandra. E lo re, abbiendo mandato a Roma perché venisse uno legato, il quale fosse cognoscitore di queste cose, al tutto gli fu dinegato; e per questo fue maggiormente infiammato d'ira contro a l'arcivescovo, e tutto ciò che era de l'arcivescovo e di sua gente venne occupando, e tutta la sua schiatta condannò a bando perpetuale, non riguardando né stato, né generazione di maschi e di femmine, né ordine, né etade. Ma il sanato continuamente pregava per lo re e per lo reame d'Inghilterra. Infrattanto fu relevato a l'arcivescovo che dovea ritornare a la sua chiesa e andare a Cristo con vittoria di martirio. Sì che nel settimo anno del suo sbandigiamento li fue conceduto di ritornare in Inghilterra, e da tutti fue ricevuto con onore. Per alquanti dì dinanzi dal suo martirio, un giovane, uscito l'anima del corpo e poi miracolosamente ritornato a vita, diceva ch'era stato menato infino al sovrano ordine de' santi; e tra gli apostoli vide una sedia ch'era vota e domandando elli di cui fosse, udì da l'angelo che la detta sedia era serbata dal Signore a un grande sacerdote de l'Inghilesi. Uno prete era che non dicea altra Messa che di santa Maria, e ogni dì la diceva. Il quale, essendo accusato al vescovo e richiesto da lui, confessòe che così era; onde, come uno idiota e ignorante sì 'l sospese de lo ufficio, sì che dovendo santo Tommaso cuscire il suo cilicio, e abbiendolo nascoso sotto il letto per pigliare tempo di poterlo cuscire, la Vergine Maria sì apparve al prete, e disseli: "Vattene a l'Arcivescovo, e dilli che colei per lo cui amore tu dicevi la Messa, ha cuscito il suo cilicio che è in cotale luogo, e avvi lasciato la seta vermiglia de la quale ella il cuscìo. Ella adunque vi priega che lo 'nterdetto che voi mi faceste sì 'l mi lasciate". Quelli udendo ciò e trovando che così era la veritade, maravigliossi; e però sciolselo de lo interdetto e comandogli ch'elli tenesse celato il fatto del cilicio. Difese dunque come prima le ragioni de la Chiesa, né non poté essere smosso dal re per forza, né per priego. Sì che non potendo per veruno modo essere piegato, ecco che vengono i cavalieri del re armati, e vengono gridando: "Dov'è l'arcivescovo?" Quelli andò loro incontro e disse: "Ecco me; che volete?" E quelli dissono: "Noi siamo venuti per ucciderti, e non puo' più vivere". A i quali esso medesimo disse: "E io sono apparecchiato a morire per Dio, e per difendere la ragione e per la libertade de la Chiesa. Se voi dunque cercate me, io vi comando da la parte di Dio onnipotente e sotto pena di maladizione che voi non facciate male a veruno di costoro. Ed io raccomando la ragione de la Chiesa e me medesimo a Dio e a la beata Vergine Maria e a messere santo Dionisio e a tutti li santi". Detto questo il capo di reverenza è percosso con le coltella de li empii, e la santa corona del capo gli è tagliata e 'l celabro si spande per lo spazzo de la chiesa. E così il martire è consegrato al Signore ne gli anni de la Incarnazione di Cristo MCLXXIIII anni. E cominciando i cherici a dire: "Requiem eterna" a la Messa, vogliendo dire per lui la Messa de' morti, subitamente, come dicono, fuoro presenti i cori de gli angeli e interruppero le voci de' cantatori e cominciarono essi a cantare la Messa d'uno martire cioè: "Laetabitur iustus [in Domino]"; e gli altri che l'udirono andarono innanzi con l'ufficio d'uno martire. Questo mutamento fece la diritta mano de l'alto Dio quando il canto di pianto si convertìo in canto di loda, quando colui al quale aveano cominciato l'ufficio che si fa per li morti, lodarono poi con laude di martiri. E certamente fue approvato per adorno d'altissima santitade il glorioso martire di Dio, al quale gli angeli sopravvennero con cotanto onore, e scrisselo tra gli altri martiri. Sopra tutto questo operòe il Signore molti miracoli per lo santo suo; ché per li meriti suoi è renduto a' ciechi il vedere, a' sordi l'udire, a' zoppi l'andare e a' morti la vita. E l'acqua ne la quale si lavarono i panni del martire insanguinati a molti è stata medicina. Uno uccello che sapeva parlare, essendo perseguitato da lo sparviere, com'elli avea apparato a dire,cominciò a gridare: "San Tommaso, aiutami!" Immantanente lo sparviere cadde morto, e l'uccello scampòe. Uno, il quale il santo avea molto amato, essendo gravemente infermato, sì andò al sepolcro suo e pregollo che li rendesse santade; ed ebbela al suo volere. Ma tornando a casa sano, e' cominciò a pensare che quella santade non sarebbe forse utile a l'anima sua. Onde ritornò un'altra volta al sepolcro e pregò che la santade, s'ella non fosse utile a l'anima sua, sì tornasse la 'nfermità. Immantanente egli rivenne come prima. A coloro che furono micidiali di lui in tale modo fece Iddio vendetta di coloro, che altri si manicarono le dita con li denti, altri diventarono tutti tignosi, altri diventarono in parlasia, e altri diventarono fuori del senno, sì che in molta miseria finirono la loro vita. Una donna d'Inghilterra, che disiderava d'avere gli occhi vaghi per vanitade e per più bellezza, fece boto d'andare a piedi scalzi al sepolcro di santo Tommaso per avere lo 'ntendimento suo. La quale venuta e gittata in orazione in terra, levossi poi e trovossi al tutto acciecata e, immantenente pentuta, cominciò a pregare lo santo che già non le rendesse gli occhi vaghi, ma pure gli suoi primi; la qualcosa con molta malagevolezza a la perfine poté acquistare. Uno boffadore presentò, in uno bossolo, acqua comunale per l'acqua di san Tommaso ad uno suo signore stando in convito. Al quale disse il signore: "Se tu non mi imbolasti mai nulla, san Tommaso ti lasci recare qua l'acqua sua; ma se tu hai commesso furto, qui a l'acqua al postutto impazzisca". A questo detto consentette quelli, sappiendo ch'egli avea novellamente pieno il bossolo d'acqua. Ma udite maraviglia: aprono lo bossolo immantanente, e' trovarolo voto. E così il servidore fu compreso ne la bugia e fu convinto apertamente d'avere fatto furto.
cap. 12, S. SilvestroLa sua leggenda compuose Eusebio di Cesarea; la quale il beato Gelasio nel concilio di LXX Vescovi rammenta che sia da leggere da cattolici uomini, sì come si dice nel dicreto. Silvestro, ingenerato da la madre chiamata Giusta, per nome e per fatto, e ammaestrato da Cirino prete, l'albergheria de li amici di Dio sommamente adoperava. Uno ch'avea nome Timoteo, cristianissimo uomo, fue ricevuto in ospizio da lui, il quale per la grande persecuzione era ischifato. Costui dopo l'anno ricevette la corona del martirio predicando fermissimamente la fede di Cristo. Ma pensando Tarquino, prefetto di Roma, che Timoteo abbondasse di molte ricchezze, dimandollo a Silvestro, minacciandolo de la morte. Ma da che ebbe saputo che Timoteo non avea avute queste ricchezze, comandò a Silvestro che sacrificasse a l'idole; e se non volesse, riceverebbe l'altro dìe svariate generazioni di tormenti. Al quale disse Silvestro: "Stolto e matto, tu morrai in questa notte e riceverai tormenti sanza fine; e, o vogli tu o no, conoscerai che è verace Iddio quello che noi adoriamo". E per queste parole fu messo Silvestro in prigione. E Tarquino fu invitato a uno desinare; e mangiando elli, ne la gola gli si attraversòe sìe uno osso di pesce, che per niuno modo il poteva gittare fuori ovvero inghiottire. E così ne la mezzanotte morìo; e fu portato a l'avello con pianto. E Silvestro con allegrezza fu tratto de la carcere; il quale non solamente da cristiani, ma eziandio da pagani era amato con maraviglioso affetto, per ciò ch'egli era nel suo aspetto uomo angelico, e splendente nel parlare, intero nel corpo, santo ne l'opera, grande in consiglio, cattolico ne la fede, pazientissimo ne la speranza, sparto ne la caritade. Sì che morto Melchiades, vescovo de la città di Roma, Silvestro da tutto il popolo, avvegna che molto contradicesse. Sommo Pontefice fu eletto. Questi aveva in una matricola scritte le nomora di tutti gli orfani e de le vedove e de' poveri, e tutti provvedeva ne le loro nicistadi. Questi ordinò che fosse da digiunare lo mercoledì e 'l venerdì e 'l sabato; ma il giovedì fosse da guardare come la Domenica. A' cristiani greci, i quali dicevano che 'l sabato era anzi da guardare che 'l giovedì, rispuose che ciò non sì dovea fare, e sì perché questo è dato da l'apostolo, e sì perché allotta si dee avere compassione a la sepoltura del Signore. Ma li greci dicevano: "Uno è il sabato de la sepoltura, nel quale una volta l'anno è da digiunare". A' quali Silvestro: "Secondamente che ogni Domenica è abbellita da la gloria de la resurrezione, così è ogni sabato de la sepoltura del Signore". Adunque del sabato assentiscono e del giovedì fortemente contendono, affermando che non si debba accompagnare a le solennitadi de' cristiani. Ma Silvestro mostra la sua dignitade essere spezialmente in tre cose: l'una è per ciò che in questo die il Signore n'andò in cielo; la seconda è perché in questo die ordinò il sacramento del corpo e del sangue suo; la terza si è perché in questo dìe è fatta la santa cresma de la Chiesa. E dette queste cose tutta la moltitudine acconsentìo. Ma perseguitando Costantino imperatore li cristiani, Silvestro uscì di Roma e rinchiusesi co' suoi cherici in un monte. Ma esso Costantino, per la persecuzione che faceva come tiranno, degnamente cadde in infermitade incurabile di lebbra. A la perfine, al consiglio del pontefice de l'idoli, furono menati tremilia fanciulli per fargli uccidere, acciò che si bagnasse nel sangue loro ricente e caldo. Ed uscendo lui del palagio per andare al luogo dove s'apparecchiava il bagno, le madri de' fanciulli le si fanno incontro, tutte scapegliate, faccendo miserabile pianto. Veggendo ciò Costantino cominciò a lagrimare, e comandò che stesse fermo il carro, e rizzandosi in piede disse: "Uditemi conti e baroni e tutti i popoli che siete qui presenti! la dignitade de lo 'mperio di Roma nasce de la fontana de la pietade per la qualcosa ella ha fatta questa legge che chiunque uccide veruno fanciullo in battaglia, fosse sottoposto a la sentenzia del capo". "Adunque quanta crudeltà sarà che noi facciamo a li nostri figliuoli quello che noi abbiamo vietato e dinegato di fare a li stranieri? Che giova d'avere vinti i barbari, se noi siamo vinti da la crudeltade? Che avere vinte le genti straniere per forza è de' popoli guerrieri, ma li peccati è vertù de' costumi. Dunque in quelle battaglie noi siamo stati più forti di loro, ma in queste siamo più forti di noi medesimi. Ché chi in questa battaglia è soperchiato, il vino ha la vittoria, però che il vincitore dopo la vittoria è vinto, se la pietade è soperchiata da la impietade. Vinca dunque noi la pietade in questo passo, imperò che bene potremo essere vincitori de gli avversari, se non saremo vinti da la pietade. Che quegli si pruova d'essere signore di tutti, il quale si mosterrà d'essere servo de la pietade". "Meglio è dunque me morire, salva la vita de gli innocenti, che per la morte loro ricoverare la vita crudele, la quale ricoverare è incerta cosa, e certo e certa cosa è che così ricoverata sia più crudele". Comandò adunque che i fanciulli fossero renduti a le madri loro, e che fossono fatti loro molti donamenti e carrette sanza fine, acciò che lieti ritornassero a le loro magioni quelle che triste erano venute a l'altrui paiese. E lo 'mperadore si ritornò al suo palazzo. La seguente notte gli apparve san Piero e san Paolo, e dissergli: "Imperò che tu avesti in abbominio lo spandimento del sangue innocente, àcci Cristo mandati per dare a te consiglio di ricoverare santade. Adunque fa chiamare Silvestro vescovo, il quale sta nascosto nel monte Siratte, ed egli ti mosterrà un bagno nel quale, quando tu vi sarai messo tre volte, sarai curato da ogni infermitade di lebbra. E tu renderai a Cristo questo cambio: che tu disfacci tutti i templi de l'idoli e racconci le chiese di Cristo, e, da quinci innanzi, sia fatto suo coltivatore". Ed isvegliandosi Costantino immantanente mandò cavalieri a Silvestro; e elli veggendoli, tosto credette essere chiamato al martirio, sì che raccomandandosi a Dio e confortando seco i suoi compagni a la passione, sanza paura se ne venne a lo 'mperadore. Al quale disse Costantino: "D'essere te benvenuto ci rallegriamo". E quelli disse: "Pace a te e vittoria ti sia amministrata da cielo". Allora Costantino gli spianò e disse tutta la visione, e dimandollo chi fossono quelli dei che gli erano appariti. Disse Silvestro: "Non sono Iddei, ma sono apostoli di Cristo". Allora a domandagione de lo 'mperadore Silvestro fece recare la immagine loro. Quando lo 'mperadore la vidde, incontanente disse che cotali erano suti coloro ch'erano appariti a lui. Sì che Silvestro l'ammaestròe de la fede e impuoseli il digiuno d'una settimana e ammonillo che fossero aperte tutte le carceri. Ed essendo entrato nell'acqua del battesimo, maraviglioso splendore di luce vi risplendette; e cosìe n'uscìe mondo ed affermòe che aveva veduto Cristo. Il primo die del suo battesimo diede questa legge: "Che Cristo fosse adorato come verace Iddio da tutta la città di Roma". Il secondo dìe diede questa: "Che se alcuno biastemmiasse Cristo fosse punito". Il terzo dìe: "Che chiunque facesse ingiuria a veruno cristiano fosse privato de la metà di tutt'i suoi beni". Nel quarto dì: "Che sì come lo 'mperadore di Roma, così il pontefice romano fosse tenuto per capo da tutti quanti i vescovi". Il quinto dì: "Che chiunque fuggisse a le chiese fosse conservato sanza danno da tutti". Il sesto dì: "Che niuno debba edificare chiesa dentro a le mura de la città, se non con licenza del suo vescovo". Il settimo dì: "Che de le reali possessioni si debbano dare le decima ad edificare le chiese". L'ottavo dì se ne venne lo 'mperadore a la chiesa di san Piero e accusossi de le sue colpe lamentevolemente; e poscia tolse la marra per andare a fondare una chiesa, e fu egli il primo che aperse la terra, e XII cuofani di terra ne gittò fuori in su la sua spalla. Ma poi che Elena, madre di Costantino imperadore, la quale era in Betania, ebbe udite queste novelle, per sue lettere mandò lodando il figliuolo di ciò ch'elli avea rinunziato a l'idolo, ma duramente lo riprende c'ha lasciato lo Dio de' giuderi, ed adori uno uomo crocifisso per Domenedio. Riscrivette Costantino a la madre ch'ella meni seco maestri de' giuderi ed elli darebbe dottori de' cristiani, acciò che in questo modo per la vicendevole disputazione apparisca la fede verace. Sì che Elena menò seco centoquarantuno uomini molto savissimi de' giudei, tra li quali n'avea XII i quali erano risplendenti di sapienzia e di bello parlare sopra tutti gli altri. Essendo raunato Silvestro co' suoi cherici e li giuderi detti a disputare insieme dinanzi a lo imperadore, di comune consentimento ordinarono due giudici pagani savissimi e provati uomini, ciò furono Craton e Zenofilo, a' quali s'appartenesse di difinire tutto quello che si dovesse dire; e cotale sentenzia fue fermata tra loro che parlando l'uno non parli l'altro. Cominciando dunque l'uno di coloro il primo, che ha nome Abiatar, sì disse: "Con ciò sia cosa che costoro dicano tre dei, cioè Padre e Figliuolo e Spirito Santo, manifesto è che fanno contro a la legge che dice: "Vedete ch'io sono solo, e non è altro Iddio fuori di me. Ancora s'elli dicono che Cristo è Domenedio per ch'egli fece molti miracoli, molti furono altri, eziandio ne la nostra legge, i quali fecero miracoli e molti segni; e pertanto non furono arditi di pigliare il nome de la deitade come questo Jesù, lo quale costoro adorano". A queste cose rispuose Silvestro: "Noi coltiviamo uno Iddio, ma non diciamo che sia in tanta solitudine ched egli non avesse gaudio del figliuolo. E per li vostri libri vi potemo mostrare la trinità de le persone. Ché noi diciamo Padre colui del quale dice il profeta: "Egli chiamerà me: padre mio se' tu"; figliuolo diciamo colui del quale dice quel medesimo Profeta: "Figliuolo mio se' tu, innanzi a la legge t'ingenerai"; "Spirito Santo diciamo, del quale dice anche quel medesimo: Per lo spirito de la sua bocca è ogni loro virtù". Ancora in ciò che disse: "Facciamo l'uomo a la imagine e a la simiglianza nostra, manifestamente mostra la pluralità de le persone e l'unità de la divinitade; ché avvegnadio che sieno tre persone, elli è pertanto uno Dio; la qualcosa in alcuno modo possiamo mostrare per essemplo visibile. E togliendo la porpore de lo 'mperadore, sì ne fece tre pieghe e disse: "Ecco vedete che nel panno sono tre pieghe, e pure è uno il panno; cosìe nel suo modo le tre persone sono uno Iddio. Ma di ciò che tu di' che Cristo non dee essere detto Dio, con ciò sia cosa che molti altri fecero miracoli e non si chiamarono dei, ora intendi: manifesta cosa è avere Iddio sempre puniti li superbi di crudele pena, come appare in Datan e in Abiron e in Isaul e in molti altri. Come dunque Cristo non era Iddio? il quale dicea ch'era Dio, né per questo il punìa Iddio. Ma quello che dicea affermava per li miracoli che così era". Allora dissero li giuderi: "Manifesta cosa è che Abiatar è vinto da Silvestro, per ciò che questo ammaestra la ragione che se Cristo non fosse Iddio e elli dicesse che fosse, essendo di ciò bugiardo, non potrebbe dare vita a li morti". Allora fu rimosso colui e venne il secondo a la battaglia, il quale era detto Jona e disse: "Abraam, ricevendo la circuncisione da Dio, fu giustificato e tutti i figliuoli d'Abraam per la circuncisione sono giustificati; adunque chi non è circunciso, non è giustificato". A questo rispuose Silvestro: "Manifesta cosa è che Abraam fu prima giusto e prima piacque a Dio ched e' fosse circunciso; non lo fece dunque santo la circuncisione, ma la fede e la giustizia lo fece piacere a Dio; non ebbe dunque la circuncisione in santificamento, ma in discernimento de l'altre genti". Sì che vinto costui, venne il terzo ch'era chiamato Godolias e disse così: "Come può esser Dio questo vostro Cristo, con ciò sia cosa che voi affermate che fosse nato, tentato, preso, spogliato e abbeverato di fiele, legato, morto e sotterrato? Ché tutte queste cose non possono essere in Dio". A questo rispuose Silvestro: "Per li vostri libri si prova che tutte queste cose furono presenti in Cristo e di Cristo, ché del suo nascimento disse Isaia: "Ecco che la vergine concepirà e parturirà figliuolo". Del tentamento disse Zaccheria: "Io vidi Jesù, sacerdote grande, stare dinanzi a l'angelo, e Satanas stava per essere suo avversario". Del tradimento dice il Salmo: "Colui che mangiava i pani miei agrandìo sopra me lo 'ngannamento". De lo spogliamento suo, simigliantemente dice il Salmo: "Divisero a sé le vestimenta mie e sopra le vestimenta mie missero le sorte". De l'abbeverato del fiele dice quel medesimo: "E' mi diedero a mangiare fiele e ne la sete mia m'abbeverarono d'aceto". Del suo legamento disse Esdras: "Voi mi legaste non come padre lo quale vi deliberai de la terra d'Egitto, e che gridavate dinanzi a la sedia del giudice". Del suo crucifiggimento dice quel medesimo: "Voi umiliaste me e impiegandomi in sul legno, mi tradiste". De la sua sepoltura dice Jeremia: "Ne la sepoltura sua riviviscono li morti". Non abbiendo dunque Godolias che rispondere, data la sentenzia, fu rimosso. Venne dunque Anna, il quarto, e disse: "Quelle cose che furono dette d'altrui, questo Silvestro dice che furono dette del suo Cristo, onde rimane a provare ch'elle fossero dette del suo Cristo". E Silvestro disse: "Daramene tu un altro che vergine il concepesse, che fosse pasciuto di fiele, incoronato di spine, preso e crucifisso, morto e sotterrato, che sia risuscitato al terzo die e montato poi in cielo?" Allora disse Costantino: "Vinto è se non dà un altro". E non potendo colui ciò fare fu rimosso. E venne il quinto, ciò fu Docchi, e disse: "Se del seme di David questo Cristo è così nato e nascendo è fatto figliuolo di Dio per ciò che nacque santificato, dunque per essere un'altra volta santificato, non debba e' essere battezzato?" A questo rispuose Silvestro: "Sì come la circuncisione ebbe fine ne la circuncisione di Cristo, così il battesimo nostro ebbe cominciamento di santificazione nel battesimo di Cristo; non fue dunque battezzato per essere santificato, ma per santificare gli altri". Tacendo costui, disse Costantino: "Non tacerebbe Doeth s'elli avesse che dire contra". Allora si levò il sesto, ciò fue Cusi, e disse: "Noi vorremmo che questo Silvestro ci rispianasse le cagioni di questo parto verginale". Disse Silvestro: "La terra de la quale Adamo fu formato era non corrotta, era vergine, però che non s'era aperta a bere sangue d'uomo, né non avea ricevuta la maladizione delle spine, né non avea sepoltura di morto, né non era ancora data a mangiare al serpente. Convenne dunque che de la Vergine femmina fosse fatto un novello Adamo, acciò che come il serpente avea vinto colui ch'era nato de la terra vergine, così fosse vinto da colui ch'era nato de la femmina vergine; e quelli che fue vincitore d'Adamo nel Paradiso fu fatto tentatore nel diserto, acciò che quelli ch'avea vinto Adamo mangiante, sì fosse vinto da Cristo digiunante". Vinto costui, venne il settimo, ciò fu Begnamino, e disse: "Come puote il vostro Cristo essere figliuolo di Dio, il quale potesse essere tentato dal diavolo, che era ora costretto da la fame di fare pane de le pietre, ora era levato ne l'altezza del tempio acciò che fosse indotto ad adorare lo diavolo?" Disse Silvestro: "Se il diavolo fue però vincitore, perché fue udito da Adamo mangiante, manifesta cosa è che fu vinto perché fue spregiato da Cristo digiunante; ma noi confessiamo che Cristo fue tentato non quanto Iddio, ma in quanto era uomo. E però fu tentato tre volte per levare da noi tutte le tentazioni e per darci la forma di vincere. Ché spesse volte ne l'uomo dopo la vittoria de l'astinenzia seguisce la tentazione de la vanagloria, e dopo la tentazione de l'umana gloria seguisce l'appetito di signoria ed eccellenzia; però dunque di queste cose è vinto da Cristo, acciò che sia dato a noi la forma del vincere". Di che fu vinto questo savio. Venne l'ottavo, ciò fue Aroel, e disse: "Manifesta cosa è che Dio è sommamente perfetto, e non ha bisogno di niente; perché dunque fu mestieri che nascesse in Cristo? e come appelli tu Cristo, figliuolo di Dio? Ma questo è ancora manifesto che Dio innanzi ch'avesse figliuolo non poté essere detto padre, dunque se poi è fatto padre di Cristo, mostra che sia mutevole". A questo rispuose Silvestro: "Il figliuolo di Dio è ingenerato innanzi a li secoli, acciò che facesse quelle cose che non erano; e nacque nel tempo, acciò che riparasse quelle cose ch'erano perite; le quali, avvegna che con la sua sola parola l'avesse potute racconciare, se uomo non fosse fatto, non le potea ricomperare per la passione, però che non era atto a patire ne la sua divinitade; né questo era d'imperfezione, ma di perfezione ched e' non fosse passibile ne la sua divinitade. Da l'altra parte che 'l Figliuolo fosse parola di Dio, ciò si mostra dal profeta che 'l dice: "Ha mandato fuori il cuore mio la parola buona". Dio dunque sempre fu padre e sempre fu figliuolo suo, adunque il figliuolo sua parola è e sua sapienzia e sua vertude; adunque nel padre sempre fu la parola, come dice lo Salmo: "Ha mandato fuori il cuor mio la parola buona". Sempre fu la sapienzia, però dice: "Io procedetti de la bocca de l'altissimo prima generata innanzi ad ogne creatura". Sempre fu la virtù, come dice la Scrittura: "Io era parturita prima da tutti i colli non erano ancora uscite fuori le fontane". Con ciò dunque sia cosa che 'l padre non sia mai essuto sanza parola e sapienzia e vertude come pensi tu che dal tempo li fosse venuto questo nome?" Rimosso costui venne il nono, ciò fu Jubal, e disse: "Manifesta cosa è che Dio non danna li matrimoni, né non li maladisse mai, dunque perché negate voi che Cristo nascesse di matrimonio, lo quale Cristo voi adorate? se non perché pare che voi vogliate intenebrare li matrimoni. Ancora come può essere tentato quelli ch'è potente? e come patire quelli ch'ha vertude? e come quelli morire che aiuta? A la perfine se' costretto di dire che siano due figliuoli, l'uno che 'l padre ingeneròe, e l'altro che la madre ingeneròe. Ancora come puote essere che patisca l'uomo, il quale procedette sanza danno di quella persona da la quale e' procedette?" A questo rispuose Silvestro: "Noi non diciamo che Cristo sia nato di Vergine per dannare li matrimoni, ma accettiamo ragionevolemente le cagioni del parto verginale, né non intenebriamo noi li matrimoni per questo dire, ma adornialli, imperciò che questa vergine de la quale nacque Cristo fu nata di matrimonio. E tentato Cristo per vincere tutte le tentazioni del diavolo, patisce per sottomettere tutte le passioni, muore per distruggere lo 'mperio de la morte. E il figliuolo di Dio si è uno il quale sì come veramente è figliuolo di Dio invisibile, così è visibile Cristo. E dunque invisibile in ciò ch'egli è Iddio, ed è visibile in ciò ch'egli è uomo. Ma che possa patire l'uomo assunto sanza la sua mente, si può mostrare per essemplo. E potremo usare l'assemplo de la presente porpora reale la quale manifesto è ch'ella fue lana; e questa lana tinta di sangue ingenerò colore di porpora; e quand'ella è tenuta ne le dita e torta nel filo, che è quello ch'era torto? Era elli il colore de la reale dignitade, o era la lana innanzi ch'ella fosse porpore? A la lana dunque è assimigliato l'uomo, al colore de la porpora è assimigliato Iddio: la quale cosa fu insieme ne la passione patendo ne la croce; ma in neuna cosa si sottomisse a la passione". Poi si levò il decimo, ciò fue Cara, e disse: "Non mi piace questo essemplo, però che 'l colore è insieme torto con la lana". Al quale, contradicendo tutti, Silvestro disse: "Togli dunque un altro essemplo: l'albore c'ha in sé lo splendore del sole, quando è tagliato bene, riceve la percossa, ma lo splendore non ha danno del taglio. In questo modo patendo l'umanitade, la divinitade non fu sottoposta a veruna passione". Allora si levò l'undecimo, ciò fu Sileon: "Se li profeti profetarono queste cose del tuo Cristo, noi vorremmo sapere le ragioni di tanto schernimento e passione e morte". Disse Silvestro: "Cristo ebbe fame per noi satollare, ebbe sete per darci beveraggi di vita a la nostra seccaggine, fue tentato per campare noi da le tentazioni, fu preso per liberare noi da la pressura del diavolo, fu schernito per torre da noi le scherne de le demonia, fu legato per iscioglierne del legame de la maladizione, fu umiliato per noi esaltare, fu spogliato per ricoprire la nudezza del primo valicamento, tolse la corona de le spine per ridonarci li fiori del Paradiso perduti, fu impiccato in su legno per condannare la concupiscenzia ingenerata, e nel legno fue abbeverato di fiele e d'aceto per menare l'uomo a la terra ch'abbonda di latte e di mele e per aprire le fontane melate, ricevette mortalitade per donarci la sua immortalitade, fu seppellito per benedicere le sepolture de' santi, risucitò per rendere la vita a' morti, salì in cielo per aprire la porta del cielo, siede a la diritta parte di Dio per esaudire i prieghi de' suoi fedeli". Dicendo Silvestro queste cose tutta quella gente, sì lo 'mperadore come i giudici e li giuderi ad uno animo diedero loda a Silvestro. Allora il duodecimo, ciò fu Zambri, molto indegnato disse: "Io mi maraviglio di voi giudici sapientissimi che voi crediate a le parole dubbiose e pensiate che la onnipotenzia di Dio si possa manifestare per ragione umana. Lasciamo dunque le parole e vegnamo a' fatti. Molto sono matti coloro che adorano lo Crocifisso, con ciò sia cosa ch'io sappia il nome de lo onnipotente Iddio, la cui virtude non sofferano i sassi, né nol può udire neuna creatura. E acciò che voi proviate come io dico vero, fatemi venire uno toro ferocissimo e vedrete come, mentre che questo nome risonerà nel suo orecchio, il toro morrà immantanente". Disse Silvestro: "E tu come apparasti questo nome sanza udire, ovvero come il puoi dire sanza morire?" E quelli disse: "Non si appartiene a te di sapere questo mestiere ché se' avversario de li giuderi". Sì che fu menato uno toro molto feroce, tratto da cento uomini fortissimi, e poi che Zambri ebbe detta la parola ne l'orecchie del toro, immantenente mise un grande mugghio e, schizzati gli occhi de la testa, cadde morto. Allora tutti i giuderi gridarono fortemente e fecero assalto contro al servo di Dio Silvestro. A i quali disse Silvestro: "Elli non disse il nome di Dio, ma nominòe il nome del dimonio pessimo; la qualcosa si mosterrà che Jesù Cristo non solamente fa morti li vivi, ma ancora risucita li morti. Però che potere uccidere e non fare vivo, è cosa vana, con ciò sia cosa che questo possano fare i leoni e serpenti; onde di lui è scritto: "Io ucciderò e io farò vivere". Se dunque vuole ch'io creda che non dicesse nome di demonio, ma quello di Dio, dicalo un'altra volta e faccia vivo quello ch'è caduto. Ché s'elli il può uccidere, ma non rendere la vita, sanza dubbio non nominò il nome di Dio, ma il nome del demonio". Allora dissero li giuderi, ovvero gli giudici: "Se di Dio è scritto che egli fa morto e vivo, se Zambri il quale uccise per lo nome di Dio suo non potrà rendere vita, certa cosa è che non chiamò il nome di Dio, ma quello del dimonio, al quale s'appartiene d'uccidere e non di dare vita". E con ciò fosse cosa che Zambri fosse costretto da' giudici a risuscitare lo toro, sì disse: "Io non posso, ma se Silvestro il risucita nel nome di Jesù Galileo, tutti noi crederemo in lui; ché se potesse volare con penne non lo potrebbe fare". Sì che tutti i giuderi promissero di credere se Silvestro potrà risucitare lo toro nel nome di Jesù. Allora Silvestro, fatta l'orazione, se n'andò a l'orecchie del toro e con chiara boce sì disse: "O nome di maladizione e di morte, esci fuori per comandamento del Signore Jesù Cristo; nel cui nome è detto a te toro: Leva su e vattene con tutta mansuetudine a la greggia tua". Incontanente si levò il toro, e con tutta mansuetudine si partìo. Allora la reina e li giudici e li giuderi e tutti gli altri si convertirono a la fede. Ma dopo alquanti dì vennero li pontefici de l'idoli a lo 'mperadore, e dissero: "Sagratissimo imperadore, quello dragone che è ne la fossa, d'allora in qua che tu ricevesti la fede, ha morti ogni dì più di CCC uomini col fiato suo". E chiedendone consiglio Costantino a Silvestro, sì rispuose: "Io, per la virtù di Cristo, il farò rimanere da ogni danneggiamento. E li pontefici promettino di credere ne la fede di Jesù Cristo se ciò faròe". Sì che stando in orazione Silvestro apparveli santo Pietro, e disse: "Scenderai sicuro al dragone, tu e due preti, che sono teco; e quando tu se' giunto a lui, parlagli in questo modo: "Il Signore nostro Jesù Cristo, nato di vergine, crocifisso e morto e seppellito, il quale resurressio e siede a la diritta parte di Dio padre, là onde verrà a giudicare li vivi e li morti, sì mi manda a te, comandando a te che tu, Satanas, l'aspetti qui in questo luogo infino a tanto che verrà". E la bocca sua legherai con uno filo, e con uno anello ch'abbia il segno de la Croce il suggellerai; poscia ne verrete fuori e verrete, sani e salvi, a la mensa, e mangerete il pane ch'io v'arò apparecchiato". Discese dunque Silvestro con i due preti ne la fossa per CL gradi portando seco due lanterne. Allora disse al dragone le predette parole, e la sua bocca, che stridiva e sufolava, sì legòe come comandato gli era, e montò su e trovò due magi ch'erano tenuti loro dietro per vedere s'elli scendessero infino al dragone, ed erano poco meno che morti del fiato del dragone. Ma nel nome di Cristo gli rimenò sani e salvi Silvestro; li quali si convertirono immantenente con infinita moltitudine; sì che i Romani furono liberati da due morti, cioè dal coltivamento de l'idoli e dal veleno del dragone. E Silvestro, appressandosi a la morte, di tre cose ammonette il chericato: l'una ch'ellino avessero amore insieme, l'altra che governassero le chiese diligentemente, la terza che guardassero la greggia da morsi de' lupi. E poscia si riposò in pace ne gli anni de la incarnazione di Cristo CCCXX.
cap. 13, Circonc. G. CristoQuattro cose fanno di grande celebrazione lo dìe de la circoncisione, e molto solenne. La prima è l'ottava del Natale, la seconda lo 'mponimento del novello e salutevole nome, la terza è lo spandimento del sangue, la quarta è il segnale de la circuncisione. È dunque la prima l'ottava del Natale. S'è l'ottava de gli altri santi, quanto maggiormente sarà solenne l'ottava di colui ch'è santo de' santi e fa avere ottava a tutti! Ma non pare che il Natale dovesse avere ottava, per ciò che 'l suo nascimento andava a la morte. Ma le morti de' santi hanno ottave, però che allora nascono di quello nascimento il quale è a vita eterna. Onde per quella medesima ragione non pare che la nativitade de la vergine Maria e quella di san Giovanni Batista dovesse avere ottava, né simigliantemente il resurressio; però che già era fatta la resurressione la quale, diremo, è significata ne l'ottava. Ma noi diremo, come dice Prepositivo, che sono alcune ottave di compimento, di reverenza, di divozione e di figuramento. Di compimento, come l'ottava del Natale, ne la quale si fa il compimento di quello che non si puote fare ne la festa, cioè l'ufficio de la partorente vergine e sì del partorito. Onde eziandio ne la Messa s'usò, e di qua adietro, cantare a lo Introito: "Il volto tuo, messere, pregheranno". Ancora sono ottave di reverenza, come è de la Pasqua di Pentecoste, del Nascimento de la Vergine e di santo Giovanni Batista. Ancora sono ottave di devozione, come quelle di ciascuno santo. E sono ottave di figuramento, come sono l'ottave ordinate di santi, le quali significano l'ottave de la resurressione nostra. La seconda cosa sì è lo 'mponimento del nome novello e salutevole; ché oggi è imposto a lui il nome nuovo lo quale nominò la bocca del Signore. Nome fuor del quale non è altro nome sotto al cielo, nel quale ci convegna essere fatti salvi. Nome lo quale, come dice san Bernardo, è mele ne la bocca, melodia ne l'orecchie e giubilo nel cuore. Nome lo quale, come dice quel medesimo, unge a simiglianza d'olio, pasce quando è predicato, allenisce quando è ripensato, sovviene quando è chiamato. Nome lo quale è sopra ogni nome. Egli ebbe tre nomi, come si prende nel Vangelio, però ch'egli è chiamato figliuolo di Dio, Cristo e Jesù. Figliuolo di Dio è detto in quanto è Dio da Dio; Cristo è detto in quanto è uomo da la persona divina, quanto a l'umana natura compreso; Jesù è detto in quanto è Iddio unito a la umanitade. Di questi tre nomi dice san Bernardo: "Voi che state in polvere, destatevi e lodate. Ecco il Signore che viene con salute, viene con unguento, viene con gloria, ché non viene senza salute Jesù, né sanza unzione Cristo, né sanza gloria il Figliuolo di Dio, però ch'esso è salute, esso è unzione, esso è gloria". Quanto a queste tre cose innanzi a la passione non era conosciuto perfettamente. Ché quanto al primo, da alcuni era conosciuto per simiglianza, sì come da le dimonia, le quali gridavano che esso era figliuolo di Dio; quanto al secondo, era cognosciuto particolarmente da alcuni e da pochi, ch'elli era Cristo; quanto al terzo, era saputo e cognosciuto a la boce ch'elli era Jesù, ma non quanto a la ragione del nome che è Salvatore. Ma dopo la resurressione questi tre nomi furono clarificati: lo primo nome quanto a la contezza, lo secondo quanto al divolgamento, lo terzo quanto a la ragione del nome. Che 'l primo nome, cioè figliuolo di Dio, si convegna a lui, sì 'l dice Ilario nel libro de la Trinitade: "Veramente essere figliuolo di Dio lo nostro Signore Jesù Cristo, in molti modi è saputo; e sì perché il padre testimonia di lui, e sì perch'elli confessa di se medesimo, e sì perché gli apostoli lo predicarono, e sì perché i religiosi il credono, e sì perché li demoni il confessano, e sì perché gli giuderi il negano, e sì perché gli pagani il cognoscono ne la passione". Lo stesso: "E sì perché il Signore Dio nostro, messere Jesù Cristo, per questi modi cognosciamo per lo nome, per lo nascimento, per natura, per la potenzia, per la perfezione". Lo secondo nome è Cristo, che è interpretato unto d'olio di letizia sopra tutti i suoi parçonabili. Per questo ch'egli è detto unto, sì si mostra che fu profeta e campione e sacerdote e re, però che queste quattro persone si costumarono e usarono d'ungere d'olio. Elli fue profeta ne l'ammaestramento de la dottrina; fu campione ne la vittoria ch'egli ebbe sopra il diavolo ché lo sconfisse; fue sacerdote nel racconciamento tra noi e 'l Padre e fu re nel distribuire i doni. Da questo secondo nome, il qual è Cristo, siamo detti cristiani. Del quale dice Agostino: "Cristiano è il nome di giustizia e di bontade, di pazienzia, di saldezza, di castità d'occhi, di castità di corpo, d'innocenzia, d'umanitade e di pietade. Adunque tu come lo difendi, come lo t'acquisti, il quale di tante cose non hai pure alquante? Cristiano è quegli il quale non è solamente cristiano per nome, ma per operazione". Infino a qui dice Agostino. Il terzo nome è Jesù. Questo nome Jesù, come dice san Bernardo, è detto cibo, fontana, medicina e luce. E questo cibo ha molti effetti, per ciò ch'egli è confortativo, ingrassativo, rinforzativo e commotivo. Onde dice san Bernardo: "Egli è cibo questo nome Jesù: or non ci pare essere confortato tante volte quante tu te ne raccordi? Quale è quella cosa che così ripari li sentimenti esercitati? quale è quella cosa che così rinforzi le virtudi e che commuova li buoni costumi e che onesti e che notrichi i casti desideri?" Nel secondo luogo è detto Jesù, fontana, come dice san Bernardo: "Jesù è fontana di vita segnata, la quale si spande in quattro rii, cioè ne le piazze; onde, secondo che dice l'apostolo, egli è fatto una sapienza e giustizia, santificazione e ricomperamento. Sapienzia ne la predicazione, iustizia nel lavamento de' peccati, santificazione nel conversare, ricomperamento ne la passione". E in altro luogo dice Bernardo: "Tre rivi uscirono da Jesù, ciò fu la parola di dolore ne la quale è la confessione, il sangue de lo spargimento, nel quale è la satisfazione, l'acqua del purgamento nel quale è la contrizione". Nel terzo luogo è questo nome medicina; onde dice così Bernardo: "Neuna cosa è che così costringa l'impeto de l'ira e così stringa l'enfiatura de la superbia, così sani la piaga del lividore, così ristringa lo scorrimento de la lussuria, così spenga la fiamma de la concupiscenzia, così temperi la sete de l'avarizia, così scacci il pizzicore de la sozzura come fa questo nome di Jesù". Nel quarto luogo è detto lo nome di Jesù, luce. Dice Bernardo: "Onde pensi tu che sia venuta in tutto 'l mondo cotanta e così suggetta luce di fede, se non da la predicazione o dal predicato Jesù? Questo è il nome che Paulo portava innanzi a' pagani e a' re e a' figliuoli d'Israel come lucerna in sul candeliere". Ancora è questo nome di molta soavitade. Dice Bernardo: "Se tu leggi, se tu scrivi, non mi sa di buono s'io non leggerò Jesù; se tu disputerai, ovvero ragionerai, non mi sa buono se non vi risuona Jesù". Ancora dice Riccardo di san Vittore: "Jesù, nome dolce, nome dilettevole, nome che conforta il peccatore, nome di beata speranza, adunque Jesù sìe a me Jesù". Nel secondo luogo è nome di molta virtuositade, onde dice Pietro Nave: "Tu chiamerai il nome suo Jesù, ché questo è quello che diede a' ciechi il vedere, a' sordi l'udire, a' zoppi l'andare, a' mutoli il parlare, a li morti vita e tutta la potenzia del diavolo la virtù di questo nome scacciò da le corpora ingombrate". Nel terzo luogo è nome di molta eccellenzia e altezza, onde dice Bernardo: "Il nome del Salvatore mio, del fratello de la carne mia e del sangue mio, nome nascosto al mondo, ma rivelato ne la fine del mondo, nome maraviglioso, nome da non potere dire, nome da non potere stimare". Ma questo nome Jesù gli fu posto ab eterno da l'angelo e dal padre pensativo, cioè Joseppo. Anzi quale nome è più maraviglioso, quale è più da non potere stimare, quale è più a grado, quale più accettevole però che Jesù è interpretato Salvatore? E ciò è in tre modi: ovvero de la potenzia di salvare, e così li si convenne ab eterno; ovvero de l'abito di salvare, e così gli fue imposto da l'angelo, e conviensi da poi che fue conceputo dal principio de la concezione; ovvero de l'atto di salvare, e così fue imposto da Joseppo per ragione de la passione che dovea essere. Onde sopra quella parola: "Chiamerai il nome suo Jesù" dice la Chiosa: "Nome gl'imporrai tu cioè Joseppo, quello che gli è imposto da l'angelo, ovvero ab eterno". E tocca qui la Chiosa queste tre denominazioni, ché quando dice: "imporrai", allora tocca la dinominazione fatta da Joseppo; quando dice: "ch'è imposto da l'angelo, ovvero ab eterno, allora tocca l'altre due. Dirittamente adunque in dìe di Capodanno fu ordinato questo dìe dal capo del mondo, cioè Roma, e in dìe segnato da la primaia lettera de l'alfabeto, cioè che Cristo, capo de la Chiesa, è circunciso e èlli posto nome e, è celebrato il dìe del suo nascimento. La terza cosa è lo spargimento del sangue di Cristo. Lo quale spargimento cominciò oggi e poi volle spargerlo più volte; ché cinque volte lo sparse per noi: la prima ne la circuncisione, la seconda ne la orazione, la terza nel fragellamento, la quarta nel crucifiggimento, la quinta ne la puntura del lato. La prima fu cominciamento del nostro ricomperamento; la seconda mostrò il desiderio del nostro ricomperamento; ne la terza mostrò il merito del ricomperamento, però che per lo suo lividore noi siamo sanati; la quarta fue il prezzo del ricomperamento, però che allora pagòe quello che non avea tolto; la quinta, cioè l'apertura del lato, fue sacramento del nostro ricomperamento. Però che quindi uscìe sangue e acqua che figuròe che noi dovessimo essere purificati per l'acqua del battesimo, lo quale doveva avere efficacia del sangue di Cristo. Il quarto e l'ultimo è il segnale de la circuncisione, la quale Cristo in cotale dìe volle ricevere. E volle essere circunciso il Signore per molte ragioni: E prima per ragione di sé, cioè per mostrare ch'elli avesse presa veracemente carne umana; sapea bene che doveano venire eretici che doveano dire che non avesse presa verace carne, cioè corpo, ma fantastico; e per ciò, a confondere lo loro errore, volle essere circunciso a mandare fuori sangue. La seconda ragione si è per ragione di noi, acciò che ci mostrasse come noi dovessimo essere circuncisi spiritualmente. "Due circuncisioni sono, come dice san Bernardo, le quali debbono essere fatte da noi, cioè quella di fuori e quella dentro. La circuncisione di fuori sta in tre cose: in abito che non sia notabile, in operazione che non sia di reprensione, e in parola che non sia da dispregiare. La circuncisione dentro dee essere simigliantemente in tre cose, cioè in pensiero che sia santo, in affezione che sia pura e ne la intenzione che sia diritta". Infino qui dice Bernardo. Anche per ragione di noi, acciò che ci salvasse. Ché secondamente che si taglia un membro, acciò che tutto il corpo sia sanato, così Cristo volle portare la tagliatura de la circuncisione, acciò che in questo modo fosse salvato tutto il corpo figurativo. Dice san Paulo ad Colossenses secondo capitolo: "Voi siete circuncisi di circuncisione non manufatta, in ispogliamento de la carne, secondo la circuncisione di Cristo. Nel terzo luogo per ragione de' giuderi, acciò che non avessero scusa; però che se non fosse stato circunciso, li giuderi avrebbero potuto dire: "Noi non ti riceviamo, perché tu se' dissomigliante a' padri". Nel quarto luogo per ragione de le dimonia, acciò non cognoscessero il misterio de la incarnazione; ché, con ciò fosse cosa che la circuncisione si facesse contra il peccato originale, credette il diavolo che costui, il quale si circundiceva, fosse simigliantemente peccatore al quale bisognasse lo rimedio de la circuncisione. Per questa medesima ragione volle che la madre sua, Vergine perpetualmente, fosse disposata. Nel quinto luogo per ragione d'adempiere la perfetta giustizia; ché, secondamente che volle essere battezzato e per adempiere la perfetta giustizia, cioè la perfetta umilitade, la quale è di sottomettersi al minore, così volle essere circonciso per mostrarci quella medesima umilitade da poi che 'l fattore e 'l signore de la legge si sottomisse a la legge. Nel sesto luogo per ragioni di provare la legge di Moises ch'ella fosse giusta e santa, e acciò che ricompiesse quello in che ella mancava, per ciò che non venne per iscioglierla, ma per adempierla, come dice san Paulo ad Romanos, XV capitolo: "Io dico che Jesù fu servo de la circuncisione per la verità di Dio a confermare la promessa de' padri. La cagione perché si faceva l'ottavo dìe la circuncisione, è per molte cagioni; e la prima si prende appresso lo 'ntendimento storiale, ovvero litterale. Onde, come dice Rabbi Moises, grandissimo filosafo e teolago avvegna che fosse giudeo: "Il fanciullo, ciò dice, in sette dì è ancora di tanta tenerezza, di quanta egli era stando nel ventre de la madre sua; e ne l'ottavo dìe è consolidato e fortificato; e però, dice che Dio non volse che i fanciulli piccolini fossero circuncisi innanzi a gli otto dì, acciò che non perissono per la troppa tenerezza". Ma più che otto dì non volle che fosse prolungata la circuncisione per tre ragioni, le quali esso filosafo assegna: La prima si è per schifare lo pericolo, cioè che non avvenisse di morire senza la circuncisione se troppo s'indugiasse. La seconda si è per provvedere al duolo de' fanciulli ché, con ciò sia cosa che grandissimo duolo sia al circuncidere, volle Iddio che si circoncidessero mentre ch'elli hanno poca imaginazione, acciocché ch'ellino sentissero minore duolo. La terza si è per avere compassione a la tristizia del padre e de la madre; però che, con ciò sia cosa che molti ne morissono, se fossono circuncisi grandi maggiore dolore ne nascerebbe al padre e a la madre, che se morissero abbiendo pure otto dì. La seconda ragione si piglia appresso lo 'ntendimento celestiale, che però si faceva ne l'ottavo dìe, per dare ad intendere che ne l'ottava de la resurressione nostra saremo circoncisi da ogni pena e da ogni miseria. E, secondo ciò, otto dì saranno otto etadi: La prima fia da Adamo fino a Noè; la seconda da Noè infino ad Abraam; la terza da Abraam infino a Moises; la quarta da Moises infino a David; la quinta da David infino a Cristo; la sesta da Cristo infino a la fine del mondo; la settima di coloro che muoiono; l'ottava di coloro che risuciteranno. Ovvero che per gli otto dì s'intendono otto cose che noi avremo in vita eterna, le quali Agostino annovera in questo modo: "Che altro è a dire, io sarò loro Domenedio, se non ch'io sarò loro quello onde saranno saziati? Sa tutte quelle cose le quali onestamente si possono desiderare, cioè vita, salute, virtude e abbondanzia, gloria, onore, pace e ogni bene. Ovvero per sette dì s'intende l'uomo che è d'anima e di corpo. I quattro dì sono quattro elementi del corpo, e gli altri tre sono tre potenzie de l'anima che sono ne l'anima: cioè la razionale, la concupiscibile e la irascibile. Adunque l'uomo il quale ha ora sette dì, quando sia congiunto a l'unione de l'eternale incommutabilitade, allora avrà l'ottavo nel quale fia circunciso da ogni pena e colpa. La terza ragione si prende appresso lo 'ntendimento morale e, secondo ciò, otto dì si possono pigliare in diversi modi. El primo dì sarà il primo conoscimento del peccato, come dice il salmo: "La mia iniquitade io la conosco". Lo secondo dìe saràe il proponimento di lasciare lo male e di fare il bene; la qualcosa si mostra nel figliuolo guastatore, il quale disse: "Io mi leverò e andrò al padre mio". Il terzo è la vergogna del peccato; di questo dice l'apostolo: "Che frutto aveste voi allora in quelle cose ne le quali voi avete ora vergogna?" Il quarto è la paura del giudicio che dee venire; di questo dice Job: "Come onde enfianti sopra me, sempre ho temuto Iddio, e 'l peso suo non potetti sostenere". E san Geronimo dice: "Ovvero ch'io mangi, ovvero ch'io bea, ovvero ch'io faccia altro, sempre mi pare udire quella boce terribile: "Levate su morti, venite al giudicio". Il quinto è la contrizione, come dice Jeremia: "Pianto de l'unigenito fa a te pianto amaro". Il sesto è la confessione, come dice il salmista: "Io dissi di confessare contra a me la giustizia mia al Signore". Il settimo è speranza d'avere perdono, però che se Giuda confessò il peccato suo, non ebbe speranza di perdonamento, e però non ebbe la misericordia di Dio. L'ottavo è la satisfazione. È in questo die spezialmente circonciso l'uomo, non solamente da la colpa, ma eziandio da ogne pena. Ovvero che i due primai dì sono il dolore d' avere fatto il peccato e 'l disiderio di fare la menda; gli altri due dì sono confessare li mali che abbiamo fatti e li beni che abbiamo lasciati, che noi avremo potuti fare; gli altri quattro dì sono orazione e spargimento di lagrime e afflizione di corpo e fare limosine. Ovvero che otto dì sono ragioni le quali, considerando diligentemente, circoncide da noi ogni volontà di peccare; sì che chi considera diligentemente l'uno farà una grande ignoranza. De la quale ne conta san Bernardo sette, e dice così: "Sette cose sono de la essenzia de l'uomo, le quali se l'uomo attendesse bene, giammai non peccherebbe; ciò sono la materia vile, l'operazione sozza, l'uscita di pianto, lo stato sanza fermezza, la morte di tristizia, isceveramento de l'anima dal corpo miserabile e dannazione abbominevole. L'ottavo sarà la considerazione de la gloria di non potere dire. La quarta ragione si prende appresso lo 'ntendimento spirituale e, secondo ciò, li cinque dì saranno cinque libri di Moises ne li quali si contiene la legge; i due dì saranno la dottrina del Vangelo. Ma ne' primai sette dì non si faceva la perfetta circuncisione, ma ne l'ottavo dìe si fa da ogni colpa e da ogni pena, ora in speranza, ma la fine in fatto. La cagione perché la circuncisione fosse data, fue per sei cagioni, le quali si contengono in questi versi: Tagliatura, segnacchio, merito, medicina, figura Essemplo fu di qua adrieto la circuncisione dura. De la carne de la circuncisione di Cristo dicesi che l'Angelo la portòe a Carlo Magno, ed elli sì la legò onorevolemente ad Acquisgrana ne la chiesa di santa Maria. E dicesi che Carlo l'ha traslata poscia a Carosio e ora, si dice, ch'è a Roma ne la chiesa che si chiama Santa Santorum. Onde in quel luogo si trova scritto: La circuncisa carne di Cristo le sandalie chiare E del bellico riposa qui tanto di prezzo. Onde in quello dìe si fa la stazione a Santo Santorum. Ma se questo è vero, certo molto è grande maraviglia; ché, con ciò sia cosa che quella carne sia de la verità de l'umana natura, crediamo che risuscitando Cristo quello membro, cioè quella carne circoncisa e tagliata, tornò al suo luogo glorificato. Alcuni hanno detto che ciò sia vero appresso l'openione di coloro che dicono che solamente quello è de la verità de l'umana natura che fu tratto d'Adamo, e quello solo resurressirà. Ed è da notare che di qua adrieto i pagani in questo tal dì osservavano molte superstizioni, le quali i santi appena poterono spegnere da li cristiani; le quali Agostino raccorda in uno suo sermone. "Che credendo, ciò dice, che Gennaio fosse uno domenedio del cielo, sì l'onoravano molto in queste calendi, e facealli figura di due faccie, l'una di dietro e l'altra dinanzi, per ciò ch'era termine de l'anno passato e cominciamento di quello che venìa. Ancora in queste calendi si prendevano forme contraffatte: altri si vestivano di pelli di pecora; altri pigliavano capi di bestie, per la qualcosa mostrassero d'avere così senno di bestie com'elli avevano l'abito; altri si vestivano di toniche di femmine e poneanvi bracci cavallereschi; altri facevano tali indovinamenti che, chiunque domandasse fuoco de la casa sua ovvero alcuno altro beneficio, nol davano. Simigliantemente alcune diavolerie prendono da altrui e danno a gli altri. Altri apparecchiano le mense fornite la notte, e così le lasciavano stare tutta la notte, credendo per tutto l'anno i conviti bastino in cotale abbondanza. E aggiugne Agostino questa parola: "Chi de la usanza de' pagani vorrà osservare alcuna cosa, da temere è che il nome di Cristo non gli faccia pro. E chi a li stolti uomini che fanno di questi giuochi, mosterrà alcuno ben piacere, non dubiti ched elli sia parzonevole a' peccati loro; ma a voi, frati, non basti che voi non facciate questo male, ma in qualunque luogo voi il vedrete fare, sì ne riprendete e correggete e gastigate". Ciò dice Agostino per comandamento.
cap. 14, EpifaniaLa Epifania del Signore è abbellita di quattro miracoli; e però è chiamata da quattro nomi, per ciò che in questo dìe li Magi adorarono Cristo, Giovanni il battezzò, mutò Cristo l'acqua in vino e saziò cinque migliaia d'uomini di cinque pani e due pesci. Ché abbiendo Jesù Cristo XIII dì, li Magi il vennero ad adorare, guidandoli la stella. E per questo è chiamata questa festa Epifania, però che allora la stella apparì disopra, ovvero che esso Cristo, per la stella che fu veduta disopra, apparve a li Magi che fosse verace Iddio. In quel medesimo dì, rivolti XXIX anni, essendo già entrato ne li XXX, in ciò che avea XXVIIII anni e XIII dì - ché elli era incontanente quasi di XXX anni, come dice santo Luca, ovvero, secondo il detto Beda: "Abbiendo XXX anni compiuti" la qualcosa afferma che la Chiesa di Roma tiene - allora ne l'acqua fue battezzato nel fiume Giordano. È per questo è detto teofania da Teos, cioè Dio, e fanos cioè apparizione, però che allora apparve Iddio in trinitade: il Padre ne la boce, lo Figliuolo ne la carne, lo Spirito Santo in ispezie di colomba. Allora in quello dìe, rivolto l'anno, abbiendo Cristo XXX anni, ovvero XXXI anni e XIII dì, mutò l'acqua in vino; e per questo è detta Bethfamia, per ciò che nel miracolo fatto ne la casa apparette verace Dio. Ancora in quel dì, simigliantemente rivolto un altro anno di questo, essendo di XXXI, ovvero XXXII anni sì come dice Beda, saziòe cinque milia uomini di cinque pani e di due pesci, e sì come dice in quello inno: "Illuminans Altissimus". Ma questo quarto miracolo non è bene certo se fosse in questo dìe, sì perché ne l'originale di Beda non si truova così espressamente, e sì perché nel vangelo di san Giovanni, dove si fae mentione di questo miracolo, si dice ch'era presso a la Pasqua. Adunque la prima apparizione fu fatta per la festa ne la mangiatoia; la seconda fu fatta per la voce del Padre nel fiume Giordano; la terza fu fatta nel convito per mutamento de l'acqua in vino; la quarta per multiplicamento di pane nel diserto. De la prima si fa menzione oggi la festa, e però proseguiamo quella storia. Ché nato che fu il Signore, tre Magi vennero in Gerusalem; i quali ebbero nome in lingua ebrea Appellio, Amerio e Damasco; in lingua grecesca Galgalat, Malgalat e Sarathin; in lingua latina Caspar, Balthasar e Melchior. Di che maniera questi tre Magi fossero è questa sentenzia, secondo che mago è detto in tre modi, cioè: schernitore, incantatore e savio. Dicono alcuni che questi re furono detti Magi, da l'effetto, cioè schernitori, in ciò ch'ellino schernirono Erode perché non tornarono da lui. Onde dice il Vangelo di san Matteo nel secondo capitolo: "Che veggendo Erode ch'egli era beffato da' Magi ecc." Mago ancora è detto incantatore, onde gl'indovini di Faraone furono detti magi; e per questo dice Grisostomo che costoro furono chiamati Magi, però che, dice, ched elli furono incantatori, ma poi furono convertiti; a li quali il Signore volle manifestare il suo nascimento e farli venire a sé, acciò che per questo desse perdonanza a li peccatori. Anche mago tanto è a dire come savio; ché mago, per sé, in lingua ebrea tanto suona come scriba, in grecesco suona filosofo, ma in latino savio. Sono detti dunque magi, cioè savi, onde son detti magi, quasi in sapienza magni. Vennero dunque in Gerusalem con grande compagnia. Ma perché vennero in Gerusalem, con ciò fosse cosa che 'l Signore non fosse nato in Gerusalem, san Remigio n'assegna quattro ragioni. La prima ragione è perché li Magi aveano bene saputo il tempo del nascimento di Cristo, ma il luogo non sapeano. Onde però che Gerusalem era città reale e ivi era il sommo sacerdozio, pensarono che così nobilissimo fanciullo non dovrebbe nascere se non in nobile cittade. La seconda ragione, per potere piuttosto sapere il luogo del nascimento da' savi de la legge e da li scribi che risedeano ivi. La terza ragione, perché li giuderi non si potessero scusare, ché averebbero potuto dire: "Noi sapemmo il luogo del nascimento ma non sapemmo il tempo, e per ciò non credemmo". Sì che li Magi mostrarono il tempo a li giuderi e li giuderi mostrarono il luogo a' Magi. La quarta ragione è acciò che per lo studio che ebbero i Magi fosse condannata la pigrizia de' giuderi; ché coloro credettoro a uno profeta, costoro non vollono credere a molti; coloro vanno caendo re straniero, costoro non vogliono andare caendo il loro proprio; coloro vennero da lungi, costoro nol vollero domandare da presso. Questi re furono successori e discendenti di Balaam, e a la veduta de la stella vennero, per quella profezia del loro antico padre: "Nascerà, ciò dice, la stella di Giacob, e leverassi l'uomo d'Israel". Un'altra cagione onde costoro si mossero a venire pone Grisostomo ne l'originale sopra Matteo, affermando che alcuni dicono che alquanti ragguardatori di stelle scelsono XII di loro; e se alcuno ne moriva, il figliuolo suo ovvero alcuno de' prossimani era posto in suo luogo. Costoro salivano ogne anno dopo il mese in sul monte Vettoriale e, stando là suso tre dì, sì si lavavano e pregavano Iddio che mostrasse loro quella stella di che Balaam avea profetato. Sì che una volta, ciò fue il dìe di Natale, standosi così in quel luogo, una stella venne a loro in sul monte, la quale avea forma di bellissimo fanciullo sopra il cui capo risplendea la croce; la quale stella parlòe a li Magi, e disse: "Andate tosto ne la terra di Giudea, e ivi troverrete nato il Re che voi adomandate". Allora quelli vennero immantanente. Ma come potero venire in sì piccolo tempo, come sono XIII dì? sì lungo viaggio come da Oriente in Gerusalem, la quale si dice che è nel mezzo del mondo? Potremmo dire, secondo Remigio, che cotale fanciullo dov'ellino andavano gli poté ben menare in sì piccolo tempo; ovvero che, diremo secondo Geronimo, che e' vennero in su dromedarii, che sono animali sì correntissimi che corrono in un dìe quanto corre il cavallo in tre. Ovvero che diremo, secondo Grisostomo, che la stella lungo tempo innanzi al nascimento di Cristo apparette a li Magi, e allora cominciarono a venire sì che il tregesimo dìe de la nativitate giunsero in Betleem. Secondo il detto di Geronimo si è più comunemente, cioè che 'l primo dìe di Natale apparette; infino d'allora cominciarono ad andare in su dromedarii secondo che avea profetato Isaia parlando de' cammelli e de' dromedarii. Essendo dunque venuti questi Magi in Gerusalem, domandarono dicendo: "Ov'è que' ch'è nato Re de' Giuderi?" Non domandano s'egli è nato, però ch'eglino il credono, ma domandano dove egli sia nato ché non lo sapevano; e quasi come se alcuno gli avesse domandati: "Come sapete voi questo Re nato?" rispuosero: "Noi vedemo la stella sua in oriente e siamo venuti ad adorarlo"; quasi dica: "Stando noi in Oriente vedemo la stella sua, cioè dimostrativa del suo nascimento; vedemola, dico, posta sopra la contrada di Giudea. Ovvero stando noi ne la contrada nostra vedemo la stella sua in Oriente, cioè ne la parte d'Oriente". Questi re, come dice san Remigio ne l'originale, per queste parole confessarono che Cristo fosse veramente uomo e verace Re e verace Iddio. Verace uomo confessarono quando dissero: "Ov'è quelli ch'è nato?" Verace Re quando aggiunsero: "Re di giuderi". Verace Dio quando dissero poi: "E vegnamo ad adorallo". Però che comandamento fue che altri che solo Iddio non fosse adorato. Erode udendo ciò fu turbato, e tutta Gerusalem con lui. Per tre ragioni si turbò il re: l'una perché li giuderi non ricevessero il re nato, sì come il loro propio e cacciassero lui, come straniero. Onde dice Grisostomo: "Sì come uno leggiero vento muove il rame de gli alberi posto in alto, così leggiera fama conturba gli altieri uomini posti in altezza di dignitade". La seconda, acciò che non potesse essere incolpato da' Romani se alcuno vi fosse chiamato re, che lo 'mperadore non avesse ordinato. Ché così ordinarono li romani che niuno fosse detto né re né domenedio, senza la loro licenzia o de lo 'mperio. La terza, però che, come dice san Gregorio: "Nato il re dal Cielo, si turbò il re de la terra". Certamente, però che l'altezza terrena si confonde quando l'altezza celestiale s'apre. E tutta Gerusalem si turbò con lui per tre cagioni: l'una, perché i rei uomini non si possono rallegrare de la venuta del giusto; la seconda, per tenere a lusinga lo re turbato acciò che si mostrassero altressì turbati con esso lui; la terza, perché sì come quando i venti si percuotono insieme, l'onda si scuote, così quando i re si contastano insieme, il popolo n'è conturbato; e per ciò temettero acciò che il re presente e quello che dovea venire non conturbattessero insieme, e ellino fossono involti in pertubagioni. Questa ragione è di Grisostomo. Allora Erode ragunò li scribi e sacerdoti, e domandavagli dove Cristo nascerebbe. E abbiendo saputo da loro che nascerebbe in Betleem di Giuda, chiamò a sé di nascosto li Magi, e diligentemente apparò da loro il tempo de la stella la quale apparve loro, per sapere che si fare se li Magi non tornassero da lui, infignendosi di volere adorare colui, lo quale elli voleva uccidere. E nota che, quando li Magi furono entrati in Gerusalem,perdettono la guida de la stella; e questo fu per tre ragioni. La prima è acciò che fossoro costretti a cercare del luogo dove Cristo era nato, sì che in questo modo fossero certificati del suo nascimento, sì per lo apparimento de la stella, sì per l'affermamento de la profezia sì come fatto fue. La seconda fue perché coloro che domandavano l'aiuto de l'uomo, giustamente perderono quello di Dio. La terza fu perché li segni son dati a l'infedeli secondo il detto de l'apostolo, ma la profezia è data a' fedeli; e però fu dato il segnale a costoro, con ciò sia cosa che ancora fossero infedeli, sì che apparire non debba insino a tanto ch'egli erano tra li giuderi fedeli. E queste tre ragioni si toccano ne la Chiosa. Ma, essendo usciti di Gerusalem, la stella andava loro innanzi, infino ch'ella vegnendo stesse sopra 'l luogo dov'era il fanciullo. Di questa stella, che stella ella si fosse, tre opinioni ne sono, le quali pone Remigio ne lo originale. Ancora dicono che fue lo Spirito Santo che, sì come apparve sopra Cristo in ispezie di colomba, così fosse apparito a li Magi in ispezie di stella. Ma Grisostomo dice che fue angelo acciò che quelli, il quale apparve a' pastori, apparisse altressìe a li Magi. Ma a coloro, sì come usanti ragione, apparve in forma d'animale ragionevole; a costoro sì come a' pagani in forma di creatura sanza ragione. Altri sono che dicono più vero, cioè che fosse una stella creata di nuovo; la quale, abbiendo compiuto l'ufficio suo, ritornossi ne la materia di prima. Questa stella, come dice Fulgenzio, avea differenzia da l'altre stelle in tre cose: cioè nel luogo, però che non era posta nel fermamento per luogo, ma pendea nel mezzo de l'aere, vicina a la terra; anche ne lo splendore, però ch'ella fu più splendiente de l'altre stelle, e ciò appare però ch'ella era di tanta chiarezza che la luce del sole non toglieva la chiarezza sua, ma nel mezzogiorno appariva chiarissima; anche nel movimento, però ch'ella andava innanzi a' Magi a modo di viandante, ché non si movea a modo circulare, ma quasi a modo e movimento d'animale e processivo. L'altre tre differenzie si toccano ne la Chiosa sopra Matteo II, la quale comincia così: "Questa stella del nascimento del Signore.". La prima differenza è ne l'origine, però che l'altre furono fatte al principio del mondo, ma questa fu fatta novellamente. La seconda differenza è ne lo officio, però che l'altre furono fatte per segnali e per temporali, sì come dice il primo libro del Genesis, ma questa fu fatta per mostrare la via a' Magi. La terza è ne la durata per ciò che l'altre sono perpetuali, ma questa da che ebbe compiuto l'ufficio suo, ritornò ne la materia di prima. E abbiendo veduta la stella, s'allegrarono d'allegrezza grande. Nota che di cinque modi stella viddero li Magi. La prima fu materiale, la quale viddero in Oriente; la seconda fu spirituale, cioè fedele, la quale viddero nel cuore. Ché se questa stella cioè la fede, non fosse radiata prima nel loro cuore, non sarebbono mai venuti a vedere la stella materiale. Ché ellino aveano avuto fede de la sua umanitade, però che dicevano: "Ov'è questo ch'è nato?" anche de la sua reale dignitade, onde diceano: "Re de li Giuderi"; anche de la sua divinitade, però che aggiunsero a dire: "E vegnamo ad adorallo". La terza fu intellettuale, ciò fu l'angelo ched e' viddero nel sonno quando furono ammaestrati che non tornassero da Erode, avvegna che dica una Chiosa: "Che non fue angelo, ma fue pur esso signore". La quarta fue stella razionale, cioè la Vergine beata, la quale viddero nel diversorio. La quinta fue supersustanziale, cioè esso fanciullo lo quale viddero ne la mangiatoia. E di queste due si dice poscia: "Entrando ne la casa trovarono lo fanciullo con Maria, madre sua ecc." Catuno di costoro è detto stella. De la prima stella dice il Salmo: "La luna e le stelle che tu creasti". De la seconda dice l'Ecclesiastico nel XLIII capitolo: "La bellezza del cielo, cioè de l'uomo celestiale, si è la gloria di stelle, cioè de le virtude". De la terza dice Baruch nel terzo capitolo: "Le stelle diedero lume ne le guardie sue". De la quarta dice l'Apocalis ne l'ultimo capitolo: "Io sono radice a la generazione di David, stella splendiente e mattutina". Per la veduta de la prima e de la seconda stella li Magi si rallegrarono, per la veduta de la terza si rallegrarono d'allegrezza, per la veduta de la quarta s'allegrarono d'allegrezza grande, per la veduta de la quinta dice poscia molto. Ma la Chiosa dice: "Colui s'allegra d'allegrezza grande, il quale s'allegra in Dio, lo quale è verace allegrezza"; e aggiunse: "grande", però che neuna cosa è maggiore; e: "sottometterai molto", però che de la grande allegrezza si puote altri rallegrare la quale è più e quale meno. Ovvero che per ragunamento di queste parole volle il Vangelista mostrare che gli uomini s'allegrano più de le cose perdute e poscia ritrovate, che di quelle che sono sempre possedute. Ed essendo li Magi entrati ne la casa di nascosto e abbiendo trovato il fanciullo con la madre, con le ginocchia in terra ciascuno gli offerse di tutti questi doni, cioè oro, incenso e mirra. Qui grida Agostino e dice: "O infanzia del Salvatore, al quale si sottomettono le stelle, di che grandezza è costui, di che potenzia, di che gloria a li cui panni e li angeli stanno, a la guardia e le stelle servono, e li re impauriscono, e li savi s'inginocchiano! Io stupidisco quando veggio i pannicelli, e ragguardo i cieli; io ardo quando veggio il mendico ne la mangiatoia, e impertanto chiarito sopra la stella". Anche dice Bernardo: "Che fate voi Magi, che fate? Adorate voi uno fanciullo che giace vestito di vili pannicelli in una capanna? Adunque ora è questi Dio. Che fate voi che gli offerete oro? Dunque è questi re. Sed egli è re, or dove è la magione reale, dove la sedia, dove lo spesseggiare de la corte reale? Ora è la stalla la magione, la sedia la mangiatoia, lo spesseggiamento de la corte Joseppo e Maria? Ma costoro si fecero matti per diventare savi". Di costui dice anche Ilario nel secondo libro de la Trinitade ched elli fece: "Partorisce la Vergine, ma il parto è da Dio. Lo fanciullino piange, sono uditi gli angeli lodare Iddio. Li panni si sozzano, Dio è adorato. Adunque la dignitade de la podestade non si perde, mentre che l'umilitade de la carne è predicata". Ecco come in Cristo fanciullo non solamente furono le cose umili e basse, ma furono in lui le cose alte de la divinitade. Onde Geronimo sopra la Pistola ad Ebreos dice così: "Ragguardi tu la culla di Cristo, ora vedi altressìe il cielo; ragguardi tu colui che piange ne la mangiatoia, ragguardi tu colui che non parla, ora ascolta altressì gli angeli che 'l lodano. Erode li perseguita, ma li Magi l'adorano; i farisei non lo sanno, ma la stella il mostra; è battezzato dal servo, ma la boce di Dio è udita tonare disopra; e attuffato ne l'acqua, ma la colomba discende, anzi lo Spirito Santo in colomba. La cagione perché i Magi offersono cotali doni, fue per molte ragioni. La prima fu perché fu ordinamento de li antichi, come dice Remigio, che neuno prosumi d'entrare voto a Dio, ovvero al re, ovvero a sacerdote; ché li Persi e li Caldei usarono di fare offerta di cotali donamenti. La seconda ragione, la quale è di san Bernardo, si fu però ch'elli offersero oro a la beata Vergine per sollevare la povertade, lo incenso contro al fiatore de la stalla, la mirra per consolidamento de le membra del fanciullo e per scacciamento de' mali vermini. La terza fu perché l'oro s'appartiene al tributo, lo 'ncenso al sacrificio e la mirra al seppellimento de' morti. Per questo si dimostrano in Cristo tre cose: reale podestade, divina maestade e umana mortalitade. La quarta ragione fu perché l'oro significa l'amore, lo 'ncenso l'orazione e la mirra mortificamento di carne. E queste tre cose sono da offerere a Cristo. La quinta fue perché queste tre cose erano significate tre cose, le quali erano in Cristo, cioè la divinità preziosissima, l'anima divotissima e la carne intera e non corrotta. Queste tre cose erano significate per quelle tre ch'erano ne l'arca. Ché la verga che fiorìo, fu la carne di Cristo che risucitò, come dice il Salmo: "E rifiorìo la carne mia". Le tavole dov'erano scritti li comandamenti, era l'anima ne la quale erano tutti li tesori de la sapienza e de la scienza di Dio nascosti. La manna abbiente ogni sapore è essa divinitade, la quale hae in sé ogni dolcezza. Sì che per l'oro, lo quale è più prezioso tra tutti i metalli, s'intende la divinità preziosissima; per lo incenso l'anima devotissima, però che lo 'ncenso significa orazione e divozione, come dice il Salmo: "Sia dirizzata l'orazione mia come lo 'ncenso nel cospetto tuo"; per la mirra che conserva le corpora da incorruzione significa la carne interissima. Ammaestrati dunque li Magi nel sonno non da l'angelo, ma da esso Iddio, secondo la Chiosa sopra 'l Vangelo di san Matteo, (ma secondo Grisostomo da l'angelo) che non tornassero da Erode, per altra via tornarono nel paese loro. Ecco dunque li Magi come fecero prode, ché a guida de la stella vennero ammaestrati per uomo, anzi per profeta, a guida d'angelo tornarono e in Cristo si riposarono. Le corpora di costoro soleano essere a Melano ne la chiesa la quale è oggi de l'ordine nostro, cioè de' frati Predicatori. Ma ora si riposano a Colognale di Francia.
cap. 15, San Paolo EremitaPaolo primo rimito, sì come testimonia Geronimo che scrisse la sua vita, crescente la persecuzione di Decio imperadore, sì se n'andò in uno eramo salvatichissimo, e ivi stette sessanta anni nascosto a gli uomini entro una spelunca. Veggendo san Paulo fare tanti mali e tante pene a' Cristiani, fuggì ne l'ermo; però che in quel tempo furono presi due giovani cristiani, e l'uno fu tutto unto di mèle e fu posto al caldo del sole a le punture de le mosche e de li scalabroni e de le vespe, e l'altro fu messo in uno letto morbidissimo, là dov'era l'aere temperata e risonamento d'acque, canto d'uccelli, olore di fiori, ma fuecinto di corde, coperte di fiori e di colori, che non si potesse aiutare, né con le mani né con li piedi. E venne a lui una garzonetta bellissima, ma isvergognata e, svergognatamente, cominciò abbracciare il giovane ripieno de l'amore divino. E sentendo costui ne la carne movimenti contrarii a la ragione, non abbiendo arme con le quali si difenda dal nimico, con li denti si mozzò la lingua sua propria e sputolla nel volto de la pulcella svergognata. E in questo modo convertìo il diletto in dolore, e meritòe la vittoria degna di laude. Per queste e altre pene, Paulo spaventato adomandòe l'ermo. In quel tempo credendo Antonio essere il primo romito tra li monaci, fu ammaestrato in sogno che un altro molto migliore di lui abitava ne l'ermo; e, cercandolo elli per le selve, si scontrò ne l'ippocentauro, cioè uomo mischiato con cavallo, al quale l'opinione de' poeti diede nome centauro. Questi gli disse che tenesse a mano ritta. Poi si scontrò in uno animale che portava frutto di palme, e era segnato disopra la imagine d'uomo, ma disotto avea forma di capra; e Antonio scongiurandolo per Dio che li dicesse chi elli fosse, rispuose ch'elli era satiro, cioè lo dio de le selve, secondo l'errore de' pagani. Al terzo si scontrò nel lupo, il quale lo menòe insino a la cella di Paulo. Sentendo san Paolo dinanzi venire costui, serròe molto bene l'uscio con la stanga; e Antonio il priega che li apra, affermando che mai quindi non si partirà, ma maggiormente ivi morrà. Udendo ciò Paulo sì li aperse. Incontanente s'abbracciarono e basciarono insieme e, essendo venuta l'ora del desinare, il corbo recò loro la parte raddoppiata. E maravigliandosi di ciò Antonio, rispuose Paulo che Domenedio gli mandava così ogne dìe uno mezzo pane, ma ora per costui l'avea raddoppiata l'annona, e avergliele mandato intero. Sì che nacque tra loro una pietosa tencione; e umilemente contendendo chi sia più degno di partire il pane, Paulo il dà a l'oste suo, e Antonio il dava al vecchio. A la perfine l'uno e l'altro vi pongono la mano, e partitolo iguali parti. E ritornando Antonio e approssimandosi a la cella sua, vide gli angeli che ne portavano in Paradiso l'anima di san Paulo. Quelli, ritornando là tosto, trovò il corpo di Paulo stare ginocchione tutto in tal modo, che pensava che vivesse; ma sappiendo ch'era morto, disse così: "O anima santa, quello che facevi in vita hai dimostrato ne la morte". E non avendo con che fare la fossa, e affliggendo se medesimo di ciò molto, e eccoti venire due leoni e, apparecchiato la fossa e sotterrato ch'elli l'ebbero, ritornarono a le selve. Sì che Antonio prese la tonica di Paulo tessuta di palma, la quale egli usava poi ne le solennitadi. E morì nel torno de li anni Domini CCLXXXVII.
cap. 16, S. RemigioLa sua vita scrisse Ignazio arcivescovo di Remo. Remigio, dottore nobile e confessore glorioso del Signore, da un eremita fu prenunziato che dovea nascere in questo modo: Con ciò fosse cosa che la gente de li Vandali perseguita avesse e guasta poco meno tutta la Francia, uno santo uomo rinchiuso, il quale avea perduto il lume degli occhi, pregava ispesso Iddio per la pace de la Chiesa di Francia; ed eccoti l'angelo del Signore sì li apparve in visione e sì li disse: "Sappi che quella femmina la quale ha nome Cilina ingenerrà figliuolo che averà nome Remigio, il quale liberrà la gente sua da li assalimenti de' rei uomini". Ed essendo svegliato, immantanente andòe a casa di Cilina e narròe a lei quello che avea veduto; e ella non credendo però ch'era vecchia, il romito l'aggiunse queste parole: "Quando tu darai latte al fanciullo, sì ugnerai gli occhi miei del latte tuo, e tosto mi renderai il vedere". Ed essendo avvenuto in questo modo ciò che detto era, Remigio fuggì il mondo ed entrò in romitorio. E crescendo la sua fama, quando aveva XXII anni fu chiamato arcivescovo da tutto il popolo. Di tanta mansuetudine fue che eziandio a la mensa sua venivano le passere e pigliavano de la mano sua il rilievo de' cibi. Un tempo ch'elli albergò in casa d'una donna, ed ella abbiendo poco vino, Remigio entròe nel cellario, e fece il segno de la Croce sopra la botte e, abbiendo fatta l'orazione, immantanente uscìo il vino disopra, sì che si spandeva per lo mezzo del cellaio. Ed essendo il re di Francia a quello tempo pagano e non potendo essere convertito da la moglie ch'era cristianissima, veggendo che oste senza fine de li Alamanni era venuto sopra lui, fece boto a Dio che, se li desse vittoria di quella gente, incontanente riceverebbe la fede di Cristo. E abbiendo avuto la vittoria al senno suo, andòe al beato Remigio e domandò d'essere battezzato. Ed essendo venuto a la fonte del battesimo e non abbiendovi la santa crisma, eccoti venire la colomba e recò in bocca una ampolla con cresima, de la quale l'arcivescovo unse il re. E questa ampolla è consegrata ne la chiesa de Remo, e di quella s'ungono li re di Francia infino al dì d'oggi. Dopo molto lungo temporale Genebaldo, uomo provveduto e savio, avendo per moglie la nepote del beato Remigio ed essendo assoluti vicendevolmente per cagione di religione, il beato Remigio ordinò lo predetto Genebaldo vescovo di Lodano. E con ciò sia cosa ch'elli lasciasse venire a sé la moglie per cagione d'ammaestrare, per lo molto favellare con lei l'animo è infiammato a concupiscenzia, e infino nel peccato con lei corse. Quella concependo e partorendo figliuolo, sì 'l fece assapere al vescovo ed elli, pieno di vergogna, le rimandò a dire queste parole: "Imperò che 'l fanciullo è guadagnato di ladroneccio, sì voglio che abbia nome Ladro". Ma acciò che non ne nascesse veruna sospeccione, lasciava venire la moglie a sé come di prima, e poi comandò che dovesse uscire fuori; sì che dopo il pianto del primo peccato, un'altra volta cadde con lei in peccato. La quale, quando ebbe partorita figliuola e mandatolo a dire al vescovo, quelli rispuose: "Chiamatela volpicella". A la perfine tornato a se medesimo, andossene al beato Remigio e gittolisi a' piedi, e vollesi levare la stola dal collo; la quale cosa vietando il santo di fare, abbiendo udito da lui ciò ch'era intervenuto, umilemente consolandolo, si rinchiuse in una cellolina piccola per sette anni, e elli governòe la Chiesa di lui intanto. E nel settimo anno stando in orazione ne la cena Domini, eccoti l'angelo di Dio e stette dinanzi da lui, e sì li disse che 'l peccato gli era perdonato e comandolli ch'egli dovesse uscire fuori. E quelli rispondendo: "Non posso per ciò che 'l signore mio Remigio ha chiuso questo uscio e suggellato". L'angelo rispuose: "Ora ecco acciò che tu sappia che 'l cielo t'è aperto, questo uscio altressì ti sarà aperto ora, salvo il suggello". Incontanente, come detto avea, fue aperto. Ancora Genibaldo, gittandosi nel mezzo de l'uscio in modo di croce, sì disse: "E eziandio se il mio Signore Jesù Cristo venisse qua, non ne uscirò mentre che non ci verrà il signor mio Remigio, il quale mi ci rinchiuse". Allora santo Remigio arcivescovo per l'ammonizione de l'angelo venne a Leone sopra Rodano, e rimiselo in su la sedia sua. Il quale insino a la morte perseveròe ne le sante opere, e 'l suo figliuolo, chiamato Ladro, fu vescovo dopo lui e fu santo uomo. A la perfine il beato Remigio per molte virtudi chiarito si riposòe in pace intorno a li anni Domini D.
cap. 17, S. IlarioIlario, vescovo de la città di Pitavia, natìo de la contrada d'Aquitania, come stella diana risplendiente, procedette fra le stelle grosse. Questi abbiendo prima moglie e figliuola, in abito ladicale menava vita monacale; a la perfine, megliorando in vita e in iscienzia, fu chiamato vescovo. Con ciò dunque fosse cosa che santo Ilario e non solamente la città sua, ma eziandio tutta Francia difendesse da li eretici, a sommovimento di due vescovi, i quali erano dipravati di resia, da lo 'mperadore, il quale dava favore a li eretici, fu mandato a' confini a Vercelle con santo Eusebio. A la perfine con ciò fosse cosa che la resia d'Ario rampollasse in ciascuna parte e fosse data licenzia da lo 'mperadore che tutti i vescovi si ragunassero a disputare de la verità de la fede, essendo venuto là santo Ilario, fu costretto di tornare al vescovado suo a petizione di quelli vescovi, i quali non poteano comportare il suo parlamento. Il quale approssimato a l'isola Gallinacia, tutta piena di serpenti, e disceso in quella, tutti li serpenti cacciò via col suo vedere, e nel mezzo de l'isola ficcò uno palo sì che di qua da quello luogo non si poterono stendere li serpenti, come se quella parte de l'isola fosse mare. Ed essendo a Pitavia, recò a vita con le sue orazioni uno fanciullino sanza battesimo morto; ché tanto giacque ne la polvere che ad una ora sì 'l si rilevaro il vecchio da orazione e lo fanciullo da la morte. E volendo Apia, sua figliola, torre marito, Ilario la predicòe e confortolla nel proponimento di santa virginitade; e ella veggendola bene ferma, ma temendo ch'ella non si cambiasse, pregò Iddio molto perseverantemente che la ricevesse a sé e non la lasciasse più vivere. E così fu, ché da indi a pochi dì n'andò al Signore; la quale elli seppellìo con le sue mani. La qualcosa considerando la madre di lei, pregòe il vescovo che l'accattasse la grazia ch'egli avea accattata a la figliuola. E così fece, e mandollasi innanzi al regno di Dio con la sua orazione. In quello tempo papa Leo, corrotto de la resia, ragunòe il concilio di tutti i vescovi; i quali ragunati, Ilario vi venne, non essendovi chiamato. Quando il Papa l'udì dire, comandò a tutti che non li facessero luogo né che si levassero a lui. Ed essendovi entrato, li disse il Papa: "Tu se' Ilario francesco?" E quelli disse: "Non sono francesco, ma di Francia". Cioè volle dire: non sono nato di Francia, ma vescovo di Francia. Al quale disse il Papa: "E se tu se' Ilario di Francia, io sono Leone de la romana sedia apostolico e giudice". Al quale disse Ilario: "E se tu se' Leone, tu pure non se' de la schiatta di Giuda; e se tu siedi per giudicare pur tu non se' ne la sedia de la maestade". Allora il Papa indegnato contro a lui, sì si levò e disse: "Aspettami un poco, tanto ch'io torni, e renderotti quello che tu se' degno". Disse Ilario: "Se tu non torni, chi mi risponderà per te?" E quelli disse: "Io tornerò tosto e abbasserò la tua superbia". Ed essendo il Papa andato al luogo segreto de la natura, sì li venne tale sollizione che in quello luogo gittò disotto le 'nteriora, e così finì la vita sua in molta miseria. Infrattanto veggendo Ilario che niuno gli faceva luogo, abbiendo pazienza, si pose a sedere in terra così dicendo: "Del Signore è la terra, e la plenitudine sua". Ed incontanente per volontà di Dio la terra sopra la quale e' si puose, si levò alta infino ch'ell'era iguale con gli altri vescovi. E in questo modo gli fece Iddio una cattedra. Ed essendo dunque annunziato il Papa così morto miseramente, Ilario si levò ritto nel mezzo e confermò tutti li vescovi ne la fede cattolica e, confermati, gli rimandò a le luogora loro. Ma questo miracolo de la morte di papa Leo si ha dubbio, sì perché la Storia Ecclesiastica e la Tripertita non dicono nulla di questo Leone, sì perché la Cronica non pone che a quel tempo fosse veruno Papa che avesse così nome, e sì perché Geronimo dice che la santa romana Ecclesia sempre fue sanza macula ne la fede e starà nel tempo che dee venire senza neuno assalto d'eretici. A la perfine Ilario, abbiendo fatti dimolti miracoli, quando fue infermato, cognoscendo che la morte era prossimana,chiamò a sé Leoncino prete, lo quale massimamente amava, e ammonillo che sopravvegnente la notte esca fuori, e s'elli udisse alcuna cosa, sì li comandò ch'elli lo ridicesse. Quelli, vogliendo adempiere il comandamento, uscì fuori e ritornò a dire ch'avea udito le voci de la città che ancora bulicavano. E vegghiando dintorno a lui, aspettando la sua fine, ne la mezzanotte li fu comandato che dovesse uscire fuori un'altra volta per ridire a colui che giacea quello che avesse udito. E rispondendo che non avea udito nulla, immantanente entrò a lui una chiaritade, la quale esso prete non potea comportare; e così partendosi il lume a poco a poco insieme, l'uomo passòe a Cristo. E fue splendiente al mondo ne li anni Domini CCCXL.
cap. 18, S. MacarioMacario, abate, discese di Scichi ed entrò a dormire nei monimenti dov'erano seppellite le corpora de' pagani, e trassene uno corpo e puoselosi sotto il capo suo per piumaccio. E le demonia volendolo spaventare chiamavano quasi una femmina, e dicevano: "Lieva su, vieni con esso noi in uno bagno". E l'altro demonio, disotto a lui, come parlasse quello cotale morto, diceva: "Io abbo uno pellegrino sopra me, non posso venire". Ma quelli non avea paura, ma percotea quel corpo e dicea: "Leva su, e va, se tu puoi". E udendolo le demonia fuggirono gridando con grandi voci: "Tu n'hai vinti tutti noi". Una volta che l'abbate Macario andava a la cella per lo padule, gli venne incontro il diavolo con la falcellina, ovvero una falce mietitoia fienale, volendolo percuotere de la falce; ma non potette e disseli: "O Macario, grande forza mi fai perch'io non me ne posso contra di te, ecco che ciò che tu fai, fo altressì io: digiuni tu? ed io, al postutto, non mangio; vegghi tu? e io non dormo mai. Una sola cosa è ne la quale tu mi soperchi". Disse l'abate: "Quale è quella?" Disse il diavolo: "L'umiltà tua, per la quale non me ne posso contra di te". Una volta che le tentazioni il molestavano troppo, levossi e puosesi in collo un grande sacco di rena e, così portandolo, molti dì andava per lo diserto. E trovandolo Teosebio, sì li disse: "Padre, perché porti così gran peso?" E quelli disse: "Conturbo colui che conturba me con le tentazioni". L'abate Macario vidde il diavolo passare in abito d'uomo; e aveva uno vestimento di panno lino tutto stracciato e foracchiato, e per li forami pendevano ampolle, e disseli: "Macario dove vai?" E quelli disse: "Vo a dare bere a' frati" Disse Macario: "Perché dunque porti tante ampolle?" Disse il Diavolo: "Io ne porto loro di più fatte; e a cui non piace d'uno, darò d'un'altro e, se no, de l'altro; e così farò per ordine tanto che li piaccia d'alcuno". E tornando lo demonio, sì li disse Macario: "Che hai fatto?" Disse il diavolo: "Tutti sono santi e neuno n'ha acconsentito, se non uno Teotisto". Levandosi dunque Macario andò là dov'erano e trovando il frate tentato, sì li disse ciò che 'l diavolo avea detto. Quelli udendo ciò si pentéo, e fue confermato nel bene. Un'altra volta veggendo san Macario lo diavolo e andare là oltre, e dissili: "Dove vai?" E quelli disse: "Vo a' frati". E ritornando lui, li si fece incontro il santo vecchio e domandò: "Che fanno quelli frati?" Disse il diavolo: "Fanno male". E disse Macario: "Perché?" "Ché sono santi, e peggio è: uno che io mi credea avere guadagnato, è più santo di tutti gli altri frati". Udendo ciò il santo vecchio rendé grazia a Dio. Uno dìe trovò san Macario uno capo d'uomo morto; e pregando sì 'l domandò cui capo e' fosse stato; e 'l capo disse: "D'uomo pagano". E 'l vecchio disse: "Dov'è l'anima tua?" E que' disse: "Ne lo 'nferno". E 'l vecchio disse: "Or se' tu molto nel profondo?" E quelli rispuose: "Tanto sono in profondo quanto ha dal cielo a la terra". Disse san Macario: "Or sono alcuni più profondi?" E quelli rispuose: "Sì, i giudei". A cui il vecchio: "E oltre i giudei, sono alcuni più profondi?" E quelli disse: "Più in profondo ancora sono li malvagi Cristiani, i quali, ricomperati del sangue di Cristo, ebbono e hanno poco a capitale così grande beneficio". Andando lui per una profonda solitudine, ad ogni miglio ficcava una canna per sapere poscia meglio ritornare a casa. E avendo già fatte nove giornate, riposandosi in uno luogo, venne il diavolo e colse tutte quelle canne e puosegliele al capezzale, per la qualcosa s'affaticò molto a reddire a la casa sua. Uno frate era molto molestato da' suoi pensieri, cioè ch'elli stava disutilmente ne la cella, ma s'elli abitasse tra li uomini a molti potrebbe giovare. Il quale abbiendo raccontati i pensieri suoi a san Macario, e elli rispuose: "Figliuolo, rispondi così al pensiero: questo cotanto fo io ne la cella, ch'io guardo per Cristo la parete di questa cella". Una volta ch'elli uccise una zanzara la quale lo pugneva molto, e tennela in mano, n'uscìe molto sangue, riprendendo se medesimo di ciò ch'elli avea vendicata la propria ingiuria, ignudo ne stette sei mesi, e tutto n'uscì lacerato da li scalabroni. Dopo questo, essendo chiarito di molte vertude, si riposòe in pace.
cap. 19, S. FeliceSi dice che essendo maestro di fanciulli e con ciò fosse cosa che fosse a loro molto aspro, fu preso da' pagani perché confessava liberamente Cristo, e fu messo tra le mani de' fanciulli li quali egli aveva ammaestrati, i quali l'uccisero con li stili e con le lesine. Ma la Chiesa pare che tenga che non fosse martire, ma confessore. Costui a qualunque idolo era condotto a sacrificarli, sì soffiava inverso lui, e immantenente cadeva. Leggesi in un'altra leggenda che, fuggendo la persecuzione, Massimino vescovo di Nola, afflitto di fame e di freddo, era caduto a terra; sì che Felice fu mandato da l'angelo a lui, e non avendo cibo che li desse, vide uno racimolo d'uva appiccato ne la siepe ch'era ivi presso; de le quali uve gli premé in vino in bocca e puoselosi in collo e portosenelo a casa. E, morto colui, fu eletto vescovo Felice; lo quale predicando ed essendo cercato dal persecutore de la fede, sì si nascose tra pareti rovinate per una piccola entrata. Immantanente, per la volontà di Dio, li ragnoli vi fecero ragnatela per quella bocca. E veggendo ciò coloro che l'andavano perseguitando, pensarono che non vi fosse entrato persona, e così lasciarono stare e andaronsene. Ma elli si partìe quindi, e andonne a un altro luogo, e ebbe le spese tre mesi da una vedova, ma pertanto non vide mai la faccia sua. A la perfine, renduto pace a la Chiesa, ritornòe a la chiesa sua, e ivi si posòe in pace, e fue seppellito presso a Roma, in luogo che si chiama Pince. Costui ebbe uno fratello ch'ebbe altressì nome Felice; lo quale, essendo costretto d'adorare l'idole, sì disse: "Voi siete nimici de' vostri dei, per ciò che se voi mi menerete a loro, io soffierò verso loro immantanente, come il fratel mio, e caderanno a terra. Costui sì lavorava uno orto; sì che alcuni, volendoli torre de l'erbe del suo orto, mentre che pensavano di fare il furto per tutta la notte, diligentemente vangavano l'orto, e la mattina, salutati dal santo, confessarono il peccato loro e tornaronsi a casa. E vegnendo i pagani per prenderlo, a le mani loro venne grandissima duolo. I quali traendo guai, il santo disse loro: "Dite che Cristo è Dio, e 'l duolo vi lascerà stare". Li quali, dicendo così, furono sanati. E 'l pontefice de l'idole venne a lui, e disse: "Messere, ecco lo Dio mio, sì tosto come ti vidde venire, immantanente fuggìo. Al quale dicendo me: "perché fuggi?" elli rispuose: "Perch'io non posso sostenere la virtù di questo Felice. Se dunque lo Dio mio ti teme così, quanto maggiormente ti debbo temere io?" Il quale, quando Felice l'ebbe ammaestrato ne la fede, sì si fece battezzare. A coloro che adoravano lo Dio Apollo disse san Felice: "Se Apollo è veracemente Iddio, ora mi dica che è quello che io tengo ora chiuso ne la mano". Ed elli aveva una cedola ne la quale era scritto il Paternostro. Quelli non dicendo nulla, li pagani furono convertiti. A la perfine cantata la Messa e data la pace al popolo, si puose in orazione in su lo smalto e andossene in pace al Signore Cristo.
cap. 20, S. MarcelloMarcello, essendo a Roma sommo pontefice e riprendendo Massimiano imperadore de la sua crudelezza contro a' cristiani, dicendo Messa in casa d'una gran donna, ne la chiesa consecrata, lo 'mperadore adirato fece di quella casa stalla di bestie, e il detto Marcello condannòe a guardare e a servire gli animali. Nel quale servigio dopo molti anni si riposò in pace intorno a li anni Domini CCLXXXVII.
cap. 21, S. AntonioLa sua vita scrisse Atanasio. Antonio essendo di XX anni e udendo leggere ne la chiesa: "Se tu vuogli essere perfetto, va e vendi ciò che tu hai, e da' a' poveri" elli vendé tutto il suo e diedelo a' poveri e menò vita di romito. Questi sostenne tentazioni senza novero da le demonia. Una volta, avendo vinto lo spirito de la fornicazione per la virtude di Dio, il diavolo gli apparve in forma d'uno fanciullo nero atterrato dinanzi a lui, e confessossi vinto da lui. Ché questi impetrò elli per prieghi da Domenedio, cioè ch'elli potesse vedere lo spirito de la fornicazione che li poneva agguato. E vedendolo così sozzo, sì li disse: "In vilissima forma mi se' apparito; da qui innanzi non ti temerò niente". Un'altra volta stando nascoso in uno avello, una moltitudine di demonia il conciòe sì malamente, che 'l fante suo il portò in su la spalla, come uomo morto, insino a la villa prossimana. E piangendolo come morto tutti quelli che v'erano ragunati, essendo addormentati tutti, Antonio si fece vivo e fecesi riportare al fante al detto avello. Il quale, giacendo atterrato nel detto luogo, impertanto per la vertude de l'animo, invitava le demonia a battaglia. Allora ellino apparvero a lui in diverse forme di bestie, e crudelissimamente lo stracciarono con l'unghie e con le corna e con li denti. Allora subitamente v'apparve uno splendore maraviglioso, e cacciò tutte le demonia, e Antonio fu tosto guarito. E intendendo per se medesimo che Cristo era quivi presente, disse: "Dove eri tu buono Jesù? dove eri tu? perché dal principio non fosti presente per aiutarmi e sanante le piaghe mie?" Al quale disse Cristo: "Io era qui, ma aspettava di vedere la tua battaglia; ma ora, perché tu hai combattuto francamente, per tutto il mondo ti farò ricordare". Di tanto fervore era che, quando Massimiano imperadore uccideva li santi cristiani, a passo a passo elli seguitava li martiri, acciò che meritasse essere martire con loro, e fortemente si contristava di ciò che 'l martirio non gli era dato. Una volta, andando lui per lo diserto, trovò uno tagliere d'ariento, e cominciò così a dire fra se medesimo: "Onde sarebbe venuto questo tagliere dove non si veggiono verune orme d'uomini? Se a' viandante fosse caduto, non potrebbe certo essere stato nascoso per la sua grandezza. Diavolo, questo è tuo artificio, ma pertanto non potrai mutare la volontà mia". E dicendo queste cose, il tagliere sparve come il fummo. Poscia trovòe una grande massa d'oro verace; ma elli sì fuggìe come fosse arsura di fuoco. E così, vegnendo ad alto monte, XX anni vi stette, risplendente di molti miracoli. Una volta, essendo elli ratto in ispirito, vide tutto il mondo pieno di lacciuoli scompigliati insieme, e gridando disse: "Chi fia quelli che ne camperà?" Egli udì dire: "L'umiltà". Alcuna volta ch'egli era levato da gli angeli in aria, vegnono le demonia e vietano il passaggio, opponendoli i peccati suoi ch'elli avea fatti dal cominciamento del suo nascimento. A i quali dissero gli angeli: "Voi non gliele dovete apporre, per ciò che sono spenti per la pietade di Dio. Ma se voi ne sapete alcuni da poi che fu fatto monaco, quelli apponete". E vegnendo meno ne le approvagioni, Antonio fu levato in alto e posto giù libero. Narra Antonio di sé, e dice: "Io viddi alcuna volta il diavolo alto del corpo, il quale fu ardito di dire ch'elli era vertù di Dio e provvedenza e sapere, e disse: "Che vuo' tu che ti sia dato da me, o Antonio?" ed io sputandoli spesso in bocca, armato del nome di Cristo, tutto gli immisi addosso; immantanente sparve". A costui apparve alcuna volta il diavolo in tanta lunghezza che parea che toccasse il cielo col capo. E domandandolo Antonio chi elli fosse, rispuose ch'elli era il diavolo, e aggiunse queste parole: "Perché mi combattono così li monaci e li maladetti cristiani?" Al quale disse Antonio: "Ragionevolemente il fanno, perché spesse volte sono molestati per li tuoi agguati". Disse il diavolo: "Io non li molesto, ma ellino insieme si conturbano: io sono recato al neente, però che già in tutte le parti regna Cristo". Uno arcadore trovò santo Antonio rallegrarsi con i frati e dispiacquegli. Al quale disse il santo: "Poni lo strale in su l'arco e tira". E quelli il fece. E abbiendogli comandato due volte e tre che tirasse più forte, e quelli disse: "Tanto potrei tirare ch'io romperei l'arco". Disse Antonio: "Così è ne l'opera di Dio, però che se noi ci volessimo affaticare fuori di misura, tosto ci romperemo; convienci dunque alcuna volta allegerare l'asprezza". Quelli udendo questa ragione se n'andò edificato. Domandò Antonio alcuno e disse: "Che posso io guardare ch'io piaccia a Dio?" Al quale disse il santo: "Dovunque tu vai, sempre abbi Cristo dinanzi a li occhi tuoi, e in quelle cose che tu hai a fare aggiugnevi il testimonio de la santa Scrittura; in qualunque luogo tu sederai, non te ne partire tosto. Queste tre cose osservi e sarai salvo". Uno abate domandò Antonio e disse: "Che farò io a Dio ch'io sia salvo?" Rispuose Antonio: "Non ti confidare ne la tua giustizia, abbi la continenzia del ventre e de la lingua, e non ti pentere de le cose passate a bene". Disse anche Antonio: "Secondamente che i pesci s'elli stanno nel secco muoiono, così li monaci che stanno troppo fuori di cella, ovvero che dimorano con li secolari, sì si partono dal proponimento del riposo". Disse anche Antonio: "Colui che siede in solitudine e riposasi, da tre battaglie è liberato, cioè da l'udire e dal parlare e dal vedere, e contro una cosa solamente avrà battaglia, cioè quella del cuore". Alcuni frati con uno vecchio vennero a vicitare Antonio. Disse Antonio a questi frati: "Buono compagno aveste ne la via questo vecchio". Poscia disse al vecchio: "Buoni compagni trovasti con teco abate?" E quelli disse: "Buoni gli trovai, ma il loro abituro non ha porta: Ché chiunque vi vuole entrare, entra ne la stalla e scioglie l'asino". Questo diceva elli, però che ciò ch'ellino avevano in cuore incontanente il dicevano con la lingua. Disse l'abate Antonio: "Sapere ci conviene che tre sono li movimenti corporali: l'uno si è de la natura, l'altro si è per riempimento di cibi, il terzo si è dal dimonio". Uno frate avea rinunziato al secolo, ma non pienamente, però che alcune cose si riserbava ancora. Al quale disse Antonio: "Va e compra de la carne". Quelli andò e comperò de la carne; ma, mentre ch'elli la ne recava, i cani lo stracciavano tutto quanto. Al quale disse Antonio: "Coloro che rinunziarono al secolo e vogliono avere le pecunie, così, combattuti, sono stracciati da le demonia". Antonio, essendo molto afflitto dal tedio ne l'ermo,disse: "Signore, io voglio essere salvo e non mi lasciano i pensieri miei". E, levandosi quindi, uscì fuori e vidde uno il quale sedeva e operava e poi se ne levava e poi stava in orazione. Ed era l'angelo di Dio, e disse a lui: "Fa tu così e sarai salvo". Una volta che i frati domandavano de lo stato de l'anime ad Antonio, la seguente notte una boce 'l chiamò e disse: "Levati e esci fuori e vedi". Ed ecco che vidde uno ch'era lungo e terribile e che levava il capo infino a le nuvole; il quale, con le mani distese, vietava alcuni che aveano penne e volevano volare al cielo, e altri che volavano liberamente e' non potea rattenere; e udìa grande allegrezza mischiata con molto dolore e intese, per se medesimo, che quello era il salvamento de l'anime, le quali il diavolo vietava di salire; il quale, mentre che ratteneva alcuni colpevoli, sì se n'allegrava, e del volamento de' santi, li quali rattenere non potea, sì se ne doleva. Una volta ch'elli operava con i frati riguardò nel cielo, e veggendo sopravvenire a la Chiesa un tristo avvenimento, gittossi dinanzi a Domenedio e pregollo che quello male rimovesse che dovea venire. E, domandandolo i frati sopra ciò, con lagrime e con singhiozzi, disse che male, lo quale non fu mai udito, sopravvenìa al mondo. "Io viddi, ciò disse, l'altare di Dio intorniato da moltitudine di giumenti, i quali con li calci ogni cosa tempestavano", "e, aggiunse, questo di grande turbamento sarà per ventura a la fede cattolica e gli uomini simiglianti a le giumente ruberanno i sacramenti di Cristo". E fu udita la boce del Signore che disse: "Sarà abbominato l'altare mio". Da indi a due anni uscirono fuori gli Ariani e spartirono l'unitade de la Chiesa e vituperarono il battesimo e le chiese e li altari e uccisero li Cristiani come le pecore. Uno duca de l'Egitto, il quale era Ariano e avea nome Ballachio, con ciò fosse cosa che molestasse sì la Chiesa di Dio che elli facea battere piuvicamente le vergini e li monaci ignudanati, Antonio gli mandò così scritto: "Io veggio l'ira di Dio venire sopra te; rimanti di perseguitare li cristiani, acciò che l'ira di Dio non ti pigli, la quale ti minaccia de la morte prossimana". Il disavventurato lesse la scrittura e risesene e, spurgandovisi dentro, gittolla in terra e, tormentando di molte battiture coloro che l'aveano portata, sì rimandò così a dire ad Antonio: "Imperciò che tu hai cotanta rangola de' monaci, a te perverrà la disciplina de la nostra asprezza". Ma dopo cinque dì cavalcando il cavallo suo mansuetissimo, il cavallo il morse e gittolne in terra, ed essendoli rose e lacerate le gambe, infra tre dì morìe. Con ciò fosse cosa che alcuni frati domandassero da Antonio parola di salute, elli disse: "Avete udito che Dio disse: Chi ti percuote ne l'una guancia, apparecchiagli l'altra?" Coloro dissero: "Non lo possiamo fare". E elli disse: "Almeno de l'una sostieni pazientemente". E coloro dissero: "Né questo non possiamo fare". A i quali disse Antonio: "Almeno non vogliate più percuotere che essere percossi". E coloro dissero: "Né questo anche noi non possiamo fare". Allora Antonio disse al discepolo suo: "Apparecchia le sacca a questi frati che troppo sono delicati, e sola l'orazione è necessaria a voi". Queste cose si leggono in Vita Patri. A la perfine Antonio ne li CV anni de la vita sua lasciando li frati, si riposò in pace intorno a gli anni CCCXL.
cap. 22, S. FabianoFabiano fue cittadino di Roma e, morto il Papa, si ragunò insieme il popolo per chiamare l'altro, e Fabiano si venne tra loro volendo sapere la fine del fatto. Ed ecco una colomba bianca discese sopra il capo suo, de la qualcosa, meravigliandosi tutti, fu chiamato Papa da loro. Costui, sì come dice Damasio Papa, puose sette diaconi per tutte le contrade, e aggiunse a questi sette suddiaconi, i quali raccolsero i fatti de' martiri da ogni parte. Costui, come dice Dassuo, contrastette a Filippo imperatore, vogliente essere a la Pasqua e a le vigilie e comunicare a li santi misteri, né non lui lasciò stare infino che confessasse li peccati e stesse tra penitenti. A la perfine ne l'anno tredecimo del suo papato per comandamento di Decio gli fu tagliato il capo, e così fu coronato del martirio.
cap. 23, S. SebastianoSebastiano, uomo cristianissimo di schiatta Nerbonese, cittadino di Melano, a Diocliziano e a Massimiano imperadori era tanto caro che gli davano il principato de la prima schiera, e sempre comandavano che stesse dinanzi da loro. Questi portava il mantello cavalleresco, acciò solamente ched elli confortasse l'anime de' cristiani, le quali vedea venire meno ne li tormenti. E dovendo essere dicollati i gentilissimi uomini Marcelliano e Marco, fratelli binati, per la fede di Cristo, vegnono i parenti a loro per ritrarre gli animi loro del suo proponimento. Venne adunque prima la madre e, tutta scapigliata e stracciata le vestimenta, mostrando le poppe,diceva: "Oi, tra ' dolcissimi figliuoli miei attorneata m'ha la miseria che mai non fu udita, e 'l pianto da non potere sostenere! Guai a me misera, che perdo i figliuoli miei che vanno oltre a la morte; i quali, se li nimici gli mi togliessero, io tornerei dietro a i rubatori per lo mezzo de le battaglie; se giudici sforzati li chiudessero, io romperei la pregione se io dovessi morire. Non veggio il modo è questo di perire, ché 'l giustiziere è pregato che per arrota; la vita è desiderata che perisca, la morte è invitata che vegna. Novello pianto è questo, novella miseria ne la quale la gioventudine de' figlioli si perde di volontà, e la miserabile vecchitudine del padre e de la madre è constretta di vivere". Dicendo questo la madre, eccoci venire il padre, uomo massaio, portato fra le braccia de' servigiali e con la cenere in capo mandava cotali boci al cielo: "Da i figliuoli miei che vanno spontaneamente a la morte mi sono venuto ad accomiatare acciò che quello ch'io avea apparecchiato a la mia sepoltura, io disavventurato, spenda a soppellire li miei figliuoli. O figliuoli miei! bastone de la mia vecchiezza e doppio lume de le mie interiora, perché amate voi così la morte? Venite qua, giovani, e piagnete sopra i giovani che di volontà periscono, venite qua vecchi e piagnete con esso meco sopra i figliuoli! Vegnano qua i padri, e vietino che noi non patiamo tali cose! Venite meno piangendo, occhi miei, perch'io non veggia uccidere a ghiado i figliuoli miei!" Dicendo queste cose il padre, vegnono le mogli recando i propri figliuoli dinanzi a costoro e, traendo guai, gridavano e dicevano: "A cui ci lascerete voi? chi saranno signori di questi fanciulli? chi dividerà le vostre larghe possessioni? Oimè, come avete petti di ferro, che voi spezzate li vostri parenti e rifiutate gli amici e cacciate le mogli e spartite da voi i figliuoli e, per spontanea volontade, vi mettete ne le mani de' giustizieri!" In questo cominciarono a mollare i cuori de li uomini. Allora Sebastiano, il quale sempre era presente, uscì di mezzo e disse: "O fortissimi cavalieri di Cristo, non vogliate per le cattive lusinghe perdere la corona sempiternale". E a i parenti sì disse: "Non abbiate temenza; non si partiranno da voi, ma vannovi ad apparecchiare le magioni istellate; ché, dal principio del mondo, questa vita hae ingannato coloro che credono in essa, viene meno a coloro che l'aspettono e fassi beffe di coloro che vi pongono la speranza; e così, al postutto, neuno ne rende certo sì che a tutti è provata d'avere mentito. Questa vita ammonisce il ladro de lo 'mbolare, l'iracondo de lo 'ncrudelire, il giudice de lo 'ngannare. Ella è quella che comanda le battaglie, consiglia de le fellonie, conforta de la ingiustizia; ma questa persecuzione, che noi sostegnamo, è oggi calda e domane raffredda, ad una ora è messa fuori e ad un'ora è messa dentro; ma 'l dolore sezzaio si rinnovella per incrudelire, accrescesi per ardere, infiammasi per punire. Adunque ne l'amore del martirio già accendiamo li nostri affetti, però che ivi crede il diavolo vincere e elli perde; il quale quando prende, è preso; quando tiene, è tenuto; quando vince, è vinto; quando tormenta, è tormentato; quando uccide, è morto; quando fa assalto, è schernito". Predicando il beato sebastiano queste cose e altre simigliante, Zoe la moglie di Nicostrato, ne la cui casa i santi erano a guardia, la quale avea perduta la favella, li si gittò a' piedi e con cenni domandava perdonanza. Allora Sebastiano disse: "Se io sono servo di Cristo, e se vere sono tutte quelle cose che questa femmina ha udite de la bocca mia e credutole, quelli apra la bocca sua, il quale aperse la bocca di Zaccheria profeta". A questa boce gridòe la femmina, e disse: "Benedetto sia il sermone ch'è uscito de la bocca tua, e benedetti sono quelli che credono a tutto quello che tu hai parlato; però ch'io vidi l'angelo che tenea il libro dinanzi a te, dov'erano scritte tutte queste cose che tu hai dette". E 'l marito suo, udendo ciò, sì si gittò a i piedi di santo Bastiano, domandando che li fosse perdonato, e immantanente, prosciogliendo li mariti, sì li pregava che andassero liberamente là dove piacesse loro. I quali dissero che per veruno modo non abbandonerebbero la battaglia e la vittoria che avevano incominciata. Sì che tanta grazia e tanta virtude diede Iddio a le parole di san Sebastiano, che non solamente Marcellino e Marco fortificò ne la fermezza del martirio, ma eziandio il padre loro c'avea nome Tranquillino, e la madre con molti altri convertìo a la fede, i quali tutti battezzò Policarpo prete. E Tranquillino avendo una grandissima infermitade, sì tosto come fu battezzato, ricevette sanitade. E 'l perfetto da Roma, lo quale avea gravissima infermitade, pregòe Tranquillino che gli mandasse colui che gli avea donato sanitade. Ed essendo venuto a lui con Tranquillino e con Policarpo prete, sì li pregò che li rendessero sanitade. Disse a lui Sebastiano che prima rinnegasse l'idoli e desselli la podestà di spezzarli, e in questo modo riceverebbe sanitade. E dicendo a lui Cromazio perfetto che i servi suoi lo farebbono e non elli, disse Sebastiano che coloro temerebbero di spezzare li dei loro; e se il diavolo per questa cagione glien'offendesse, direbbero gl'infedeli che per ciò fossero stati offesi perch'ellino spezzavano li dei loro. E così Policarpo e Sebastiano cinti disopra più di CC idoli spezzarono. Dopo questo dissero a Cromazio perfetto: "Perché noi abbiamo spezzati gl'idoli, tu dovevi ricevere santade; adunque certa cosa è che, o tu non hai cacciato da te ancora la infedelitade, o tu hai riserbato alcuni idoli". Allora disse il perfetto ch'egli avea una camera ne la quale era tutta la disciplina de le stelle; per la qual cosa il padre suo avea speso più di CC pesi d'oro; per lo quale lavorìo vedea dinanzi ciò ch'era avvenire. Al quale disse Sebastiano: "Mentre che questo starà intero, non sarai sano". E consentendo quelli a ciò, il figliuolo suo Tiburzio, gentile giovane, sì disse: "Io non sosterrò che questa opera così maravigliosa si disfaccia, ma acciò ch'io non mostri d'essere contrario a la santade del mio padre, accendansi due forni acciò che se distrutta l'opera, il padre mio non sarà sanato amendue v'ardiate entro così vivi". Al quale disse Sebastiano: "Così sia, come tu hai detto". Sì che mentre che quell'opera si spezzava, l'angelo apparve al perfetto ed annunziolli che la santade gli era renduta da messere Jesù Cristo. Immantanente fatto sano corse dopo lui per baciarli i piedi, ma egli gliene dinegò che non voleva, però che non era ancora battezzato; sì che elli e Tiburzio, suo figliuolo e MCCCC de la loro famiglia furono battezzati. Ma Zoe presa da' pagani e lungamente tormentata, mandò l'anima a Dio. La quale cosa, udendo Tranquillino, sì disse: "Le femmine vanno a noi innanzi a la corona, o perché viviamo?" Ma elli da pochi dì fu lapidato. E a santo Tiburzio fu comandato ched elli desse incenso a li dei, sopra la brascia che vi fu recata, od elli andasse a piedi ignudi sopra la detta brascia. Il quale, faccendosi il segno de la santa Croce, con grande costanzia andòe sopra esso fuoco con li piedi ignudi e scalzi, così dicendo: "A me pare andare sopra fiori di rose nel nome del Signore Jesù Cristo". Al quale disse Fabiano prefetto: "Chi è quelli che non sappia che Cristo v'ha insegnata l'arte del dimonio?" Al quale disse Tiburzio: "Sta queto, malaugurato, che tu non se' degno di ricordare così santo nome e così dolce". Allora il perfetto adirato comandò che gli fosse tagliata la testa; ma Marcelliano e Marco furono confitti ad uno legno e, essendovi confitti, psalmeggiando dicevano: "Ecco com'è buona e gioconda cosa abitare i fratelli in unitade!" A i quali disse il perfetto: "Malventurati, ponete giù la scipidezza vostra e liberate voi medesimi". Al quale dissero coloro: "Unquemai non stemmo in migliore convito. Dio il voglia che tu ci lasci tanto stare così quanto noi saremo vestiti di questo corpo". Allora il perfetto comandò che con le lance fossero forate le loro corpora, e così finirono il loro martirio. Dopo queste cose il perfetto mandò a dire a Diocleziano imperatore 'l fatto di Sebastiano; ed elli, chiamandolo a sé, sì disse: "Io t'ho tenuto sempre tra i maggiorenti del palazzo mio, e tu se' stato celato contra la salute mia e contra la ingiuria de li dei". Al quale disse Sebastiano: "Per la salute tua abbo sempre adorato Cristo e per lo stato de lo 'mperio romano abbo sempre fatto onore a Dio il quale è in cielo". Allora Diocleziano comandò ched e' fosse legato nel mezzo del campo e fosse saettato da' cavalieri; i quali lo 'mpierono di saette che parea pure un riccio. E pensando che fosse morto sì si partirono. Il quale, infra pochi dì liberato, stando sopra le gradora del palagio, quando gl'imperadori venìano, sì li riprese duramente de' mali che faceano a' cristiani. E disse lo 'mperadore: "Or non è questi Sebastiano, lo quale noi avavamo comandato che fosse morto di saette?" Ed elli disse: "Acciò m'ha voluto il Signore risuscitare, perch'io vi richeggia e riprenda de' mali che voi fate a' servi di Cristo". Allora lo 'mperadore lo fece tanto battere che l'anima si partì dal corpo, e fece gittare il corpo suo nel luogo di fetore, acciò che non fosse coltivato per domenedio da li cristiani. Ma la notte vegnente apparve san Bastiano a santa Lucia e revelolle il corpo suo e comandolle che lo seppellisse a lato a le vestigia de li apostoli; e così fu. E fu martirizzato d'intorno a gli anni Domini CLXXXVII. Racconta santo Gregorio nel primo libro del Dialogo, che una femmina in Toscana, novellamente maritata, essendo invitata da l'altre femmine d'andare a sagra de la chiesa di santo Bastiano, in quella notte ne la quale l'altro dì doveva andare, stimolata dal diletto carnale, non si poté astenere dal marito suo. Sì che fatta la mattina, avvegna che avesse più vergogna del viso de gli uomini che di Dio, sì pure andòe là. E sì tosto come fue entrata ne l'oratorio, là dove erano le relique di santo Sebastiano, il diavolo la prese e cominciolla a tormentare. Allora il prete di quella chiesa tolse il panno de l'altare e, abbiendola coperta con esso, il diavolo assalìe il detto prete. Sì che gli amici di colei sì la menarono a li 'ncantatori, perché cacciassero da lei il dimonio con le loro incantagioni. E comunque e' la 'ncantavano, per giudicio di Dio entròe in lei una legione di demoni, ciò sono se' milia secento sessantasei, e cominciaronla a tormentare più agramente. Ma uno uomo che avea nome Fortunato, molto famoso di santitade, sì la sanòe con li suoi prieghi. Leggesi ne i fatti de' Longobardi che al tempo del re Gumberto tutta Italia fu percossa di tanta pistilenzia di mortalitade, che appena potea sotterrare l'uno l'altro; e questa pestilenzia massimamente era a Roma e a Pavia. Allora apparve visibilemente uno buono agnolo, e 'l malo agnolo gli tenea dietro; lo quale, al comandamento del buono, percotéa gli uomini; e quante volte percotéa l'uscio d'alcuna casa, tanti morti se ne traevano fuori. Allora fu revelato da Dio ad uno che questa pistilenzia non rimarrebbe infino a tanto che uno altare non fosse fatto a Pavia ad onore di santo Sebastiano. Il quale fu fatto ne la Chiesa di san Piero che si dice ad Vincola. E fatto ciò, tosto rimase quella turbazione, e furono portate là le reliquie di santo Sebastiano. Santo Ambrogio ne la Prefazione dice così: "Lo venerabile sangue del beato martire Sebastiano sparto per la confessione del nome tuo, Signore, insieme manifesta le tue maraviglie che tu adoperi in sanare le infermitadi, e a li vostri studi dona prode e a li nemici, appo te, presta il suo adiuto a coloro che l'hanno a devozione.
cap. 24, S. AgneseAgnesa, vergine savissima, sì come testimonia Ambrogio il quale scrisse la sua passione, nel tredicesimo anno de la sua etade perdette la morte e trovò lo vita; imperò che solamente il fattore de la vita amòe. La fanciullezza era compitata ne li anni, ma ella era vecchia ne la mente; del corpo era giovencella, ma de l'animo era canuta; bella de la faccia, ma più de la fede. Tornando lei da la scuola, fu invaghito di lei il figliolo del perfetto di Roma; a la quale egli promisse molte gemme e ricchezze senza novero sed ella non disdicesse di consentire al suo maritaggio. Al quale Agnesa rispose: "Partiti da me, nutricamento di morte, per ciò che d'altro amatore fu' io prima di te presa". Allora cominciò a lodare quello suo amatore e sposo di cinque cose, le quali le spose richeggiono spezialmente ne li sposi; cioè da gentilezza di sangue, da ornamento di bellezza, da abbondanza di ricchezze, da fortezza da effetto, da potenzia e da eccelenzia d'amore; onde dice: "Amo uno il quale è assai di migliore schiatta e di maggiore degnitade, la cui madre è vergine, il cui padre non cognobbe mai femmina, al quale servono gli angeli, de la cui bellezza il sole e la luna si maravigliano, le cui ricchezze non mancano giammai, né non possono scemare, per lo cui odore riviviscono li morti, per lo cui toccamento si confortano gl'infermi, lo cui amore è la castitade, lo cui toccamento è santitade, la cui unione è virginitade". Onde queste cinque cose pone santo Ambrogio in una autoritade, e dice così: "La sua gentilezza è più alta, la possanza più forte, lo risguardo più bello, l'amore più soave e più piacevole d'ogni grazia". Da poi pone cinque beneficii, li quali lo sposo le fece e fa a l'altre sue spose, ciò sono che le innarra con lo anello de la fede, adornale di molte maniere di virtudi, ségnale col segno de la sua passione, congiugnele a sé col legame d'amore e arricchiscele di tesori de la celestiale gloria. Onde dice così: "Il quale m'ha innarrata con l'anello de la fede sua la mia mano diritta, e 'l collo mio ha cinto da pietre preziose; hammi vestita, il Signore, la gonna de l'auro tessuta e hammi adornata di smisurate fibbiature, e posto segnale ne la faccia mia acciò ch'io non prenda neuno amadore fuori che lui, e 'l sangue suo hae adornate le guance mie. Già sono strettami con lui d'abbracciamenti casti, già è il corpo suo accompagnato col mio; hammi mostrati tesori sanza comperazione, i quali m'ha ripromessi di donare se io perseverrabbo in lui". Udendo queste cose il matto giovane gittossi in sul letto e fu mostrato da li medici ch'elli avea male d'amore. E con ciò fosse cosa che 'l padre del giovane ripetesse le sopraddette parole a la vergine e ella pure affermasse di non potere rompere li patti del primo sposo, cominciò il prefetto a fare inquisizione chi fosse quello sposo de la cui potenzia Agnesa si vantava cotanto. Sì che dicendoli alcuno ched ella dice di Cristo ch'era suo sposo, il perfetto chiamandola a sé prima la tentòe con lusinghevoli parole, poi con paura. Al quale disse Agnesa: "Ciò che tu vogli sì fa, però che quello che tu domandi tu non potrai accivire". A la quale disse il perfetto: "De le due cose prendi l'una: o tu ti metti a sacrificare con le vergini a la dea Vesta, o tu sarai vituperata con le meretrici". Al quale ella disse: "Non farò sacrificio a li tuoi iddei, né non mi sozzerò de l'altrui sozzure, però ch'io abbo meco lo guardiano del corpo mio, l'angelo del Signore". Allora il prefetto comandò ch'ella sia spogliata e, così ignuda, fosse menata al mal luogo. Ma tanto spesseggiamento donò Iddio a li suoi capelli che meglio la coprivano i capelli che le vestimenta. Ed essendo entrata nel luogo di sozzura, sì vi si trovòe l'angelo del Signore apparecchiato, lo quale l'attorneò di molta chiaritade e apparecchiolle uno vestimento bianchissimo. Sì che il figliuolo del prefetto venne con altri giovani uomini al mal luogo, e invitòe li compagni che entrassono prima a lei. Ma il luogo detto era già fatto luogo d'orazione, ché quelli che vi entrava immondo, sì ne usciva mondo, se egli rendea onore al grande lume. I quali compagni entrati là entro, per lo miracolo spaventati, ebbero contenzione e tornarono adrieto; e quegli, chiamandoli cattivi, entrò a lei com'un pazzo e, volendola toccare, gittossi in quello lume, il quale, non n'abbiendo dato onore a Dio, fu affogato dal diavolo, e morìo. E 'l perfetto, udendo ciò, venne là con grande pianto, e domanda diligentemente de la cagione de la morte del suo figliuolo. Al quale disse Agnesa: "Colui la cui volontade volea compiere, prese podestade sopra di lui e diedeli la morte che tu vedi". A la quale disse il perfetto: "Perché ne sono campati tutti gli altri che ci sono entrati?" Ed ella rispuose: "Perché veggendo il miracolo, spaventati, ne ritornarono sanza danno". A la quale disse il perfetto: "In ciò si parrà che tu non l'hai fatto per arte di demonio se tu il risuciterai". Sì che stando in orazione Agnesa, il giovane fu risucitato, e Cristo fu predicato da lui manifestamente. A queste cose si mossero i pontefici de' tempi e, levando il popolo a romore, sì gridarono: "Tolli la 'ncantatrice, tolli la 'ndovina, la quale muta le menti e cambia le volontadi". Il perfetto, veggendo cotanto miracolo, sì la volse liberare, ma temette d'essere morto dal popolo; lasciò uno vicario e partissi molto tristo, perché non la potette liberare. Allora il vicario, che avea nome Aspasio, comandò ch'ella fosse gittata in un grande fuoco: ma la fiamma si divise in due parti e ardea di qua e di là il popolo indemoniato, ma ella per nulla toccava. Allora Aspasio comandò che le fosse dato d'uno coltello per la gola; e così Cristo, sposo bianco e vermiglio, consacròe a sé costei per sposa e per martire vergine. E seppellendo il corpo di lei li cristiani e li parenti suoi, appena camparolo de le mani de' pagani che gittavano loro le pietre. Emerenziana, la quale avea presa insieme latte con lei, vergine santissima, avvegna che non avesse ancora avuto il battesimo, stando appresso del sepolcro di santa Agnesa e riprendendo con grande costanzia li pagani, ella fue allapidata da loro. Immantanente vennero tremuoti e baleni e saette folgori, e molti de' pagani morirono de le saette; sì che vegnendo al sepolcro de la vergine non fossero da indi innanzi arditi fare simiglianti cose. E 'l corpo di Emerenziana fu posto a lato al corpo di santa Agnesa. E con ciò fosse cosa che i parenti vegghiassero otto dì appresso a la sepoltura, viddero il coro de le vergini splendienti di vestimenta d'oro, tra le quali viddero la beata Agnesa di simigliante vestimenta splendiente, e da la parte diritta le stava uno angelo più bianco che neve; lo quale disse loro: "Guardatevi che voi non mi piagnate come morta, ma rallegratevi con meco, però che io abbo ricevuto con tutti costoro le lucenti sedie". Per questa visione si fa la festa di santa Agnesa la seconda volta. Costanzia vergine, figliuola di Costantino, la quale era gravemente lebbrosa, avendo udita questa visione, venne a l'avello suo e, stando ivi in orazione, vide la beata Agnesa che le dicea così: "Opera con costanza, o Costanzia se tu crederai in Cristo, immantanente sarai liberata". La quale, svegliandosi a questa voce, trovossi perfettamente sanata e ricevette il battesimo e fece una chiesa sopra il corpo de la beata Agnesa. E, vivendo nel detto luogo, molte vergini ragunò per lo essemplo suo in quel luogo. Uno uomo ch'avea nome Paulino facea l'ufficio di pretatico ne la chiesa di santa Agnesa. A costui cominciò a venire una grande tentazione di carne, ma, non volendo offendere il Segnore, domandò licenzia al Papa di potere torre moglie. Sì che il Papa, considerando la purità e la semplicità di costui, sì li diede uno anello con ismeraldo e comandolli che a la bella imagine di beata Agnesa, la quale era dipinta ne la sua chiesa, da la sua parte gli si lasciasse disposare. E con ciò fosse cosa che 'l prete comandasse questa cosa a la imagine, immantanente quella porgendoli il dito anellare e ritraendolo a sé, poi ch'ella ebbe ricevuto l'anello, ogni tentazione cacciò da lui, e detto anello ancora, si dice, che appare nel suo dito. Di questa vergine parla così Ambruogio, nel libro de le Vergini: "Vegnano a laudare costei li vecchi, li giovani e li fanciulli, però che neuno può essere più lodevole che chi è lodato da tutti quanti i uomini sono, tanti sono lodatori che lodano la martire mentre che ne parlano. E maravigliandosi tutti che una fanciulla fosse testimonia de la deitade, la quale per la piccola etade non potea ancora essere di suo albitrio, ed ella fece che a sé fosse creduto di Dio, al quale non si credea ancora pur d'uomo, per ciò che quello ch'è più oltre che la natura, si è dal fattore de la natura. Certo novella maniera è questa di martirio: quella che non era ancora sofficente a sostenere pena, già era matura ad avere vittoria; la malagevole a combattere, agevole ad essere coronata; adempiéo il maesterio de la vertude quella che non era ancora acconcia a ricevere dottrina. Non andrebbe così maritata a la camera maritale allegramente, com'ella andò, vergine, per grado successivo al luogo del martirio.
cap. 25, S. VincenzoVincenzo, nobile di schiatta, ma più nobile di fede e di religione, sì fu diacano di santo Valerio vescovo. Costui, da fanciullo, fu messo a lo studio de la lettera, e così, provvedendo a lui la pietade, disopra di doppia scienzia molto efficacemente risplendette: ciò de la divina e de la umana; al quale il vescovo, per ciò che esso avea impedito la lingua, avea commesse le sue vicende, e elli soprastava ad orazioni e ne la contemplazione, sì che per comandamento di Daziano, preside, sono tirati infino a Valenza e messi in crudele pregione. E quando credeva che fossono già venuti meno di fame, sì li si fece venire dinanzi e, veggendoli sani ed allegri, fue molto adirato, e disse queste parole: "Che dici tu, Valerio, 'l quale sotto nome di religione fai contra i comandamenti de' prencipi?" E con ciò fosse cosa che Valerio avesse risposto lieve, Vincenzio disse a lui: "Non volere, padre venerabile, sommormorare quasi con la mente paurosa, ma con libera voce grida; e se tu, padre santo, comandi ch'io risponda, sì comincerò". Disse a lui il vescovo: "Da qui indrieto, figliuolo carissimo, t'avea commesso la sollecitudine e 'l provvedere del parlare, ora ti commetto anche a rispondere per la fede, per la quale noi siamo qui". Allora Vincenzio rivolto a Daziano sì disse: "La parola di qua dietro da te profferta richiese d'arringare la fede, ma sappi che maledetta cosa è a la prudenzia de' cristiani, rinnegando, bestemmiare il coltivamento de la deitade". Allora Daziano adirato comandò che 'l vescovo fosse mandato a' confini, e Vincenzo, sì come contumace e presuntuoso giovane, acciò che per lo suo essemplo si spaventassero gli altri, sì 'l fece stendere in su la colla, sì che tutte le membra gli si fiaccarono. E fiaccandosi tutto il corpo, disse a lui Daziano: "Dimmi, Vincenzio, dove vedi tu ora lo misero corpo tuo?" E quelli sorridendo, disse: "In alto sono levato, ché questo è quello ch'i' ho sempre desiderato e con tutti i desideri ho voluto. Neuno uomo m'è più a grado, neuno m'è più amabile di te, tu solo t'accordi a li miei desideri". Allora il preside adirato il cominciò a minacciare di tutte le maniere di tormenti sed elli non li acconsentisse. Al quale disse Vincenzio: "O beato a me, quanto tu mi ti credi adirare più gravemente incontra, allora mi cominci ad avere più misericordia. Leva su dunque, misero, e con tutto lo spirito de la malignità combatti. Tu mi vedrai, per la virtù di Dio, più potente quando io sarò tormentato che non puoi tu co' tormenti". Allora il preside il cominciò a gridare e gli giustizieri a batterlo con le verghe e co' bastoni. Disse Vincenzio: "Ecco, Daziano, che col tuo dire tu mi vendichi de' miei tormentatori". Allora il preside, fatto scialabordito, disse a li giustizieri: "Cattivissimi voi, non fate nulla? perché vengono meno le mani vostre? Voi avete potuti vincere li adulteri e li micidiali de' padri loro, che non potessono celare nulla tra ' tormenti che voi davate loro, ed ora solo costui potrà soperchiare li vostri tormenti?" Allora li giustizieri tolsono pettini di ferro e ficcarogliele insino dentro a le coste, sì che di tutto il corpo usciva il sangue; e, disciolte le giunture de le coste, apparìano le 'nteriora dentro al corpo. Disse Daziano: "Abbi misericordia di te, Vincenzio, acciò che tu possa ricoverare così bella gioventudine e schifare li tormenti che ancora ti fiano apparecchiati". Disse Vincenzio: "O velenosissima lingua del diavolo, li tuoi tormenti non temo, ma questa cosa sola temo molto, che tu t'infigni di volere avere misericordia di me. Ché quando io più di veggio adirato, di tanto più mi allegro. Non voglio che tu mi scemi de li tormenti acciò che tu ti confessi in tutto per vinto". E allora lo levarono de la colla e tirarollo al tormento del fuoco. Ed elli li riprendeva de lo 'ndugiare e allegramente andava a la pena. Sì che, salendo in su la graticola, iv'entro era arrostito, arso e divampato, e ne le sue membra confitti gli uncini del ferro. Sopra tutto questo spandeano il sale sopra il fuoco, acciò che, risaltando nel suo corpo da ogni parte piagato, stendendo la fiamma, più agramente ardesse. E gittavali i dardi non già a le membra, ma a le interiora, sì ch'elle discorreano fuori del suo corpo. Fra queste cose quelli sta pure fermo, e con gli occhi dirizzati in suso pregava il Signore. E con ciò fosse cosa che li ministri rapportassero queste cose a Daziano, Daziano disse: "Oimè, che noi siamo vinti! Or fate che voi lo mettiate in una carcere molto buia, ed ivi ragunate noccioli e gusci agutissimi, e legateli li piedi ad uno legno e, sanza neuno sollazzo d'uomo, così disteso il lasciate stare sopra i gusci". Ubbidiscono immantanente li crudeli ministri al crudele tiranno. Ma ecco che lo re, per lo quale il cavaliere patisce, sì commuta la pena in gloria; però che la tenebra de la pregione è scacciata de la grande luce e l'asprezza de li gusci si convertirono in soavitade di tutt' i fiori; li piedi furono disciolti e del sollazzo de li angeli gode il martire. E con ciò fosse cosa ch'elli andasse cantando con esso gli angeli sopra i fiori una dolcitudine di canto, e una maravigliosa soavitade d'odore si spande molto a la lunga. Le guardie, spaventate di ciò, avendo veduto quello che dentro era, guardando per le fessure de la carcere, furono convertiti a la fede. Vedendo queste cose, Daziano divenne tutto scialabordito, e disse: "Ora che gli faremo più oggimai? Ecco che siamo vinti! sia trasportato ad uno letto, e ripongasi in panni morbidi acciò che noi nol facciamo più glorioso, se per avventura elli venisse meno ne' tormenti; ma, riconfortato, sia punito con nuovi tormenti. Ed essendo dunque portato a uno letto più morbido, e riposatovi ivi un pochettino, tosto rendette l'anima a Dio d'intorno a li anni Domini CCLXXXVII. Abbiendo ciò udito, Daziano fortemente ne fu dolente e così, affermandosi vinto, disse: "S'io non l'ho potuto vincere vivo, almeno sì 'l punirò come morto". Fece dunque Daziano gittare il corpo suo a divorare nel campo a le bestie e a li uccelli. Ma tosto fu guernito de la guardia de gli angeli, e le bestie nol toccavano. A la perfine il corbo, dato a la ghiottornia, col battere de l'ale cacciò via gli altri uccelli maggiori di sé, e con i morsi e con le grida cacciò via il lupo che correa làe. Il quale corbo col capo chinato in agguardo del corpo, quasi come avesse il collo trafitto, stava fermo come se si maravigliasse de la guardia de li angeli. Udendo ciò Daziano sì disse: "Io mi credo ch'io nol potrò vincere morto". Comandò adunque che una grande macina gli fosse legata al corpo, e così fosse gittato nel pelago, acciò che quello che non potea essere consumato in terra da le bestie, almeno nel pelago fosse divorato da le fiere marine. Sì che li nocchieri, portando il corpo suo nel pelago, sì vi caddero entro con esso, ma più tosto venne a la riva il corpo che i nocchieri. Il quale corpo fu ritrovato da una donna e d'alcuni altri, sì come essi il revelòe, e fu seppellito da loro con grandissimo onore. Di questo martire dice così Agostino: "Il beato Vincenzio vinse ne le parole, vinse ne le pene, vinse ne la confessione, vinse ne la tribulazione, vinse arso, vinse attuffato, vinse nato, vinse morto". Quello medesimo: "Vincenzio è tormentato acciò che sia adoperato, è battuto acciò che sia ammaestrato, è martellato acciò che sia solidato, è arso acciò che sia purgato". Quello medesimo dice: "Dinanzi a gli occhi nostri c'è posta una cosa molto da maravigliare, il giudice malvagio, il tormentatore sanguinante, il martire non vinto, battaglia tra la crudelezza e la pietade". Ancora di lui dice così Ambruogio nel prefazio: "È tormentato, martellato, battuto, arso, ma l'animo non vinto, non si crolla per lo santo nome, più ardente del fuoco di cielo che del fuoco di ninferno, più è legato del timore di Dio che del secolo, più volle piacere a Dio che a la corte, più amòe di morire al mondo che a Dio". E Prudenzio che risplendette al tempo di Teodosio il vecchio, ne gli anni Domini CCCLXXXVII dice che gli rispuose in questo modo: "Li tormenti, la carcere, li unghiali e la piastra stridente di fiamme e essa morte, fine di tutte le pene, è come uno giuoco a' cristiani". Allora Daziano vinto, sì disse: "Ritorto de le braccia in su e in giù sì lo scendete tanto che le congiunture de l'ossa divella a vembro a vembro, crepaccio che, per le lagrime de le fedite, il fegato ritorto palpiti". Schernìa queste cose il cavaliere di Dio, riprendendo le mani sanguinenti che l'unghiale fitto non entrasse ne le membra più profondamente. Essendo ne la pregione venne l'angelo a lui, e disse: "Leva su, martire glorioso, leva su sicuro di te, leva su e sia compagno nostro a le sante compagnie. O cavaliere vittoriosissimo, più forte di tutt'i fortissimi, già hanno paura di te vincitore i crudeli e aspri tormenti!". Grida qui Prudenzio e dice: "Tu solo glorioso, dal mondo, solo, n'hai rapportata vittoria di doppio palio, tu apparecchiasti a una ora due corone".
cap. 26, S. BasilioBasilio, venerabile vescovo e dottore speziale, di quanta santitade e' fosse fu mostrato in visione a uno santo romito che ebbe nome Effrem. Ché, essendo il detto Effrem ratto in estasi, vidde una colonna di fuoco lo cui capo toccava il cielo, e udì una voce disopra che disse: "Cotale è il grande Basilio chente questa colonna del fuoco che tu vedi". Vegnendo dunque ne la cittade il die di Befania per potere vedere così perfetto uomo, abbiendolo veduto vestito d'un camiciotto bianchissimo e attorniato venerabilmente da cherici di qua e di là, disse fra se stesso: "Io veggio ch'io mi sono affaticato invano; ché, essendo costui posto in cotanto onore, non può essere cotale chente io il viddi. Ché noi, che portiamo il peso del dì e del grande calore, niuna cotale cosa possiamo asseguire, e questi ch'è posto in cotale onore e in cotale torneo ched e' sia colonna di fuoco molto me ne maraviglio". Ma Basilio, veggendo ciò per ispirito, sì lo fece menare dentro a sé; il quale, essendo venuto, vidde una lingua di fuoco parlare per la bocca sua, e disse Effrem: "Veramente è grande Basilio, veramente ancora è colonna di fuoco, veramente lo Spirito Santo parla per la bocca sua". E disse a lui Effrem: "Io ti priego, messere, che tu m'accatti ch'io parli grecesco". Al quale disse Basilio: "Cosa malagevole hai domandata". Ma pure fece priego per lui e immantanente parlò grecesco. Un altro romito, veggendo Basilio andare in abito vescovile, sì lo spregiò giudicandolo che elli si dilettasse in cotale pompa. Ed eccoti venire una voce la quale li disse: "Tu ti diletti più di toccare la coda del gatto tuo, che non fa Basilio il suo adornamento". Valente imperadore, aitatore de li ariani, tolse una chiesa a i cattolici e diedela a gli ariani. A la quale andando Basilio, sì disse: "O imperadore, egli è scritto: l'onore del re ama giudicio; e anche: il giudicio del re è giustizia; perché dunque hai comandato che i cattolici fossero cacciati de la chiesa e fosse data a gli ariani?" Al quale disse lo 'mperadore: "Ancora torni tu a le ingiurie, o Basilio; non si conviene a te". E quegli disse: "A me si conviene eziandio per la giustizia morire". Allora Demostenes, preposto de le vivande de l'imperadore, favoreggiatore de li ariani, parlando per loro fece uno barbarismo; al quale disse Basilio: "A te si confà di pensare de le imbandigioni del re, non del cuocere le dottrine divine". Il quale incontanente si vergognòe e stettesi cheto. Allora lo 'mperadore disse al vescovo: "Va, giudica tra loro, ma non secondo stemperato amore di popolo". Andò dunque Basilio e, chiamate le parti, disse loro: "Siano serrate le reggi de la chiesa e suggellate de' suggelli di catuna parte, e da ciascuna parte sia fatta l'orazione; e a le cui orazioni le porti de la chiesa s'apriranno, di coloro debbia essere". La qualcosa piacque a tutti. E orando gli ariani tre dì e tre notti e vegnendo a le porti de la chiesa, non s'aperse loro. Allora Basilio ordinò la processione e venne a la chiesa e, fatta l'orazione, con leggere percossa del bastone pastorale, toccòe le regge dicendo: "Levate, principi, le porti vostre" con tutto il verso. E immantanente furono aperte e, entrando dentro, renderono grazie a Dio; e così fu renduta la chiesa a' cattolici. E fece promettere lo imperadore molte cose a Basilio sed elli li consentisse, come si legge ne la Storia Tripertita. Al quale disse Basilio: "A i fanciulli si convengono dire queste cose, ché coloro che sono grassi de le parole divine non patiscono una sillaba si corrompa de la scrittura divina". Allora lo 'mperadore indegnato, come nel detto luogo si legge, volendo scrivere la sentenzia del suo sbandeggiamento, gli si ruppe la penna e poi la seconda e poi la terza; poscia gli venne un triemito ne le mani, onde elli adirato stracciò la carta. Un venerabile uomo, che avea nome Eradio, aveva una sola figliuola, la quale si ponea in cuore di conservarla a Dio; ma il diavolo, nemico de l'umana natura e generazione, accorgendosi di ciò, sì n'ebbe invidia sì che fece accendere in amore de la fanciulla uno de' fanti del detto Eradio. Ma, veggendo che gli era impossibile che così vile uomo venisse in abbracciamenti de la donna sua, vennesene ad uno incantatore e promissegli molta pecunia se egli il n'aiutasse. Al quale egli disse: "Io nol posso fare, ma, se tu vuogli, io ti mando al mio signore diavolo, e se tu farai quello ched elli ti diràe, tu avrai lo 'ntendimento tuo". E 'l giovane disse: "Ciò che tu mi dirai, sì farabbo". Allora lo 'ncantatore fece una pistola e mandolla per lo detto giovane al diavolo in queste parole: "Imperò, signore mio, che a me conviene sollecitamente e affrettatamente ritrarre gli uomini da la religione de' cristiani e recarli a la tua volontade, acciò che cresca continuamente la parte tua, però ti mando questo giovane preso d'amore in cotale pulcella, e adomandoti che questi asseguisca il suo desiderio, acciò ch'io mi possa gloriare in lui e, da quinci innanzi, ti possa più fedelmente raunare de gli altri". E, dando la lettera al giovane, disse così: "Va, e a cotale stagione de la notte sta sopra il monimento del pagano e, iveritto, chiama le demonia e questa carta poni ad alti ne l'aere, e incontanente ti verranno presenti". Il quale andò e chiamòe le demonia e gittava la carta in aere. Ed eccoti venire il prencipe de le tenebre, accerchiato di moltitudine di demoni. Il quale, abbiendo letta la pistola, disse al giovane: "Credi tu in me, ch'io compia la mia volontade? "Il quale disse: "Credo, messere". Disse il diavolo: "Rinnieghi il Cristo tuo?" E quelli disse: "Sì, rinnego". Disse il diavolo: "Voi cristiani siete malagente, ché, quando voi avete bisogno di me, voi venite a me, ma sì tosto come voi avete quello che voi volete, allora mi rinnegate e ritornate al vostro Cristo, ed elli, perch'egli è pietoso, sì vi riceve. Se tu vuogli dunque ch'io compia la tua volontade, fammi una scritta di tua mano, ne la quale tu confessi che tu rinunzi a Cristo e al battesimo e a la cristiana professione, e che tu sia mio schiavo e da essere condannato, con esso meco, al giudicio". Il quale, abbiendo fatta la scritta con la sua propia mano, il diavolo mandò immantanente li spiriti ch'erano sopra la fornicazione, comandando loro che infiammassero quella fanciulla ne lo amore del giovane. I quali andarono e accesero sì il cuore di lei, che la fanciulla, quasi morendo, si gittò in terra e, con grandi lamenti, diceva al padre: "Abbi misericordia di me, padre mio, abbi misericordia di me, però che crudelmente sono tormentata per amore di cotale nostro fante. Abbi misericordia de la carne e de la sangue tua, e mostrami, padre, il paternale affetto, e congiugnimi al garzone per lo quale io mi do tormento, e se non, di qui a poco, mi vedrai morta e de la mia morte renderai ragione al die del giudicio". Il padre suo piagnendo, sì dicea: "Guai a me misero, or che è avvenuto a la mia misera figliuola? chi ha furato il mio tesoro? chi ha spenta la luce de gli occhi miei? Io ti voleva congiugnere al celestiale sposo e pensava di salvarmi per te, e tu se 'mpazzata in amore di lascivia! Lasciami fare, figliuola, che io ti congiunga come i' ho ordinato a Cristo; e non menare la vecchiezza mia con dolore a lo 'nferno". Ma quella pure gridava e diceva: "Padre mio, o tu compi tosto il desiderio mio, o tu mi vederai avaccio morta". Con ciò dunque fosse cosa che quella amarissimamente piagnesse e quasi impazzasse, il padre suo, posto in grande afflizione e avutone consiglio con gli amici, compiette la sua volontade e diedela per moglie a quello fante e diedegli tutto il suo e disse: "Va, figliuola veramente misera!" E standosi costoro così insieme, quel giovane non entrava in chiesa, né non si faceva il segno de la Croce e non si raccomandava a Dio. Ed essendosene accorte più persone, fue detto a la moglie sua: "Non sai tu che 'l marito tuo che tu ti scegliesti non è cristiano, né entra in chiesa?" Quella, udendo ciò, cominciò a piagnere fortemente temendo e gittossi in terra, e tutta quanta si cominciò a graffiare con l'unghie e a percuotere il petto suo, e dicea: "Oimè, misera, perché ci nacqui io, perché non fu' io morta, com'io fui nata?" E con ciò dunque fosse cosa che ella avesse raccontato al marito quello ch'ella avea udito, e elli affermasse che non era vero, ma al postutto era falso quello ch'ell'avea udito, e quella disse: "Se tu vuogli ch'io ti creda, domattina entriamo insieme ne la chiesa". Veggendo dunque colui che non si poteva nascondere, contolle per ordine tutto il fatto. Quando ella l'ebbe udito, fortemente lagrimòe, e andosene a san Basilio, e narrogli tutte le cose che erano intervenute al marito suo. Il santo mandò per lui, e sì gli disse: "Figliuolo mio, vuo' tu tornare a Dio?" E quelli disse: "Sì, Messere, ma non posso perch'io ho fatto promessione al diavolo e abbo rinunziato a Cristo e del rinnegamento è fatta scritta e datola al diavolo". Al quale disse Basilio: "Non te ne caglia: Dio nostro è benigno e riceveratti a penitenzia". E prendendo incontanente quel giovane, sì li fece il segno de la Croce ne la fronte, e rinchiuselo per tre dì; poscia lo vicitòe e dissegli: "Come stai figliuolo?" E que' disse: "In grande turbazione sono, messere; non posso sofferire le grida loro, le paure, le lapidature, però che tengono la scritta in mano, pratiscono contra di me, e dicono: "Tu venisti a noi, non noi a te". Disse il santo: "Non n'avere temenza, figliuolo, ma pure credi bene". E dandogli poco cibo e faccendogli anche il segno de la Croce, e sì lo rinchiuse un'altra volta e pregò per lui. E dopo alquanti dì, sì 'l vicitò e disseli: "Come stai figliuolo?" Quelli disse: "Padre, io odo da la lunga le minacce e le grida loro, ma loro non veggio". Ancora gli diede anche cibo e segnollo e chiuse l'uscio e pregò per lui. E in capo di XL dì tornò a lui, e disse: "Come stai?" E quelli disse: "Bene, santo di Dio, però ch'io ti vidi oggi in visione combattere per me e soperchiare il diavolo". Allora, traendolne fuori, fece chiamare tutto il chericato e li religiosi e 'l popolo e tutti gli ammonette che pregassero per lui e, tenendo la mano del giovane, sì 'l menarono a la chiesa; ed eccoti il diavolo con moltitudine di demoni venne a lui, e prendendolo visibilemente, sì si sforzavano d'arrappargliele di mano, e gridando il giovane: "Santo di Dio, aiutami!" e con tanta violenza l'assalette il diavolo che, trandolo a sé il garzone, sì pigneva il santo. Allora il santo disse a lui: "Sanza prodezza neuna, non ti basta elli la perdizione tua, se tu non tenti la criatura di Dio". Al quale il diavolo disse, udendolo molti: "Tu mi fai ingiuria, o Basilio". Allora gridarono tutti: "Kirie eleyson!" E disse a lui Basilio: "Riprendati il Signore, o diavolo!" E quelli disse: "Tu mi fai ingiuria, o Basilio, però che io non andai a lui, ma elli venne a me, rinnegòe Cristo e fecemi professione; ed ecco la scritta che l'abbo in mano". Disse il santo: "Noi non resteremo d'orare insino a tanto che tu ci renda la scritta". E stando in orazione Basilio e tenendo le mani a cielo, ed ecco la carta recata giù per l'aere, e fu veduta da tutti venire ne le mani di Basilio. La quale egli ricevendo disse al garzone: "Conosci tu queste lettere?" Quelli disse: "Sì conosco, messere, ché la scrissi di mia mano". Sì che, rompendo Basilio la carta, menòe il garzone ne la chiesa e fecelo degno del santo misterio e, ammaestrando lui, e dandogli regola, e' sì lo rendette a la moglie. Una femmina che aveva molti peccati, scrivendoli tutti in carta, ne la fine non ne scrisse uno più grave; e quella scritta diede a santo Basilio pregandolo che orasse per lei e che per le sue orazioni struggesse quelli peccati. Il quale quando ebbe orato, la femmina aperse la carta e trovò spenti tutti i peccati, trattone quello più grave. La quale disse al santo: "Abbi misericordia di me, servo di Dio, e per questo uno m'accatta perdonanza, come tu hai fatto per li altri". Il quale disse a lei: "Partiti da me femmina, ch'io sono peccatore abbisognante di perdonanza altressì come tu". Stando quella pur ferma, disse il santo a lei: "Va al santo uomo Effrem, e elli ti potrà accattare quello che tu domandi". Quella essendo andata là e detto al santo Romito le parole di santo Basilio, disse Effrem: "Partiti ch'io sono peccatore uomo, ma tornati figliuola a lui ed elli, che ti accattò perdonanza de gli altri, sì si potrà accattare la grazia anche per questo; affrettati dunque tosto sì che tu il trovi vivo". Quando quella fu ritornata a la città, ed ecco Basilio che si portava al sepolcro. Quella comincia a gridare dopo lui e a dire: "Veggia Domenedio e giudichi tra te e me, ché tu potevi pacificare Iddio a me, e tu mi mandasti ad altrui". Allora gittò la carta in sul cataletto e, poco stante, la tolse e apersala e trovò spento quel peccato, e così ella e tutta la gente ne lodòe Domenedio. Anzi che 'l santo di Dio passasse di questo mondo, essendo infermo di quello male laond'ello morìo, fecesi chiamare uno giudeo che aveva nome Joseppo, molto savio ne l'arte di medicina, però che provvedeva che esso pervertito, tornerebbe a la fede. Sì che lo si fece venire come se avesse bisogno de l'arte sua. E quelli, toccando il polso suo, e per lo toccamento vide ch'egli era in sul passare; disse a la famiglia: "Quello che fa mestiere a la sepoltura sì apparecchiate, imperò che incontanente morrà". Udendo ciò Basilio, sì li disse: "Non so che tu ti di'". Al quale disse Joseppo: "Credi, messere, che 'l sole tramonterà oggi, cioè col sole che tu trapasserai oggi, cioè quando il sole". Al quale disse Basilio: "Che dirai tu se io non morrò oggi?" E quelli disse: "Non può essere, messere". Disse Basilio: "E se infino domane a l'ora de la sesta sopravviverò, che farai tu?" Disse Joseppo: "Se tu vivi tanto sicuramente, muoia io!" Disse Basilio: "Dio il voglia che tu muoia al peccato, ma viva a Cristo!" E quegli disse: "Io so quello che tu domandi e se tu insino a quell'ora sopravviverai, farollo quello di che tu ne conforti". Allora il beato Basilio, avvegna che secondo natura dovesse a mano a mano morire, accattòe da Domenedio indugio de la morte; e così sopravvisse infino a l'ora de la nona, l'altro die. Quando Joseppo ebbe ciò veduto, stupidìo e credette in Cristo. Allora per la vertù de l'animo, soperchiando la debolezza del corpo, si levò d'in sul letto e entrò ne la chiesa e con le sue propie mani il battezzòe, poi ritornòe a letto e dormìo in pace.
cap. 27, S. Giovanni el.Giovanni elemosinario, patriarca d'Alessandria, una volta stando in orazione vidde una dolzella bellissima stare dinanzi a sé e portava in capo una grillanda d'ulivo. Questi veggendola fu tutto stupidito e domandò chi ella fosse. E quella disse: "Io sono Maria, la quale apportai dal cielo il figliuolo di Dio: tomi per sposa, sarà bene per te. Sì che intendendo questo santo che per l'ulivo significava la misericordia, da quello dì innanzi diventò misericordioso. Sì che per ciò era chiamato Elemosinario, ché i poveri sempre chiamava suoi signori; e quindi hanno li spedalieri di chiamare i poveri suo' signori. Sì che chiamò i fanti suoi tutti e disse a loro: "Andate per tutta la cittade e scrivetemi tutti i signori miei infino ad uno". Coloro non intendendolo, disse anche loro: "Quelli che voi chiamate poveri e mendichi, costoro predico che sono signori e aiutatori, però che costoro veramente ci potranno aiutare e darci il regno celestiale". Volendo dunque gli uomini trarre a misericordia ne la città, soleva raccontare che standosi una volta i poveri al sole e scaldandosi, cominciarono a ragionare insieme de' limosinieri e a lodare i buoni e a biasimare li rei. Sì che era uno banchiere, ch'avea nome Pietro, molto ricco e potente, ma troppo spietato a' poveri; ché li poveri, che li andavano a casa, sì li cacciava con ingiuria e con indegnazione. E non essendone trovato niuno che avesse ricevuto pane in casa sua, disse uno di coloro: "Che mi volete voi dare s'io facessi ch'io abbia in casa sua limosina da lui?" E faccendo con loro patto, colui venne a la casa e dimandòe la limosina. Quello ricco tornando a casa, e trovando iveritto, dinanzi a l'uscio, il povero, con ciò fosse cosa che 'l fante suo portasse in casa pane di saggina, quelli, non trovando pietra veruna, tolse uno di quelli pani e con grande furore percosse il povero con quel pane; lo quale, arrappando immantanente il povero, ritornò a i compagni e mostrò loro com'elli aveva ricevuto limosina de la mano di colui. Da indi a due dì infermò questo ricco a morte; videsi stare dinanzi al giudicio e alcuni saracini pesavano i suoi mali ne la stadera. Da l'altra parte de la stadera stavano alcuni ch'erano vestiti di bianco, molto tristi di ciò che non trovavano nulla che mettere ne l'altro lato. Allora disse uno di loro: "Al vero noi non abbiamo nulla se non uno pane di saggina che diede al povero, non volendoglielo dare". Lo quale ponendo in su la stadera, e fu fatta l'uguaglianza, e dissero a lei: "Arrogi a questa saggina, altrimenti li saracini ti piglieranno". E svegliandosi elli e trovandosi liberato, dicea: Diesaida! se uno pane di saggina ch'io gittai per ira m'ha tanto giovato, quanto maggiormente mi gioverà s'io darò volentieri tutto a' poveri?" Sì che uno die essendo vestito tutto di buoni panni, andando per la via, gli venne innanzi uno ch'era stato rotto in mare, il quale gli domandò alcuno ricoprimento. E quelli si trasse quello prezioso vestimento e diedelo al povero, il quale, togliendolo, immantanente lo vendeo. E tornando il banchiere e veggendo il vestire posto in su la stanga, fu molto contristato di ciò, tanto che non potea prendere cibo e dicea: "Perché io non fui degno che 'l povero avesse ricordo di me". Ed ecco che, dormendo lui, vidde uno risplendente più che 'l sole, e sopra il capo portava una croce d'oro e avea indosso quello vestire che elli avea dato al povero, e dicea a lui: "Perché piangi tu, Pietro?" Il quale dicendo la cagione de la sua tristizia, e quegli disse: "Riconosci tu questo vestire?" disse Pietro: "Sì, Messere". Disse il Signore a lui: "Io ne sono vestito da poi che tu me lo desti e fonne grazia a la tua buona volontade, però che io era afflitto di freddo e tu mi ricopristi". Sì che ritornato Pietro in se medesimo, cominciò a beatificare li poveri, e a dire: "Viva il Signore, io mi morròe mentre ch'io non sono fatto uno di loro". E dando ogne cosa a' poveri, chiamò uno suo notaio e dissegli: "Io ti voglio raccomandare una credenza la quale se tu paleserai, o se tu non me ne udirai, io ti venderò a gente barbaresca". E dandogli diece libbre d'oro, sì li disse: "Vattene ne la terra santa, e comperati merce e me vendi ad alcuno cristiano e 'l prezzo che tu n'avrai, sì lo da' a' poveri". Quelli contradicendo, sì li disse Pietro: "Se tu non me ne udirai, io ti venderabbo a barberi". Sì che quelli il menòe vestito di sozzi panni, e vendendolo ad uno argentiere, come fosse uno suo schiavo, e' trenta danari grossi ched elli n'ebbe, sì li diede a li poveri. Pietro si metteva a fare tutti i vili officii, sì che da tutti era sprezzato e da gli altri schiavi era battuto spesse volte, sì che era tenuto uno smemorato. E il Signore spesse volte gli appariva e mostravagli e' vestiri e le monete, sì lo consolava, lo 'mperadore e tutti gli altri dolendosi d'avere perduto un cotale uomo. Alcuni suoi vicini vennero in Costantinopoli a visitare le luogora sante, sì che, essendo invitati dal signore di costui, mentre che desinavano, fra loro medesimi si dicevano ad orecchie: "De! come questi risomiglia messere Pietro banchiere!" E ragguardandolo molto fiso, uno di loro disse: "Veramente ch'egli è messere Pietro banchiere, io mi leverò e terrollo". Quelli, accorgendosene, fuggìo celatamente. Sì che il portinaio era sordo e mutolo, il quale per segni apriva l'uscio; al quale Pietro comandò non con segno, ma con parola che gli aprisse. Quelli udìo immantanente e ricevette la favella e rispondendo a lui, sì li aperse e tornando a casa e maravigliandosi tutti del suo parlare, quelli disse: "Colui che faceva cucina uscì fuori e fuggì, ma guardate che non sia servo di Dio, però che quando elli mi disse: "io ti dico che tu m'apri" allora uscì una fiamma da la bocca sua, la quale fiamma toccò la mia lingua e l'orecchie e, incontanente, io riebbi il parlare e l'udire e, tenendogli dietro, non lo potei mai trovare. Allora tutti quelli di quella casa fecero penitenzia di ciò che così vilmente avevano trattato un cotale uomo. Uno monaco, il quale avea nome Natalio, vogliendo tentare santo Giovanni, se elli potesse lusingare con parole per trarlo leggieremente a scandalezzo, entròe ne la cittade e scrisse tutte le piuviche meretrici. Entrava dunque a loro per ordine e diceva a catuna: "Donami questa notte e non fare fornicazione". E intrava in casa di colei e in alcuno cantone s'inginocchiava e tutta notte stava in orazione e pregava Iddio; poscia la mattina se ne usciva fuori e comandava a catuna che non lo manifestasse a persona. Ma una di quelle, manifestando la vita di costui, cominciò ad essere tormentata dal dimonio, stando lui in orazione. A la quale tutti dicevano: "Renduto t'ha Iddio quello che tu meritavi, però che tu hai mentito, ché questo pessimo uomo entra a te per fare fornificazione e non per altro". E vegnendo il vespro dicea Natalio, udendolo chi voleva: "Io voglio andare, ché cotale donna m'aspetta". E a molti che nel colpavano, rispondea: "Ora non abbo io corpo come tutti voi? Or è Dio crucciato pure contra i monaci? ma ellino sono altressì uomini come gli altri". E dicea alcuno: "Tolliti una femmina, padre, e muta t'abito acciò che tu non iscandalezzi gli altri". Quelli infignendosi d'essere adirato, sì diceva: "Al vero ch'io non ve ne udirò, partitevi da me. Chi si vuole iscandalezzare, sì si scandalezzi e dea del capo al muro. Ora havvevi Domenedio fatti per miei giudici? Andate e curate di voi, voi non renderete a Dio ragione per me". Queste cose diceva con grido. Essendo portato rammarichìo di questo fatto al beato Giovanni, Domenedio induròe il cuor suo a non dare fede a queste cose, ma pregava Iddio che dopo la morte rivelasse ad alcuno l'operazione sua, acciò che non fosse richiesto peccato a coloro che avevano scandolo di lui. Sì che molte di quelle femmine convertìo a Domenedio e molte ne misse in monasterio. Una mattina ch'egli usciva da una, gli si fece incontro uno che andava a fare peccato con lei, sì che dandoli una gotata, sì li disse: "Quando t'ammenderai tu, reo uomo, da queste tue sozzure?". E quelli disse: "Ora mi credi che tu riceverai tal gotata che tutta Alessandria vi si ragunerà". Ed eccoti poco stante venire il diavolo in forma d'uno saracino, e diegli una gotata così dicendo: "Questa è la gotata che ti manda l'abate Natalio". E immantenente fu tormentato dal dimonio, sì che a le grida sue tutti correvano; ma poi, pentuto di ciò, fu liberato per l'orazione di costui. E approssimandosi a la morte l'uomo di Dio questa scrittura lasciòe: "Non vogliate anzi tempo giudicare". E le femmine, confessando quello che faceva, tutti davano gloria a Dio, e spezialmente il beato Giovanni, e diceva: "Dio il volesse che quella gotata che quegli ebbe, avessi avuta io!" Uno povero in abito da pellegrino venne a Giovanni e domandolli limosina, e quegli gli fece dare sei grossi. Sì che colui gli tolse e andòe e mutòe abito e tornòe a dimandare limosina; e quegli comandò che li fosse dati sei monete d'oro. Quando quegli gli ebbe dati e questi ne fue andato, disse lo spenditore a lui: "Padre, questi medesimo mutando l'abito ha avuto due volte limosina". Ma il beato Giovanni s'infinse quasi di non intendere. E quello povero mutò la terza volta l'abito e venne a domandare limosina. Allora lo spenditore toccò san Giovanni e accennògli che esso era questi. Allora santo Giovanni disse a lui: "Va e dagli dodici grossi, forse ch'egli è il mio Signore Jesù Cristo che mi vuole tentare, ma io voglio vedere sed egli potrà più torre, ch'io dare". Una volta che 'l patricio volea mettere in mercatantia quantità di pecunia la quale era de la chiesa, e 'l Patriarca la voleva dare a' poveri, amendue contendendone molto insieme sì si partirono molto adirati. Ma vegnendo l'ora dopo vespro, il Patriarca mandò a dire per l'arciprete al patricio così dicendo: "Messere, il sole è al tramontare". Per la qualcosa, quelli udendo, bagnato di lagrime, venne a lui e chiesegli perdonanza. A un suo nipote fu detto villania da uno taverniere, laonde egli se ne andò a rindolere al Patriarca; e non potendo riceverne veruna consolazione, il Patriarca gli disse: "E se al postutto alcuno fu ardito di darti contra e d'aprire la bocca contro di te, credimi, figliuolo, a la mia piccolezza ch'io li faròe in questo die tale cosa che tutta Alessandria se ne maraviglierà". Quando quelli ebbe udito, ricevettene consolazione credendo ch'egli lo facesse battere. Veggendo santo Giovanni che 'l nipote era appagato, bascioli il petto così dicendo: "Figliuolo, se tu sei veramente nepote de la mia umilitade, sostieni d'essere battuto e d'esserti detta villania, però che 'l verace parentado non è di carne né di sangue, ma conoscesi per la virtù de la mente". Immantanente mandò per quello uomo e francheggiollo da ogne prigione e trebuto; la qualcosa udendo tutti, sì se ne maravigliarono, e videro che quest'era la parola di che elli l'avea minacciato. E udendo il Patriarca l'usanza ch'era che, sì tosto come lo 'mperadore è incoronato, immantanente coloro ch'erano facitori de' sipolcri toglievano cinque ovvero quattro pezzuoli di marmo di diversi colori ed entrando a lo 'mperadore dicevano: "Di quale marmo ovvero metallo comandi che ti sia fatto il monimento?" Seguitando ciò il beato Giovanni comandò che li sia fatto il monimento, ma infino a la morte sua il fece stare non compiuto, e ordinòe alquanti che, quando elli era con li cherici ne le grandi feste, andassero a lui e dicessero: "Messere, il monumento tuo non è ancora compiuto, comanda che si compia, però che tu non sai a qual ora il ladro dee venire". Uno ricco uomo veggendo che il beato Giovanni aveva in sul letto cattivi panni però ch'egli avea dati gli altri a' poveri, comperòe uno copertoio molto prezioso e diedelo al santo, lo quale, avendolo posto la notte in sul letto suo, non poté dormire con esso pensando che trecento signori suoi di tanto prezzo si sarebbono potuti ricoprire. Sì che tutta la notte si rammaricava e dicea: "Quanti incarcerati, quanti bagnati di piova nel mercato, quanti che per lo freddo stridiscono con i denti hanno oggi dormito? ma tu che divori li grandi pesci e ripositi ne la camera con tutt' i mali tuoi ancora che ti riscaldi con uno copertoio di XXXVI monete grosse! ma l'umile Giovanni non se ne vestirà l'altra volta!" Incontamente che fue fatto die, sì lo fece vendere, e 'l prezzo diede a' poveri. Quando quello ricco l'ebbe saputo sì lo ricomperò e rimandoglielo e mandollo molto pregando che e' non lo vendesse, ma che elli il tenesse. Quando questi l'ebbe avuto, incontanente lo fece rivendere e dare il prezzo ad essi suoi signori. Ancora il ricco lo ricomperò e recollo al beato Giovanni e, così ridendo, li disse: "Or vedremo quale di noi verrà meno, o tu vendendo o io ricomperando". E così soavemente quasi vendemmiò quello ricco, e dicea ch'altri puote bene, con intendimento di dare a' poveri, spogliare le ricche persone, e non pecca in ciò; per ciò che questo cotale guadagna due cose: l'una si è che sana l'anime di coloro, l'altra si è che quanto e di ciò egli ne riceve grande merito. Vogliendo dunque trarre gli uomini a fare limosina, raccontava di santo Serapione il quale, abbiendo dato il vestimento suo a li poveri e scontrandosi in un altro povero che morìa di freddo, avesse dato altressì la gonnella. E sendo sì ignudo co 'l Vangelio in mano, uno il dimandò e disse: "Padre, chi ti ha spogliato?" E' mostrando il Vangelo rispuose: "Questi m'ha spogliato". Un'altra volta che vidde un altro povero, sì vendé il Vangelio e 'l prezzo diede al povero. Quegli essendo domandato dove il Vangelo fosse, rispuose così: "Il Vangelio comanda e dice: "Va e vendi ogne cose e da' a' poveri; sì che io l'avea, vende'lo e diedi al povero". Una volta ch'egli fece dare cinque monete ad uno che gli domandava limosina, quegli indegnato che egli non gliel' avea fatta maggiore limosina, sì ne cominciò a dire vituperio, e a dirgliene villania dinanzi a la faccia. La qualcosa udendo i frati suoi, sì li corsero addosso per batterlo gravemente; ma Giovanni al postutto gliene vietò, così dicendo: "Lasciatelo, frati, lasciatelo ched egli mi maladirà. Ecco che io abbo LX anni e biastemmia' per l'opere mie Cristo, e io non sosterrabbo una villania da costui?" E comandò che fosse recato il tascoccio de' danari e postoglielo innanzi, acciò che egli ne togliesse quantunque ne volesse. Con ciò fosse cosa che letto il Vangelio il popolo uscisse fuori de la chiesa a parlare cose oziose ivi di fuori, una volta dopo il Vangelio il Patriarca uscì fuori con loro e cominciò a sedere nel mezzo di loro. Sì che maravigliandosi coloro di ciò, e elli disse a loro: "Figliuoli, dove è le pecore, là è il pastore; o voi entrate dentro e io con esso voi, o se voi ci state e io ci starò altressì". Sì che faccendo così una volta o due sì gli ammaestrò che dovessero stare in chiesa insino a la finita. Con ciò fosse cosa che uno giovane avesse rubata una monaca, e li cherici dinanzi al beato Giovanni e' rimproverassero il detto giovane, e dicessero che egli era da scomunicare come quelli che avea perdute due anime, cioè la sua e quella di colei, costrinseli il beato Giovanni, così dicendo: "Non fate così figliuoli, non fate così, ché io vi mosterrò che voi commettete due peccati, l'uno si è che voi rompete il comandamento del Signore che disse: "Non giudicate e non sarete giudicati"; l'altro che voi non sapete per certo sed egli peccano ancora oggi, o sed egli sono pentuti". Spesse volte stando elli in orazione e posto in levamento di mente, fu udito disputare con Domenedio in cotali parole: "Così, così, buono Jesù, io spargendo e tu porgendo vedremo quale vincerà!" Con ciò fosse cosa che la febbre l'avesse preso, veggendosi prossimano a la morte, sì disse: "Grazie ti faccio, signore Iddio, che tu hai esaudita la miseria mia pregante la bontade tua, ché a la mia morte non mi s'è trovato altro che uno tornese loima; io comando che sia dato a li poveri". Sì che fu posto il suo venerabile corpo nel sepolcro là dove i corpi di due vescovi erano stati sotterrati da prima; ma quelli corpi in maraviglioso modo, gli diedero luogo e lasciarongli voto il luogo di mezzo. Ma pochi dì innanzi che morisse una femmina, la quale avea commesso uno grande peccato, e non fosse ardita di confessarlo mai a persona, disse a lei il beato Giovanni che da ch'ella sapeva scrivere, almeno lo scrivesse in una pergamena e, così suggellata, gliele portasse ed elli pregherebbe Iddio per lei. Sì che quella il fece, ma da ivi a pochi dì il beato Giovanni dormìo in pace. Quella, udendo ch'egli era morto, tennesi vituperata e confusa temendo che quella scritta non venisse a le mani altrui. Sì ch'ella se ne venne a l'avello del santo, là dov'ella pianse in grande abbondanza, gridando e dicendo: "Oimè, oimè, pensando me campare di vergogna e ora io ne sono tutta piena!" E piangendo amarissimamente, pregando il beato Giovanni che le mostrasse là dov'elli avesse lasciata la scritta, eccoti santo Giovanni in abito vescovile uscire de lo avello con due vescovi, ch'erano riposti con lui, l'uno da l'uno lato e l'altro da l'altro, e disse a la femmina: "Perché ti dai tanta briga e non lasci posare né me, né questi santi che sono meco? Ecco le stole nostre tutte sono bagnate di lagrime!" E porsele la scritta sua suggellata come di prima e disse a lei: "Vedi questo suggello, apri la scritta e leggi". Quella il trovò spento e trovò che v'era scritto entro: "Per Giovanni, servo mio, è ispento il peccato tuo". E così quella rendette molte grazie a Dio, e il beato Joanni con gli altri due vescovi si ritornarono al monimento. Regnò costui ne li anni Domini DCV, al tempo di Foca imperatore.
cap. 28, Conv. S. PaoloLa conversione di san Paulo fu in quel medesimo anno che Cristo ricevette passione e santo Stefano fu lapidato; non ne l'anno naturale, ma infra quello anno in questo modo che Cristo ricevette passione sette dì uscente marzo, Stefano fu lapidato in quell'anno il terzo die d'Agosto e Paolo si convertìo sette dì uscente gennaio vegnente. E fassi festa del suo convertimento più che di veruni altri santi per tre ragioni: la prima si è per lo essemplo che neuno, quantunque elli sia peccatore, non si disperi de la perdonanza, veggendo che colui, il quale era così grande peccatore, ricevette cotanta grazia appo Dio. La seconda si è per la letizia, ché sì come la Chiesa ebbe grande tristizia de la sua persecuzione, così le fue grandissima allegrezza la sua conversazione d'esser convertito. La terza si è per la maravigliosa cosa, cioè convertigione, quando Cristo di così crudelissimo perseguitatore fece fedelissimo predicatore. E fue questo convertimento miracoloso per cagione del facitore, cioè Cristo, il quale fece il suo convertimento, però che quivi mostrò elli la sua mirabile potenzia in ciò che elli li disse: "Dura cosa a te scalcheggiare t'è contra 'l pulgilliato"; e in ciò ch'elli il mutòe così subitamente, onde a mano a mano rispuose: "Messere che vuo' tu che io faccia?" Agostino sopra questa parola dice: "L'agnello ucciso da' lupi fa de' lupi agnelli; già s'apparecchia ad ubbidire quelli che prima era crudele a perseguitare". Nel secondo luogo mostrò la sua maravigliosa sapienza in ciò ch'elli cacciò da lui l'enfiatura de la superbia, offerendogli la bassezza de la umilitade, non l'altezza de la maestade quando disse: "Io sono Jesù Nazareno, il quale tu perseguiti". Dice la Chiosa: "Non si nomina Dio, ovvero figliuolo di Dio, ma dice: Ricevi la 'nfermitate de la mia umanitade e caccia da te le scaglie de la superbia". Nel terzo luogo li mostrò la sua maravigliosa pietade in ciò ch'elli il convertìo, essendo lui in volere e in operazione di perseguitare. Per ciò che avvegna Dio ch'elli avesse aspetto, ovvero affetto d'offenditore, perché ancora andava soffiando de le minacce, o avvegna che avesse pervertito isforzamento, perché andò a li principi, quasi inframmettendosi non essendo chiamato, e avvegna che avesse malvagio operamento, perché andava per menarli legati i servi di Cristo a Gerusalem e per ciò pessimo fosse il suo viaggio impertanto la divina misericordia lo convertìe. Secondariamente fue maravigliosa questa convertigione da la parte e per la ragione del disponitore, ciò fue la luce la quale il dispuose a convertirsi, però che quella luce fue subitanea, fue grande e fue da cielo: e in un subito la luce dal cielo lo avvolse. E Paulo avea in sé tre vizii, il primo era l'ardire lo quale è notato in ciò che si dice ch'elli andò a li principi de' sacerdoti. Dice la Chiosa sopra ciò: "Non fu chiamato, ma andòe per lo zelo che 'l movea". Il secondo vizio era la superbia la quale è notato in ciò che dice che soffiava di minacce. Il terzo era il carnale intendimento che aveva ne la legge, onde sopra quello: "Io sono Jesù Nazareno" dice la Chiosa: "Io Dio da cielo parlo, lo quale tu pensi che sia morto per sentimento di giudaico intendimento". Sì che quella luce divina fue subitamente, acciò che spaventasse l'ardito; fue grande, acciò che colui che si teneva alto e superbo abbattesse a la bassanza de l'umilitade; fue da cielo, acciò che 'l carnale intendimento rimutasse ne lo spirituale e celestiale, ovvero che si potrebbe dire che questo dispognente fue in tre cose, cioè ne la boce gridante, ne la luce risplendente e ne la virtù potente. Nel terzo luogo fu maravigliosa per ragione del sostegnente, cioè de lo stesso Paolo in cui avvenne questa stessa convertigione; però che in Paulo tre cose avvennero miracolosamente di fuori, ciò fu abbattimento, accecamento e digiunamento di tre dì. Abbattuto fue acciò che si rilevasse quanto a l'abbattuto affetto. Dice santo Agostino: "Abbattuto è Paulo per essere accecato, accecato è per essere rimutato, rimutato è per essere mandato, mandato è per essere per la veritade". "Passionato, anche dice, essere scatuzzato, e il crudolente è fatto credente, scatuzzato è il lupo e fatto agnello, iscatuzzato è il persecutore e fatto è predicatore, scatuzzato è figliuolo de la perdizione e fatto è vasello eletto. È accecato acciò che fosse alluminato quanto al tenebroso intendimento; onde in quelli tre dì ch'elli stette accecato si dice che li fue insegnato il Vangelo, che non l'ebbe da uomo né per uomo, ma per la revelazione di Jesù Cristo sì come dice elli medesimo. Santo Agostino dice di lui: "Io dico Paulo verace cavaliere di Cristo, ammaestrato da lui, unto da lui, crocifisso con lui e glorioso in lui. Fue macerato ne la carne, acciò che quella carne si disponesse a bene operare; però che, da indi innanzi, il corpo suo fue acconcio a tutto bene, ched e' sapeva avere fame e essere abbondevole, e in ogne luogo e in tutta gente era ordinato, e tutte le cose contrarie sostenea volentieri. San Giovanni Grisostomo dice di lui che: "Elli riputava i tiranni e i popoli arrabbiati di furore come alquante zanzare; la morte e le pene e i mille tormenti teneva quasi per uno giuoco di fanciulli. Più era onorato di catene legato che di corona incoronato; più volentieri ricevea fedite che i donamenti d'alcuno". Potrebbesi ancora dire che tre cose furono in Paulo contra tre cose che furono in Adamo; però che in lui fue levamento contro a Dio, in costui fue abbattimento a terra; in colui fue aprimento d'occhi, in costui fue accecamento; in colui fue mangiare di cibo vietato, in costui fue astinenza di cibo licito.
cap. 29, S. PaolaPaula fue una gentilissima donna di Roma, la cui vita scrisse san Geronimo in queste parole: "Se tutte le membra del mio corpo si convertissono in lingue, e tutte queste avessono boce d'uomo, non direi neuna cosa sofficente a le vertude de la santa e de la venerabile Paula. Gentile di nazione, ma più gentile di santitade, potente per adrieto in ricchezze, ma testeso più grande ne la povertà di Cristo, io chiamo in testimonianza Jesù Cristo e i santi angeli suo' e ancora il propio angelo di lei, lo quale fue guardiano e compagnone de la maravigliosa femmina, che io non dico nulla in grazia di lei a modo di quelli che vogliono lodare, ma ciò ch'io dirò per testimonio, dico che è meno de' meriti suoi. Suole chiunque legge sapere brievemente le sue virtudi: ella lasciò poveri tutta la sua gente, e ella più povera di loro. E così, tra le molte gemme, la preziosa gemma risplende; e sì come lo splendore del sole tutti i focolini de le stelle annebbia ed oscura, così costei con la sua umilitade soperchiòe le virtudi e la potenzia di tutti; menima fu fra tutti, acciò che fosse maggiore di tutti. E quanto più s'abbassava tanto più era sollevata da Cristo. Ella si nascondea ed era manifestata, però che, fuggendo la gloria, meritava gloria; la quale come una ombra seguita le virtudi e, lasciando coloro che l'appetiscono, appetisce coloro che la spregiono. Costei ebbe sei figliuoli tra maschi e femmine: ciò furono Blesilla, sopra la cui morte a Roma io la consolai; Paulino, santo e maraviglioso uomo soprastante de' beni suoi; Pamazio, lo quale ella fece erede, al quale noi componemmo uno piccolo libretto sopra la morte di lei; Eustochia, la quale al presente, ne le luogora sante, è uno ornamento prezioso di verginitade e de la Chiesa; Rufina, la quale in affrettata morte abbattéo il pietoso animo de la madre, e Teorzio dopo il quale, cessòe di partorire, acciò che tu t'arrendessi ch'ella non volle servire a l'officio maritale, ma ubbidire al disidero del marito, la quale desiderava figliuoli liberi. E da poi che 'l suo marito morìo, così il pianse come s'ella propriamente fosse morta, e così si convertìo al servigio di Cristo come paresse ch'ella avesse disiderata la sua morte. Che dirabbo adunque de la spaziosa e nobile casa e di qua adrieto ricchissima, buonamente tutte le ricchezze furono date a' poveri? Infiammata costei de le virtudi di Paulino vescovo d'Antioccia e di Epifanio, i quali erano venuti a Roma, d'ogne punto pensava d'abbandonare il paese. Che mi indugio più a dire? Discese al porto tenendole dietro il fratello, i parenti del lato suo e del marito e ancora i figliuoli, che maggiore cosa fue. Ma già erano tese le vele e la nave per guida de' remi era in alto mare, quando i parenti giunsono al porto; sì che stando a la riva tutti levarono le mani in cielo verso lei. Rufina, la quale già era in età di maritaggio, tacendo, con pianto la scongiurava ch'ella aspettasse le sue nozze. E pertanto quella teneva gli occhi asciutti al cielo, la pietade verso Iddio soperchiante la pietade verso i figliuoli. Non si conoscea per madre, acciò che si provasse per ancella di Cristo; tormentavansi le sue interiora quasi come se le fossero schiantate da le loro membra, e col dolore combattea. Costei, piena di fede contra le ragioni de la natura, non avea pena anzi appariva allegra ne l'animo, e, sprezzando l'amore de' figliuoli, maggiore ne l'amore del Signore; solamente in Eustochia si riposava, la quale era compagna de la sua navicagione ed era di suo animo in Cristo. Infrattanto la nave andava fra 'l mare e ragguardando tutti quelli che navicavano con lei a coloro ch'erano a la riva, quella teneva volti gli occhi in altra parte per non vedere quelle che vedere non potea sanza tormento. Ed essendo venuta a le luogora sante, il preconsolo di Palestina, il quale conoscea bene la sua famiglia, mandatole innanzi i sergenti suoi, sì le fece apparecchiare uno bellissimo palazzo; e ella volle anzi per sé una umile cella. E tutte le luogora andava cercando con tanto ardore e con sì grande studio che, se non ch'ella s'affrettava di cercare le rimanente, da le primaie non si potea smuovere. Discesa in terra, dinanzi da la Croce sì l'adorava quasi come se ella vi vedesse suso il Signore; ed entrando nel sepolcro donde Cristo risuscitòe, sì basciava tutta quanta la lapida che l'angelo avea rimossa da la bocca del monimento; e esso luogo nel quale era giaciuto il corpo del Signore, sì leccava tutto quanto con la bocca, come quella ch'era tutta assetata de le disiderate acque de la fede. E quante lagrime ella vi spandesse e quanto pianto e quanto dolore, tutta la cittade di Gerusalem ne puote rendere testimonanza ed esso Signore, lo quale ella pregava. Poscia se n'andò in Betleem, ed entrando ne la spelonca del Salvatore vidde il santo diversoro de la Vergine e, udendola me, sì giurava ch'ella vedeva con gli occhi de la fede il bambino involto in pannicelli nannare dinanzi a la mangiatoia del Signore e li Magi adorare e la stella risplendente disopra e la madre vergine e 'l balio sollicito e li pastori venire la notte per vedere la parola la quale era fatta acciò che allora predicassero il cominciamento del Vangelio di san Giovanni Evangelista: "Nel principio era la parola e la parola è fatta carne". Allora dice ch'ella vedea gl'innocenti morti e Erode crudelissimo e Joseppo e Maria fuggenti in Egitto, e parlava con lagrime mischiate con gaudio, e dicea: "Dio ti salvi Betleem, casa di pane, ne la quale nacque il pane lo quale discese di cielo. Dio ti salvi Effrata, contrada piena di tutta abbondanza, la cui abbondanza è Domenedio. Con grande fidanza parla David: Noi enterremo nel tabernacolo suo, adoreremo nel luogo dove stettero i piedi suoi, ed io misera peccatrice, sono giudicata degna di basciare te, mangiatoia, ne la quale pianse il Signore piccolino; anche d'adorare ne la spelonca ne la quale la Vergine partorette lo Dio piccolino, non parlante. Questo è il mio riposo, perch'egli è il paese del mio Signore; qui voglio abitare imperò che il Salvatore lo elesse". Di tanta umilitade s'abbassò, che chi l'avesse veduta prima e per la grande fama del nome l'avesse disiderata di vedere, non crederebbe ch'ella fosse essa, ma una vile ancella. E con ciò fosse cosa ch'ella si congiugnesse a li spesseggianti cori de le vergini, col vestimento, con la voce, con l'abito e con l'andatura era la più menoma di tutte. Unquemai dopo la morte del marito insino al dì de la sua morte non mangiò con veruno uomo, quantunque ella sapesse che fosse santo e levato in altezza di pontificato. In bagni non entrò se non fosse in pericolo de la persona; letto morbido non n'ebbe eziandio con la gravissima febbre, ma in su la dura terra si riposava ponendosi sotto e sopra gli aspri cilici, se riposo sì puote dire quello che i dì e le notti congiugneva poco meno a continue orazioni. Di tale maniera piangea i leggeruzzi peccati, che tu avresti creduto ch'ella fosse piena di gravissimi peccati. Ed essendo ammonita spesse volte da noi che ella perdonasse a gli occhi e conservasseli a leggere i santi Vangeli, sì dicea: "Da turbare è la faccia, la quale spesse volte dipinsi, contra 'l comandamento di Dio, con biacca e con bambagello; da affliggere è il corpo, lo quale è stato in molte dilicatezze; il lungitano ridere è da ricompensare con perpetuale pianto; le morbide lenzuola e preziosi sciamiti sono da commutare in asprezza di cilicio; io, che mi sforzai di piacere al marito e al mondo, disiderò ora di piacere a Cristo". Se tra cotali e cotante virtudi e così grandi vorrò lodare in lei la castità, sì parrà che sia di soperchio, con ciò sia cosa che eziandio, essendo ancora secolare, ella in ciò fosse specchio ed essemplo di tutte le grandi donne di Roma; la quale si portò in tale maniera intorno a ciò che mai di lei non fu detto nulla mancanza, eziandio per infamia di malidicenti. Io confesso, lettore mio, che veggendola io quasi scialacquata in donare, sì la ne riprendea toccandole la parola de l'Apostolo: "Non fate a gli altri consolazione per fare a voi tribulazione; ma fate igualitade in questo tempo, sì che la vostra abbondanza sia a loro povertà e la loro abbondanza sia a compiere a voi la vostra povertade". E sarebbe da provvedere se quello uomo che fa volentieri, elli il potesse fare sempre; e molte cotali cose le diceva, le quali ella con maravigliosa vergogna e con sermone temperatissimo disciogliea, chiamando in sua testimonianza Domenedio come, per lo suo amore e nel suo nome, ella facea tutte queste cose; e che questo desiderio faceva e aveva ella di morire mendica e povera tanto, che pure uno danaio non avesse che lasciare a la figliuola e che a la sua morte fosse inviluppata ne l'altrui panni. A la perfine dicea: "Se io chiederò, io troverò molti che mi daranno; e se 'l povero mendico non avrà da me quello ch'io gli posso dare eziandio de l'altrui dato a me, se elli morrà, la vita sua sarà richiesta da le mie mani". Non volea spandere la pecunia in queste pietre che debbono passare con la terra e col mondo, ma ne le vive pietre che sono disopra a la terra; de le quali dice san Giovanni ne l'Apocalissi: "La città del grande re è ornata di pietre preziose". Trattone i dì de le feste, appena prendea olio in suo mangiare, acciò che per questa una cosa fosse estimato che cosa giudicasse del vino e de l'acqua cotta e de' pesci e latte e mele e uova e l'altre cose le quali sono soavi a la bocca; però che in queste cose prendendo, alquanti si credono essere di grandissima astinenza; eziandio se se ne satolleranno bene, sì si credono avere sicura castitade. Io conosco uno secondo ragione, ché è una molto maledetta generazione d'uomini, che mi disse, quasi come mi fosse a piacere, che ad alcuni parea che per troppo fervore di vertudi ella fosse matta e che le sarebbe da nutricare il celabro. Al quale ella rispuose: "Noi siamo fatti giulleria al mondo e a l'angeli e a li uomini; noi stolti per Cristo, ma la stoltizia di Dio è più savia de li uomini". Dopo il monasterio de' maschi, lo quale ella avea dato a governare a uomini, molte vergini le quali ella avea raunate di diverse province sì de le gentili, come de mezzane e di bassa mano, sì le divise in tre schiere e monasteri, in tal modo che in operazione e in cilicio erano sceverate, ma in salmi e in orazioni si congiugnevano insieme. Quelle che alcuna volta si gareggiavano con parole piane e amorevoli le pacificava; la inchinevole carne de le giovanette sì rompea con ispessi e raddoppiati digiuni, vogliendo anzi ch'elle si dolessero lo stomaco che la mente, dicendo che la mondizia del corpo e de le vestimenta si è sozzura de l'anima, e quella cosa che pare leggera e quasi neente nel cospetto de li uomini di questo secolo, dicea ch'egli era un gravissimo peccato nel monastero. E con ciò sia cosa ch'ella desse a le 'nferme largamente d'ogne cosa e a mangiare de la carne, se alcuna volta ella infermasse non perdonava a se medesima; e in ciò pareva disguale da l'altre, ché ne l'altre mostrava benignitade e in sé mostrava durezza. Io racconterò una cosa la quale io provai: che del mese di Luglio, quando è il grandissimo caldo, le venne un caldo di febbre; e poi ch'ella fu, sfidata da' medici, per la divina misericordia rinvigorita, sì la confortarono i medici per ristoramento del corpo d'usare d'uno vino piccolo e poco, acciò che bevendo acqua non cadesse in idropisia; ed io celatamente pregai il santo papa Epifanio che la costrignesse di bere vino. Quella, sì com'era di savio e di sollecito ingegno, incontanente seppe il fatto e, sorridendo in lui, disse a gli altri quello ch'io avea detto. Che diremo più? quando il beato Papa dopo molti conforti uscito fuori, domandandolo me quello che v'avea fatto, sì mi rispuose: "Tanto ho sentito che poco meno a questo vecchio ha dato conforto di non bere vino". Nel piagnere era a sé crudele e, spezialmente quando moriva alcuno de' figliuoli, tutta si rompeva, che fu poco meno di morta quando morìo il marito e i figliuoli; e con ciò sia cosa ch'ella si segnasse la bocca e lo stomaco e sforzassesi d'allenare il duolo de la matrice col segno de la santa Croce, sì si soperchiava il suo affetto e la credente mente abbatteano le 'nteriora de la madre e, vincendo con l'animo, sì vincea la frailezza del corpo. Le scritture sante teneva bene a mente e, con ciò fosse cosa ch'ella amasse la storia e dicesse ch'ell'era fondamento di veritade, maggiormente tenea dietro a lo intendimento spirituale per lo quale massimamente l'anima n'era edificata. Dirò un'altra cosa, la quale forse non parrà creditoia a li 'nvidiosi. La lingua ebrea, la quale io da la mia gioventudine appresi con molta fatica e con molto sudore e in parte con fatichevole pensiero ne l'abbandono, acciò ch'io non mi partissi da lei, sì la volle imparare e appresene tanta ch'ella cantava i Salmi in lingua ebrea e sonava troppo la parola sanza veruna propietà de la lingua latina. E infino al dì d'oggi vedemmo ciò ne la santa sua figliuola Eustochia. Infino a qui abbiamo navicato a venti prosperevoli e per le crespanti pianure del mare è scorsa la nostra nave in celato, or viene a parlare ne li scogli: chi è quelli che potesse con occhi asciutti raccontare com'ella morìo? Ella cadde in una gravissima infermitade; anzi quello ch'ella andava desiderando ebbe trovato, acciò ch'ella ci lasciasse e più pienamente fosse congiunta al suo Segnore. Perché peno io tanto a dire e 'l mio dolore faccio più durare in altre cose faccendo dimoranza? Sentiva la savissima de le femmine che la morte l'era presente e, raffreddata già alcuna parte del corpo e de le membra, sentiva sola la tipidezza de l'anima palpetare nel santo e nel sagrato petto; e impertanto, quasi come ella andasse a la sua gente e spregiasse la straniera, bucinava questi versetti: "Messere, io ho amato la bellezza de la casa tua e il luogo de l'abitazione de la gloria tua; e come sono amati i tabernacoli tuoi, Segnore de le vertudi! Disidera e vienne meno l'anima mia ne le magioni del Signore, e io ho eletto d'essere scacciata ne la casa de lo Iddio mio innanzi che abitare ne li tabernacoli de li peccatori". E domandando me perch'ella tacea e perch'ella non voleva rispondere a chi la chiamava, volendo sapere s'ella si dolesse alcuna cosa, rispuose in parlare grecesco, e disse che niuna molestia avea, ma tutte cose quiete e riposate vedea. Dopo questo tacette e chiuse gli occhi, quasi come spregiasse le cose terrene; infino a tanto che l'anima si partìo, quegli medesimi versi ripeteva sì che appena intendea quello ch'ella diceva. Quale monaco di quegli ch'erano nascosti ne l'ermo non uscìe allora de la cella? quale de le vergine non ne uscì allora de le sagrete luogora de le camere? Grave peccato era tenuto chi non rendesse il sezzaio debito d'ufficio ad una cotale femmina, infino a tanto ch'ella fue riposta sotto la chiesa, appresso a la spelonca del Segnore. La sua venerabile figliuola vergine Eustochia, quasi come levata da latte, sopra la madre sua da lei al postutto rimuovere non si potea. Comincia a baciare la bocca, gli occhi, la faccia e tutto il corpo non mollava d'abbracciare; volentieri voleva essere soppellita con la madre. Testimonio n'è Jesù Cristo che uno solo danaio non lasciò a la figliuola, la madre; ma, grande cosa è e strana e che così malagevole è più lasciare, così grande moltitudine di frati e di suore, la quale a potere sostenere è cosa malagevole e abbandonare sarebbe cosa spietosa. Vattene dunque salva Paula e l'ultima vecchitudine del tuo amatore adiuta con le tue orazioni!"
cap. 30, S. GiulianoGiuliano fu vescovo di Cennonia. Di costui si dice che fue quello Simone lebbroso, lo quale il Signore curòe de la lebbra e che invitòe il Signore al convito; il quale, poi che 'l Signore fue montato in cielo, sì 'l fecero gli apostoli vescovo di Cennonia. Questi, chiaro di molte virtudi, sucitò eziandio tre morti e poi si riposòe in pace. Di costui si dice che è quello Giuliano che i pellegrini chiamano per trovare buona albergheria, in ciò che 'l Signore fue albergato ne la sua casa. Ma più veramente si crede che fosse quell'altro Giuliano che uccise il padre e la madre sua, a sé niscente, de la cui storia porremo più giù. Fu anche un altro Giuliano d'Alvernia, nobile di generazione, ma più nobile di fede, il quale per disiderio del martirio, s'offerìa se medesimo a' perseguitatori de la fede. A la perfine Crispino, consolare, mandòe uno suo servo a comandargli che l'uccidesse. Quegli, sentendolo innanzi, spontaneamente uscì fuori e offersesi a colui che l'andava caendo, e immantanente ricevette il colpo del feditore. Coloro, togliendo la testa, e sì la portarono a santo Firivolo, compagno di questo Giuliano, e sì 'l minacciaro di fargli fare simigliante morte se non sacrificasse a l'idole. Quegli non consentendo a coloro, sì lo uccisero, e puosero in uno avello il capo di san Giuliano tra le mani di santo Firivolo. E dopo molti anni santo Mamerto trovò il capo di san Giuliano tra le mani di san Firivolo sì intero, e sì lavo come se fosse stato sotterrato in quello dì. E fra gli altri suoi miracoli si suole contare questo: che rubando uno diacano le pecore de la chiesa di san Giuliano e li pastori gliele vietassero da parte di san Giuliano, quello cherico rispuose: "Giuliano non mangia montoni". Ed ecco, poco stante, il prese una febbre fortissima e, crescendo la febbre, confessa ch'egli è inceso dal martire; e fecesi gittare l'acqua addosso perché fosse rifrigerato; e incontanente uscì dal corpo tanto fummo e sì grande puzzo, che tutti quegli ch'erano presenti si fuggirono ed egli morìo poco stante. Una volta che uno villano, come dice Gregorio di Torno, voleva andare ad arare in Domenica, sì li diventarono rattatte le dita, e 'l manico de la scure, con la quale elli volea mondare il bomero, gli s'appiccò sì a la mano ritta che spiccare non la poteva; ma da ivi a due anni ne la chiesa di san Giuliano fu liberato a le preghiere del santo. Fue ancora un altro Giuliano fratello di beato Giulio. Questi due fratelli impetrarono de Teodogio imperadore cristianissimo, che dovunque e' trovassero idole, sì le disfacessero e facessero in quel luogo chiese di Cristo. La quale cosa lo 'mperadore concedette loro, e comandò loro, sotto pena de la testa, che tutte le persone dessero loro aiuto. E essendo dunque questi santi Giuliano e Giulio in uno luogo che si dice Sandiano per fare ivi una chiesa e dando loro aiuto tutti quelli che passavano per lo comandamento de lo imperadore, avvenne che alquanti che passavano con un carro ind'oltre, dicevano fra loro medesimi: "Che scusa possiamo noi avere per passare franchi, acciò che noi non siamo occupati in questa opera?" E dissero così: "Venite qua, e togliamo uno di noi e pognallo in sul carro rivescione e copriallo con panni come s'elli fosse morto, e così passeremo liberi". E così fecero. Ed essendo invitati da i santi ched elli li dessero aiuto, coloro rispuosero: "Noi non ci potemo stare, ché noi abbiamo uno morto in sul carro". Disse san Giuliano a colui che avea parlato: "Or perché menti tu, figliuolo?" E questi disse: "Non mento, messere, ma egli è come io dico". Disse il santo: "Secondo la virtù di Dio nostro così v'addivenga". Coloro punsero li buoi e passarono oltre, sì che, andando al carro, chiamarono colui che si levasse; ma non rispondendo quelli in veruno modo, approssimaronsi a lui e trovarollo morto; sì che tanta paura venne addosso a tutti che neuno era ardito di mentire a i santi da quella ora innanzi. Fue ancora un altro Giuliano, il quale uccise il padre e la madre, a sé niscentemente. Uno die che costui, il quale era un gentile giovane, intendea a cacciare e giugnesse un cerbio, il cerbio rivoltosi a lui, sì li disse: "Tu mi vieni pure dietro, il quale sarai micidiale di padre e di madre?" Quegli, udendo ciò, fortemente isbigottìo; e perché non li avvenisse quello che avea udito dal cerbio, in celato, lasciando ogni cosa, si partìo; e vennesene a una contrada molto da lungi, e accostossi là ad uno prencipe, e portossi sì valentremente in ogni luogo e in battaglia e in palazzo che il prencipe il fece cavaliere e dielli per moglie una grande castellana vedova e ricevette il castello per dote. Infrattanto il padre e la madre di Giuliano, contristati molto de la perduta del loro figliuolo, sì si missero ad andare per lo mondo sollicitamente, per ogne parte cercando del loro figliuolo. A la perfine capitarono al castello del quale Giuliano era signore, e con ciò fosse cosa che egli non vi fosse allora e la moglie domandasse chi e' fossero, coloro le dissero ciò ch'era intervenuto loro e al figliuolo, sì che ella intese, per quelle parole, ched ell'erano il padre e la madre del suo marito, come quella che avea udito dire ispesse volte dal marito ogne cosa. Ricevetteli dunque benignamente e, per amore del marito, diede loro a giacere nel letto suo e ella si fece uno altro letto per sé in un altro luogo. Sì che, fatta la mattina, la castellana se n'andò a la chiesa; e Giuliano, tornando la mattina, entròe in camera quasi come volesse isvegliare la moglie sua; e veggendo dormire due insieme, pensò che la moglie fosse con uno adoltero: chetamente trasse fuori la spada e amendue gli uccise. E uscendo de la casa, vide la moglie tornare da la chiesa; e, maravigliandosi, domandò ch'erano quegli che dormiano nel letto, e quella disse: "È il vostro padre e la vostra madre, che vi sono andati caendo uno buono tempo, e io gli ho messi nel letto vostro". Quegli, udendo ciò, divenne quasi morto e cominciò a piagnere amarissimamente e a dire: "Oimè, misero, che farò? ché io hoe morto el mio dolcissimo padre e la mia dolcissima madre! Ecco ch'è compiuta la parola del cerbio; la quale volendo ischifare, io, misero, l'hoe adempiuta! Ora sta sana, serocchia mia dolcissima, però che da qui innanzi non poserò insino a tanto ch'io sappia se Domenedio abbia ricevuta la penitenza mia". E quella disse: "Non piaccia a Dio, dolcissimo fratello, che io ti lasci; ma perch'io sono stata teco parzonevole d'allegrezza, sarò anche compagna di dolore". Allora, partendosi da quello luogo, vennero ad uno grande fiume là dove molti pericolavano, e ivi ordinarono uno grandissimo spedale per fare iviritto la penitenza; e tutti coloro che volessero passare il fiume, continuamente trasportassero e nel loro albergo ricevessero tutti i poveri. Sì che, dopo molto tempo, una mezzanotte riposandosi Giuliano, ch'era molto lasso, ed essendo uno grandissimo freddo, udìe una voce che miserabilemente si lamentava, e con voce di pianto chiamava che fosse trapassata. Quelli, udendo ciò, tosto si levò, ed intendendo che già venìa meno di freddo, portonelo in casa sua e, accendendo il fuoco, brigossi di riscaldarlo. Ma non potendolo riscaldare e temendo che non venisse meno di gelo, sì ne lo portò al letto suo, e misselo entro, e sì lo coperse finemente e bene. E, poco stante, colui il quale parea lebbroso, isplendiente n'andòe in aria e disse a l'oste suo: "O Giuliano, il Signore mi mandò a te, e mandati a dire ch'egli ha accettata la tua penitenzia, e abendue dopo poco tempo dormirete in pace". E così quegli disparette; e Giuliano e la sua moglie, pieno di buone operazioni e di limosine, si riposò in Cristo. Fue anche un altro Giuliano monaco, il quale s'infignea d'essere uno grandissimo religioso. Onde racconta di lui il maestro Giovanni Beleth, ne la Somma de l'Officio de la Chiesa, che una femmina abbiente tre pentole piene d'oro in tale maniera che a nascondimento de l'oro ne le bocche de le pentole avea soprapposta cennere, sì 'l portò a Giuliano che gliele guardasse, però ch'ella il teneva per uno santo uomo; e dinanzi ad alquanti monaci gliele diede; i quali monaci non videro che fosse altro che cennere, né quella femmina spremette bene che fosse oro. Sì che Giuliano tolse le dette pentole e, trovandovi entro abbondanza d'oro, tutto quell'oro imbolò e ripienò le pentole di cennere. Onde dopo alcuno tempo la femmina radomandò il suo deposito, e quegli le diede le pentole piene di cennere. E con ciò fosse cosa che la femmina richiedesse l'oro, nol ne potette convincere, però che non poteo provare che fosse stato oro. Sì che Giuliano con questo oro ch'aveva tolto sì si fuggìo a Roma, e per quello fue fatto consolo di Roma e poscia imperadore. E essendo costui ammaestrato da fanciullo ne l'arte de lo 'ndovinare, e piaccendogli l'arte predetta molto, sì n'avea con seco molti maestri. Ché un giorno, secondamente che si truova ne la Storia Tripertita, essendo lui ancora fanciullo e partendosi il maestro suo, rimase solo; sì che leggendo lui le scongiurazioni de le demonia, una grande moltitudine di demoni gli si pararono innanzi in forma di saracini neri. Allora Giuliano vedendo e temendo ciò, sì si fece segno de la Croce e incontanente tutta quella moltitudine di dimoni isparve. La quale cosa raccontando al maestro, poi che fu redito, come egli era stato intervenuto, il maestro gli disse: "Di questo segno de la Croce massimamente le demonia temono molto". Sì che, essendo innalzato a lo imperio, ricordossi di questo fatto e, volendo usare quella male arte, diventòe apostata de la fede, e 'l segno de la Croce spense in ogni parte; e, in quanto poteo, perseguitòe li cristiani pensando che se non facesse così le demonia non lo ubbidirebbono. Sì che discendendo Giuliano in Persida, come si legge in Vita Patri, sì mandò uno demonio in Occidente ch'elli ne recasse novelle. Ed essendo venuto il demonio ad alcuno luogo, diece dì vi stette che non se ne partì punto, però che un monaco dì e notte vi stava in orazione. Sì che tornato il dimonio a Giuliano, disse Giuliano a lui: "Perché se' tu tanto stato?" E quegli disse: "Io aspettai diece dì pubblico monaco se per avventura si partisse da orazione e, non partendosi lui, fummi vietato il passaggio, e così sono tornato adrieto sanza fare nulla". Allora Giuliano adirato disse che farebbe vendetta di quello monaco quando elli andasse là oltre. E con ciò fosse cosa che le demonia gli promettessono vettoria de la Persida, un savio di Giuliano disse a uno cristiano: "Che fa ora il figliuolo del fabbro?" E quegli disse: "Apparecchia la fossa a Giuliano". Sì che, essendo giunto a la città di Cesarea di Capadoccia, come si legge ne la storia di santo Basilio, li venne incontro e mandogli per presente tre pani d'orzo, e Giuliano non gli volle ricevere, ma per quegli tre pani gli mandò fieno, così dicendo: "Pasto d'animali sanza ragione ci mandasti, ricevi quello che tu ci mandasti". Rispuose san Basilio: "Noi ti mandammo di quello che noi mangiamo, ma tu ci hai dato quello che tu dai rodere a le bestie tue". A queste cose disse Giuliano molto adirato: "Quando io m'avrò sottomessa la Persida, io disfarò questa città e farolla arare e seminare a sale, acciò che maggiormente sia nominata terra di fiere che terra di uomini". Sì che Basilio con tutto il popolo de la terra pregando Iddio che gli liberasse da le minacce di colui, vidde in visione ne la chiesa di santa Maria una moltitudine d'angeli e, nel mezzo di loro, una donna stante in sedia, e dicea a uno che le stava dinanzi: "Fara'mi venire tosto Mercurio, il quale uccida Giuliano che bestemmia rigogliosamente me e 'l mio figliuolo". Mercurio sì era uno cavaliere ch'era stato morto da questo Giuliano per la fede di Cristo, e in quella medesima chiesa era seppellito. Incontanente san Mercurio con l'arme sue, le quali si conservavano lì ivi ne la chiesa, fu venuto dinanzi a la donna, e, avuto il comandamento da lei, andòe ne la battaglia. Isvegliato san Basilio andòe a quello luogo dove san Mercurio era riposto con le armi sue e, aperto che ebbe il monimento, non vi trovò entro il corpo, né l'arme. Allora domandò il guardiano chi avesse portate l'arme; ma il guardiano affermava con saramento ched e' v'era stato in quello medesimo tempo che Basilio diceva; nel quale luogo perpetualmente conservate erano. Partendosi quindi Basilio e tornandovi l'altra mattina, ritrovò il corpo di colui nel sepolcro, e ritrovovvi l'arme e la lancia tutta sanguinosa. E standosi così, eccoti tornare uno de l'oste, il quale disse cotali novelle: "Mentre che Giuliano si stava ne l'oste, e eccoti venire uno cavaliere non conosciuto costrignente fortemente il cavallo con gli sproni, e arditamente corse addosso a Giuliano e, crollando la lancia per lo miluogo, il passò da l'altro lato valorosamente; e, incontanente partendosi, non fu mai veduto. E 'l detto Giuliano avendo ancora del fiato, empiessi la mano di sangue del suo proprio, come si dice nella Storia Tripartita, e gittollo in aere così dicendo: "Bene m'hai vinto Galileo, ben m'hai vinto!" E così in queste parole miserabilmente finìo e fu abbandonato da suoi; e così disotterrato e' fu scorticato da quelli di Persia, e del cuoio fecero uno carello a quello Re di Persida. Abbiendo detto de le feste che corrono fra 'l tempo che parte si contiene sotto il tempo de la riconciliazione e parte sotto il tempo de la perigrinazione - lo qual tempo rappresenta la Chiesa dal Natale infino a la Settuagesima - viene ora a vedere de le feste che corrono infra 'l tempo de lo sviamento, lo quale cominciò da Adamo e dura infino a Moises; lo quale tempo rappresenta la Chiesa de la Settuagesima infino a la Pasqua di Risurresso di Gesù Cristo.
cap. 31, SettuagesimaLa settuagesima significa lo tempo de lo sviamento; la sessuagesima significa il tempo del vedovatico; la quinquagesima il tempo de la rimissione; la quaresima il tempo de la penitenzia spirituale. E cominciasi la settuagesima da quella Domenica quando si canta: "Circumdederunt me", e terminasi nel sabato dopo la Pasqua. Ed è ordinata per tre ragioni, come si mostra ne la Somma del maestro Giovanni Beleth de l'Offizio. La prima ragione si è per lo ricomperamento, imperò che i santi padri ordinarono che, per reverenza del die de l'Ascensione, nel quale la nostra natura valcò i cieli e fu essaltata sopra tutti gli angeli, sempre il quinto dì fosse avuto per solenne e festivo, e in quello dì non si osservasse digiuno, per ciò che ne la primitiva Ecclesia era solenne come la Domenica e facevasi la processione solenne a rappresentare la processione de li apostoli ed ancora de li angeli. Per ciò venne il proverbio che dice che 'l giovedì è parente de la Domenica, perché anticamente sì era altressì solenne; ma per ciò che sopravvennero le feste de' santi e a guardare cotante feste era grande carico, però rimase quella solennità. Sì che in ricomperamento di quelli dì, i santi Padri ordinarono che una settimana s'aggiugnesse a la quaresima in astinenzia e fosse chiamata settuagesima. La seconda ragione si è per la significazione, imperò che per questo tempo è significato lo sviamento e lo sbandimento e la tribolazione di tutta l'umana generazione da Adamo infino a la fine del mondo. Lo quale isbandimento si compie per rivolgimento di sette dì e inchiudesi sotto sette di migliaia d'anni: ché per LXX dì intendiano LXX centine d'anni; ché dal cominciamento del mondo infino a l'Ascensione di Cristo contiamo sei mila anni e, d'allora innanzi, quantunque tempo seguisce insino a la fine del mondo, sotto il settimo migliaio d'anni il contiamo, la cui fine solo Iddio sa. Ma noi Cristo liberòe ne la sesta età del mondo da questo sbandimento ne la speranza del guiderdonamento eternale, rendutaci la stola de la innocenzia per lo battesimo; ma quando fia compiuto il tempo del nostro sbandimento, Cristo darà a noi l'adornamento de l'una e de l'altra stola perfettamente. Quinci addiviene che in questo tempo di sviamento e sbandeggiamento lasciamo stare i canti di letizia; ma solamente nel sabato de la Pasqua cantiamo una alleluia sì come allegrantici ne la speranza de l'eternale paese e ricoverati la istola de la innocenzia ne la sesta etade del mondo per Cristo. E poscia si canta il tratto per lo quale è significata la fatica, la quale noi dobbiamo ancora avere in adempiere le comandamenta di Dio. Ma nel sabato dopo Pasqua ne la quale, come detto è, si termina la settuagesima, sì cantiamo due alleluia, imperò che, compiuto il tempo della vita di questo mondo, avremo le due stole de la gloria. L'altra ragione si è per lo rappresentamento, imperò che la settuagesima rappresenta i settanta anni che' figliuoli d'Israel stettero in cattivitade; e così ellino puosero giù gli organi loro, così dicendo: "Come canteremo noi la canzona del Signore in terra strana?" e così noi pognamo giù canzona di loda. Ma poi che ebbero la licenzia di Ciro di ritornare a casa loro nel sessantesimo anno, sì cominciarono a fare liuti; e così noi nel sabato de la Pasqua, come fosse il sessantesimo anno, cantiamo alleluia rappresentando la loro letizia. Ma coloro s'affaticaro molto in acconciarsi a tornare e in raccogliere le loro somelle; e noi dopo allelluia incontanente cantiamo il tratto il quale hae a significare quella cotale fatica; ma, finito il sabato de la settuagesima, cantiamo due alleluia in figura de la loro piena letizia per la quale pervennero nel paese. Ancora questo tempo de la pregionia e de lo sbandeggiamento de' figliuoli d'Israel rappresenta il tempo del nostro pellegrinaggio; che sì come quegli nel sessantesimo anno furono liberati, così saremo liberati noi ne la sesta età del mondo. E come coloro s'affaticarono anche a raccogliere le loro somelle, così noi ci affatichiamo in adempiere i comandamenti di Dio. Eziandio poscia che noi saremo giunti al paese, allora cesserà ogni fatica e la gloria sarà perfetta, imperò che l'uomo avrà raddoppiata la stola, imperò che noi canteremo doppio alleluia in corpo e in anima. Adunque in questo tempo de lo sbandeggiamento la Chiesa, premuta da molte tribulazioni, è poco meno che posta nel fondaccio de la disperazione, e traendo sospiri da alti ne l'Officio grida e dice: "Attorniato m'hanno i pianti de la morte". E mostra la Chiesa la molta tribulazione ch'ella hae, e per la miseria in che ella si misse, e per la doppia pena che l'è data, e per la colpa ch'ell'hae commessa quanto in altrui. Ma pertanto non si disperi; imperò che, acciò ch'ella non abbia materia di disperassi, sì l'è promesso entro 'l Vangelio e entro la Pistola tre sani rimedi e tre guidardoni. Il rimedio sì è che, se ella vuole essere dilibera e compiutamente da mali, lavori ne la vigna de l'anima sua ricidendo i vizi e peccati, poscia corra ne l'arringo de la presente vita per l'opere de la penitenzia, e poscia combatta vigorosamente ne la battaglia contra tutte le tentazioni del diavolo; però che se farà così, sì avrà tre guidardoni; però che a colui che lavora ne la vigna fia dato il danaio, e a chi correrà fia dato il palio, e a chi combatterà fia data la corona.
cap. 32, SessagesimaLa sessagesima comincia a la Domenica che si canta: "Exsurge [quare obdormis], Domine" e finisce il mercoledì dopo la Pasqua; ed è ordinata per tre ragioni, cioè per lo ricomperamento, per lo significamento e per lo trapassamento. Per lo ricomperamento, imperò che Melchiades papa e Salvestro ordinaron che 'l sabato si mangiasse due volte, acciò che per l'astinenzia del venerdì, nel quale è sempre da digiunare, la natura non indebolisse troppo. Sì che, a ricompensare i sabati di quello tempo, è arrota una settimana a la quaresima; e così è chiamata sessagesima. L'altra ragione si è migliore, cioè per lo significamento; però che la sessagesima significa il tempo del vedovatico de la Chiesa e 'l pianto suo per la partenza de lo sposo, imperò che 'l frutto sessantesimo si dà a li vedovi. Ma in sua consolazione per la partenza de lo sposo, il quale fu rapito infino al cielo, e ben son date due ale a la Chiesa: l'una si è l'esercizio de le sei opere de la misericordia e l'altra è l'adempimento de li dieci comandamenti. Onde sessanta suona sei volte X; sì che per lo sei s'intendono le sei opere de la misericordia, e per lo diece s'intendono i dieci comandamenti de le tavole di Moisé. La terza ragione si è per lo rappresentamento; però che la sessagesima rappresenta non solamente il tempo del nostro vedovatico, ma ancora il misterio de la nostra redenzione. Imperò che per lo diece s'intende la diecima dramma, cioè l'uomo in ciò che fu fatto per riparare la rovina de li angeli. Ovvero che per lo diece s'intende l'uomo in ciò ch'elli è di quattro omori quanto al corpo, e hae tre potenzie ne l'anima, cioè memoria, intendimento e volontade, le quali sono fatte per servire a la beatissima Trinitade, acciò che in essa fedelmente crediamo e ferventemente l'amiamo e sempre in memoria la tegnamo. Per lo sei s'intendono li sei misterii per li quali l'uomo per Cristo è ricomperato, ciò sono la incarnazione, la nativitade, la passione, la resurressione, il discendimento al ninferno e l'ascensione. Discendesi adunque la sessagesima infino al mercoledì dopo la Pasqua, nel quale dì si canta: "Venite beneditti del padre mio"; però che quelli che si esercitano ne l'opere de la misericordia, sed ellino osserveranno e' dieci comandamenti, udiranno per loro quella parola: "Venite beneditti", sì come esso Cristo ne dà testimonanza, là dove allora saranno aperte a la sposa le porti del regno celestiale e sarà ne le braccia de lo sposo. È ammonita la Chiesa, per lo esempro di san Paulo ne la Pistola, che sofferi pazientemente tribulazione, nel Vangelio è ammonita d'essere intesa sempre a seminare buone opere; e quella che quasi disperandosi avea gridato: "Attorniato m'hanno i dolori de la morte", tornando ora a se medesima, adomanda ne lo Officio d'essere aiutata ne le tribulazioni ed essere liberata da quelle, dicendo: "Exurge Domine", cioè a dire: "Levati, Messere, per nostro aiuto". Or pone tre exsurge; però che sono alcuni ne la Chiesa i quali sono tribulati, ma non vi vegnono meno; alcuni sono che sono tribulati e vegnonvi meno; alcuni che né non sono tribulati, né non vegnono meno, ma perché non sostegnono de l'avversitadi da temere e che le prosperitadi non li rompano. Grida dunque la Chiesa per gli primai che sieno aiutati; grida per li secondi che sieno ritratti dal male; grida per li terzi che sieno sustentati ne le prosperitadi.
cap. 33, QuinquagesimaLa quinquagesima dura da la Domenica che si canta: "Esto mihi, Domine, in Deum protectorem", e terminasti il die de la Pasqua. Or fu ordinata per tre ragioni da la prima, cioè per compimento, per significamento e per lo rappresentamento. Primieramente per compimento; imperò che, dobbiendo noi digiunare LX a la similitudine di Cristo, e per le domeniche non essendovi se non XXXVI dì da digiunare, però che le domeniche non si digiunavano, sì per l'allegrezza e per la riverenza de la resurressione, sì per lo essempro di Cristo il quale mangiò due volte in quello di risurressio, cioè quando elli entrò a loro stando le porti serrate ed ellino gli offersoro una parte di pesce arrostito e del siare del mele e l'altra volta con quelli due discepoli in Emaus, imperò per rimettere le domeniche sono arroti quattro dì. Ma imperò che i cherici debbono altressì vanteggiare il popolo di santità come fanno d'ordine, per due dì anche innanzi a quelli quattro incominciano a digiunare; e così s'arroge una settimana a la Quaresima e chiamala quinquagesima. L'altra ragione perché fu ordinata si è per lo significamento; imperò che la quinquagesima significa il tempo de la rimissione, cioè de la penitenzia; imperò che la quinquagesima, cioè il cinquantesimo anno, sì era giubileo ed era anno di rimissione, però che allora erano dimessi tutti i debiti, e' servi erano fatti liberi e tutti ritornavano a le loro possessioni. Per la qualcosa è significato che per la penitenzia sono dimessi li debiti de' peccati e li uomini sono liberati da la servitudine del diavolo e ritornano a la possessione de la eternale casa. La terza ragione si è per lo rappresentamento; però che la quinquagesima rappresenta non solamente lo stato de la remissione, ma eziandio lo stato de la beatitudine. Però che nel cinquantesimo anno i servi diventarono liberi, nel cinquantesimo die de la Pasqua fu dato lo Spirito Santo, e però questo rappresenta lo stato de la beatitudine, là dove sarà acquistamento di libertade, cognoscimento di veritade e perfezione di caritade. E tre cose sono a noi necessarie, le quali si propongono ne la Pistola e nel Vangelio; però che, acciò che l'opere de la potenzia sieno presente, richiedesi la caritade, de la quale si fa ricordo ne la Pistola. Anche si richiede la memoria de la passione di Cristo e la fede, la quale s'intende per lo ralluminare del cieco. E queste due cose si pongono nel Vangelio; ché la fede fa l'opere accettevoli a Dio, però che senza fede impossibile cosa è di piacere a Domenedio; la memoria de la passione di Cristo lo fa agevole, onde dice santo Gregorio: "Se la passione di Cristo si reca bene a la memoria, nulla cosa è sì malagevole che non si sofferi con iguale animo". La carità fa essere l'opere continue, onde dice anche san Gregorio: "L'amore di Dio non è ozioso, imperò ch'elli adopera grandi cose s'elli è; ma s'elli annighittisce d'operare, non è amore". Sì che come ne la settuagesima la Chiesa, quasi disperandosi, avea gridato: "Attorniato m'hanno i dolori de la morte" e ne la sessagesima, ritornando a se medesima, dimandava d'essere adiutata, così ne la quinquagesima, già conceputo fidanza e speranza di perdono per la penitenzia, adora e dice: "Sii a me, Domenedio, difenditore".dove quattro cose domanda, ciò sono difensione, fermamento, rifugio e guida. Però che tutti i figliuoli de la Chiesa o e' sono in grazia, o sono in colpa, o sono in avversità, o sono in prosperità. Per li primi adimanda fermamento, cioè che siano confermati in quella grazia; per li secondi adimanda che Domenedio sia a loro rifugio; per li terzi adimanda difensione, cioè che sieno difesi in quelle tribulazioni; per li quarti adimanda guida che ne le prosperitadi siano chiamati da Domenedio. E terminasi la quinquagesima, come detto è, il die de la Pasqua; imperò che la penitenzia fa risurgere a novitade la vita. Ancora in questo tempo si dice spesso il cinquantesimo salmo, cioè il miserere, il quale è salmo penitenziale.
cap. 34, QuaresimaLa Quaresima comincia la Domenica che si canta: "Invocavit me"; là dove la Chiesa, la quale infra tante tribulazioni premuta avea gridato: "Attorniato m'hanno i dolori de la morte" e poscia avea ripresa speranza chiamando Iddio per suo aiuto, dicendo: "Levati, Signore, e sii a me Domenedio difenditore", allora si mostra esaudita quando dice: "Chiamato m'ha e io l'abbo udito". Ora è da notare che la Quaresima sì è XLII dì, compitando le Domeniche; e traendone sei Domeniche, rimangono XXXVI dì d'astinenzia. L'anno si è CCCCLXV dì, de' quali li XXXVI sono la decima parte; ma li quattro dì dinanzi s'arrogono per empiere il santo numero del quaranta, il quale il Salvatore consecròe col suo digiuno. La ragione perché noi osserviamo il digiuno in questo numero di quaranta si è questa; e sono tre ragioni. La prima si è questa, e assegnala santo Agostino; imperò che san Matteo puose quaranta generazioni di Cristo. Acciò dunque discese a noi il Signore col suo numero di XL, perché noi saliamo a lui col nostro quaranta. L'altra ragione assegna egli medesimo, e dice così: acciò che noi abbiamo il cinquanta, al quaranta si dee giugnere diece, imperò che noi vegnamo al beato riposo, convienci affaticare tutto il tempo della vita nostra presente. Onde il Signore stette XLco' suoi discepoli e poscia in capo di diece dì mandò loro lo Spirito Santo consolatore. La terza ragione assegna il maestro Prepositivo ne la Somma dell'Offizio, e dice così: "Il mondo si divide in quattro parti e l'anno in quattro tempi, e l'uomo è composto di IIII elimenti e di quattro omori, ovvero complessioni, il quale ha trapassato la nuova legge, la quale sta in quattro Vangeli, e anche la vecchia la quale stadieci comandamenti. Conviensi dunque multiplicare il diece per lo quattro per fare XL, cioè i comandamenti de la nuova e de la vecchia legge ed adempierli tutto il tempo di questa vita. Il corpo nostro, come detto abbiamo, sì è fatto di quattro elimenti, i quali hanno quasi quattro sedie in noi; però che 'l fuoco ha segnoria ne gli occhi, l'aire ne la lingua e ne l'orecchie, l'acqua ne' membri generativi, la terra ne le mani e ne l'altre membra. Ne li occhi adunque si sta la curiositade; ne la lingua e ne l'orecchie la scurrilitade; ne la narille diletto cattivo; ne le mani e ne l'altre membra la crudeltade. Queste quattro cose confessa il publicano nel Vangelio; imperò che stando da lungi confessa la lussuria, la quale è puzzolente, quasi voglia dicere: "Non ardisco me essere a stare presso, o Signore, acciò ch'io non imputisca ne le tue anari". In ciò che non ardisce a levare gli occhi al cielo, confessa la curiositade; in ciò che si percuote con la mano il petto, confessa la crudeltade; in ciò che dice: "Abbi misericordia di me peccatore", confessa la scurrilitade; però che scurri si sogliono chiamare i peccatori ovvero lecconi maggioremente. Infino a qui ha detto il maestro Prepositivo; ma san Gregorio ne pone tre ragioni ne l'Omelie e dice così: "Perché si guarda il numero quarantesimo ne l'astinenza, se non perché la virtù de' diece comandamenti s'adempie per quattro libri del santo Vangelio? E noi in questo corpo mortale siamo composti di quattro elementi, e per le dilettanze di questo corpo andiamo contra li comandamenti del Signore; imperò che per li desiderii de la carne avemo dispregiato i dieci comandamenti, degna cosa è che noi ristrignamo quasi quattro volte diece la detta carne. E dal die d'oggi insino a la Pasqua, sono sei settimane che fanno quarantadue dì e, traendone sei Domeniche de l'astinenzia, iscampano XXXVI dì in astinenzia; e mentre che l'anno corre per CCCLXV, diamo quasi decima a Dio dell'anno nostro". Insino a qui ha detto san Gregorio. La cagione perché noi non digiuniamo in quello tempo medesimo che digiunò elli, cioè Cristo, che 'ncominciò immantanente che fu battezzato, ma digiuniamo innanzi ne la primavera, diciamo che ciò si fa per più cagioni: la prima può essere imperò che 'l primo uomo commise il peccato ne la primavera, mangiando il cibo dinegato. Quattro ragioni se ne assegnano ne la Somma de l'Officio del maestro Giovanni Beleth. La prima si è che se noi vogliamo risucitare con Cristo, il quale ricevette passione per noi, dobbiamo patire con lui. Adunque in quello tempo digiuniamo che Cristo patìo. La seconda cagione si è per seguitare in ciò i figliuoli d'Israel, i quali, nel detto tempo de la primavera, uscirono primieramente de l'Egitto, e poscia in quello tempo medesimo uscirono di prima de la Babilonia. E ciò si pruova, imperò che sì questi come quegli, sì tosto come ne furono usciti, guardarono la Pasqua; e così noi, seguitando loro, digiuniano in questo tempo, acciò che noi de l'Egitto e de la Babilonia, cioè di questo mondo, meritiamo d'entrare ne la terra de la eternale ereditade. La terza si è acciò che 'l mal calore de la lussuria, il quale per l'accrescimento soperchio de li uomini e per lo sopravvegnente calore del tempo massimamente rinvigorisce ne la primavera, s'attuti e abbassisi per lo digiuno. La quarta si è acciò che l'uomo si disponga bene a ricevere il santo corpo di Cristo, che si dee fare il die de la Pasqua per l'astinenzia de' cibi e de' peccati; onde in figura di Dio i figliuoli d'Israel, innanzi che mangiassono l'agnello, sì s'affliggeano mangiando le lattughe agreste e amare; e così ci dobbiamo noi imprima affliggere per la penitenzia, acciò che degnamente possiamo mangiare l'agnello di vita.
cap. 35, Quattro temporaLe digiuna quattro tempora furono di prima ordinate da papa Calisto, e fannosi quattro volte l'anno secondo i quattro temporali de l'anno, e ciò fu trovato per molte ragioni. La prima si è imperò che la primavera è calda e umida, la state è calda e secca, l'auturno è freddo e secco, e 'l verno è freddo e umido. Digiuniamo adunque la primavera per rattemperare il nocevole omore de la lussuria, la state per iscacciare il nocevole calore de l'avarizia, ne l'autorno per gastigare il secco de la superbia, nel verno per cacciare via il freddo de la infedelitade e de la malizia. La seconda ragione perché noi digiuniamo quattro volte l'anno, si è per ciò che imprima di questi digiuni si fanno di marzo, cioè la prima settimana de la Quaresima, acciò che in noi si marciscano li vizii, però che non possono al tutto essere spenti; ovvero maggioremente acciò che nascano in noi germogli de le virtudi. Ne la state si fanno i secondi, cioè ne la settimana dopo la Pentecoste, imperò che allora venne lo Spirito Santo e noi dobbiamo essere ferventi ne lo Spirito Santo. Di settembre si fanno la terza volta innanzi a la festa di san Michele, imperò che allora si ricolgono le frutta e noi dovemo rendere a Dio i frutti de le buone opere. Di dicembre si fanno la quarta volta, imperò che allora muoiano l'erbe e poi dovemo essere morti al mondo. La terza ragione si è per seguitare l'esemplo de' giudei, i quali digiunavano quattro volte l'anno, cioè innanzi la Pasqua, innanzi a la Pentecoste, innanzi la scenofegia, cioè la festa de le tende, nel mese di settembre, e innanzi la sagra nel mese di dicembre. La quarta ragione si è perché l'uomo è composto di quattro elementi quanto al corpo e di tre potenzie quanto a l'anima, cioè la razionale, la concupiscibile e l'irascibile. Acciò dunque che queste cose siano bene ammoderate in noi, quattro volte l'anno digiuniamo tre dì, acciò che 'l numero del quattro si rechi al corpo e 'l numero del tre a l'anima. E queste ragioni assegna il maestro Joanni Damasceno, imperò che ne la primavera cresce il sangue, ne la state la collera, ne l'autorno la malinconia e 'l verno la flemma. Digiuniamo adunque la primavera, acciò che sia indebolito in noi il sangue de la concupiscenzia e de la isconcia letizia, però che i sanguigni sono naturalmente lussuriosi e allegri; digiuniamo la state acciò che sia indebolito in noi la collera de l'ira e de lo inganno, però che i collerici sono naturalmente adirosi e ingannevoli; digiuniamo l'autorno acciò che sia indebolita in noi la malinconia de la cupidezza e de la tristizia, però che i malinconici sono naturalmente tristi ed avari; nel verno digiuniamo acciò che sia indebolita la flemma de la negligenzia e de la pigherizia, però che i flemmatici sono naturalmente nighittosi e pigri. La sesta ragione si è perché la primavera è più assimigliata a l'aere e la state al fuoco e l'autorno a la terra e 'l verno a l'acqua. Sì che digiuniamo ne la primavera, acciò che sia domato in noi l'aere del rigoglio de la superbia, e ne la state, acciò che sia domato in noi il fuoco de la cupiditade e de l'avarizia, e ne l'autorno, acciò che si domi la terra de la spirituale frigidezza e tenebrosa ignoranza, e nel verno, acciò che sia domata l'acqua de la levitade e de la mobilità. La settima ragione si è perché la primavera significa la puerizia, la state l'adolescenzia, l'autorno l'età compiuta ed il verno la vecchitudine; sì che digiuniamo la primavera, acciò che siamo fanciulli per la innocenzia, e ne la state, acciò siamo forti evitando l'incontinenzia, e ne l'autorno, acciò che siamo giovani per costanzia e diventiamo maturi per la virtù de la modestia, e nel verno, acciò che diventiamo vecchi per la virtù de la prudenzia e per la vita onesta o vogliamo dire anzi che noi digiuniamo questi quattro tempi per satisfare a Domenedio di ciò che noi avemo offeso per quelle quattro etadi. L'ottava ragione assegna il maestro Guglielmo Altissiodorense, e dice così: "Però digiuniamo noi le quattro tempora de l'anno, acciò che noi ammendiamo per digiuno ciò che noi avessimo fallato in quelle quattro tempora di tutto l'anno. Onde si fanno per tre dì, acciò che noi soddisfacciamo per die ciò che avessimo fallato per mese; e fannosi il mercoledì però che allora fu tradito il Signore da Giuda, e 'l venerdì però che allora fu crocifisso, e 'l sabato però che, mentre che 'l Signore stette nel sepolcro la Chiesa fue trista. Onde dice la Chiesa: "Tristi erano gli apostoli de la morte del loro Signore". Qui finisce le leggende de le feste del mese di Gennaio e comincia quelle di Febbraio.
cap. 36, S. IgnazioIgnazio fu discepolo di santo Giovanni Evangelista e fu vescovo d'Antiochia. Di costui si dice che mandò una lettera a la madre del Signore in questo modo: "A Maria Cristo portante, il suo Ignazio. Me, novizio a la fede e discepolo di Giovanni, dovresti avere confortato e consolato, imperò che del tuo Giovanni ho ricevuto maravigliose cose per detto, e stupidito ne sono per udita. Ma da te, la quale fosti sempre a lui familiaremente congiunta e sua secrentiera, desidero con l'animo d'esserne più certo de le cose udite. Sie sana e t'allegra, e li novizii, li quali sono con esso meco, siano confortati da te e per te e in te. Amen". E la Vergine reale, nata de la schiatta di David, madre di Dio santa, rispuose ad Ignazio in questa maniera: "A Ignazio diletto, insieme discepolo, l'umile ancella di Cristo, Maria. Tutto ciò che tu hai udito di Gesù da Giovanni e impreso da lui, sì è vero, sì che non è licito di dubitare. Credi adunque quelle cose e a quelle t'accosta, e tieni fermo, il voto de la cristianitade, e li costumi e la vita conformerai al voto. E io verrò insieme con Giovanni a vedere te e coloro che sono teco. Sta fermo e adopera vigorosamente ne la fede, né non ti rimuova l'asprezza de la persecuzione, ma sia sano e allegrisi lo spirito tuo in Domenedio il qual'è tua salute". E fue di tanta autoritade santo Ignazio che eziandio san Dionigio, discepolo di san Paulo, il quale fu così sommo in filosofia e così profondo ne la divina scienzia, la parola di santo Ignazio addusse per autorità a confermare i suoi detti; ché, riprendendo alcune persone il nome de l'amore e dicendo che 'l nome de l'amore, ovvero dilezione, non era da mettere ne le cose divine, sì com'elli tratta nel libro de' Divini Nomi, vogliendo mostrare che questo nome amore è da usare ne le divine cose per tutto, sì dice così: "Scrive il divino Ignazio: l'amore mio è crucifisso". Leggesi ne la Storia Tripertita che Ignazio un dì udì gli angeli cantare antefane sopra alcuno monte, e quindi ordinò che l'antefane si cantassero ne la chiesa, e a i salmi si desse il tuono del canto secondo l'antefana. Con ciò dunque fosse cosa che santo Ignazio lungo tempo pregasse Iddio per la pace de la Chiesa, temendo non il suo pericolo, ma di coloro che non erano bene fermi, fecesi incontro a Traiano imperadore che cominciò il regno ne l'anno Domini C ritornante de la vittoria e minacciante di dare morte a tutti i cristiani, e liberamente gli disse sé essere cristiano. E Traiano il fece legare con ferri, e miselo tra mani di diece cavalieri, e comandò che fosse menato a Roma, e minaccialo che là il farebbe divorare a le bestie. Ed essendo menato a Roma, a tutte le chiese mandava sue pistole e confermavagli ne la fede di Cristo; tra le quali ne scrisse una a la Chiesa di Roma, come si truova scritto ne le Storie Scolastice, pregandoli che non impedimentiscano lo suo martirio. Là ove dice così: "Di Siria infino a Roma combatto con le bestie e con la terra e col mare di die e di notte aggroppato e legato e da diece leopardi cavalieri sono menato preso, a i quali io son dato a guardia, i quali per li benefici nostri furono più crudeli [ms.: vecchi], ma io de' benefici loro maggiormente sono ammaestrato. O salutevoli bestie, le quali mi sono apparecchiate, quando verranno, quando mi saranno ammesse, quando fia licito loro d'usare le carni mie? Io le 'nviterabbo a me divorare, e pregherolle che in neune cose vengano meno, né non temano di toccare lo corpo mio; anzi s'elle dimoreranno neente, io ne farò loro forza, io mi trametterò loro. Io vi priego che mi perdoniate; io so bene quello che m'è utile, i fuochi e le croci, le bestie, le dovisioni de l'ossa, gli squarciatori di tutt'i membri e di tutto il corpo mio e poco meno tutti quant'i tormenti del diavolo cercati per arte divina abbondassero sopra me, pur possa io degnamente avere Jesù Cristo". Essendo dunque venuto a Roma e menato dinanzi a Traiano, disse a lui Traiano: "O Ignazio, perché mi fai rubellare Antiochia e converti la gente mia a cristianitade?" Al quale disse Ignazio: "Dio il volesse ch'io potessi anche convertire, acciò che tu sempre avessi il fortissimo principato!" Al quale disse Traiano: "Sacrifica a' miei dei, e sarai prencipe di tutt'i sacerdoti". Disse Ignazio: "Né a tuoi iddei farò sacrificio, né tua dignità disidero; e di me potrai fare che vuogli, ma in neuna guisa mutare non mi potrai". Disse Traiano a' fanti suoi: "Con piombati martellate le spalle sue e con unghioni stracciate le latora sue, e con dure pietre constrignete le sue piaghe". E con ciò fosse cosa ch'elli avesse fatto fare a lui tutte queste cose e elli permanesse fermo, disse Traiano: "Recate carboni accesi e, con le piante ignude, lo fate andare sopra essi". Al quale disse Ignazio: "Né fuoco ardente, né acqua bogliente potrà spegnere in me la caritade di Cristo Jesù". Disse Traiano: "Or son queste malìe, ché tu patisci così grandi cose e non consenti a me". Al quale disse Ignazio: "Noi cristiani non facciamo male; ma ne la legge nostra vietiamo che vivano coloro che lo fanno; ma voi siete che fate le malìe quando voi adorate l'idole". Allora disse Traiano: "Il dosso suo squarciate con unghioni e sopra le sue piaghe spandete del sale". Al quale disse Ignazio: "Non sono condegne le passioni di questo tempo a la gloria che dee venire". Disse Traiano: "Ora lo togliete e legatelo con legami di ferro, e in un ceppo, nel fondaccio de la carcere, lo guardate; sanza mangiare e sanza bere lo lasciate stare e dopo tre dì il date a divorare a le bestie". Sì che al terzo die lo 'mperatore e tutti i senatori e tutto il popolo di Roma si ragunarono per vedere il vescovo d'Antiochia che doveva combattere con le bestie. E disse Traiano: "Imperò che Ignazio è superbo e contumace, legatelo e lasciate andare a lui due leoni, sì che non lascino nulla di lui". Allora santo Ignazio disse al popolo che era presente: "Uomini romani che sete per vedere questa battaglia, sievi conto che io non sanza merito mi sono affaticato, imperò ch'io patisco queste cose non per retade, ma per pietade". Poscia cominciò a dire così, secondamente che si legge ne le Storie Ecclesiastiche: "Io sono grano di Cristo, sarò macinato co' denti de le bestie, acciò che nasca uno pane bianchissimo". Udendo Traiano queste parole, disse: "Grande è la pazienza de' cristiani; quale de' Greci sosterrebbe tante cose per lo dio suo?" Rispuose Ignazio: "Non per la mia virtude, ma per la virtù di Cristo ho patito queste cose". Allora santo Ignazio cominciò ad allettare i leoni, ché corressono per lui divorare; sì che vennero due crudeli leoni, e forrarli solamente le vestimenta, ma la carne in veruna guisa non toccarono. Traiano, vedendo ciò; partissi quindi con molta maraviglia, e comandò che non fosse vietato a chi volesse torre il corpo suo. Laonde i cristiani tolsono il corpo suo e seppellirolo onorevolemente. E con ciò fosse cosa che Traiano avesse ricevuto alcune lettere ne le quali Plinio secondo commendava molto i cristiani che lo 'mperadore avea fatto uccidere, fu dolente di ciò che avea fatto a Ignazio e comandò che niuno cristiano fosse molestato, ma qualunque n'uccidesse veruno fosse punito. Leggesi che santo Ignazio fra cotante generazioni di tormenti non cessava di chiamare il nome di Jesù Cristo; e dimandandone i giustizieri la cagione perché questo nome tante volte avea ripetuto, rispuose a loro: "Questo nome abbo io cotanto scritto nel cuore mio, e però non mi posso tenere di ricordarlo". Sì che, dopo la morte sua, coloro che l'avevano udito, volendo ciò sperimentire, ischiantarongli il cuore dal corpo e fendederolo per mezzo tutto il cuore suo, e trovarono scritto di lettere d'oro questo nome Jesù Cristo. Laonde molti credettero in Dio. Di questo santo Ignazio dice san Gironimo sopra quello Salmo che dice: Qui habitat: "Grande è quello Ignazio uditore del discepolo che Jesù Cristo amava, martire de le cui preziose reliquie è arricchita la povertà nostra, che in più pistole ched elli mandò a santa Maria sì la saluta e chiamala Cristifera, cioè portante Cristo. Sì ch'è nobile di titoli, di dignitadi e di loda di grande onore!"
cap. 37, Purif. MariaLa purificazione de la beata Vergine Maria nel quarantesimo die de la nativitate di Cristo si è fatta; e suole questa festa avere tre nomi, cioè purificazione, Ipopanti e santa Maria candellaia. Purificazione è detta in ciò che, nel quarantesimo die de la nativitade di Cristo, la beata Vergine se ne venne al tempio per essere mondata, secondo l'usanza de la legge, con ciò fosse cosa impertanto ched ella né fosse tenuta sotto a quella legge; però che la legge avea comandato nel libro Levitico, XII capitolo, che la femmina, la quale, ricevuto seme, avesse partorito figliuolo, fosse immonda sette dì; immonda ciò dice, da compagnia d'uomini ad entrare nel tempio. Ma, compiuti i sette dì, era fatta monda quanto al servigio de gli uomini; ma ancora quanto a lo entrare del tempio era immonda infino a XXXIII dì. A la perfine, compiuti ch'erano XL dì, il quarantesimo dì entrava nel tempio e offereva il fanciullo con donamenti. Ma se avesse partorito femmina, raddoppiavasi e' dì e quanto a la compagnia de gli uomini e quanto a l'entrare del tempio. La ragione il perché il Signore comandasse che 'l quarantesimo die il fanciullo s'offeresse al tempio, può essere per tre ragioni. L'una si è per dare ad intendere che come il fanciullo nel quarantesimo die è menato nel tempio, così nel quarantesimo die, da poi ch'egli è ingenerato, l'anima è messa nel corpo come il suo tempio, sì come dice ne le Storie Scolastiche, avvegna che i filosofi dicono che in quarantasei dì è compiuto il corpo. La seconda si è che sì come l'anima nel quarantesimo dì, messa nel corpo, da esso corpo è maculata, così al quarantesimo die, entrando nel tempio per l'offerta e per lo sacrificio, maggiormente sia purgata da quella macula. La terza ragione si è per dare ad intendere che coloro sono degni d'entrare nel tempio celestiale, i quali vorranno osservare le diece comandamenta con la fede de' quattro Vangelisti. Ma quando partoriva femmina, raddoppiavansi e' dì quanto a l'entrare del tempio, secondamente che si raddoppiano quanto al formare del corpo; ché come el corpo del maschio è formato e perfetto in XL dì, e nel quarantesimo dì l'anima v'è messa entro, così il corpo de la femmina è perfetto in LXXX dì, e ne l'ottantesimo dì v'è spirata l'anima. La cagione perché il doppio più tardi è perfetto il corpo de la femmina entro il ventre de la madre che 'l corpo de l'uomo e gli è infusa l'anima, lasciando stare le ragioni naturali, tre ragioni se ne possono assegnare. La prima si è imperò che Cristo, che dovea ricevere carne in generazione di maschio per rendere onore a la detta generazione e per farle maggiore grazia, volle che più tosto fosse formato e la madre fosse più tosto purgata. La seconda cagione si è che, però che la femmina peccò più che l'uomo, così le sue miserie debbono essere raddoppiate da quelle de l'uomo da parte di fuori nel mondo, e così doveano altressì da parte dentro nel ventre de la madre. La terza si è per dare a 'ntendere che la femmina in alcuno modo diede più fatica a Domenedio che non fece l'uomo, però che Domenedio in alcuno modo è affaticato ne le nostre rie operazioni, sì com'elli dice per lo profeta: "Tu m'hai fatto servire ne le tue iniquitati". Anche dice altrove: "Io m'affaticai sostegnendo". Adunque la beata Vergine non era tenuta a questa legge de la purificazione, imperò che ella partorìe non per seme ricevuto, ma per operazione di Spirito Santo; onde Mosé aggiunse questa parola a quella legge e disse: "Femmina che avesse ricevuto seme", con ciò sia cosa che allora non facea mistiere quanto a l'altre femmine, le quali tutte partoriscono per seme ricevuto; ma però aggiunse la parola detta, come dice san Bernardo, perché temette di dire contra a la madre di Dio. Ma pertanto si volle la beata Vergine sottomettersi a la legge per IIII ragioni. La prima ragione si è per darne essemplo d'umilitade; onde dice san Bernardo, parlando a la donna nostra: "Veramente tu, beata Vergine, non hai cagione e non ti fa mestiero di purificare, ma il figliolo tuo avea bisogno di circuncidere? Sta tra le femmine com'una di quelle, però che 'l figliolo tuo sta così nel mezzo de' peccatori". Questa umilitade non fue solamente da parte de la madre, ma anche da parte del figliuolo, imperò che simigliantemente si volle sottomettere a la legge; che ne la nativitade si portò come povero uomo, ne la circuncisione come povero e peccatore uomo, ma in questo dì si portò come povero e peccatore servo. Primieramente dico che si portò come povero, in ciò ch'elli elesse l'offerta de' poveri; come peccatore si portò in ciò ched elli con la madre volse essere purgato; come servo si portò in ciò che si volse ricomperare. Secondamente che da poi volse essere battezzato non per purgare sua colpa, ma per mostrare la sua grandissima umilitade. Tutt'i rimedii ordinati contra 'l peccato originale volse Cristo ricevere in sé, non perché n'avesse bisogno in alcuno modo, ma per mostrarci la sua grandissima umilitade e per mostrare quelli rimedii ci sarebbero buoni al suo tempo. Cinque rimedii sono ordinati contra quello peccato originale di tempo in tempo; de' quali rimedii li tre, secondamente che dice Ugo di santo Vittore, sono ordinati ne la legge de la natura, ciò sono offerte, decime e sacrificii, per li quali massimamente si dimostra l'opera de la nostra redenzione. Però che 'l modo del ricomperare si dimostrava per le offerte; esso prezzo si dimostrava per lo sacrificio che contenea spandimento di sangue; la cosa ricomperata si dimostrava per la decima, però che l'uomo è significato per la decima dramma. Adunque il primo rimedio fu l'offerta, onde Caino offerette a Dio doni di biadora e Abello de le gregge. Il secondo fue la decima, - il quale rimedio fue innanzi che fosse data la legge -, onde Abraam offerette le decime a Melchisedech sacerdote. Ché, secondo che dice santo Agostino, era decimato quello ch'era curato. Il terzo rimedio fue l'offerta di sacrificii; i quali sacrificii, secondo che dice san Gregorio, valeano contra 'l peccato originale; ma impertanto era adomandato, come dice elli medesimo, acciò che almeno l'uno de' parenti, cioè o 'l padre o la madre, fosse fedele, e alcuna volta l'uno e l'altro poteano essere infedeli. E però avvenne il quarto rimedio, ciò fu la circuncisione, la quale valea o fossero i parenti fedeli o fossero infedeli; ma però che questo rimedio non si potea bene convenire se non solamente a' maschi, né non potea aprire la porta del Paradiso, però venne dopo esso il battesimo, il quale è comunale a tutti e però che apre la porta del Paradiso. Adunque pare che Cristo pigliasse il primo remedio, quando il Signore fu offerto da li parenti nel tempio; e 'l secondo rimedio in alcuno modo prese Cristo quando digiunòe XL dì e XL notti; che però che non avea donde pagare le decime de le cose, almeno offerette a Dio le decime di dì. Il terzo rimedio prese quando la madre sua offerse per lui un paio di tortore, ovvero due pippioni, acciò che se ne facesse sacrificio. E il quarto prese quando si lasciò circuncidere. Il quinto quando prese il battesimo da santo Giovanni Batista. La seconda ragione per la quale la beata Vergine si volle sottomettere a la legge, si fue per empiere la legge. Non era venuto il Signore a rompere la legge, ma adempierla; ché se si fosse settratto a tale legge avrebbosi potuto scusare li giuderi e detto: "La tua dottrina noi non riceviamo, per ciò che tu se' disguale a noi e a' padri nostri e non osservi li statuti de la legge". A tre leggi si sottomisse oggi Cristo, e la beata Vergine Maria. Primieramente a significare vertude, acciò che, da poi che noi avremo fatto tutte le cose, diciamo che noi semo servi disutili. Secondariamente si sottomisse a la legge del ricomperamento per dare essempro d'umiltate. Nel terzo luogo si sottomisse a la legge de l'offerta per darne esempro di povertate. L'altra ragione si fue per porre termine a la legge de la purificazione; ché sì come la tenebra va via quando viene la luce e partesi l'ombra quando viene il sole, così vegnendo la purificazione vera, cessò la purificazione ch'era per figura. Ché qua vi si avvenne la vera purificazione nostra, cioè Cristo; però che acconciamente è detto purificazione ciò che per la fede ne purifica, secondo che si dice ne li Atti de li Apostoli, nel XV Capitolo: "Purificante i cuori loro per la fede". Di quinci è che da indi innanzi non sono tenuti i padri al pagare, né le madri a purificare, ovvero a l'entrare nel tempio, né i figliuoli a quello cotale ricomperamento. La quarta ragione si fue per ammaestrare che noi ci dovessimo purgare. In cinque modi si fa purgagione da 'nfanzia secondo le ragioni de le corti; e, secondo ciò, ci dovemo purgare con giuramento, lo quale significa il rinunziamento del peccato; anche con l'acqua, la quale significa il lavamento del battesimo; anche col fuoco, il quale significa la infusione de la spirituale grazia; anche con testimoni, i quali significano la moltitudine de l'opere buone; anche con battaglia la quale significa la tentazione. Vegnendo dunque la beata Vergine al tempio offerette il figliuolo suo e ricomperollo cinque monete. Ora è da notare che alcuni primogeniti si ricomperavano com'erano li primogeniti de le diece tribù, li quali si ricomperavano cinque monete; ma i primogeniti de' Leviti non si ricomperavano giammai, ma quando giugnevano a l'ultima etade, sempre servivano nel tempio a Domenedio, e sì come li primogeniti de li animali mondi, i quali non si ricomperavano un'altra volta, ma offerevansi a Domenedio. Alcuni si rimutavano sì come li primogeniti de l'asino, i quali si rimutavano in pecore; alcuni s'uccideano, sì come li primogeniti del cane. Con ciò dunque fosse cosa che Cristo fosse de la schiatta di Giuda, la quale fue l'una de le dodici schiatte, manifesto è che si debbano ricomperare. Offersono eziandio per lui un paio di tortore, ovvero due pippioni. Questa era l'offerta de' poveri, ma l'agnello era l'offerta de' ricchi. Non disse pulcini di tortore, come pulcini di colombe, però che pulcini di colombe, come sono i pippioni, sempre si truovano. Né non disse un paio di colombe, come disse uno paio di tortore, però che la colomba è uno uccello lussurioso, e però non volle Dio che s'offeresse per suo sacrificio; ma la tortore è un uccello casto. Ma non avea ricevuto la beata Vergine un poco di prima molti pesi d'oro da i Magi? Pare adunque che bene potea comperare uno agnello. Dovemo dire qui che senza dubbio, come dice san Bernardo, i Magi offersero molti pesi d'oro, però che non è da credere che così fatti re offerissono a cotale fanciullo vili doni; ma la beata Vergine, come piace ad alcuno, non si ritenne quello oro, ma diello incontanente a' poveri, o forse provvidamente lo conservò per la soprastante peregrinazione di sette anni in Egitto; o forse che non offerettono i Magi cotali doni in grande quantità, con ciò fosse cosa che li offeressono in significazione d'alcuna figura. Or pone lo sponitore tre offerte fatte dal Signore. La prima fu fatta da i parenti, la seconda per lui di uccelli, la terza fece elli ne la croce per tutti. La prima dimostra la sua umilitade, però che 'l Signore de la legge si sottomisse a la legge; la seconda dimostra la sua povertade, però che elesse l'offerta de' poveri; la terza dimostra la sua caritade, però che diede se medesimo per li peccatori. La proprietà de la tortora si contengono in questi versi: L'alte cose adomanda la tortora, cantando piagne, Vegnendo annunzia la primavera e castamente vive, Sola dimora, i pulcini suoi nutrica di notte, fugge morticcio. La proprietà de la colomba sono queste: Le granora raccoglie, vola, accompagnata ischifa i corpi morti, Non ha fiele, piagne e tocca il compagno per baci, La pietra le dà il nido, fugge il nemico veduto nel fiume, Non fa male col becco, nutrica bene due pulcini. Secondariamente è detta questa festa "Ipopanti", che tanto è a dire come presentamento, in ciò che Cristo fue presentato al tempio; ovvero che Ipopanti è tanto a dire come scontramento, però che Simeone e Anna si scontrarono al Signore quando era offerto nel tempio. E allora lo tolse Simeon ne le sue braccia. Ed è da notare che tre adombramenti, ovvero annullamenti, furono fatti in questo die del nostro Salvatore. Il primo si è annullamento di verità, però che colui il quale è verità, la quale allumina ogni uomo per se medesimo, che è via, in se medesimo che è vita, è menato oggi, e lasciatosi menare d'altrui, come dice che con ciò sia cosa che menassero il fanciullo Jesù e ecc. Il secondo si è annullamento di bontà, però che quegli, il quale è solo santo e buono, volle, come immondo, essere purgato con la madre. Il terzo si è annullamento de la maestade, però che quelli, il quale porta tutte le cose con la parola de la sua virtude, in questo dì s'è lasciato ricevere e portare ne le braccia d'un vecchio; lo quale impertanto portava colui che portava lui, ovvero secondo che si dice: "Il vecchio portava il fanciullo, ma il fanciullo reggeva il vecchio". Allora lo benedisse Simeone, e disse: "Ora lasci tu Signore il servo tuo in pace". E appellalo Simeone di tre nomi: cioè salute, lume e gloria del popolo d'Israel. La ragione di questi tre nomi si può prendere per quattro modi. Primieramente appresso la nostra giustificazione, acciò che sia detto salute perdonandone la colpa; però che Jesù è tanto a dire, in nostra lingua, come Salvatore, in ciò che fece salvo il popolo suo da i peccati loro; è detto lume dandoci la grazia; è detto gloria del popolo dandoci la gloria. Secondariamente appresso del nostro ringeneramento, però che 'l fanciullo prima è esorcizzato - cioè cacciato il dimonio da lui - ed è battezzato e così è mondato dal peccato, quanto al primo; nel secondo luogo gli è data la candela accesa, quanto al secondo; nel terzo luogo è offerto a l'altare, quanto al terzo. Nel quarto modo appresso de la processione di questo die. Imperò che prima si benedicono le candele e esorcizzansi; nel secondo luogo s'accendano e dannosi in mano a i fedeli; nel terzo luogo entrano ne la chiesa con canti. Ancora si prende la cagione di questi tre nomi appresso le tre dinominazioni di questa festa, imperò ch'ella è detta purificazione quanto al purgare de la colpa; e per questo è detta salute. Anche è detta santa Maria candellaia quanto a l'alluminamento de la Grazia; e per questo è detto lume. Anche è detta Ipopanti quanto al donare de la gloria, e per questo è detto: "Gloria del tuo popolo, o Israele". Allora andremo incontro a Cristo ne l'aere. Ovvero che si puote dire che Cristo è lodato in questo cantico come pace, come salute, come luce e come gloria. Pace è, imperò ch'elli è tramezzatore; salute è, imperò ch'egli è ricomperatore; luce è, imperò ch'egli è dottore; gloria è, imperò ch'egli è glorificatore. È detta nel terzo luogo questa festa di candele in ciò che si portano in mano le candele accese. La cagione perché la Chiesa ordinasse che le candele si portassono accese in mano in questo die, si puote assegnare per IIII ragioni. Imprima per rimuovere l'usanza d'errore, però che i romani di qua adrieto ne le calen di febbraio ad onore di Februa, madre di Marte - il quale Marte era Iddio de le battaglie - di cinque in cinque anni alluminavano la cittade di Roma tutta la notte con torchi e faccelline, acciò che 'l figliuolo suo desse loro vittoria de' nemici - la cui madre così solennemente onoravano -, e quello spazio di tempo era chiamato lustro, cioè a dire tempo di cinque anni. Ancora facevano i romani di febbraio sacrificio a Februo, cioè Plutone, segnore di tutti gli altri dei infernali; e ciò faceano per l'anima de' suoi antecessori. Acciò dunque ch'elli avessero misericordia di coloro, però offerevano solenni sacrificii, e tutta la notte soprastavano in loro lode, e vegghiavano con ceri e con faccelline accese. Ancora le femmine di romani come dice Innocenzio papa, in questi dì facevano la festa di luminari, la quale fu ritratta da alcune favole di poeti; ché dicono che Proserpina fu tanto bella che Plutone, dio infernale, sì se ne invaghìe e preselasi e fecela dea. Sì che li parenti suoi l'andarono caendo molto tempo per le selve e per le boscora con faccelline e con lumiere; e ciò ripresentando le femmine de' romani con faccelline e con lumiere andavano attorno. E però ch'egli è malagevole cosa a lasciare le cose costumate, e i cristiani convertiti a la fede di tra ' gentili malagevolemente potevano lasciare l'usanze antiche de' pagani, e però Sergio papa rimutò questa usanza in migliore, cioè che li cristiani, ad onore de la madre di Dio, ogni anno in questo giorno alluminassero tutto il mondo con cerotti accesi e con candele benedette, affinché lo solennità restasse, ma il fine fosse diverso. Nel secondo luogo si portano le candele accese per mostrare la purità de la Vergine. Però che alcuni udendo la Vergine essere purificata, potrebboro credere ch'ella avesse avuto bisogno di purificarsi. Acciò dunque che si mostri ch'ella fu tutta purissima e splendiente, però ha ordinato la Chiesa che noi portiamo cerotti luminosi, quasi voglia dire la Chiesa: "La Vergine beata non ha bisogno di purgagione, ma tutta riluce, tutta risplende". Veramente ella non avea bisogno di purgagione, però ch'ella non avea ingenerato di seme ricevuto, ed era mondata e santificata perfettissimamente nel venire de la madre. E intanto fu nel ventre de la madre e ne l'avvenimento del Santo Spirito santificata e mondata, che non solamente ne rimase in lei al postutto alcuna inchinevolezza al peccato, ma eziandio la vertude de la santitade e de la castitade sua si stendeva e trapassava infino a l'altre persone, ispegneva tutti i movimenti de la carnale concupiscenza. Onde dicono gli giudei che, con ciò sia cosa che Maria fosse bellissima, unquemai poté essere disiderata. E la ragione si è perché la vertù de la sua castità trapassava per tutti quegli che la vedevano e cacciava via ogne concupiscenzia che fosse in loro. E però è assimigliata al cedro, però che 'l cedro col suo odore uccide i serpenti; così la santità di lei risplendea ne gli altri e uccidea i serpenti, cioè tutti i movimenti ne la carne. E ancora assomigliata a la mirra, però che, sì come la mirra uccide i vermini, così la sua santitade uccidea li desideri carnali, e però ebbe questo vantaggio sopra tutti gli altri che santificarono nel ventre de la madre e sopra tutte le vergini, però che la loro castitade e santitade non trapassava ne l'altri, non ispegneva ne li altri i carnali movimenti. Ma la virtù de la castità de la beata Vergine trapassava infino a le medolle de' cuori de' non casti, e facènsi casti immantanente quanto a se medesima. Nel terzo luogo per ripresentare la processione d'oggi; ché Maria e Giuseppo e Simeone e Anna fecero in cotale die una venerabile processione, e presentarono il fanciullo Jesù al tempio; e così facciamo noi la processione e portiamo in mano il cerotto acceso per lo quale è significato Cristo, e andiamo con esso infino ne la Chiesa. Tre cose sono nel cerotto cioè: cera, lucignolo e 'l fuoco. E per queste tre cose sono significate tre cose che furono in Cristo; però che la cera significa la carne di Cristo, la quale fu nata di vergine sanza corruzione, sì come l'api ingenerano la cera sanza rimescolarsi insieme l'una con l'altra. Il lucignolo ch'è nascoso ne la cera, significa l'anima bianchissima ch'è nascosa ne la carne di Cristo; e 'l fuoco, ovvero lo lume, significa la divinitade, imperò che lo Dio nostro è fuoco il quale consuma. Onde disse un savio del lucignolo, questi versi: Porto questa candela Ad onore di pietosa Maria, E prendi la cera Per la carne tratta de la Vergine vera, E per l'attiva lumera L'altezza de la maestà divina. Nel quarto luogo per nostro ammaestramento, imperò che per questo siamo ammaestrati che, se noi volemo essere purificati da Dio e mondi, tre cose dovemo avere in noi, cioè fede vera, opera buona e la 'ntenzione diritta. Però che la candela accesa in mano si è la fede con l'opera buona e con la intenzione diritta. E come la candela sanza lume è detta morta, e 'l lume per se medesimo sanza candela non riluce, ma pare che sia morto, così l'opera sanza fede e la fede sanza la buona opera è detta che sia morta. E il lucignolo nascoso ne la cera si è la intenzione diritta, onde dice san Grigorio: "Così sia l'operazione tua palese, che la intenzione tua rimanga in celato". Una gentile donna avea gran divozione in santa Maria Vergine, e avea fatto fare una cappella dentro al palagio suo e tenendovi uno proprio cappellano, e ogni dì voleva udire Messa de la Vergine Maria. Sì che appressimandosi la festa de la Purificazione de la Donna nostra, quello cotale prete convenne che s'allungasse per una sua vicenda, e quella donna non potéo udire la Messa in quello dì; ovvero, come si truova scritto in altro luogo, questa donna tutto ciò ch'ella potea rimedire, eziandio le propie sue vestimenta, sì dava per onore de la beata Vergine Maria. Sì che, abbiendo dato il mantello, non potea ire a la chiesa, onde le convenìa stare quello die senza udire Messa. De la quale cosa dogliendosi molto entròe ne la sua chiesa, ovvero ne la camera, e gittossi in terra dinanzi a l'altare de la beata Vergine. Allora, essendo levata la mente a Dio, subitamente le parea essere allogata in una chiesa bellissima e spaziosa e, ragguardando, vide una turba grandissima di vergini venire ne la chiesa; tra le quali aveva una vergine bellissima incoronata d'una corona d'oro, e andava innanzi a tutte. Ed essendosi tutte poste per ordine a sedere, ed eccoti venire un'altra turba di giovani, i quali si puosero anche a sedere secondo ordine; e eccoti uno che recava uno grande fascio di cerotti, e diede uno cerotto prima a la vergine, la quale andava innanzi a tutti, e poscia diede il suo a catuna de l'altre vergini e simigliantemente a li giovani; poscia se ne venne a quella donna e diedele uno cero, e ella lo pigliò volentieri. Allora, ponendo mente per lo coro, vide due che portavano candellieri come accoliti, e 'l diacano e 'l sodiacano e 'l prete vestito di vestimenta sagri, e andavano a l'altare come volessono celebrare la solennità de la Messa. E parevale che gli accoliti fossero san Lorenzo e san Vincenzo, e diacono e sodiacono due angioli, e 'l prete fosse Cristo. E, fatta la confessione dinanzi a l'altare, due bellissimi giovani incominciarono l'Ufficio in mezzo del coro ad alta boce divotissimamente; e gli altri ch'erano in coro, seguitavano il canto. Ed essendo venuto a l'offerere, la reina de le vergini e l'altre vergini con quelli altri ch'erano in coro sì offersono i loro cerotti al sacerdote, come è usanza, ginocchione. E con ciò fosse cosa che 'l sacerdote aspettasse quella donna ch'ella offeresse il cero suo e ella non vi volesse ire, la reina de le vergini sì le mandò a dire per uno messo, ch'ella facea villania a fare tanto aspettare il prete. E quella rispuose che 'l prete andasse oltre con la Messa sua, ch'ella non gliele offerebbe. Allora la reina le mandò anche il messo, e quella rispuose simigliantemente che 'l cerotto che l'era stato dato al postutto non lo darebbe a veruno, ma tenerebbelosi per divozione. Sì che la reina de le vergini comandò al messo, e disse: "Va e priegala anche ch'ella offeri il cerotto e, se non sì, gliele toglie e arrappa di mano per forza". E essendo andato il messo e quella non volendone udire neente, disse il messo ch'elli avea per comandamento di toglierle per forza. Allora quegli con grande forza prese il cero, e sforzavasi di togliele, ma quella il teneva più fortemente e difendevasi francamente; ed essendo la contenzione grande e lunga, l'uno tirando di qua e l'altro di là, subitamente si ruppe il cero, e l'una metà del cerotto rimase in mano a quella donna. Sì che a questo rompere la donna ritornò in sé subitamente, e trovandosi lungo l'altare, com'ella s'avea posta, trovossi rotto il cerotto in mano. De la qual cosa, maravigliandosi molto, rendette molte grazie a la beata Vergine Maria di ciò ch'ella non la lasciò essere quel die senza Messa, ma fecela essere presente a così fatto Ufficio. Sì che quella ripuose il cerotto diligentemente e riserbollo per grandissime reliquie, e chiunque è tocco con esso, immantanente è guarito da qualunque infermità ch'avesse la persona. Un'altra donna essendo gravida, una notte vidde in visione ch'ella portava un gonfalone, lo quale era tinto di colore sanguigno; e svegliandosi incontanente perdéo il sentimento, la quale il diavolo ischernìa tanto che la fede cristiana, la quale avea per adrieto avuta, sì gliele pareva avere tra le mammelle e che n'uscisse quindi immantanente. E non potendo per veruno modo essere curata, vegghiòe una notte ne la chiesa de la beata Vergine Maria, ne la festa de la purificazione e ricevette santade interamente.
cap. 38, S. BiagioBiagio con ciò fosse cosa che risplendesse da tutta mansuetudine e santitade, i cristiani lo chiamarono per vescovo ne la città di Sebaste di Cappadocia; il quale abbiendo ricevuto il vescovado, per la persecuzione di Diocliziano, adimandò una spelonca e in quella fece vita di romito. Al quale li uccelli recavano il pasto e buonamente tutti quanti traevano insieme a lui e, mentre che non ponea sopra loro la mano benedicendoli, non si partivano da lui. E se alcuni di quelli uccelli infermavano, incontanente venivano a lui e riportavano sanitade interamente. Sì che il signore di quella contrada, abbiendo mandati i suoi cavalieri a cacciare, affaticandosi indarno altrove, per avvenimento s'abbatterono a la spelonca il santo Biagio, e trovaro una grande moltitudine di bestie che si stavano dinanzi a quella spelonca e, non potendole per veruno modo pigliare, così spaventati andarono a dirlo al signore loro, il quale mandò immantanente suoi cavalieri e fecesi menare dinanzi lui con tutti i cristiani. In quella notte gli apparve Cristo tre volte, e sì gli disse: "Leva su e offera a me sacrificio". Ed eccoti venire i cavalieri dicendo: "Esci fuori, ché il Signore nostro ti fa chiamare". A i quali rispuose Biagio: "Bene siate venuti, figliuoli, e ora veggio io che Dio non m'ha dimenticato". E andando con esso loro non cessò mai di predicarli, e dinanzi a loro fece molti miracoli. Allora venne una femmina e recòe a' piedi del santo uno suo figliuolo che moriva, ché gli s'era travolto uno osso di pesce entro ne la gola e domandava, con lagrime, che fosse sanato. E san Biagio, ponendo le mani sopra lui, pregò Iddio che quello fanciullo e tutti coloro che adimandassero alcuna cosa nel suo nome, avessero il beneficio de la santade; e 'l fanciullo fue incontanente sanato e guarito. Una femmina poverella, la quale avea solamente uno porco che 'l lupo glielo avea tolto per forza, pregava san Biagio che le facesse rendere il porco suo; e quelli sorridendo disse: "Femmina, non li contristare, e ti sia renduto il porco tuo". E incontanente venne il lupo, e rendette il porco a la vedova. Ed entrando Biagio ne la cittade per comandamento del prencipe, fu messo in pregione; e l'altro die comandò il Signore che gli fosse menato dinanzi e, veggendolo, con dolci parole lo salutòe e disse: "Allegro sii, Biagio, amico de li Dei!" Al quale disse Biagio: "Allegro sie tu, buono preside, ma non dice coloro dei, ma dimoni, imperò che sono dati al fuoco eternale con esso coloro che fanno loro onore". Adirato il preside comandò ched e' fosse bene battuto con verghe, e fecelo rinchiudere ne la carcere. Al quale disse Biagio: "O senza senno, credi tu con le tue pene partire da me l'amore del mio Dio, però che io abbo lui in me che mi conforta?" Udendo queste cose quella vedova, che avea riavuto il porco, uccise il detto porco e la testa con esso i piedi con candele e con pane portòe al santo di Dio. E quelli, rendendo grazie a Dio, sì ne mangiòe e disse a lei: "Ogni anno offera una candela a la chiesa che sarà fatta al mio nome, e a te e a chiunque il farà, verrà molto bene". E quella il fece sempre ed ebbene molta prosperitade. Dopo queste cose essendo tratto fuori de la prigione e non potendo essere inchinato ad adorare li dei, comandò il preside che fosse appiccato in su un legno e con pettini di ferro fossono squarciate le sue carni e, così fatto, il fece rimettere in prigione. Sì che sette femmine, le quali lo seguitavano, raccoglievano le gocciole del sangue suo; le quali incontanente furono prese e costrette a fare sacrificio a li dei. Le quali dissero: "Se tu vuogli che noi adoriamo li tuoi iddei, con reverenza or li manda al lago, acciò che lavato loro con le facce, netti gli possiamo adorare". E 'l preside sì si fa lieto e fa adempiere tostamente quello che quelle femmine avevano detto. Ma quelle presoro gl'iddei e gettarongli nel miluogo del lago, così dicendo: "Se sono dei, ora lo vedremo". E il preside udendo ciò e impazzando per l'ira e percotendo se medesimo, disse a li ministri: "Or perché non teneste voi gli dei nostri, acciò che non fossero gittati nel profondo del lago?" E quelli dissero: "Le femmine parlarono teco ad inganno, e gittarongli nel lago". Dissero le femmine: "L'odio verace non patisce inganno, ma s'ellino fossono stati dei, egli averebbono saputo dinanzi quello che noi volavamo fare". Adirato il preside, comandò che fosse strutto il piombo e che fosse posto da una parte i pettini del ferro e sette panziere roventate di fuoco, e da l'altra parte fece recare sette camicie di lino; e dicendo che elle eleggessero quello che più piacesse loro, l'una di quelle, la quale avea due fanciulli piccolini, corse arditamente e prese quelle camicie e gittolle ne la fornace. E i fanciulli dissero a la madre: "Non ci lasciare dopo te, madre dolcissima, ma come tu ci riempiesti di dolcezza di latte, così ci riempi de la dolcezza del regno celestiale". Allora il preside le fece tutte e sette appiccare a legni, e con pettini di ferro squarciare le carni loro; le cui carni erano bianchissime come la neve e gittavano latte per sangue. E con ciò fosse cosa ch'elle sostenessoro li tormenti non molto volentieri, l'angelo di Dio venne a loro e confortolle vigorosamente, così dicendo: "Non abbiate paura veruna, ché buono operaio che bene comincia e bene finisce, merita d'avere la benedizione da colui ch'è 'l pattovìo con l'opera compiuta e ricevere il merito per la fatica e possiede allegrezza per lo merito". Allora il preside comandòe ch'elle fossero riposte a terra, e fossero messe ne la fornace; le quali n'uscirono fuori sanza male e spento il fuoco per la divina virtude. A le quali disse il preside: "Lasciate stare ora l'arte dei magi, e adorate gli dei nostri". E quelle rispuosono: "Compi quello che tu hai cominciato, imperò che noi siamo già chiamate al regno celestiale". Allora quelli diede la sentenzia e comandò che fosse loro tagliate le teste; le quali, dovendo essere dicapitate, puosero le ginocchia in terra e adorarono Iddio, così dicendo: "O Iddio il quale ci partisti da le tenebre e menasteci in questa luce dolcissima, la quale ci hai fatte tuo sacrificio, ricevi l'anime nostre, e falle pervenire a vita eterna". E così mozzo loro le teste loro n'andarono a Demenedio. Poscia comandò il preside che Biagio gli fosse menato dinanzi, e disse a lui: "O tu adora te stesso, o no". Al quale disse Biagio: "O empio, io non temo le minacce tue; fa che vuogli il corpo mio, io lo ti do al tutto". Allora comandò che fosse messo in profondo del lago; ma elli segnòe l'acqua, e ella incontanente diventòe come terra secca. E disse Biagio: "Sed e' sono veri li dei vostri, mostrate la verità loro, e entrate qua". Ed entrati LXX uomini nel lago, incontanente affogarono. E l'angelo di Dio discese da cielo e disse a lui: "Esci fuori Biagio, e ricevi la corona che t'è apparecchiata da Dio". E essendone uscito, disse a lui il preside: "Tu pure hai ordinato al postutto di non adorare gli dei?" Al quale disse Biagio: "Conosci tu, misero, ch'io sono servo di Cristo, né non adoro le demonia". E incontanente fu comandato che fosse dicapitato, e elli fece orazione a Dio che chiunque adomandasse il suo aiuto per la infermità de la gola, ovvero per qualunque altra infermitade, fosse degno d'essere esaudito. Ed eccoti venire la voce da cielo e disse a lui che così sarebbe com'elli avea orato; e così fu dicapitato con due fanciullini, intorno a gli anni del Signore Gesù Cristo CCXXXIII.
cap. 39, S. AgataAgata vergine gentile, de la mente e del corpo bellissima, ne la città di Cattania lo sommo Iddio sempre in ogne santità adorava, sì che Quintiano consolare di Cicilia, con ciò fosse cosa che fosse di piccolo legnaggio, lussurioso, avaro e dato a gl'idoli, si isforzava di prendere la beata Agata acciò, perch'elli era non nobile, prendendo la nobile fosse temuto, e perché elli era lussurioso e potesse usare la sua bellezza, e perch'elli era avaro rubasse le sue ricchezze, e perch'elli era idolatro la potesse fare sacrificare a l'idole; e fecelasi menare innanzi. La quale essendo menata e cognosciuto il suo fermo proponimento, missela in mano d'una donna, che avea nome Afrodisia, e a le sue figliuole, che ne aveva nove ad una medesima sozzura, acciò che per XXX dì lusingassero la vergine ch'ella consentisse a quello consolare e mutassono l'animo suo. E or promettendo le cose allegre, ora ispaventevoli de le cose aspre, speravano di ritrarla del suo buono proponimento. A le quali Agata disse: "La mia mente è fermata ne la pietra e fondata in Cristo, onde le vostre lusinghe sono venti, le vostre impromesse sono piogge, li vostri ispaventi e le vostre minacce sono fiumi, i quali, avvegna che sospingano in questi fondamenti de la mia casa, cadere non potranno". E dicendo queste cose piagnea continuamente, e stava in orazione abbiendo sete di pervenire al martirio. Sì che veggendo Afrodisia che quella stava pure ferma, disse a Quinziano: "Più tosto si potrebbono ammollire le pietre e lo ferro convertissi in mollezza di piombo, che non si potrebbe ritrarre l'animo di questa fanciulla da lo intendimento de' cristiani". Allora Quinziano la si fece menare innanzi, e disse a lei: "Di che condizione se' tu?" "Non solamente - disse quella - sono gentile, ma di schiatta cavalleresca, sì come tutto il mio parentando ne dà testimonanza". A la quale disse Quinziano: "Se tu se' gentile, perché ti mostri d'avere quanto a' costumi persona di serva?" E quella rispuose: "Perch'io sono ancella di Cristo, però mostro d'avere persona servile". Quinziano disse: "Se tu di' che se' gentile, perché t'affermi d'essere ancella?" E quella rispuose a Quinziano: "La somma gentilezza è questa, ne la quale è provata la servitudine di Cristo". Quinziano disse: "Eleggi quale tu vuoli, o di sacrificare a l'idole, o di sostenere diversi tormenti". Al quale disse Agata: "Sia cotale la moglie tua chente fue Venus la dea tua, e tu sia cotale chente fue Jove lo dio tuo". Allora Quinziano le fece dare de le gotate, così dicendo: "La ingiuria del giudice non volere con matta bocca garrire". Agata rispuose: "Io mi maraviglio di te, che mi pare uno prudente uomo, essere te venuto a tanta mattezza che tu dichi che sono tuoi quelli dei, dei quali non desideri la tua moglie o te imitarne la vita; che tu dichi ché ti sia fatta ingiuria se tu vivi per lo loro essemplo. Che se tuoi iddei sono buoni, io t'abbo desiderato bene; ma se tu gli nieghi che sieno tuoi iddei e di non volere loro compagnia, ecco adunque che tu se' meco in concordia". Quinziano disse: "Che mi fa d'udire parole di soperchio? o tu sacrifica a li dei, o io ti farò morire per diversi tormenti". Rispuose Agata: "Se tu mi prometti da rimettere addosso fiere salvatiche, udito elle ricordare lo nome di Cristo, diventeranno mansuete; se tu mi metterai in fuoco gli angeli, m'apparecchiechianno da cielo rugiada che mi farà salva: se mi darai piaghe o tormenti, io abbo lo Spirito Santo per lo quale io disprezzo ogne cosa di mondo". Allora comandò ch'ella fosse tirata infino a la prigione, per ciò ch'ella il confondea con palese boce; a la quale prigione ella andava molto lietamente, e quasi com'ella fosse invitata a grande convito, la sua battaglia raccomandava al Signore. E l'altro die le disse Quinziano: "Rinniega Cristo, e adora li dei". E quella rifiutando ciò, fu comandata essere sospesa a la colla, ed essere tormentata. Disse santa Agata: "Io mi diletto sì in queste pene come chi ode buono messaggio, o chi vede colui lo quale ha molto disiderio, o chi molti tesori abbia trovato. Non si puote riporre il grano nel granaio, se prima non è bene battuto la sua spiga e recata in paglia: e così l'anima mia non puote entrare in Paradiso con vettoria di martirio, se tu non fai diligentemente malmenare il corpo mio da' giustizieri". Allora adirato Quinziano comandò che la sua mammella fosse ritorta e, così ritorta, per lungo spazio fosse tagliata. Al quale disse Agata: "O empio, crudele e tiranno di Dio, non ti vergogni tu di mozzare ne la femmina quello che tu prendesti in tua madre? io si abbo mammelle intere e salve entro ne l'anima mia, de le quali nutrico tutti i sentimenti miei, li quali da la mia infanzia consagrai al Signore". Allora comandò che fosse rimessa in prigione, vietandole che medico veruno non entrasse a lei, né non le fosse dato da persona veruna né pane né acqua. Ed eccoti intorno a la mezzanotte venire a lei un vecchio e innanzi a lui andava uno fanciullo portatore del lume che recava seco divisate medicine, e disse a lei: "Avvegna che 'l consulare matto t'abbia afflitta con divisati tormenti, ma tu l'hai più afflitto lui con le tue risponsioni; e avvegna ch'elli abbia ritorte le tue mammelle, ma la sua abbondanza si convertirà in amaritudine; e imperò ch'io era presente quando tu pativi queste cose, io viddi che la mammella tua può ricevere medicina di salute". Al quale disse Agata: "Medicina carnale al mio corpo unquemai non diedi, e sozza cosa mi pare che quella cosa ch'i' ho tanto serbata io la perda". A la quale disse il vecchio: "Figliuola, io sono cristiano, non ti vergognare". Al quale disse Agata: "E di che mi posso io vergognare, con ciò sia cosa che tu sia vecchio e di grande tempo, e io sia sì crudelmente lacerata che niuno potrebbe prendere di me mai diletto? ma rendoti grazie, segnore padre, che tu se' degnato d'avere sollecitudine di me". E quegli disse: "Or perché non mi ti lasci tu guarire?" Rispuose Agata: "Però ch'io abbo il mio segnore Jesù Cristo, che con la sua parola cura l'anima, e col detto ristora tutte le cose. Se questi vuole, e' mi può tosto guarire". E sorridendo il vecchio, sì disse: "E io sono suo apostolo, e elli m'ha mandato a te, e sappi che nel suo nome tu se' sanata". E incontanente sparve l'apostolo san Piero. E inginocchiandosi santa Agata per rendere grazie, trovossi da ogne parte sanata, e la mammella riposta al suo petto. Con ciò dunque fosse cosa che per lo grande lume le guardie ispaurite fossero fuggite e avessero lasciata la prigione aperta, pregavalla alcuni che se ne andasse; e quella disse: "Non piaccia a Dio ch'io fugga e perda la corona de la pazienzia e le guardie mie metta in tribolazioni". Dopo quattro dì disse a lei Quinziano ch'ella adorasse gli dei, acciò che non sostenesse più gravi tormenti. Al quale disse Agata: "Le parole tue sono pazze e vane, che macolano l'aere e sono malvage. O misero, senza sentimento e senza intendimento, come vuo' tu ch'io adori le pietre, e lasci lo Iddio vivo e vero del cielo, il quale m'ha guarita?" Quinziano disse: "E chi t'ha guarita?" Disse Agata: "Hammi guarita Cristo, figliuolo di Dio". Disse Quinziano: "Ancora se' tu ardita di ricordare Cristo, lo quale io non voglio udire?" Agata disse: "Mentre ch'io viverò, sempre il chiamerò con la lingua e col cuore". Quinziano disse: "Or vedrabbo io se Cristo ti guarrà!" E comandò che si spandessero gusci rotti e sotto i gusci mettere carboni vivi e accesi, e così vi fosse voltolata suso col corpo ignudo. E faccendosi ciò, eccoti venire uno grande tremuoto, il quale commosse tutta la città in tal maniera, che caggendone una parte, abbatéo due consiglieri di Quinziano; e tutto il popolo corse a lui a romore gridando che, per lo 'ngiusto tormentamento d'Agata, pativano cotali cose. Allora Quinziano, da una parte temendo il tremuoto e da l'altra parte il romore del popolo, comandò che anche fosse rimessa in pregione. Nel quale luogo ella pregò Domenedio, e disse: "Messere Jesù Cristo, che mi creasti e hammi guardata da la mia infanzia, lo quale hai conservato da sozzura il corpo mio e hai tolto da me l'amore di questo mondo e che m'hai fatto vincente i tormenti e in essi m'hai donato la virtude de la pazienzia, ricevi lo spirito mio e comanda ch'io pervenga a la tua misericordia". E abbiendo fatta questa orazione con grande boce, rendette l'anima a Dio, intorno agli anni Domini CCLIII sotto Decio imperadore. E con ciò fosse cosa che i fedeli cristiani acconciassono il corpo suo con ispezierie e allogasserlo nel monimento, eccoti venire un giovane vestito di seta con più di cento uomini bellissimi e ornati e vestiti a bianco, che mai non erano stati veduti in quelle parti; e venne al corpo di costei e, ponendo una tavola di marmo a capo di lei, disparve da gli occhi di tutti. Ed era scritto in quella tavola queste parole: "Mente santa e spontania, onore a Dio e liberamento del paese". La quale parola s'intende così: Mente santa ebbe, spontania sé offerse, onore a Dio diede e liberamento del paese fece. E divolgato questo grande miracolo, eziandio i pagani e li giuderi cominciarono ad avere in molta riverenza il suo sipolcro. E andando Quinziano per cercare de le ricchezze che l'erano rimase, due cavalli si gareggiavano insieme e, scalcheggiandosi, l'uno di quelli due diede uno grande morso a Quinziano, e l'altro gli diede uno tale calcio che 'l cacciò entro 'l fiume in tale modo, che 'l corpo suo non si poté mai ritrovare. E, rivolto l'anno intorno al die de la sua morte, uno grandissimo monte ruppe appresso de la cittade e gittò fuori arsura, la quale uscendo del monte come fosse un fiume e illiquidendo i sassi e la terra con grande furore se ne venìa a la cittade. Allora una grande moltitudine di pagani discese del monte e, fuggendo al sepolcro di santa Agata, tolsono lo velo col quale era coperto il sepolcro e puoserlo a rincontro del fuoco e, immantanente, in quello die de la sua morte, cioè in capo de l'anno, il fuoco costette fermo e non andò più innanzi. Di questa vergine dice così tanto Ambrogio nel Profazio: "O beata gloriosa vergine, la quale meritòe di sacrificare a Domenedio il suo sangue per loda del fedele martorio! o chiara, gentile e gloriosa gemma alluminata di bellezza, la quale intra gli aspri tormenti soprapposta a tutt'i miracoli e splendente di figurativo aiutorio meritòe d'essere curata per incitamento de l'apostolo! Sì come i cieli ricevettono la disposata a Cristo, così per gloriosi servigi risplendono le membra da seppelliredove il coro de li angioli dimostra la santità de la morte e l'onore di Dio e 'l liberamento del paese".
cap. 40, S. VedastoVedasto dal beato Remigio fu ordinato vescovo de la cittade d'Atracax. Il quale, essendo venuto a le porte de la cittade e abbiendovi trovato due poveri, l'uno cieco e l'altro zoppo che domandavano limosina, disse a loro: "Oro e ariento non abbo, quello che io abbo, sì vi do". E fatta l'orazione sanòe l'uno e l'altro. E con ciò fosse cosa che uno lupo abitasse in una cotale chiesa abbandonata, coperta di spine, sì li comandò che fuggisse di quello luogo e mai non vi dovesse tornare, e così fu. A la perfine abbiendone convertiti molti con parole e con buoni essempri, nel quarantesimo anno del suo ufficio di vescovo vidde una colonna di fuoco stendere da cielo insino ne la sua casa. E quegli considerando che la fine sua era di presente, dopo poco tempo pesòe in pace, intorno a gli anni Domini DL. E traslattosi il corpo suo, uno che avea nome Audomato, il quale per vecchiezza era diventato cieco, dogliendosi di non potere avere veduto il corpo del santo, immantenente riebbe il vedere, ma poi al disiderio suo perdette il vedere.
cap. 41, S. AmandoAmando, nato di nobile parenti, entrò nel monisterio. Il quale, andando per lo monisterio, trovò uno grandissimo serpente, lo quale immantanente, con la virtù de la Croce e con la orazione, costrinse di ritornare a la fossa che giammai non uscisse. Venendo dipoi al sepolcro di san Martino, rimase quivi quindici anni, vestito di cilicio, sostentato di acqua e di pane d'orzo. Dopo questo, essendo venuto a Roma e vegghiando ne la chiesa di san Piero, il guardiano de la chiesa il ne cacciò fuori sanza veruna reverenzia. Il quale per l'ammonimento di san Piero, che li apparette dinanzi a le reggi de la chiesa, dormendo lui, si mosse e andonne in Francia e riprendendo il re Dagoberto de' suo' peccati, adirato il re sì 'l cacciò fuori del suo reame. A la perfine, con ciò fosse cosa che il re non avesse figliuolo e, fatta l'orazione a Domenedio, l'avesse avuto, incominciò a pensare il re a cui elli lo facesse battezzare il fanciullo suo e vennegli ne la mente di farlo battezzare ad Amando. Sì che fatto cercare di lui e menato al re, il re gli si gitta a' piedi e pregollo che gli perdonasse e che battezzasse il suo figliuolo che 'l Signore gli avea dato. Ma elli concedette benignamente la prima domanda; ma temendo d'essere impacciato de' fatti secolareschi, iscusossi de la seconda e andossi via. A la perfine, vinto per prieghi, acconsentìo al disiderio del re e battezzando il fanciullo, tacendo tutti quelli ch'erano presenti, il fanciullino rispuose: "Amen". Poscia il fece fare vescovo di Treci; del quale luogo, veggendo che la parola de la predicazione era sprezzata da più persone, andossene in Guascogna; là dove uno trastullatore faccendo strazio de le parole sue fu preso dal dimonio e, manifestandosi tutto con i suoi denti propi, confessa ch'elli avea fatto ingiuria a l'uomo di Dio, e incontanente morìe in molta miseria. Una volta ch'elli si lavava le mani, alcuno vescovo fece serbare quella acqua con la quale fu poscia sanato uno cieco. Vogliendo fare uno monisterio con volontà del re in alcuno luogo, uno vescovo de la prossimana cittade recandosi ciò a noia, sì mandò suoi fanti che od ellino il cacciassono via, od ellino l'uccidessono per certo. E quelli, veggendolo, sì li dissero ad inganno ch'elli andasse con loro e mostrerebboli uno luogo acconcio a fare monisterio. Ma elli, conoscendo dinanzi la loro malizia, andò con esso loro infino a la sommitade sopra del monte, là ove ellino lo volevano uccidere, però ch'elli desiderava molto il martirio; ma eccoti venire tanta piova e sì grande tempesta, che tutto il monte copriva sì che l'uno l'altro non poteva vendere; e già pensando morire, gittarsi in terra e chiedevano perdonanza e pregavallo ch'almeno vivi gli lasciasse partire. Ed elli fece orazione a Domenedio e impetròe da lui grande sereno. Sì che coloro ritornarono a casa, e santo Amando iscampò de le loro mani; e così faccendo molti altri miracoli si riposòe in pace. Fiorì intorno a gli anni Domini DCLIII al tempo d'Eraclio, imperadore di Roma.
cap. 42, S. ValentinoValentino fu uno venerabile prete, lo quale Claudio imperadore facendo menare dinanzi a sé, sì 'l domandò così dicendo: "Che è ciò Valentino? ché tu non usi la nostra amistade, acciò che adorando li nostri dei o tu caccia via le vanitadi e la tua soperchianza?" Al quale disse Valentino: "Se tu conoscessi la grazia di Dio, tu non diresti mai queste cose, ma ritraresteti l'animo da l'idole e adoreresti Domenedio ch'è in cielo". Allora uno, che stava dinanzi a Claudio, disse: "Che vuo' tu dire, Valentino, de la santità de gli dei nostri?" Al quale disse Valentino: "Io non dico nulla se non ched e' furono uomini miseri, pieni d'ogni immondizia". Al quale disse Claudio: "Se Cristo è verace Iddio, perché non mi di' tu quello ch'è vero?" Al quale disse Valentino: "Veramente che Cristo è solo Dio, nel quale, se tu crederai, l'anima tua sarà salva e 'l comune accrescerà e saratti conceduta vittoria di tutti i nemici". Rispuose Claudio e disse a coloro ch'erano presenti: "Uomini di Roma, udite come questo uomo parla saviamente e dirittamente". Allora disse il prefetto: "Ingannato è lo 'mperadore; come lasceremo noi quello che noi abbiamo tenuto da la nostra fantilitade?" Ed allora fu mutato il cuore di Claudio. Sì che quelli fu dato in guardia ad uno prencipe e, sendo menato ne la casa del principe, sì disse: "Messere Jesù Cristo che se' verace lume, allumina questa casa, acciò che cognoscano che tu se' vero Iddio". Al quale disse il perfetto: "Io mi maraviglio che tu di' che Cristo sia lume; certo, s'elli alluminerà la figliuola mia cieca, io farò ciò che tu comanderai". Allora Valentino pregando Iddio alluminò la figliuola di colui cieca, e convertì tutti quelli di quella casa. Allora lo 'mperadore comandò che Valentino fosse dicapitato, e ciò fu nel torno a gli anni Domini di Jesù Cristo CCLXXX.
cap. 43, S. GiulianaGiuliana, essendo disposata ad Eulogio prefetto di Nicomedia, non volendo in alcuno modo congiugnersi con lui se prima non ricevesse la fede Cristo, comandò il padre suo ch'ella fosse spogliata e battuta durissimamente e fosse data a quello perfetto. Al quale disse il prefetto: "Dolcissima mia Giuliana, perché mi beffasti e perché mi rifiuti tu così?" E quella disse: "Se tu adorerai lo mio Dio, io sì ti acconsentirò, altrimenti mio signore non sarai giammai". A la quale disse il prefetto: "Donna mia, questo non posso io fare, però che lo 'mperadore mi farebbe tagliare il capo". Al quale disse Giuliana: "Se tu temi così lo 'mperadore mortale, come vuo' tu ch'io non tema lo immortale imperadore? Fa ciò che ti piace, ché me non potrai tu ingannare". Allora il prefetto comandò ched ella fosse gravissimamente battuta con verghe, e dal mezzodie innanzi stesse appiccata per gli capelli, col piombo colato le fosse sparto sopra il capo. La qualcosa non abbiendole fatto nocimento veruno, sì la fece legare con le catene e rinchiuderla in pregione. E 'l diavolo venne a lei in figura d'agnolo e sì le disse: "Giuliana, io sono l'agnolo di Dio che m'ha mandato a te, perch'io ti debba ammonire che tu faccia sacrificio a li dei, acciò che tu non sia tanto tormentata e che tu non muoia così malamente". Allora Giuliana cominciò a piagnere, e fece orazione a Domenedio e disse: "Signore mio Iddio, non mi lasciare perire, ma dimostrami chi è questi che mi conforta di cotali cose". E vennele la boce da cielo ch'ella il prendesse e costrignesselo di confessare chi elli fosse. E quella domandò chi elli fosse, e quelli disse ch'era il demonio e che 'l suo padre l'avea mandato per ingannarla. Al quale disse Giuliana: "E chi è il padre tuo?" E quelli rispuose: "Il mio padre sì è Belzabub che ci manda a fare tutti i mali, e fanne battere gravemente per quante volte noi siamo vinti da' cristiani; e però so io bene che male ci venni a mio uopo, perch'io non t'ho potuto vincere". E infra l'altre cose che manifestòe, sì disse che allora massimamente si dilungava da' cristiani quando si facea il misterio del corpo di Cristo e quando si facevano l'orazioni e le prediche. Allora santa Giuliana gli legòe le mani di dietro e, gittandolo in terra, sì 'l batté durissimamente con la catena con la quale ella era legata, e 'l diavolo gridando sì la pregava e diceva: "Madonna mia Giuliana, abbi misericordia di me". Allora il prefetto comandò che Giuliana fosse tratta di prigione; la quale uscendone traevasi di drieto il demonio legato, e 'l dimonio sì la pregava e sì dicea: "Madonna mia Giuliana, non fare ischernie di me, ch'io non potrò, da qui innanzi, avere valore contr'altrui; i cristiani sono detti d'essere misericordiosi e tu non hai niuna misericordia di me". E così il si trasse dietro per tutto il mercato, e poscia l'andòe a gittare in uno pozzo, cioè in uno sozzo luogo. Ed essendo pervenuta al prefetto, fu tanto distesa in su una ruota che tutte l'ossa sue si ruppono insino a l'uscire de le midolla; e l'angelo di Dio venne e stritolò la ruota e sanò colei, cioè Giuliana, in uno punto. La quale cosa veggendo quelli ch'erano presenti, credettero in Dio, e incontanente ne furono dicollati D uomini e cento trenta femmine. E poscia essendo messa in una caldaia piena di piombo colato, ma questo le si fece temperato come bagno, sì che il prefetto maladisse gli dei suoi che non ne avevano potuto vincere una fanciulla che le faceva cotanta ingiuria. Allora comandò ch'ella fosse dicollata; la quale essendo menata a dicollare, il dimonio, ch'ella avea battuto, apparendovi in figura d'uno giovane, gridava dicendo: "Non le perdonate, però ch'ella ha vituperati li dei nostri e me battéo gravemente stanotte. Rendetele dunque quello ch'ella hae meritato, e con ciò fosse cosa che Giuliana aprisse non poco gli occhi per vedere chi fosse quelli che parlava cotali parole, il demonio fuggendo sì gridò: "O me cattivello, che ancora penso ch'ella mi vuole prendere e legare. Sì che essendo dicollata santa Giuliana, il prefetto navigando per mare, nacque una tempesta, e affogovvi entro con XXXIV uomini; e le corpora di costoro, da che 'l mare l'ebbe gittate fuori, furono mangiate da le bestie e da li uccelli.
cap. 44, Cattedra S. PietroLa caffera di s. Piero è detta che sia in tre maniere, cioè caffera reale, sì com'è scritto nel secondo libro di Re, nel XXIII capitolo: "David sedette in caffera". Anche è detta sacerdotale, come dice nel primo libro de' Re nel primo capitolo: "Eli sacerdote seggente su la sella". Anche è detta maestrale, come dice santo Matteo nel XXIII capitolo: "Sopra la caffera di Moisé sedettero gli scribi e farisei". Sì che messere san Piero sedette in caffera reale, però che fu prencipe di tutte le genti, e ne la sacerdotale però che fu pastore di tutti i cherici, e ne la maestrale, però che fu dottore di tutt' i cristiani. De la caffera di san Piero si fa festa da la Chiesa, però che si dice messere san Piero apostolo fu innalzato in caffera onorevolemente ne la città d'Antiochia. E l'ordinamento di questa solennitade pare che avesse tre cagioni. La prima si è questa: che predicando san Piero la città d'Antiochia, Teofilo prencipe di quella cittade, sì li disse: "Piero, per quale cagione sconventi tu il popolo mio?" Sì che predicando san Piero a lui la fede di Cristo, quegli lo fece legare e lasciarlo stare sanza mangiare e sanza bere. Ma con ciò fosse cosa che san Piero venisse quasimente meno, ripigliando la forza, levò gli occhi in cielo e disse: "Jesù Cristo, re de' miseri, aiutami che vegno meno in queste tribulazioni!" Al quale rispuose il Signore: "Piero, credi tu essere abbandonato da me? de la mia bontade è i biasimi, se tu non hai paura di dire cotali cose contra di me. Apparecchiato è ch'io soccorra a la tua miseria". E udendo Paulo che san Piero era incarcerato, vennese a la corte di Teofilo, e affermava che esso era uomo e sommo lavorante di molte arti, che sapea bene intagliare legni e tavole, dipignere camere e corti, e molte altre cose ingegnose disse che sapea operare. Sì che fu pregato strettamente da Teofilo che stesse ne la corte con seco. E rivolti parecchie die Paulo entròe a Piero ne la carcere di nascoso e, veggendolo poco meno morto e consumato, e' cominciò a piagnere amarissimamente e, abbracciando lui, quasi per lo pianto venìa meno; e rompendosi a parlare, sì disse così: "O Piero, fratello mio, gloria mia e allegrezza mia, mezzo de l'anima mia, per lo mio priego ripiglia le forze!" Allora Piero, aprendo gli occhi e riconoscendolo, cominciò a lagrimare, ma parlare non gli potea; e accorrendo Paulo appena aperse la bocca sua e mettendovi entro alcuno cibo, sì 'l confortòe un poco. Quando Piero fu confortato del cibo, corse incontanente sopra Paulo e tutto quanto lo baciava, e amendue piansero molto. Paolo, ritornando celatamente, disse a Teofilo: "Grande è la gloria tua e la cortesia tua e amichevole de l'onestade; ma piccolo male disonesta molte cose. Rammentati quello che tu hai fatto a quello cristiano, ch'è detto Piero, come fosse uno grande fatto. Egli è pannaccioso, sozzo, consumato di magrezza, non ha altro che parole, e cotale persona si conviene a te di mettere in carcere? Maggioremente se fosse libero, come suole, sì ti potrebbe ancora essere utile in alcuna cosa che, sì come dicono alcuni uomini di lui, egli sana gli 'nfermi, risucita i morti". Al quale rispuose Teofilo: "Favole sono quello che tu di', Paulo; ché sed elli risucitasse i morti, elli potrebbe se medesimo de la carcere liberare". Al quale disse Paulo: "Sì come il Cristo suo, come dicono, risucitò da morte, il quale impertanto non volse scendere de la Croce, così Pietro a questo assemplo, come vogliono dire, non si libera se medesimo, e di patire per Cristo non teme". Al quale rispuose Teofilo: "Fa dunque che risuciti il figliuolo mio, che morì già fa XIIII anni, e io il ti renderò sano e libero". Sì che entrando Paulo a Piero, sì disse com'egli avea promesso di fare risucitare il figliuolo del prencipe. Allora disse Piero: "Grande cosa hai promessa, Paulo, ma per la virtude di Dio è leggerissima". Ed essendo Piero tratto de la carcere, fu aperto il monimento, e fece priego per lo morto e, incontanente, risucitòe vivo e sano. (Ma bene pare al postutto questo miracolo non simigliante a la verità per tutte le cose, cioè che o che Paulo per umano scaltrimento s'infignesse di sapere comporre cotali maestrie, o che la sentenzia del giovane stesse sospesa per XIIII anni). Allora Teofilo e tutto quanto il popolo credettono a Domenedio con molti altri, e feciono una gloriosa chiesa e nel miluogo acconciarono un'altra caffera e levaronvi suso alto Piero, acciò che potesse essere udito da tutti e veduto. Ne la quale caffera sedette VII anni; ma poi vegnendo a Roma sedette nella caffera romana XXV anni. Ma impertanto del primaio onore fa festa la Chiesa, però che allotta di prima cominciarono ad essere esaltati li parlati de la chiesa e per lo luogo e per la potenzia e per lo nome. Allora fu adempiuta la parola del Salmo: "Levino molto lui ne la Chiesa del popolo, e ne la caffera de li antichi lodino lui". E nota che sono tre chiese quelle dove san Piero fue esaltato, cioè la chiesa de' combattenti, de' malignanti e de' trionfanti. In queste tre chiese fu esaltato san Piero secondo tre feste che la Chiesa fa di lui. Però ch'egli è esaltato primieramente ne la Chiesa de' combattenti, soprastando a lei e reggendola ne la fede e ne' costumi lodevolemente; e ciò quanto a la solennità d'oggi, la quale è detta caffera, imperò che allora ricevette il Papato sopra la Chiesa d'Antiochia e ressela sette anni lodevolemente. Secondariamente è esaltato ne la Chiesa de' malignanti, cioè guastando quella e convertendola a la fede; e questo s'appartiene a la seconda festa che si dice ad vincula, però che allora distrusse l'ecclesie de' maligni e convertinne molti a la fede. Ne la terza parte è esaltato ne la Chiesa de' trionfanti, in essa bene venturosamente entrando, e ciò quanto a la terza solennità di lui; la quale è de la sua passione, imperò che allora entrò ne la Chiesa de' trionfanti Ed è da notare che per più altre ragioni fa festa la Chiesa tre volte l'anno di lui, cioè per lo privilegio, per l'officio, per lo beneficio, per lo debito e per lo essemplo. Imprima per lo privilegio, imperò che messere santo Piero sopra tutti gli altri apostoli fu priviligiato in tre cose; per le quali tre privilegi la Chiesa gli fa onore tre volte l'anno. Imperò che fu più nobile di tutti in autoritade, però che fue principe de li apostoli e tolse le chiavi del reame del cielo. Ancora fu più fervente ne l'amore, però ch'egli amò Cristo con maggiore fervore che non fecero gli altri, sì come si manifesta in molte luogora del Vangelio. Ancora fu più efficace ne la virtude, però che a l'ombra di san Piero, come si legge ne gli Atti, erano sanati gli 'nfermi. Nel secondo luogo per l'officio, però ch'elli ebbe offizio di prelazione sopra l'universale Ecclesia; e imperò, come Pietro fu prencipe e prelato di tutta quanta la Ecclesia, la quale è sparta in tre parti del mondo, cioè Asia e Africa e Europa, così la Chiesa fa tre volte l'anno festa di lui. Nel terzo luogo per lo beneficio, però che elli, il quale ricevette la podestà di legare e di sciogliere, sì ne libera noi da tre maniera di peccati, cioè di pensiere, di parlare e d'operare, ovvero ciò ch'avemo peccato in Dio e nel prossimo e in noi medesimi. Ovvero che questo beneficio puote essere in tre maniere per altro modo; li quali beneficii il peccatore acquista ne la Chiesa per virtù de le chiavi. Il primo si è dimostramento d'essere prosciolto dal peccato; il secondo si è commutamento de la pena del purgatorio in pena temporale; il terzo si è rilasciamento de la pena temporale in parte. E per questi tre beneficii è da essere onorato san Piero in tre maniere. Nel quarto luogo per lo debito, che però ch'elli in tre modi ne pascette e pasce, cioè per parola, per essemplo, per aiutorio temporale, però siamo obbligati ad onorallo tre volte. Nel quinto luogo per lo esemplo, cioè che niuno peccatore si disperi, eziandio se tre volte avesse rinnegato Iddio come Piero, sed elli il vuole confessare come fece quegli col cuore, con la bocca e con l'opera. La seconda cagione perché questa festa fu ordinata, si è questa, la quale è tratta de l'Itinerario di Clemente. Con ciò fosse cosa che Piero predicando la parola di Dio s'appressimasse ad Antiochia, tutti quelli di quella cittade gli vennero incontro a piedi scalzi, vestendosi di cilici e spargendosi la polvere in capo, faccendo penitenzia di ciò ch'ellino aveano consentito con esso Simone mago contra di lui. Sì che Piero, veggendo la loro penitenzia, fece grazie a Domenedio; allora coloro gli offersero tutti quelli ch'erano infermi e indemoniati. E abbiendo Piero fattili porre innanzi a sé, chiamòe il nome del Signore sopra loro, sì che un grande lume v'apparve, e tutti furono incontanente guariti correndo e basciando le pedate di santo Piero. Allora fra VII dì furono battezzati più di diece milia uomini; e Teofilo, prencipe di quella contrada e cittade, la sua casa fece consegrare per la chiesa, e fecevi allogare una alta caffera a san Piero, acciò che fosse udito e veduto da tutti. Né non è questo contrario a queste cose che sono dette disopra; ché bene potette essere che Piero, per l'operazione di Paolo, fosse ricevuto a grande onore da Teofilo e da tutto il popolo. Ma partendosi Piero, Simone mago isconvolse il popolo e accressello d'ira gravemente contra Piero; e poscia fecero penitenzia e ricevetterlo onorevolemente. Ma questa festa di caffera san Pietro soleva essere chiamata festa de le vivande di san Piero, però che fu usanza di pagani anticamente - come dice il maestro Giovanni Beleth - che ogni anno del mese di febbraio offerire certo dì vivande sopra gli avelli de' loro parenti; e le demonia consumavano la notte quelle vivande; ma ellino pensavano ch'elle fossero guaste da l'anime che andavano errando dintorno a li avelli, le quali chiamavano ombre. Solevano dire gli antichi, come dice quel medesimo, che quando l'anime sono ne le corpora de gli uomini sono dette [in] inferis manes, cioè a dire diavoli d'inferno; ma quando salivano in cielo, sì le chiamavano spiriti; quando era fresca la sepoltura, ovvero quando andavano errando d'intorno a gli avelli, le chiamavano ombre. E questa usanza di quelle vivande non poté essere spenta appena da li cristiani; la qualcosa attendendo i santi Padri e vogliendolo spegnere al postutto, ordinarono che quello dì medesimo che cotali cose si facevano, si facesse la festa di caffera san Piero, sì di quello incafferamento che fu a Roma, come di quello che fu ad Antiochia; onde di quelle vivande è ancora chiamata da alcuni la festa de le vivande di san Piero. La quarta ragione perché fu ordinata, sì è per reverenza de la corona de' cherici. Ed è da notare che, secondo che vogliono dire alcuni, la corona de' cherici ebbe qui prima cominciamento. Ché predicando san Piero ad Antiochia, sì gli rasono il cucuzzolo del capo in vergogna del nome di Cristo; la qualcosa certamente è poi data in onore a tutto il chericato, la quale fu fatta in vergogna al prencipe de li apostoli per Cristo. Intorno a questa corona de' cherici s'attendono tre cose, cioè: radimento di capo, tagliamento di capegli in parte, e l'accerchiamento de la forma. Il radimento ne la sovrana parte del capo si fa per tre ragioni, de le quali n'assegna due san Dionisio nel libro che fece de la Ecclesiastica Gerarchia, e dice così: "Il tagliamento de' capelli significa la monda e non formabile vita; ma a la tosura de' capelli, ovvero al radere del capo, tre cose significano, ovvero seguiscono, cioè conservamento di purità, disformamento e discoprimento. Il conservamento de la purità, imperciò che de li capelli si raccolgono le sozzure nel capo; il disformamento, imperò che li capelli sono per adornamento, sì che la tonsura significa la monda e non formabile vita, cioè significa che i cherici debbono avere mundizia di mente dentro e non formabile, cioè non richiesto abito di fuori. Lo scoprimento significa che infra sé e Domenedio non dee avere neuno mezzo, ma sanza mezzo veruno debbono essere uniti a Dio e con la faccia iscoperta contemplare la gloria del Signore. Il mozzare de' capelli si fa per dare a entendere in ciò che i cherici debbono mozzare da la mente loro tutti i pensieri di soperchio e avere sempre l'udire a la parola di Dio e averla apparecchiata e ispedita, e rimuovere da sé al postutto tutte le cose temporali fuori che la necessità. Fassi la figura del torchio per molte ragioni. Primieramente perché questa figura non ha cominciamentofine; per ciò si dà ad intendere che i cherici sono ministri di Dio, il quale non ha cominciamento né fine. Anche perché questa figura non ha veruno cantone, e significa che i cherici non debbono avere sozzure ne la vita, però che dovunque ha cantone, sia sozzura, come dice san Bernardo. E debbono avere virtude ne la loro dottrina, però che la verità non ama i cantoni, come dice san Gironimo. Ancora perché questa figura è molto più bella di tutte l'altre; onde in questa figura fece Domenedio di cielo tutte le criature. Per la qualcosa è significato che i cherici debbono avere bellezza dentro ne la mente, e di fuori ne la conversazione. Ancora perché questa figura è più unita di tutte l'altre, però che niuna figura, come dice santo Agostino, sta d'un filare o di due solamente; la figura del cerchio è quella che si conchiude d'un filare e non di più. Per la qualcosa è significato che i cherici debbono avere semplicità di colomba, secondo quello che dice il Vangelo: "E siate semplici come colombe".
cap. 45, S. MattiaMattia apostolo fu ordinato in luogo di Giuda traditore; ma prima veggiamo brievemente il nascimento e l'origine del detto Giuda. Leggesi una storia, avvegna che non sia autenticata da la Chiesa, che fue uno uomo in Gerusalem che avea nome Ruben; il quale per altro nome era chiamato Simeon da la ischiatta di Giuda, ovvero secondo Geronimo de la schiatta di Isacar, il quale ebbe una moglie che fu chiamata Ciborea. Sì che una notte, abbiendosi insieme reso il debito, dormendo Ciborea vidde in sogno quella ch'ella dovea partorire con pianti e con sospiri; lo quale sogno ridisse al marito suo in questo modo: "E mi parea ch'io partorissi uno figliuolo molto pieno di retade e malizie, il quale sarebbe cagione di perdimento di tutta quanta la gente nostra". A la quale disse Ruben: "Maladetta cosa di' tu, che non è degna di mentovare, e pensomi che tu se' rapita da lo spirito di Fitone". E quella disse: "Se io mi sentirò d'avere conceputo e partorito figliuolo, sanza dubbio non è stato spirito fitonico, ma rivelazione certa". Sì che vegnendo il tempo quando ella ebbe partorito il figliuolo, li parenti temettoro molto e cominciarono a pensare quello che dovessono fare di lui. E con ciò fosse cosa che avessoro in orrore d'ucciderlo, né nutricare non volendo colui che dovea essere distruggitore de la sua generazione, misserlo entro in una navicella coperta e lasciarola andare per lo mare entro; e l'onde del mare sì l'approdarono ad una isola che si chiama Scarioth, onde da quella isola è appellato Giuda Scarioth. Sì che la reina di quella contrada, non avendo figliuoli, se n'era andata per sollazzo a la riva del mare, e veggendovi la navicella, fatta com'una cassetta, approdata là per l'onde del mare, sì comandò ch'ella fosse aperta e trovaronvi un fanciullo di bella forma, sospirando disse: "O s'io fossi sollevata da sollazzi di così fatto figliuolo, acciò ch'io non fossi privata di successore del reame mio!" Sì che fece nutricare il fanciullo segretamente, e infinsesi d'essere gravida. A la perfine mostrò falsamente d'avere partorito uno figliuolo maschio; e andò questa fama palese per tutto il reame con grande festa. Li baroni s'allegrarono per la ricevuta schiatta, e il popolo si rallegra con grande letizia. Fecelo adunque nutricare secondo la grandezza del reame. Non passòe molto tempo che la reina concepette del re; nel suo tempo parturìo uno figliuolo. Ed essendo già cresciuti e' fanciulli alquanto, sì si trastullavano ispessamente insieme, e Giuda faceva molto increscimento con molte ingiurie al figliuolo del re, e spesse volte lo faceva piagnere, e la reina recandosi ciò a noia, sappiendo e conoscendo che Giuda non s'appartenea a lei, sì lo battea molto spesso; né pertanto si rimanea Giuda di fare noia a quello fanciullo. A la perfine si manifestò il fatto, e fu aperto come Giuda non era verace figliuolo de la reina, ma era stato trovato. Ed essendosi Giuda accorto di ciò, fortemente si vergognò, e 'l fratello suo putativo, [ms.: fanciullo suo pensativo], figliuolo del re, uccise celatamente. E temendo per questo fatto la sentenzia de la testa, sì si fuggì con esso coloro ch'andavano ricogliendo il tributo, e andonne in Gerusalem e mancepossi ne la corte di Pilato, il quale era quello tempo preside. E imperò che le cose simiglianti s'accostono volentieri insieme, veggendo Pilato che Giuda si confacea a' costumi suoi, cominciollo a tenere molto caro, tanto che fu fatto proposto di tutta la corte di Pilato e al suo senno erano ordinate tutte le cose. Sì che un die Pilato, guardando del suo palagio in uno giardino, fu tanto invaghito de' frutti che erano nel detto giardino, che poco meno non ne moriva. E quello giardino era di Ruben, padre di Giuda; ma non conosceva Giuda il padre, né Ruben il figliuolo, però che pensava che fosse perito ne l'onde del mare, e Giuda non sapea al postutto chi fosse suo padre, né quale fosse la sua madre, né la sua cittade. Chiamòe dunque Pilato Giuda, e sì gli disse: "Io sono sì preso dal desiderio di quelli frutti, che, se io non n'abbo al mio senno, io credo veramente morire tosto". Sì che Giuda andò, e saltò immantanente nel giardino, e prese di quelle mele. Infrattanto venne Ruben e trovò Giuda che gli avea colte le mele sue; sì che incominciarono a contendere fortemente insieme amendue e, dopo il contendere, vennero a darsi insieme e villania; poscia vennero a le mani e batteronsi bene insieme. A la perfine Giuda ricolse una pietra e fedì Ruben con essa in quella parte del capo ch'è collegato al collo, sì che egli l'uccise; ma pure tolse le mele e portolle a Pilato e raccontolli ciò ch'era intervenuto. Sì che, faccendosi sera, Ruben fu trovato morto, e pensarono le persone ched e' morisse di morte subitana. Allora Pilato diede a Giuda tutte le possessioni di Ruben, e Ciborea, moglie del detto Ruben, sì la diede per moglie a Giuda. Sì che un die che Ciborea sospirava e gravemente e Giuda, suo marito, la domandava diligentemente quello ch'ella avesse, e quella rispuose: "Oimè, molto più disavventurata sopra tutte le femmine, ché io attuffai uno mio fantisino piccolino ne l'onde del mare, e trovai morto il marito mio! non so come Pilato ancora a me misera ha sopraggiunto dolore, che me dolorosissima ha dato per moglie a te, e hammiti congiunta in matrimonio, avvegna che non volontarosa di ciò". E con ciò fosse cosa che quella avesse narrato ogne cosa di quello fantigino e, da l'altra parte, Giuda avesse narrato a lei quelle cose ch'erano intervenute a lui, trovato fu che Giuda avesse tolto per moglie la madre e morto il padre. Sì che mosso da pentimento, per confortamento di Ciborea andossene al nostro Signore Jesù Cristo, e domandogli perdonanza de' suoi peccati. Insino a qui si legge di quella storia non autentica, la quale se da raccontare è, rimanga ne lo albitrio di colui che la legge, avvegna che maggiormente sia da lasciare stare che di dirla. Sì che il Signore lo fece suo discepolo, e di discepolo sì lo chiamò apostolo; il quale fu tanto famigliare a lui e amato, ch'elli il fece suo procuratore; lo quale sostenne poi per suo traditore. Ché elli sì portava la borsa de' danari, e furava di quello ch'era dato a Cristo. Sì che dogliendosi al tempo de la passione di Cristo che l'unguento che valeva CCC danari non era stato venduto, perché potesse anche fare di furare quelli danari, andò e vendeo Cristo XXX danari, che ogni danaio valea X piccioli d'usuale moneta. E così ricompensòe il danaio de l'unguento che valeva CCC danari. Ovvero, come vogliono dire alcuni, di quello ch'era dato a Cristo, di tutto elli furava la decima parte; e però per la decima ch'elli aveva perduta ne l'unguento, cioè per li XXX danari, vendette il Signore per tradimento. Sì che costui insino a qui usòe in sua vita tre grandissimi peccati, cioè micidio del padre, furare le cose accomandate dal suo Iddio, tradimento del suo maestro. I quali danari, essendo pentuto, riportò a coloro che gliele avevano dati, e andò e impiccossi per la gola, e impiccato crepò per mezzo e sparonsi le 'nteriora sue. In ciò fu tolta la ragione a la bocca che lo spirito suo maladetto non uscisse quindi, però che non era degna cosa che quella bocca, così vilemente maculata, fosse, la quale avea tocco così gloriosa bocca come quella di Cristo. Che degna cosa era che le 'nteriora ch'avevano ingenerato il tradimento, cadessero rotte, e la gola, de la quale era uscita la voce del tradimento, fosse costretta dal capestro, cioè da la corda che l'affogò impiccandosi. Ancora morìo in aere, acciò che colui il quale offese gli angeli nel cielo e gli uomini in terra, fosse sceverato da la contrada de li angeli e de li uomini e fosse accompagnato con le demonia ne l'aere. Essendo insieme gli apostoli nel Cenacolo tra l'Ascensione e la Pentecosta, veggendo Piero che 'l numero de li apostoli era menovato, che dovieno essere XII, nel quale numero il Signore gli aveva eletti perché predicassero la fede de la santa Trinitade ne le quattro parti del mondo, levossi e stette ritto nel mezzo de' frati, cioè de li apostoli con loro seguito, e disse così: "O uomini frati, e' conviene che noi mettiamo alcuno in luogo di Giuda, che dea testimonianza con esso noi de la resurrezione di Cristo, imperciò che 'l Signore disse a noi: "Sarete a me testimoni in Gerusalem e in tutta Giudea e Samaria e insino a le fini del mondo. E però che 'l testimonio non dee rendere testimonianza se non di quello ch'elli ha veduto e udito, da eleggere è uno di questi uomini che sono stati sempre con esso noi e hanno veduto li suoi miracoli e udita la sua dottrina". E ordinaronne due de li settantadue discepoli, ciò fue l'uno Gioseppo, il quale ha soprannome Giusto per la santità sua, il quale fu fratello di Jacopo Alfei, e l'altro fu Mattia de la cui loda si tace al presente, imperò ch'egli basta per loda ched e' fosse di cotanta gente eletto per apostolo. E stando in orazione, sì dissero: "Tu, Signore, che conosci tutti i cuori de gli uomini, dimostraci quale tu hai eletto di questi due, l'uno a prendere in luogo di questo ministerio e apostolato, lo quale Giuda perdette"; e diedero loro le sorti e cadde la sorte sopra Mattia, e annumerato fu per apostolo con li undici. Ed è da notare che a questo essempro, sì come dice santo Geronimo, non sono da usare le sorti, però che i privilegi di poche persone non fanno legge comune. Da l'altra parte dice così Beda: "Infino a tanto che venisse la verità fu licito d'osservare la figura". Imperò che la vera ostia fu sacrificata ne la passione, ma ne la Pentecosta fue compiuta; e per ciò ne la elezione di Mattia si usarono le sorti, acciò che non si scordassero da la legge ne la quale il sommo sacerdoto si era cercato conforti. Ma dopo la Pentecosta, che già era aperta la verità, li sette diaconi furono ordinati non per sorte, ma per elezione de li discepoli e per orazione de gli apostoli e per comporre le mani sopra loro. Di che maniera sorti queste si fossero, due sentenzie ne fanno de' santi Padri; ché Gironimo e Beda vogliono che queste sorti fossero essute cotali chente s'usavano molto spesso ne la vecchia legge. Ma Dionisio, il quale fu discepolo di san Paulo, pone che sia cosa fuori di religione a pensare ciò; e dice che pare a lui che quella sorte non fu altro che uno razzo e uno splendore mandato da Dio sopra Mattia, per lo quale si dimostrava che fosse da prendere per apostolo. Però ch'elli dice così nel libro de l'Ecclesiastica Gerarchia: "De la divina sorte, la quale cadde da Domenedio sopra Mattia, altri furono che ne dissero altro non religiosamente, sì com'io penso, ma io ne dirabbo la mia intenzione. Pare a me che i parlari chiamino la sorta theartico uno dono di Dio dimostrante a quella beata compagnia che quelli era ricevuto da la elezione di Dio". Adunque questo Mattia apostolo prese in sorte la Giudea e quivi, soffermandosi a predicare e facendovi molti miracoli, morì in pace. Leggesi in alcune scritture ch'elli sostenne il tormento de la croce e di cotale martirio incoronato montò al cielo. Il corpo di costui sì si dice ch'è a Roma entro la chiesa di santa Maria Maggiore soppellito disotto a una lapida di profferito, e nel detto luogo si mostra il capo suo al popolo. Ma in alcuna altra leggenda che si truova a Triveri, sì come infra l'altre cose si legge di lui che Mattia era molto ammaestrato ne la legge, del corpo era netto, ne l'animo era savio, ed era dimolto sottile d'ingegno a sciogliere le quistioni de la santa Scrittura, in consiglio era avveduto uomo, in parlare era ispedito. Il quale, predicando la parola di Dio per la provincia di Giudea, con molti segnali e miracoli convertìa la gente, onde gli giudei il missero a consiglio che dovesse essere morto. Sì che due falsi testimoni che l'aveano accusato, sì li gittarono la prima pietra; le quali pietre elli domandò in grazia che fossero sotterrate con esso lui in testimonianza contra di loro. Il quale, essendo lapidato, secondo il costume romano fu percosso da una scure, e levando e stendendo le mani al cielo rendéo lo spirito a Domenedio. E fu seppellito nel detto luogo lo cui corpo fu traslatato di Giudea a Roma, e poscia da Roma a Triveri. E in un'altra leggenda si truova che essendo venuto Mattia in Macedonia a predicare la fede di Cristo, predicando elli, sì li diedero bere d'un beveraggio attoscato che toglieva a tutti il vedere; lo quale beveraggio elli bevve col nome di Dio, cioè Cristo, e non li fece nessuno male; ed abbiendo quello beveraggio accecato più il CCL persone, ponendo l'apostolo le mani sopra ciascheduno, sì li alluminòe tutti quanti. E il diavolo apparette in simiglianza d'uno fanciullino, e confortò la gente che uccidessero Mattia, perch'elli annullava il loro coltivamento; e con ciò fosse cosa ched elli fosse nel miluogo di loro, tre dì l'andarono caendo e non lo trovarono. E il terzo die elli manifestò se medesimo a loro, e disse: "Io sono esso". E quelli gli legarono le mani di dietro al dosso e, postogli la fune in collo, crudelmente il tormentarono, e così il missono in prigione. Nel quale luogo le dimonia apparivano e facevano grande romore contra di lui, ma non si potevano appressimare a lui; sì che il Signore gli apparve, e venne a lui con molto lume e sì levò di terra e isciolse i legami e, confortando lui, aperse l'uscio. E quelli, uscendo fuori, sì predicava la parola di Dio e, istando ostinati alcuni di coloro nel male, sì disse loro: "Io vi dinunzio che voi andrete vivi ne l'inferno". Immantanente s'aperse la terra e inghiottilli tutti, e li rimanenti furono convertiti a Domenedio detto Cristo.
cap. 46, S. GregorioGregorio fu nato di schiatta di senatori; il quale il suo padre era chiamato Gordiano e la madre Silvia. Il quale ne la sua gioventudine, essendo salito ne la sovrana altezza de la filosofia e abbondato di moltitudine di ricchezze e di cose temporali, cominciò a pensare di volere abbandonare tutte quelle cose e d'entrare in religione. Ma mentre che prolungava più il convincimento, e pensava che più sicuramente servirebbe a Cristo se sotto abito di pretore cittadino servisse spontaniamente al mondo, molte cose gli cominciarono a crescere de la sollecitudine del mondo, sì che non solamente era tenuto da essa sollecitudine, quanto a la spezia di fuori, ma eziandio ne la mente. A la perfine da ch'ebbe perduto il padre, sei monasterii ordinòe in Sicilia, e 'l settimo fece intra le mura di Roma ad onore di santo Andrea apostolo in suo propio ammaestramento. Nel quale monasterio abbandonato li vestiri di zendadi, d'oro e di gemme risplendenti, di vile abito monacile era vestito. Là dove pervenne a tanta perfezione in brieve tempo che, in esso principio del suo convertimento, poteva essere compiuto nel numero de' perfetti. La cui perfezione in alcuno modo si può attendere per le parole che pone nel prolago sopra il Dialago, ove dice così: "Il disavventurato animo mio, bussato da la piaga de la sua occupazione, sì si ricorda chente alcuna volta fue nel monasterio, come tutte le cose di questo mondo passatoie s'aveva messo sotto, quanto soprastava a tutte le cose che si rivolgono per lo mondo, che non era usato di pensare altro che de le cose del cielo, il quale eziandio ritratto dal corpo passava per contemplazione e se chiudendo del corpo e amava la morte, la quale è poco meno pena a tutti, cioè come entrasse a vita e fosse guiderdone de la fatica sua". E con tanto distruggimento afflisse il corpo suo che, infermato lo stomaco, appena potea stare ritto; e patendo la tagliatura de' membri vitali, la quale i Greci chiamano sincopim, con ispesseggiante angoscie per diversi punti de l'ore s'appressimava a la morte. Una volta che scrivea nel monasterio suo, dond'elli era abate, l'angelo di Dio gli fu innanzi in forma d'uno mercatante rotto in mare e, con molte lagrime, adomandò che li fosse avuto misericordia. E con ciò fosse cosa che Gregorio gli avesse fatti dare sei monete d'argento e quelli si fosse partito, ritornò il dì medesimo un'altra volta, e diceva che avea molto perduto e poco ricevuto. E abbiendo ricevuto da lui altrettante monete quante la prima volta, anche il terzo die ritornòe e, con grande improntitudine di grida, domanda che gli fosse avuto misericordia. Ma saputo san Grigorio dal procuratore del suo monisterio che non v'era rimaso nulla da potere dare se non uno vaso, cioè una scodella d'ariento che la madre gli soleva mandare con legume, cioè fave e ceci, la quale scodella era rimasa nel monisterio, immantanente comandò che la gli fosse data; e quegli la tolse tanto tosto bene e volentieri, e andossene molto lieto. Questi fu l'angelo di Dio, sì come egli gli si rivelòe poscia a tempo. Uno die che san Grigorio passava per lo mercato di Roma, vidde alquanti garzoni di bellissima forma, piacevoli nel volto e tutti biondi di capelli, ed erano venderecci. Sì che il beato Grigorio domandò di quale paese il mercatante gli avea menati, e quelli rispuosero: "Di Brettagna, là ove gli abitanti risplendono di simigliante bianchezza". Ancora dimandò s'elli erano cristiani, e 'l mercatante disse: "Non sono cristiani, anzi sono involti ne li errori de' pagani". Allora san Grigorio incominciò fortemente a sospirare e a piagnere, così dicendo: "Oimè dolente, or che splendiente facce possiede aguale il prencipe de le tenebre!" Anche domandò quale fosse il vocabolo di quella gente, e quelli rispuose: "Sono chiamati Anglici, cioè a dire Inghilesi". Disse san Grigorio: "A diritto sono chiamati Anglici, quasi angeli, perché hanno volto d'angeli". Anche domandò che nome avesse quella provincia, e 'l mercatante disse: "Quelli di quella provincia sono chiamati Deiri". Disse santo Gregorio: "Troppo sta bene, però che de l'ira di Dio sono da trarre". Ancora san Grigorio domandò del nome del re, e 'l mercatante disse: "È chiamato Aelle". E le disse san Grigorio: "Bene sta Aelle, però che conviene che alleluia sia cantata in quelle parti". E andando quegli immantanente a messere lo Papa, con molta perseveranza e preghiere, a grandissima pena, impetròe da lui d'essere mandato a convertirgli. E abbiendo preso il cammino, gli romani, conturbati molto de la sua partenza, andarono al Papa e parlarogli in questa maniera: "Tu hai offeso san Piero e hai distrutta Roma, perché tu hai lasciato andare Gregorio". E così spaventato, il Papa mandò incontanente messi che facessono tornare adrieto. E con ciò fosse cosa che Gregorio avesse già compiute tre giornate cansandosi in alcuno luogo, mentre che gli altri si riposavano ed egli leggea, e leggendo lui venne il locusta, cioè il grillo, sopra lui e fecelo ristare di leggere, e per considerazione del nome suo, sì li 'nsegnò che dovesse stare nel detto luogo; e conoscendo cioè per ispirito di profezia, incontanente confortò i compagnoni che dovessero andare tosto, ma sopravvegnendo i messi di messere l'apostolicato di Roma fu fatto tornare adrieto, avvegna che di ciò molto si turbasse e facesse tristo. Allora il Papa lo trasse del monasterio suo e ordinollo suo diacono cardinale. Ad un tempo il fiume de Tevero venne in sì grande piena che uscì del viaggio suo, e andò sopra il muro di Roma, e molte case fece pericolare. E allotta, per lo detto fiume, venne moltitudine di serpenti con uno grande drago e discese nel mare; ma, affogati de l'onde e de la tempesta e arrivati a la riva, tutto l'aere corruppero col loro puzzo; e così ne nacque una piaga mortale che si chiama volgaremente anguinaia, in tal modo che, eziandio corporalmente, ad occhio furono vedute da cielo venire saette e percoteano ciascheduno. La quale piaga percosse prima di tutti Papa Pelagio e ucciselo sanza dimoro neuno; poscia missesi mano a l'altro popolo minuto che, sottraendo gli abitatori, moltitudine di case fece abbandonare e lasciare vote in Roma. Ma imperò che la Chiesa di Dio non poteva stare senza rettore, tutto il popolo elesse Grigorio, avvegna che molto si ricusasse. Con ciò dunque fosse cosa che si dovesse benedire e quella sozzura guastasse il popolo, fece una predica e, faccendo la processione, ordinò le letane, e ammonìo tutti che pregassono Dio attentamente. E sendo tutto il popolo ragunato a pregare Iddio, in tanto crebbe quello male che XC uomini morirono ad una ora, cioè in uno subito insieme; ma neente si rimosse però d'ammonire lo popolo che non cessasse mai di pregare Iddio insino a tanto che la misericordia di Dio degnasse di cacciare via quella pestilenzia. E finita la processione, volse fuggire, ma non poteo, però che di dì e di notte si guardavano per lui sollicitamente le porte di Roma. A la perfine mutò abito e a pena ebbe grazia d'alcuni mercatanti d'essere tratto fuori di Roma, ed entrò in una botte ch'era sopra uno carro. E tosto se n'andòe a le selve e, andando cercando tane da potersi nascondere, iv'entrò e, tre dì stette nascoso. Ma essendo andato caendo sollecitamente, una colonna splendiente di luce sì apparve che pendea da cielo sopra il luogo dov'egli era nascoso; - ne la quale colonna vidde uno rinchiuso angeli che salivano e scendevano, - e incontanente è preso da tutto il popolo e tirato a la cittade e consecrato Sommo Pontefice. E come malvolentieri salisse a questa altezza d'onore, chi legge le parole sue apertamente se ne puote accorgere; però che ne la Pistola ch'elli mandò a Narso, patricio, dice così: "Quando voi mi servite de l'altura de la contemplazione, voi mi rinnovellate il pianto de la mia rovina; per ciò che io hoe udito quello ch'io abbo perduto dentro, da poi ch'io, indegno, son montato di fuori a l'altezza di reggimento. E tanto mi conosciate percosso di tristizia che appena sono sofficente a parlarne. Non mi chiamate dunque Noemi, cioè bello, ma chiamatemi Mara, perch'io son pieno d'amaritudine". Anche dice in un altro luogo: "Voi che mi conoscete pervenuto a l'ordine di vescovado, se voi m'amate, or piagnete, però che io piango sanza rimanermene, e priegovi che voi preghiate Dio per me". E nel prolago sopra il Dialago dice così: "Per cagione de la rangola pastorale l'animo mio patisce le faccende de li uomini secolari, e dopo che sì bella qualità del riposo suo è sozzato da la polvere del fatto terreno. Sì ch'io m'avveggio bene di quello ch'io patisco, e avveggiomi di ciò che abbo perduto; e mentre ch'io ragguardo quello ch'i' ho perduto, fammisi più grave quello ch'io soffero; ecco che ora sono commosso da le tempeste del grande mare e sono scalfito da l'onde de la forte tempesta ne la nave de la mia mente e, quando mi rammento de la vita di prima, quasi con gli occhi volti indietro per vedere la riva, sì mando fuori sospiri". Ma imperò che la sopradetta pestilenzia ancora guastava Roma al modo usato, si ordinò ad un tempo Pasquareccio la processione con le letane, per l'attorneamento de la cittade. Ne la quale processione fece portare la imagine de la beata santa Maria sempre Vergine, la quale, come si dice, è ancora a Roma ne la chiesa di santa Maria Maggiore; la quale imagine si dice che la formasse santo Luca, d'arte medico e uno bello dipintore, e dicesi ch'ella somiglia molto per tutto la Vergine Madonna santa Maria. Questa cotale imagine era portata innanzi a la processione con grande reverenzia; ed ecco che tutta la macula de l'aere del turbamento dava luogo a la imagine quasi come fuggisse la detta imagine e non potesse patire la sua presenzia; e così dopo la imagine rimanea maraviglioso sereno e l'aere tutto purificato. Allora, come si dice, furono udite in aere voci d'angeli che cantavano: Regina coeli laetare alleluia ecc.". E incontanente il beato arrogette, cioè aggiunse, quella parola che seguita a la fine, cioè: "Ora pro nobis, [deum] rogamus, alleluia". Allora san Grigorio vidde in sul castello di Crescenzio, che oggi è chiamato castello sant'Angiolo, uno agnolo di Dio che forbiva uno coltello aguzzente, tutto insanguinato e rimettello ne la guaina; e intese per questo, il beato Gregorio, che la pestelenzia era rimasa, e così fu. Onde quello castello fu da indi innanzi chiamato castello Santagnolo. A la perfine, sì come avea disiderato, mandò in Inghilterra Agostino e Melito e Giovanni con alcuni altri, e per li suoi prieghi e per li suoi meriti gli convertìo a la fede di Cristo. E di tanta umilitade fu il beato Grigorio che in veruno modo non permetté d'essere lodato. Che a Stefano vescovo, il quale l'avea molto lodato ne le sue pistole, mandò così scritto: "Molto favore e più ch'io indegno non debbi udire, m'avete dimostrato ne le vostre lettere; e quindi è scritto: "Non lodare l'uomo mentre che vive"; ma pertanto se io non fui degno d'udire cotali cose, priegovi che con le vostre orazioni ne sia fatto degno, acciò che se voi avete detto che sia in me il bene che non è, sì sia perché voi l'avete detto". Anche ne la pistola che mandò a Narso patricio, dice così: "Però che faccendo la similitudine de la cagione e del nome andate formando per le scritture le clause e le declamazioni, certamente, fratello carissimo, se tu chiami la misericordia leone, la quale cosa noi veggiamo fare per quello modo che noi chiamiamo spesse volte rognosi i catelli e leopardi, ovvero i serpenti". Anche ne la pistola ch'elli manda a Nastagio patriarca d'Antiochia: "Di ciò che voi dite ch'io sono bocca di Dio per lucerna, e dite ch'io parlando fo prode a molti e a molti posso rilucere, impertanto per la mia intenzione confesso che voi l'avete detto per grande dubitanza. Però ch'io considero quello ch'io sono e neente comprendo in me segni di bene di questi cotali, e considero chi voi siete e non penso che voi possiate mentire. E quando io voglio credere quello che voi dite, sì mi dice contra la 'nfermità mia, ma quando io voglio disputare quello ch'è detto in mia laude sì mi contradice la santità vostra. Ma considero, adomando, o santo uomo, ch'alcuna cosa si concordi a voi di questa battaglia che, se non è così come voi dite, sì sia come voi dite". Ancora rifiutava il beato Gregorio tutti i vocaboli che risonavano vantamento, ovvero vanitade al tutto; onde ad Eulogio patriarca d'Alessandria, il quale l'aveva chiamato universale Papa, iscrive in questo modo: "Nel profazio de la pistola, la quale voi mi mandaste, una parola di superbo chiamare vi studiaste di metterv'entro, dicendo ch'io ero Papa universale. La quale cosa adomando a la santità vostra dolcissima che più non lo facciate, però che a noi si sottrae quello che si altrui più che non richiede la ragione. Io non domando prosperità di parole, ma di costumi, né non riputo che sia onore là ove io conosco che i frati perdono il loro onore. Vadano dunque via le parole ch'enfiano di vanità e impiagano la carità". Quinci venne che, con ciò fosse cosa che Joanni vescovo di Gostantinopoli usurpasse a sé nome de la vanità e avesse fradolentemente acquistato del chericato d'essere chiamato universale Papa, infra l'altre cose scrive così di lui san Grigorio: "Chi è questi il quale contra gli statuti del Vangelio e contra i decreti de le decretali è stato ardito d'usurpare a sé uno novello nome, voglia Dio che sanza unitade sia uno che appetisce d'essere universale?" Ancora volea che fosse detto parola di comandamento a sé e a vescovi e a cherici; onde dice ne la pistola che manda ad Eulogio vescovo d'Alessandra: "La vostra santitade parla a me, così dicendo: Sì come voi comandaste per ciò ch'io adimando che sia rimossa la parola di comandamento dal mio udire, però ch'io so chi io sono e chi voi siete; che al luogo siete a me fratelli, e a tali costumi siete padri". Ancora sopra tutto questo per la molta umilitade de la quale elli era ornato, non volea che le donne si chiamassero sue ancelle. Onde scrivendo a la Rusticana patricia, disse così: "Una cosa che tu mi mandasti dicendo ne le tue pistole, mi fu a dispiacere; ché quella cosa che potea stare una volta, sì era detta più spesso, cioè: "Ancella vostra e ancella vostra". Che io, il quale per l'incarichi del vescovado sono fatto servo di tutti, per che ragione di' tu che se' mia ancella? de la quale io fui propio anzi ch'io ricevessi il vescovado, e però ti priego per l'onnipotente Dio, che tu questa parola non mi lasci trovare veruna volta ne le tue scritte che tu mi mandi". Questi fue il primaio che ne le sue lettere si chiamò servo de' servi di Dio, e ordinò che si chiamassero così gli altri. San Gregorio i libri suoi, almeno mentre che fosse vivo, per la molta umilitade non voleva palesare; e in comparazione de gli altri estimava che i suoi valessero nulla; onde ad Innocenzio, uomo perfetto d'Africa, iscrive così: "Di ciò che voi avete voluto che vi sia mandato il libro de la sposizione di santo Giob al vostro studio ci rallegriamo, ma se voi disiderate d'ingrassare di dilizioso pasto, leggete l'operette del beato Agostino paesano vostro e, a comparizione di quella netta farina non andate caendo la nostra crusca, né non voglio, mentre ch'io sono in questa carne, se alcune cose sono avvenute ch'io abbia dette, ch'elle sieno leggermente manifestate". Leggesi in uno libro traslatato di greco in latino che uno santo padre, ch'aveva nome l'abate Giovanni, essendo venuto a Roma per visitare l'orliquie de' santi apostoli e abbiendo veduto passare il beato Gregorio papa per lo mezzo de la città, sì li volle andare incontro e farli riverenza come si convenìa. E veggendo il beato Gregorio che quegli si voleva gittare in terra, affrettossi e gittossi prima in terra di lui dinanzi a lui, né non si levò ritto mentre che 'l detto abate non si levò imprima; e in ciò è lodata la grandissima umilitade di lui. Di tanta largitade e di tante limosine fue, che non solamente a quelli ch'erano presenti, ma eziandio a quelli da la lungi ed eziandio a monaci che stavano nel monte Sinai facea servire ne le cose necessarie, ched elli avea scritte le nomora di tutt'i bisognosi, e sovvenìa loro diliberamente. Ordinòe uno monasterio in Gerusalem, e a i servi di Dio ch'abitassono nel detto luogo procacciò di mandare quello ch'era loro bisogno; ed anche tre milia ancelle di Dio offerìa ogni anno per loro vivere continovo ottanta libbre d'oro, e ogne die a la sua mensa invitava ciascuni pellegrini. Intra quali un die ne venne uno, al quale volendo per la sua umilitade dare de l'acqua per levare le mani, volgendosi indrieto per torre l'orciuolo, subitamente colui, ne le cui mani elli voleva dare l'acqua, non fu trovato; e con ciò fosse cosa ch'elli si maravigliasse fra se stesso di questo fatto, in quella notte gli disse il Signore per visione: "Gli altri dì hai ricevuto me ne' miei membri, ma ieri mi ricevesti tu in me medesimo". Ad un altro tempo comandò al cancelliere suo che invitasse dodici pellegrini a mangiare. Quelli andò e compiette il comandamento. E, mangiando insieme con loro, puose mente il Papa a li pellegrini, e annoveronne tredici; e chiamato il cancelliere sì 'l domandò perch'egli era tanto presentuoso d'avere invitati più che li fosse comandato. E 'l cancelliere annoveròe e trovonne pure dodici, allora disse: "Credimi padre, ellino non sono se non dodici". Accorsesi Gregorio d'uno di loro che li stava più d'appresso, che spesse volte mutava la faccia, che ora si mostrava giovane e ora vecchio d'una cotale canutezza di riverenza; e compiuto il convito, sì il menòe in camera e scongiurollo fortemente che li dovesse dire e manifestare chi elli fosse e come avesse nome. E quelli rispuose e disse: "E perché domandi tu del nome mio, lo quale si è maraviglioso? ma sappi ch'io sono quello rotto in mare a cui tu donasti la scodella de l'argento, la quale tua madre t'avea mandata co' legumi; e questo ti sia conto per certo che, da quello die che tu la mi desti, ti predestinòe Domenedio per soprastante a la Chiesa sua e successore di santo Piero apostolo". Al quale disse Gregorio: "E tu come il sai che 'l Signore destinasse allora ch'io soprastessi a la Chiesa sua?" E quelli disse: "Però ch'io sono l'angelo suo e 'l Signore m'ha ora rimandato a te, e perché tu possa per me medesimo impetrare appo lui ciò che tue domanderai". E incontanente disparette da lui. In quello medesimo tempo e' fu uno romito di grande virtude che avea abbandonato ogne cosa per Domenedio, e neuna cosa possedeva fuori che una gatta la quale si tenea per sua abitatrice e spesse volte nel suo grembo sì la trastullava. Fece questi orazione a Dio che gli degnasse mostrare con cui dovesse avere speranza d'essere rimunerato in vita eterna; il quale per lo suo nome, ovvero amore, non possedea neente de le ricchezze di questo mondo. Sì che una notte gli fu rivelato che dovesse sperare d'avere luogo in Paradiso con Gregorio papa di Roma. Allora quegli fortemente piangendo pensava che poco gli fosse giovato la volontaria povertade se dovea ricevere guidardone con colui il quale abbondava di cotante ricchezze del mondo. E con ciò fosse cosa che 'l dì e la notte suspirasse per la comparazione de le ricchezze di Gregorio a la sua povertade, l'altra notte udìe una voce da Dio che li disse: "Con ciò sia cosa che 'l disiderio de le ricchezze faccia l'uomo ricco e non il possederle, perché se' tu ardito d'assimigliare la tua povertà a le ricchezze di Gregorio, ché tu se' provato d'amare più la gatta che tu hai, tuttodì allettigiandola, che non fa elli di cotante ricchezze le quali non amando, ma disprezzando largamente sparge donando a tutti". Sì che quello solitario rendéo grazie a Domenedio, ed elli che avea pensato che fosse menovato il merito suo per essere aguagliato a santo Gregorio, sì pregòe Domenedio che 'l facesse degno di ricevere luogo con esso lui. Essendo accusato di falso a lo 'mperadore Maurizio e a' suoi figliuoli sopra la morte d'alcuno vescovo, così dice ne la pistola, la quale manda a lo scrittore suo: "Una cosa è la quale io voglio che tu dica brievemente a' segnori nostri: che se io loro servo m'avesse voluto inframettere de la morte, ovvero del danno de' Longobardi, non avrebbero oggi né re, né duca, né conte e starebbonsi ne la sua vergogna, ma imperò ch'io temo Iddio, ho paura di mischiarmi ne la morte di ciascuno uomo". Ecco quanta umilitade, ché essendo Sommo Pontefice sì si chiama servo de lo imperadore e lui appellava per suo segnore! Ecco quanta puritade, ché non volea acconsentire ne la morte de' suoi nemici, con ciò fosse cosa che Maurizio imperadore perseguitasse Gregorio e la Chiesa di Dio. Infra altre cose scrisse a lui Gregorio: "Imperò ch'io sono peccatore, credo che voi pacifichiate a me l'onnipotente Dio tanto più quanto voi m'affliggete malservente a lui. Sì che una volta uno, ch'era vestito de l'abito monachile, sanza paura veruna stette ritto presente dinanzi a lo 'mperadore, e teneva ne la mano diritta una spada insanguinata; la quale, crollando contra di lui, predisseli che morrebbe di quello coltello. Spaventato adunque Maurizio rimasesi di perseguitare Gregorio, e domandolli che dovesse pregare Iddio per lui perseverantemente, acciò che Dio il punisse de' suoi mali in questa vita e non lo serbasse a punire a l'ultimo giudicio. Sì che una volta Maurizio vidde se stare dinanzi a la sedia del giudice e udì gridare il giudice: "Datemi Maurizio!" E prendendolo i ministri, sì lo puosero dinanzi al giudice; e disse il giudice a lui: "Dove vuoli tu ch'io ti paghi de' mali che tu hai fatti in questo mondo?" E quelli rispuose: "Pagamene anzi qui, messere, e non ne l'altro mondo". Immantinente la divina boce comandò che Maurizio e la moglie e' figliuoli e le figliuole fossero dati in mano di Foca cavaliere, e d'essere morti. E così fue che non passòe grande tempo che uno cavaliere che avea nome Foca, che stava con lo imperadore, sì lo uccise con tutta la sua famiglia, e fu imperadore dopo lui. Essendo una volta san Gregorio a santa Maria Maggiore, là ove sta la imagine de la beata Vergine Maria la quale dipinse santo Luca, per dire la Messa il die de la Pasqua, quando venne a dire: "Pax Domini sit semper vobiscum", e l'angelo di Dio rispuose ad alta voce: Et cum spiritu tuo". Laonde il Papa fe la stazzone il die de la Pasqua a la detta chiesa, e a memoramento e testimonianza di questo miracolo quando dice: "Pax Domini" non gli è risposto. Ad un tempo che Traiano imperadore s'affrettava molto d'andare a una battaglia, una vedova gli si parò dinanzi piangendo e dicendo: "Io ti priego che tu debbi fare vendetta del sangue d'uno mio figliuolo ch'è morto sanza colpa veruna". E dicendole Troiano che ne la vendicherebbe se tornasse sano, la vedova disse: "E chi mi farà ciò, se tu morrai ne la battaglia?" E Traiano disse: "Quelli che sarà imperadore dopo me". Disse la vedova: "Or che pro' fia a te, s'altri mi farà giustizia?" Disse Traiano: "Certo veruno pro'". Disse la vedova: "Or non è meglio a te che tu mi facci ragione tu, e per ciò tu n'abbia mercede, che tu la lasci a fare ad altra persona?" Allora Traiano si mosse a pietade, e scese a terra del cavallo, e quivi vendicò il sangue di quello innocente. Dicesi ancora: cavalcando uno figliuolo di Traiano per Roma, entro andava scorrendo molto villanamente, sì che intervenne che uccise il figliuolo d'una vedova. La qualcosa rispiando la detta vedova con molte lagrime a Traiano, egli tolse il suo propio figliuolo che avea fatto quello male, e diedelo a la vedova in luogo del suo figliuolo morto, e sì la dotòe grandemente. Sì che una volta morto già lungo tempo dinanzi Traiano, passando santo Gregorio per lo mercato di Traiano, essendosi ricordato di questa cotale mansuetudine di giudice, giunse a la chiesa di messer san Piero, e quiviritto pianse amarissimamente per l'errore di colui. Allora gli fu risposto da Dio: "Ecco che io abbo adempiuta la tua adomandazione e ho perdonata la eternale pena a Traiano; ma da quinci innanzi ti guarda diligentissimamente di non fare preghiere per veruno dannato". Ma Giovanni Damasceno, in uno suo sermone, narra che Gregorio faccendo priego a Dio per Traiano, sì udì una voce che gli venne da Dio, e disse così: "Io hoe udita la voce tua, e ho conceduto perdonanza a Traiano". De la quale cosa, come quelli dice quivi medesimo, si n'è testimonio il levante e ponente. Sopra di ciò dissero alquanti che Traiano fue rivocato a vita laove conseguendo la grazia meritò il perdono e così acquistòe la gloria, né non era ne lo inferno finalmente diputato,dannato d'infinitiva sentenzia. Altri sono che dicono che l'anima sua non fue simigliantemente prosciolta dal male de la pena, ma fue sospesa la pena a tempo, cioè insino al die del giudicio. Altri sono che dicono che la pena, quanto al luogo, ovvero quanto ad alcuno modo di tormento, fu diterminata a condizione, infino a tanto che l'orazione di santo Gregorio, per la misericordia di Cristo, fosse mutato luogo, ovvero alcuno modo. Altri sono che dicono, come l'uno Giovanni Diacono il quale ordinò questa leggenda, che non si truova ch'elli orasse, ma pure pianse; e spesse volte Domenedio faccendo misericordia concede quella cosa la quale l'uomo, pognamo che la desideri, non l'ardisce a chiedere, e che l'anima di colui non è campata da l'inferno e riposta in Paradiso, ma semplicemente dilibera da i tormenti de l'inferno. Però che 'l bene puote, ciò si dice, essere l'anima ne l'inferno e i tormenti de l'inferno non sentire per la misericordia di Dio. Altri sono che dicono che la pena eternale sta in due cose, cioè in pena di sentimento e in pena di danno, la quale è a perdere il vedere di Dio. Sì che la pena eternale gli è perdonata quanto al primo, ma ritenuta quanto al secondo. Dicesi ancora che l'angelo aggiunse questa parola: "Però che tu pregasti per lo dannato, de le due cose t'è dato a prendere l'una: o tu sarai tormentato due dì in purgatorio, o tu sarai certamente affaticato da infermitadi e da dolori per tutto il tempo de la vita tua. Ed egli elesse innanzi d'essere addolorato tutto il tempo de la sua vita, anzi che stare ne' tormenti di purgatorio due dì. Onde così intervenne che da indi innanzi e' fu affaticato di febbri, ed ebbe la podagra, cioè le gotte, e fu tribolato da forti dolori, e fu tormentato mirabilemente dal dolore de lo stomaco. Onde in una pistola parla così dicendo: "Da tanti dolori di podagra e di molestie sono premuto che la vita mia m'è una gravissima pena, che ogne die vegno meno in dolore e, aspettando lo rimedio de la morte, sì gitto sospiri". Ancora dice in un altro luogo: "Il dolore mio alcuna volta m'è lento e alcuna volta m'è troppo, ma non è sì lento che vada via, né sì troppo ch'elli uccida. Onde addiviene ch'io che sono in gravissima sentenzia de la morte, tutto dì sono scacciato da la morte; e così la sozzura del nocevole omore mi succia tutto quanto, sì che il vivere sì m'è pena e la morte aspetto disiderosamente, la quale sola credo che sarà rimedio a li miei pianti". Una donna offereva ogne Domenica pane a san Gregorio; il quale offerendo con lei dopo la Messa il corpo del Signore dicendo: "Corpus Domini nostri Jesu Cristi custodiat te in vitam eternam", e quella sorrise miseramente. Sì che elli incontanente isvolgendo da la bocca di colei la mano diritta, dipuose in su l'altare quella parte del corpo di Cristo e poi, dinanzi a tutto il popolo, domandò quella donna perch'ella avea avuto ardimento di ridere. E quella disse: "Perché il pane, che io avea fatto con le mie mani propie, tu l'appellavi corpo del Signore". Allora san Gregorio si gettò in orazione per la discredenza di quella femmina e, levandosi da l'orazione, trovò che quella particella del pane era fatta carne a simiglianza di Dio; e in questo modo recòe la detta donna a la fede. Oròe un'altra volta e quella carne vidde convertire in forma di pane e diedelo a la donna a prendere. Alquanti baroni che li domandavano alcune preziose reliquie, diede un poco de la dalmatica di santo Giovanni vangelista; le quali orliquie coloro ricevettono e, riputandole come vile orliquie, sì le renderono con grande indegnazione. Allora san Gregorio, fatta l'orazione, chiese uno coltellino e punse un poco quello panno; de la quale puntura uscìi 'mmantanente sangue; e così fu mostrato loro da Dio come fossero preziose quelle reliquie. Uno grande ricco uomo di Roma, abbiendo lasciata la moglie, era stato privato de la comunione del Papa; la quale cosa recandosi quelli molto a noia, ma non potendo contastare a l'autorità di cotanto Pontefice, richiese l'aiuto de l'incantatori de le demonia; i quali co' loro versi promissero di far sì che 'l demonio enterrebbe in corpo al cavallo, e tanto il conturberebbe ched elli col cavalcatore pericolasse. E con ciò fosse cosa che Gregorio alcuna volta cavalcasse, entrato il dimonio nel cavallo, l'incantatori il fecero tanto tormentare sì fortemente che non potea essere tenuto da persona. Allora san Gregorio, come lo Spirito Santo gli rivelò, cognoscendo il sottomettimento del diavolo, fatto il segno de la santa Croce, liberòe il cavallo de la presente rabbia, e condannòe quelli incantatori ad essere perpetualmente ciechi; i quali, confessando il peccato loro, pervennero poi a la grazia del santo battesimo. A i quali non volse rendere il vedere, acciò che non ripigliassero la mal arte; ma pertanto il fece nutricare del bene de la chiesa. Leggesi uno libro, che i Greci chiamano Lymon, che l'abate, il quale soprastava al monasterio di santo Gregorio Papa, sì li denunziò che uno monaco avea appo sé tre monete; lo quale san Gregorio iscumunicòe per fare paura a gli altri. Da ivi a poco tempo morì quello frate non sapiendo nulla san Grigorio; il quale sì tosto come seppe ch'elli era morto sanza l'asulizione, scrisse in una carta l'orazione per la quale elli l'assolvea dal legame de la scomunicazione, e diede la carta ad uno diacono e comandolli che la leggesse sopra la fossa del frate ch'era morto. Quegli compiette il comandamento; e la seguente notte colui ch'era morto apparette a l'abate, e disse così: "Infino ad ora sono stato sostenuto o in guardia, ma da ieri in qua sono stato assoluto". L'Officio e 'l canto de la Chiesa e anche la scuola di cantori ordinòe, e poscia fece fare due abituri l'uno a lato a la chiesa di san Piero, e l'altra a santo Giovanni Laterano, nel quale luogo infino al dì d'oggi è riservato con grande reverenza il luogo suo, nel quale seggendo insegnava il canto, e anche la ferza con la quale minacciava i fanciulli, con esso l'antefanario autentico. E ne la segreta puose questa parola: "Li dì nostri ordina ne la tua pace, e comanda che noi siamo liberati da la eternale dannazione, e annumerati a la schiera de' tuoi eletti". A la perfine il beato Gregorio, essendo stato ne la sedia papale XIII anni e sei mesi e X dì, pieno di buone opere, uscìe del corpo. Nel cui sepolcro sono scritti questi versi: Ricevi, o terra, il corpo tolto del corpo tuo, Acciò che tu il possa rendere, risucitandolo Iddio. Lo spirito adimanda le stelle, le ragioni de la morte non li noceranno neente, De la cui vita l'altrui morte è maggiormente essa vita. Del Pontefice sovrano si racchiudono le membra in questo sepolcro, Il quale vive sempre in ogne luogo di beni sanza numero Le fami soperchiava con le vivande e i freddi col vestimento E coperse gli animi del nemico con li santi ammonimenti. E adempieva per opera ciò che ammaestrava in parola Acciò che fosse essemplo a li altri parlando le sante parole. A Cristo convertio gli Inghilesi maestri De le pietadi acquistando ischiere di novelle gente a la fede. Questa fatica, questo studio, questa rangola avea il pastore. Acciò che offeresse al Signore molti guadagni de la greggia. Erano scorsi gli anni della incarnazione del Signore DCVI al tempo di Foca imperatore. Dopo la morte di san Gregorio, de l'anno de l'incarnazione del nostro Signore DCVI, per tutta quella contrada fu sì grande la fame che i poveri, i quali san Gregorio soleva pascere largamente, venivano al suo successore e dicevano: "O messere, non ci lasciare morire di fame, la tua Santitade, i quali il nostro padre Gregorio solea pascere!" Per le quali parole il Papa, crucciato, rispondea sempre in cotale modo: "Se Gregorio ebbe cura di ricevere tutti i poveri per accrescere sua fama d'essere lodato, noi per noi non li potremo pascere". E così sempre gli rimandava a casa loro sanza veruno bene. Per la qualcosa san Gregorio apparìo al detto Papa tre volte e, con piane parole, lo riprese de la sua tenacità e del suo mal dire; ma quelli non si brigò d'amendare di nulla. Ond'elli apparìo la quarta volta e ripreselo terribilemente e percosselo nel capo mortalmente; per lo quale dolore angosciato in poco tempo finìo la sua vita. Sì che essendo ancora la detta fame, alcuni astiosi incominciarono a dire male di san Gregorio, affermando ch'elli avea tutto il tesoro de la Chiesa consumato sì come uomo iscialacquatore. Onde per fare vendetta di ciò, inchinarono gli animi di tutti ad ardere i libri suoi. De' quali abbiendone già arsi alcuni e volendo ardere gli altri, Piero diacano, suo molto familiare, col quale avea disputato in quattro libri del Dialago, sì si dice che contrastette fortemente, affermando che questo non valea niente a spegnere la sua memoria, con ciò fosse cosa che in diverse parti del mondo si sapessero gli assempli de' detti libri fossero, aggiugnendo ancora che grande sacrilegio era ad ardere i libri di cotanto padre, e cotali libri e tanti; sopra il cui capo elli avea veduto spessissime volte lo Spirito Santo in similitudine di colomba. A la perfine gli condusse a questa sentenzia, che se quello ch'egli avea detto confermasse con giuramento e meritasse di morte, incontanente coloro si rimarrebbero de l'arsura de' libri; ma se non avesse meritato di morte, ma fosse soprastante di testimoniare, colui sì darebbe loro aiuto ad ardergli. E così il venerabile diacono Pietro vegnendo parato come diacano col libro del santo Vangelo in braccio, sì tosto come ebbe toccato il libro de' santi Vangeli e dato testimonianza a la santitade del santo Gregorio, fatto stranio da la falsitade e dal dolore de la morte, fra le parole de la verace confessione, mandò fuori lo spirito. Alcuno monaco del monasterio di san Gregorio avea ragunato appo sé alcuno peculio, sì che il beato Gregorio, apparendo a un altro monaco, disse che gli dinunziasse che quello peculio dovesse spargere a' poveri e fare penitenzia, però che dovea morire al terzo die. Quelli udendo ciò, fortemente si sbigottìo, fece penitenzia e rendette il peculio e incontanente fu preso da la febbra, intanto che da la mattina per tempo del terzo die infino a l'ora de la terza, per lo troppo incendio che sentiva, gittando la lingua da la bocca parea che volesse mandare fuori il sezzaio fiato. Ma li monaci che gli stavano d'intorno dicendo salmi dinanzi a lui, a la perfine lasciando di dire i salmi incominciarono a dire male di lui, ma quegli incontanente rinvigorendo, commosse gli occhi così sorridendo, e disse: "Iddio il vi perdoni, frate miei! or perché avete voluto dire mal di me? ché voi m'ingeneraste uno impedimento non piccolo, imperò che sì da voi come dal diavolo, essendo accusato ad un tempo, non sapeva a quale accusa io rispondesse prima; ma se per veruno tempo voi vedrete alcuno che passi di questo mondo, non dite male di lui, ma abbiateli compassione, come quelli che va a la sentenzia di così distretto giudice col suo accusatore. Però che io sono stato a la sentenzia dinanzi al diavolo, e aiutavami san Gregorio, a tutto ciò che mi fu apposto rispuosi troppo bene; ma pure d'una cosa convinto sì mi vergognai, per la quale, sì come voi vedeste, io sono così gravemente tormentato, e ancora non mi sono potuto liberare". E dimandando i frati perché fosse, quegli disse: "Io non lo ardisco a dire, imperò che quando mi fu comandato da san Gregorio ch'io dovessi venire a voi, il diavolo si rammaricòe molto di ciò, pensando che Dio mi rimandasse a fare penitenzia per quella cagione; per la quale cagione io diedi mallevadore san Gregorio di non revelare altrui la briga che m'era mossa". E a mano a mano gridò e disse: "O Andrea, Andrea, unguanno perischi tu che per lo mal consiglio mi costrignesti al pericolo!" E immantanente travolse terribilmente gli occhi, e mandò fuori lo spirito. Ora era uno uomo in Roma chiamato Andrea, il quale in quello punto che 'l monaco morendo gli mandò la bestemmia del pericolo, cadde in sì grave infermitade che cascandoli le carni d'addosso, consumare si potea, ma morire non potea. Allora il monaco del monasterio di san Gregorio fece chiamare li frati, e confessòe ch'egli avea tolte col detto monaco certe carte del monasterio e che per prezzo ch'elli n'avea ricevuto l'avea date a strane persone: incontanente, colui che non potea morire, fra le parole de la sua confessione mandò fuori lo spirito. In quello tempo, come si legge ne la vita di santo Eugenio, tegnendosi da le chiese l'Officio Ambrogiano più che Gregoriano, il Papa di Roma, che avea nome Adriano, ragunò il consiglio, là ove fu ordinato che l'Officio Gregoriano si dovesse osservare universalmente. De la quale cosa Carlo imperadore essendo stato essecutore, scorrendo per diverse provincie, costrignea, con minacce e con tormenti, tutti i cherici a ciò fare, e in ogne parte ardeva i libri dell'Officio Ambrosiano, e molti cherici che gli rubellavano, sì mettea in prigione. Sì che, andando il vescovo Eugenio al Consiglio, trovòe il detto Concilio già isciolto per tre dì, e col suo senno indusse messere lo Papa a tanto che gli fece richiamare tutt'i prelati ch'erano stati presenti al Concilio e già s'erano partiti per tre dì. Sì che, richiamato il Concilio, tutti quant'i vescovi s'accordarono ad una sentenzia, di porre in su l'altare di messer san Piero il messale Ambrosiano e Gregoriano; e serraronsi molto bene le porte de la chiesa, e suggellarsi, con suggelli di molti vescovi, molto diligentemente e eglino stessono tutta la notte in orazione acciò che Iddio, per alcuno segnale, rivelasse quale di questi due fosse più tenuto da le chiese secondo il suo volere. E così faccendo come avevano ordinato, aprirono la mattina le porte de la chiesa e trovarono l'uno messale e l'altro aperto in su l'altare, ovvero, com'altri vogliono dire, trovarono il messale Gregoriano tutto squadernato e sparto qua e là, ma il messale Ambrosiano trovarono solamente aperto sopra l'altare in quello medesimo luogo là ove l'aveano posto. Per lo quale segnale furono ammaestrati da Dio che lo Offizio Gregoriano si dovesse ispargere per tutto il mondo, ma lo Ambrosiano si dovesse conservare solamente ne la sua chiesa. E così ordinarono i santi Padri com'egli erano stati ammaestrati da Dio, e così s'osserva insino al dì d'oggi. Racconta Giovanni diacano, il quale compuose la vita di san Gregorio, che mentre ch'elli componea la sua vita, uno uomo acconcio a modo di prete, dormendo lui, appareva ch'elli scrivesse a lume di lanterna, sì li venne innanzi; il quale avea un vestimento disopra d'uno panno sottilissimo ed era sì candidissimo che per la sua chiarezza appariva la nerezza de la tonica disotto. Costui gli andò da presso e, con la bocca enfiata, non si poté tenere di ridere. E domandollo Joanni perché uno uomo di grave officio ridesse così dissolutamente; quegli disse: "Perché tu scrivi de' morti che tu non vedesti mai vivi". Al quale disse Joanni: "E s'io non conobbi con la faccia, impertanto io scrivo di lui quello ch'io n'ho saputo per leggere". E quelli disse: "Io veggio che tu hai fatto come tu t'hai voluto, e io non cesserò di fare quello ch'io potrò". E incontanente gli spense il lume de la lanterna e spaventollo sì malamente che pensava essere da lui morto a ghiado. E incontanente fu presente san Gregorio, accompagnandolo dal lato ritto san Niccolò, dal manco Piero diacono, e disse a lui: "Uomo di poca fede, perché dubitasti?" E nascondendosi l'avversario nemico dopo la cortina del letto, tolse san Gregorio di mano a Piero diacano una faccellina accesa, la quale pareva che quegli avesse, e con la fiamma di questa faccellina incese la bocca e 'l volto a l'avversario e annerollo come uno saracino. E caggendo una favilla piccola in sul vestimento bianco, sì l'arse tostamente, e incontanente apparve tutto nerissimo. Disse Piero diacono al beato Gregorio: "Assai l'abbiamo annerato". Disse Gregorio: "Noi non l'abbiamo annerato, ma abbiamo mostrato com'elli è nerissimo". E così vi lasciarono molto lume e partironsi i benedetti santi.
cap. 47, S. LonginoLongino fue uno conostabile di cento cavalieri, il quale stando presente a la Croce di Cristo, per comandamento di Pilato foròe con la lancia il lato di Cristo e, veggendo i segnali che si facevano, cioè il sole oscurato e li tremuoti, credette in Cristo. E massimamente per questo, come vogliono dire alquanti, che essendo accecato de gli occhi per infermità, ovvero per vecchiezza, per avventura furono tocchi gli occhi del sangue di Cristo scorrente giù per la lancia, e immantanente vidde lume chiaramente. Onde rinunziando a la cavalleria, ammaestrato da li apostoli in Cesarea di Cappadocia, menòe vita monachile XXVIII anni e convertinne molti a Cristo con parole e con asempri. Ed essendo preso dal preside e non vogliendo fare sacrificio, comandò il preside che gli fossero tratti tutti i denti di bocca e tagliatogli la lingua; ma pertanto non perdette la favella Longino, ma, prendendo sicuramente sicurtade, istritolòe tutti gl'idoli e tutti gli spezzòe così dicendo: "Noi vedremo sed elli sono iddei". Sì che le demonia, uscendone de l'idoli, entrarono nel preside e in tutti i suoi compagni e, impazzando e latrendo, sì si gettarono a' piedi di Longino. Disse Longino a le demonia: "Perché abitate voi ne l'idoli?" E quelle rispuosero: "Là ove Cristo non è nominato e non è posto il suo segnale, quivi è abitazione nostra". Con ciò dunque fosse cosa che 'l preside fosse impazzato e avesse perduto gli occhi, disse a lui Longino: "Sappi che tu non potrai essere guarito se non quando tu m'avrai morto, ché, si tosto com'io sarò morto da te, pregherò per te e accatterotti la santade del tuo corpo e anche de l'anima". E immantanente comandò che gli fosse tagliato il capo. Dopo questo andò al corpo e, gittatosi in terra con lagrime, fece penitenzia e immantanente riebbe il vedere e fu sano e finìe la sua vita in buone opere.
cap. 48, S. BenedettoBenedetto, nato de la provincia di Nursia, essendo mandato a Roma a studiare ne l'arti liberali, in sua fanciullezza lasciò stare la lettera e fermossi d'andare al deserto; e tennegli dietro la balia sua, la quale l'amava molto teneramente, infino ad un luogo che si chiama Eside; nel quale luogo accattòe in prestanza uno vaso per mondare grano; e abbiendolo posto in su la mensa non saviamente, cadde e cosìe il trovòe rotto in due pezzi. Veggendo san Benedetto piagnere costei, tolse i pezzi del vaso e, levandosi da l'orazione, trovollo interamente risaldato. Poi fuggì di nascoso a la balia in uno luogo dov'elli stette tre anni sanza essere conosciuto da uomo, trattone che da Romano, uno monaco che avea così nome, il quale il provvedea continuamente di quello che gli era di bisogno. E non abbiendo via dal monisterio di Romano a la spelonca dove san Benedetto abitava, sì legava il pane ad una fune molto lunga e in questo modo costumava di mandargliele laggiù dove stava. Anche avea posta una campanella a la fune, acciò che a quello suono conoscesse l'uomo di Dio l'ora che Romano gli dava il pane, e uscendo fuori sì 'l prendea. Ma l'antico nimico abbiendo invidia a la caritade de l'uomo e al pascimento de l'altro, sì gittò una pietra e ruppe la campanella, ma pertanto il detto Romano non volle abbandonare di servire. Dopo questo apparette il Segnore per visione a uno prete, il quale s'apparecchiava da mangiare per la solennità de la Pasqua, e disse a lui: "Tu t'apparecchi le vivande a te, e 'l servo mio si muore di fame in quello luogo". E quelli si levò incontanente e, trovando colui con grande malagevolezza, sì li disse: "Leva su e prendiamo il cibo, imperò che gli è la Pasqua del Signore oggi". Al quale disse Benedetto: "Bene so che gli è Pasqua, perch'i' ho meritato di vederti". Perch'egli era dilungato da li uomini, non sapeva che in quello die fosse la solennitade de la Pasqua. Allora disse il prete: "Veramente è oggi il die di Resurresso; non ti conviene fare oggi astinenza, che però sono io mandato a te". E così, benedicendo Domenedio, presero il cibo e mangiarono. Uno die intervenne che uno uccello nero, il quale ha nome merla, gli volava intorno a la faccia molto improntamente, in tale modo che l'avrebbe potuta pigliare con mano; ma fatto il segno de la santa Croce l'ugello si partìe. E immantanente gli recò il diavolo a la mente una femmina, la quale aveva già veduta, e con tanto fuoco accese l'animo suo ne la bellezza di colei, che poco meno ch'elli non diliberòe di lasciare l'ermo come vinto da male diletto. Ma subitamente, per la divina grazia, ritornato in se medesimo, incontanente si spogliò ignudo e tanto si rivoltò ne le spine e ne' pruni, che erano ivi presente, che ne uscì fuori con tutto il corpo piagato, e per le piaghe de la pelle trasse fuori la piaga de la mente, sì che vinse il peccato però che mutòe l'arsura. Di quello tempo innanzi non ebbe poscia tentazione veruna nel suo corpo. Crescendo dunque la sua nominanza, essendo morto l'abate d'uno monisterio, tutta la congregazione di quello monisterio venne a lui e domandarogli che dovesse essere sopra loro. E quegli, lungo tempo negando di non volere essere, diede indugio e predisse loro che non si potevano bene convenire i suoi costumi con quelli de' frati; ma a la perfine, pure vinto, acconsentìo. E con ciò fosse cosa che elli costrignesse d'essere tenuta distrettamente nel detto luogo la regola, i frati riprendeano loro medesimi di ciò che l'aveano domandato ch'elli fosse sopra loro, ciò era perché la loro tortezza s'offendea ne la regola de la sua dottrina e dirittura. E veggendo coloro che le cose illicite non erano licite ad usare con lui, e continuamente convenìa loro lasciare le cose usate, mischiarono il veleno col vino e portarogliele a bere. Ma san Benedetto fece il segno de la santa Croce, e incontanente fu rotto il bicchiere del vetro, come fosse una pietra che vi fosse entro gittata. Sì che intendendo che quello vasello aveva avuto in sé beveraggio di morte, lo quale non avea potuto comportare il segno de la vita, levossi incontanente ritto e disse con piacevole faccia: "Abbia Dio onnipotente misericordia di voi, frati! or non vi diss'io che i miei costumi non si convenivano co' vostri?" Allora tornò al luogo de la amata solitudine, nel quale luogo moltiplicando i segnali e vegnendo molte persone a lui, sì ordinòe dodici monasteri. In uno di quelli monasteri avea uno monaco il quale non poteva stare a lungo in orazione; ma, quando gli altri oravano, sì usciva fuori e pensava de le cose terrene e passatoie. La quale cosa abbiendo narrato l'abate di quello monasterio a san Benedetto, andòe là e vidde che un fanciullino nero traeva fuori per l'orlo del vestimento quello monaco che non poteva stare in orazione, e disse a l'abate del monasterio e a Mauro monaco: "Or non guatate voi ch'è colui?" E abbiendo coloro detto che no, sì disse: "Ora stiamo in orazione, acciò che noi e voi il veggiamo". Stando loro in orazione Mauro il vide, ma l'abate non lo poteo vedere. Sì che compiuta l'orazione quello die, l'uomo di Dio trovò quello monaco fuori, lo quale elli percosse con la verga per la sua cecagione, e d'allora innanzi stette fermo in orazione; e così l'antico nemico non fu ardito di signoreggiare nel pensiero di colui quasi come s'elli medesimo fosse stato battuto con quella battitura. Di questi monasteri n'erano tre in su le pietre del monte disopra, e conveniva loro per andare attignere l'acqua disotto con molta grande fatica; e con ciò fosse cosa che quelli frati avessono pregato l'uomo di Dio spesse volte ch'elli rimutasse quelli monasteri, una notte salìo in su lo monte con uno garzone; nel quale luogo, orando lungo tempo, tre pietre vi puose per segnale, e essendo tornato a casa e venuti i frati a lui per la detta acqua, disse a loro: "Or andate a quello sasso dove voi troverrete postovi suso tre pietre, e sì lo cavate un poco però che 'l Signore vi puote fare uscire l'acqua quindiritto". Andando coloro e trovando già sudare lo detto sasso, fecervi una cavatura, e incontanente il trovarono pieno d'acqua; la quale, insino ad oggi, esce sofficentemente, che da quella altezza scende insino disotto. Una volta che uno tagliava pruni con una falce d'intorno al monasterio de l'uomo di Dio, il ferro uscì dal manico e molto affondò, sì che quegli avendo di ciò molta angoscia, l'uomo di Dio puose il manico ne l'acqua e 'l ferro notòe incontanente insino al manico suo. Uno fanciullo, che avea nome Placido, uscendo fuori per recare de l'acqua, cadde entro il fiume e incontanente lo prese l'onda e dilungollo da terra presso d'una saettata; e l'uomo di Dio stando ne la cella, tosto conobbe per ispirito il fatto, e chiamando Mauro dissegli quello ch'era intervenuto a Placido e comandogli che andasse a trarrelne fuori. Sì che, ricevuta la benedizione, Mauro andò tostano e, credendosi andare per terra, venne sopra l'acqua infino al fanciullo e, tenendolo per li capelli, sì lo trasse de l'acqua, e vegnendo a l'uomo di Dio disse ciò ch'era intervenuto; ma elli non riputava per li suoi meriti, ma per l'obbidienza di colui che v'andò tosto. Uno prete che avea nome Fiorenzo, portando invidia a l'uomo di Dio, venne a tanta malizia che uno pane avvelenato mandò a l'uomo di Dio quasi come per avere la benedizione; lo quale pane il santo ricevette graziosamente e gittollo al corbo, il quale era usato di ricevere il pane de la mano sua, e disse così: "Nel nome di Cristo Jesù, e tolli questo pane e gettalo in tal luogo che veruno uomo non lo possa torre". Allora il corbo con la bocca aperta e con l'ale distese, cominciò andare scorrendo d'intorno al detto pane e a crocidare quasi volesse apertamente dire di volere obbedire, e pertanto non potere compiere il comandamento. E 'l santo gliele comandava più e più volte, così dicendo: "Levalo indi, levalo indi sicuramente e gettalo via, come io t'abbo detto". Il quale a la perfine togliendolo, dopo le tre ore ritornò e ricevette il cibo de la sua mano com'era usato. Veggendo Fiorenzo che non avea potuto uccidere il corpo del maestro, sì s'accese a volere spegnere l'animo di discepoli, sì che misse sette pulcelle ignudanate ne l'orto del monastero e facevele cantare e ballare, acciò che in questo modo infiammasse i monaci a lussuria. La quale cosa ragguardando il santo uomo de la cella sua e temendo che li discepoli non iscorressono in peccato, diede luogo a la invidia e tolse seco alquanti frati, e mutòe abitamento. Ma essendo Fiorenzo in sul palco e veggendo che il santo si era partito, incominciò a rallegrassi, e subitamente cadde il palco e ucciselo incontanente. Allora Mauro, correndo dietro a l'uomo di Dio, sì disse: "Ritorna, però che colui il quale ti perseguitava sì è morto". La qualcosa quegli udendo, pianse fortemente, o perché il nemico fosse morto, o perché il discepolo s'allegrasse de la morte del nemico. Per la quale cosa intervenne ch'elli ne diede buona penitenzia di ciò che, comandando cotali cose, avea avuto ardire di rallegrassi de la morte del nemico. Ma elli passando da l'altro luogo, mutòe il luogo, ma non mutò nemico; che se ne venne a monte Cassio, e del tempio d'Apollone che vi era, sì ne fece uno oratorio ad onore di santo Giovanni Batista e convertì il popolo d'intorno da l'idolatria. Ma l'antico nemico recandosi questo fatto a grave, sì appariva molto nero corporalmente a' suoi occhi, e incrudeliva contro di lui visibilmente con gli occhi e con la bocca infiammata, e diceva: "Benedetto, Benedetto!" Ma non rispondendogli quegli nulla, sì dicea: "Maladetto, non Benedetto, perché mi perseguiti tu?" Uno die voleano i frati levare una pietra che giacea in terra, per murarla; ma non poteano. Essendo raunati molti uomini e non potendola levare, venne l'uomo di Dio e diede la benedizione, e con grande avacciamento l'ebbero levata, laonde s'avvidero che 'l diavolo vi sedeva suso che non la lasciava muovere. E murando i frati la parte più ad alti un poco, l'antico nemico apparve a l'uomo di Dio e disse che andava a' frati che lavoravano, e quelli mandò loro dicendo per uno messo: "Fate saviamente, frati, che 'l maligno spirito viene a voi". Appena ebbe compiuto il messo di dire l'ambasciata, ed ecco l'antico nemico fece cadere la parete del muro, e stritolòe tutto quanto uno monaco fanciullo quella rovina. Ma l'uomo di Dio sì si fece recare il fanciullo morto e isfracellato e risucitollo con la sua orazione, sì lo rimisse ne la detta opera. Uno laico, il quale viveva onestamente, costumava d'andare ogni anno a disgiuno a vicitare l'uomo di Dio. Sì che uno die andando là, un altro viandante s'accompagnòe con lui, che portava seco da mangiare, per la via; ed essendo già venuta l'ora tarderella, disse a lui: "Vieni qua, fratello, e prendiamo il cibo, acciò che noi non ci alassiamo ne la via". E rispondendo quelli che in neuno modo non assaggerebbe nulla ne la via, stettesi cheto per una ora; poscia lo 'nvitòe anche a quello medesimo, ma quegli non volle acconsentire. A la perfine, essendo già valicata l'ora, affaticati per lo lungo cammino, ebbero trovato un bello prato e una fontana e ciò che potea dilettare a satollare lo corpo. Allora il viandante, mostrandogli questo, sì 'l pregò che assaggiasse un poco e riposassersi iveritto. Sì che lusingandolo le parole, gli orecchi, e 'l luogo dilettevole gli occhi, sì gli acconsentìo. Ed essendo poi venuto al santo uomo al quale andava, disse a lui il santo: "Ove mangiaste?" Quelli rispuose: "Non ho mangiato". E 'l santo disse: "Ecco, fratello, che il diavolo, maligno nemico, non t'ha potuto la prima volta attrarre al peccato, né anche la seconda, ma la terza t'ha vinto". Allora quegli gli si gittò a' piedi e pianse che aveva fallato. Totila re de' Goti, volle provare se 'l santo avesse spirito di profezia, sì che diede le propie vestimenta reali ad uno suo spadiere, e mandollo con adornamento di re al monisterio de l'uomo di Dio. E veggendolo colui venire, sì li disse: "Pogni, poni giù; quello che tu porti non è tuo". Allora quegli si gettò incontanente a terra e temette ch'elli avea fatto schernire di cotale uomo. Uno cherico, il quale era tormentato dal diavolo, sì fu menato a l'uomo di Dio perché fosse sanato, e abbiendo cacciato il diavolo da lui, sì disse: "Va e da quinci innanzi non mangiare carne, né non andare ad ordini sagri, per ciò che quale ora tu andrai a fare, ciò tu sarai rimesso in mano del diavolo". Sì che essendosene guardato alcuno tempo, ma veggendo che i suoi minori erano messi innanzi ad ordini sagri, dimenticato quasi per lungo tempo, gittossi dietro le parole de l'uomo di Dio, e montòe ad ordine sagro. E incontanente il prese il diavolo che l'avea prima lasciato e non cessò di tormentarlo fino a che non mandò fuori l'anima. Uno uomo gli mandò due fiaschi di vino per uno suo garzone, ma quegli nascose l'uno ne la via e portò l'altro; e l'uomo di Dio ricevette l'uno con rendimento di grazie, e disse al garzone: "Guardati, figliuolo, che tu non bea di quello fiasco che tu hai appiattato e nascoso ne la via, ma chinalo e con senno, e troverrai quello che v'è dentro". Quelli, molto vergognoso, si partìo da lui. Ritornato a casa, volle provare quello che avea udito; chinòe il fiasco e uscinne uno serpente. Una volta l'uomo di Dio cenava di sera. Uno monaco figliuolo del difensore standoli innanzi col lume in mano, per ispirito di superbia cominciò a pensare fra se medesimo: "Chi è costui a cui io sto innanzi con la lucerna in mano quand'elli mangia, e fogli servigio, e chi sono io che io serva a costui?" Al quale disse immantanente l'uomo di Dio: "Segnati il cuore, frate, segnati 'l cuore; che è quello che tu dì?" E chiamòe i frati, comandò che li fosse levata la lucerna di mano, e a lui comandò che si partisse dal servire ch'elli faceva e sedesse riposato. Mandando elli alcuni de' frati ad uno luogo, perché v'ordinassero uno monasterio, predisse loro che a certo die verrebbe a loro, e mosterebbe loro in che modo si dovesse quello cotale monasterio ordinare. Sì che la notte dinanzi al die ch'elli avea promesso loro d'andare, sì apparve al monaco che gli avea posto sopra quello servigio e 'l suo proposto, dormendo elli, e' mostrogli tutte le luogora sottilmente, secondo ch'elli voleva che fosse fatto. Ma non dando ellino fede a la detta visione e pure aspettando che dovesse venire, a la perfine ritornarono a lui e dissero: "Noi abbiamo aspettato, padre, che tu venissi come avevi promesso, e non se' venuto". A i quali elli rispuose: "Che è quello che voi dite? or non v'apparii io e disegna'vi tutte le luogora? Andate e ordinate ogne cosa come voi vedeste per la visione". Non molto di lungi dal suo monasterio avea due femmine monache di gentile legnaggio, le quali non raffrenavano le lingue loro, ma spesse volte con loro non savie parole facevano venire in ira colui ch'era posto sopra loro. Il quale abbiendo detto ciò a l'uomo di Dio, mandò loro così dicendo l'uomo di Dio: "Correggete la lingua vostra, e se no, vi scomunicherò". La quale sentenzia di scomunicazione non diede profferendo con la bocca, ma minacciandolene; ma quelle, non rimanendosi di ciò, infra pochi dì morirono e furono sotterrate in chiesa. E quando la Messa si diceva e 'l diacano, come è sua usanza, dicea che chi fosse scomunicato andasse fuori, la baila di quelle donne, cioè di quelle due moneche, offerendo ogne die l'offerta usata per loro, sì le vedea saltare fuori de li avelli e uscire de la chiesa. Ed essendo ciò detto a san Benedetto, elli con la mano sua diede l'offerta, così dicendo: "Andate e offerete questa offerta per loro, e non saranno più scomunicate". La quale cosa essendo fatta, non furono più vedute uscire de la chiesa mentre che 'l diacano dava il commiato a li scomunicati. Ed essendo uno monaco sanza la benedizione andato a visitare li suoi parenti, intervenne che in quello dì morìo nel quale fu giunto. Allora essendo sotterrato, la terra il gittò fuori una volta e due. Allora gli parenti vennero a san Benedetto, e pregarollo che li dovesse dare la sua benedizione; sì ch'elli tolse il corpo di Cristo e disse a loro: "Andate e ponete questo sopra il petto suo, e così fatto sì lo rimettete nel sepolcro". Quando quelli ebbero così fatto, la terra lo ricevette e non lo gittò più fuori. Uno monaco non potendo stare nel monasterio, disse tanto a l'uomo di Dio che essendo adirato sì 'l lasciò andare. E sì tosto come quelli fu uscito dal monasterio, ebbe trovato ne la via uno dragone che stava con la bocca aperta, lo quale vogliendo divorare, costui gridòe e disse: "Accorrete, accorrete che questo drago mi vuole divorare". Sì che accorsi i frati non videro il drago, ma il monaco così tutto tremante e palpitante lo rimenarono al monasterio, il quale promisse a mano a mano di non partirsene mai più. Un tempo fu ch'una grande fame prese tutta quella contrada e l'uomo di Dio, abbiendo dato a' poveri ciò che avea potuto rimediare, sì che nel monasterio non era rimaso altro che un poco d'olio in una ampolla, comandò al celleraio che quello cotanto poco de l'olio desse ad uno povero. Ma quegli non el volse ubbidire, ma disprezzòe il comandamento pensando che, s'elli dava quello cotanto, a i frati non rimaneva nulla. Quando l'uomo di Dio ebbe sparto ciò, comandò che fosse gittato fuori per la finestra quello vasello con l'olio che dentro v'era, acciò che per la disubbidienza non rimanesse alcuna cosa nel munisterio. Sì che gittato che fu, cadde in su grandi sassi, né non si ruppe l'ampolla, né non si isparse l'olio; sì che allora il fece torre e darlo interamente a colui che 'l chiedeva. E riprendendo quello monaco de la disubbidienza e de la sfidanza, missesi ad orazione con li frati, e incontanente uno grande tino, ch'era quivi, fu pieno d'olio e tanto vi crebbe entro che pareva che traboccasse per lo spazzo. Una volta fu ch'elli andòe laggiuso a visitare la sirocchia sua, e stando lui a la mensa, ella il pregone che dimorasse quivi in quella notte con lei a parlare di Dio. Ed elli non volendo per veruno modo acconsentire a lei di ciò, essendo ne l'aere grande sereno, ella chinòe il capo in su le mani per pregare il Segnore e levando ella il capo, tanta vertude di baleno e di truono e tanto diluvio d'acqua venne che l'uomo di Dio non poteva pure muovere il piede con ciò fosse cosa, impertanto che prima fosse grande sereno maraviglioso. Ma perch'ella gittò grandi fiumi di lacrime, si trasse il grande sereno de l'aere a pioggia. A la quale l'uomo di Dio contristato, sì disse: "Perdoniti l'onnipotente Iddio, serocchia! che è questo che tu hai fatto?" Al quale ella rispuose: "Io ti pregai e non mi volesti udire, pregai il Segnore mio e udimmi. Or te ne va se tu puoi". E così avvenne che tutta quella notte vegghiarono, adoperandola in santi parlari, e così seguirono insieme con raccontando l'uno a l'altro. E eccoti il terzo die, quando l'uomo di Dio fu tornato al monasterio, levò gli occhi e vide l'anima de la sua serocchia andarne in cielo in figura di colomba, e quelli fece recare incontanente il corpo suo al monasterio e fecelo mettere nel monimento ch'egli aveva fatto fare per se propio. Una notte, guardando lui per la finestra, vidde una luce sparta disopra, che avea cacciate tutte le tenebre de la notte. E subitamente tutto il mondo gli fu recato dinanzi a gli occhi come fosse raccolto sott'uno razzuolo di sole; e veggendo in quella luce portare in cielo l'anima di san Germano, vescovo di Capua, manifestamente trovò poscia che in quell'ora e in quello punto morìo quello santo che san Benedetto conobbe il suo montare in cielo. In quello medesimo anno che dovea passare di questa vita, predisse a' frati il die de la sua morte; e sei dì innanzi al suo passamento fece aprire il sepolcro, e incontanente gli prese la febbre, e aggravando ogne die, il sesto die si fece portare ne l'oratorio e ivi armò il passamento con la ricevuta del corpo e del sangue di Gesù Cristo. E sostenendo le debole membra fra le mani de' discepoli, levate le mani al cielo, stette ritto e in questo modo, fra le parole de l'orazioni, mandò fuori l'anima. E quella medesima revelazione nel detto dì fu fatta a due frati, l'uno che stava in orazione in cella e l'altro ch'era da la lungi, e fue questa essa: ched e' videro una via piena di belli zendadi e molti sanza fine, tutta splendiente di lampane e teneva inverso il levante da la cella di san Benedetto insino al cielo; ne la quale essendo uno uomo d'abito di grande reverenzia disopra chiaro, dimandò cui fosse la via che vedevano. E dicendo coloro di non saperlo, sì disse: "Questa è la via per la quale il diletto di Dio Benedetto, ne va in cielo". Seppellito fue ne la chiesa di san Giovanni Batista, la quale egli aveva fatta disfacendo l'altare di quello idolo, e fue nel tempo di Giustino più vecchio, correnti gli anni Domini nel torno di DXVIII.
cap. 49, S. PatrizioPatricio che visse intorno a gli anni Domini CCLXXX predicando de la passione di Cristo al re di Scozia, stava dinanzi al re e appoggiavasi al pastorale che teneva in mano; e abbiendolo posto per avventura in sul piè del re con la punta, ch'era ferrata, sì li foròe il piede. E credendo il re che 'l santo vescovo facesse questo ad ingegno e che altrimenti non potea ricevere la fede di Cristo se non patisse simigliante cose per lui, sì lo si sostenne pazientemente. Sì che il santo a la perfine avveggendosi di questo, sì si fece grande maraviglia e con sue preghiere sanòe il re, sì che a tutta quella provincia impetròe da Domenedio che neuno animale velenoso vi possa vivere. E non solamente questo ottenne, ma che i legni e pomi di quella contrada siano contrarii a veleno. Uno si avea furato una pecora, cioè imbolato ad uno suo vicino e avêlasi mangiata; e con ciò fosse cosa che 'l santo confortasse il ladro che dovesse rendere la pecora, chiunque fosse, e non apparisse neuno essendo tutto il popolo raunato a la chiesa, comandòe 'n vertude di Jesù Cristo che colui nel cui ventre la pecora fosse entrata, sì belasse dinanzi a tutti; e così addivenne, e 'l colpevole fece penitenza e prese paura a gli altri che non imbolassero. Ora avea questo santo questa usanza di riverire divotamente tutte le croci ched elli vedeva; passando dunque dinanzi al sipolcro d'uno pagano una volta, passò oltre e non vidde la croce grande e bella, sì che fu domandato da' suoi com'elli non l'avea veduta; onde ne richiese Domenedio in prieghi di ciò, e quelli udì una boce di sotterra che disse: "Tu non la vedesti per ciò ch'io sono sotterrato qui uno pagano e sono indegno del Signore de la Croce". Allora fece togliere di là quella croce. Con ciò dunque fosse cosa che san Patricio predicasse per Irlanda e poco pro facesse, pregò Domenedio che mostrasse alcuno segnale per lo quale ispaventati gli uomini sì si pentessero. Sì che per comandamento di Dio fece in alcuno luogo uno grande cerchio col bastone là ove la terra s'aperse, e apparivvi uno grandissimo pozzo e profondissimo. Sì che ebbe revelazione il santo che quivi aveva uno purgatorio, nel quale, chiunque volesse scendere, non li sarebbe mestiere di fare altra penitenzia, né non sentirebbe altro purgatorio per li peccati suoi più, e non ritornerebbero più quindi, ma anderebbero a vita, e quegli che ne reddissoro, sì li convenìa dimorare quivi da la mattina insino a l'altra mattina vegnente. Sì che molti v'entravano che mai non reddivano. Dopo lungo tempo, morto san Patricio, un gentile uomo, che avea nome Niccolao, il quale avea conmesso molti peccati, essendone pentuto e vogliendo sostenere il purgatorio di san Patricio, maceròe il corpo suo con digiuni otto dì innanzi, come tutti facevano; così aperse un uscio con una chiave che si conservava in una abazia e poi discese nel detto pozzo e ebbe trovato uno uscio dal lato del pozzo; entròe dentro e trovovvi uno oratorio e vidde alquanti monaci vestiti a bianco entrare ne l'oratorio e dicevano l'Ufficio, i quali dissero a Niccolao: "Starai forte, ché molte tentazioni del diavolo avrai a sostenere". E dimandando quegli se aiuto potesse avere contra ciò, coloro dissero: "Che tu, da che tu ti sentirai affliggere di pene, incontanente grida, e di': "Jesù Cristo, figliuolo di Dio vivo, abbi misericordia di me peccatore!" E partendosi coloro, eccoti venire li demoni, sì che primieramente il cominciarono a confortare con lusinghevoli impromesse ched elli ubbidisca a loro, affermando ch'ellino il guarderebbono e rimenerebbolo sano e lieto a casa sua. E con ciò fosse cosa che quelli non volesse, così tosto cominciò a udire romori e grida diverse e di diverse fiere come se tutti gli elementi fossero scossi; e palpettando per l'orribile paura ch'elli ebbe, disse la parola detta disopra, e incontanente tutto quello grido rimase. E andando più oltre, ciò più innanzi, trovò una moltitudine di demoni, i quali dissero a lui: "Pensi tu scampare de le nostre mani? no, ma ora comincerai ad essere tormentato e afflitto". Ed eccoti apparire un grande e terribile fuoco qui presente; le demonia li dissero: "Se non ci consentirai, ti getteremo nel fuoco ad ardere". E le demonia presero colui, non vogliente acconsentire, e sì lo gittarono in quello terribile fuoco, e con ciò fosse cosa ched e' sentisse dolori e dicesse quella parola: "Jesù Cristo" eccetera, incontanente fue spento quello fuoco. Ancora non vogliendo acconsentire, sì lo gittarono in uno altro fuoco e sì lo tormentarono con piastre roventi, cioè calde di ferro; ma proferta e detta quella parola: "Jesù Cristo", e incontanente fu liberato. Allora andò più innanzi e vidde uno larghissimo pozzo; e dissero le demonia: "Il luogo che tu vedi là onde esce così orribile puzzo, sì è ninferno, nel quale abita il nostro signore Belzebub. In tale pozzo ti getteremo se non ci acconsentirai, nel quale se tu vi sarai entro gittato, non ti rimane rimedio nessuno". E gittando lui dentro, non volendo acconsentire, e quelli dicendo: "Jesù Cristo ecc." incontanente fue liberato. Venne dunque ad uno ponte sopra il quale gli convenìa passare, il quale era strettissimo, e a modo di ghiaccio era debole e pulito e sdrucciolente, e sotto il ponte correva un fiume grande e puzzolente. E con ciò fosse cosa che le demonia percotessero questo debole ponte per romperlo e colui si disparse di potere passare, a la perfine ricordandosi de la parola sua che tante volte l'avea campato, sì si mise a passare con grande fidanza e, abbiendo posto l'uno piede in sul ponte, cominciò a dire: "Jesù Cristo ecc.". Sì che ad ogni passo dicendo quella parola, passòe oltre sicuro e ogne turba de' demoni sparve dinanzi a lui. E quegli entrò in uno prato molto dilettevole, e rendea olore per la soavitade di tutti i fiori; ed eccoti apparire a costui due bellissimi giovani, i quali lo menarono ad una cittade bellissima risplendiente d'oro e di gemme preziose, la cui porta mandava un mirabile profumo; e così lo ricreò che non sembrava aver sentito né dolore, né fetore. E dissero a lui che quella cittade era il Paradiso. Ne la quale volendo quegli entrare, dissero a lui quelli due giovani che prima tornasse a la gente sua e dopo XXXdormirebbe in pace, e allora enterrebbe in quella città e mai non ne uscirebbe. Allora subitamente si trovò riposto sopra il pozzo e raccontòe a tutti tutte quelle cose che gli erano intervenute, e dopo XXX si riposòe beatamente nel Signore ecc.
cap. 50, AnnunciazioneL'annunziazione del Segnore sì è detta imperò che in cotale die fue annunziato l'avvenimento del figliuolo di Dio in carne da l'Angelo. Convonevole cosa fue che l'annunziamento de l'angelo andasse innanzi a la incarnazione del figliuolo di Dio per tre ragioni. Primieramente per ragione de l'ordine che si dovea tenere, cioè che l'ordine del racconciamento risponda a l'ordine del cadimento. Sì come adunque il diavolo tentò la femmina per recarla a dubitanza e per la dubitanza a consentimento e per consentimento a discadimento, così il buono angelo annunziò la Vergine per commuoverla a credenza e per la credenza a consentire e per lo consentire a concepire Domenedio. Secondariamente per la ragione del misterio de l'angelo, imperò che l'angelo è ministro e servigiale di Dio e la Beata Vergine era eletta ad essere madre di Dio, fu convonevole cosa che 'l ministro di Dio gli servisse in così grande servizio ed annunziasse allegrezza a questa madre di Dio. La terza ragione si fu per riparare lo scadimento de l'angelo; ché la incarnazione di Cristo non solamente era a riparare lo scadimento de l'uomo, ma eziandio la rovina de l'angelo, e però non ne debbono essere tratti fuori gli angeli. Ché come sesso femminile non fu tratto del cognoscere la 'ncarnazione e la resurressione, così eziandio l'angelo. Anzi annunziò Domenedio l'uno e l'altro ministerio a la femmina per tramezzamento de l'angelo, cioè la 'ncarnazione a la Vergine Maria e la resurressione a la Maddalena. Essendo dunque la beata Vergine stata nel tempio con l'altre vergini dal terzo anno de la sua etade infino a dodici anni, ovvero, secondo che vogliono dire altri, infino a li quattordici, e fatto voto de la sua verginitade, se Dio non dispensasse altro, Gioseppo la disposòe per revelazione di Dio e per la verga di Gioseppo che misse le frondi, come pienamente si contiene ne la storia de la natività de la beata Vergine Maria; sì che Gioseppo andò in Betleem, là onde elli era natìo, per apparecchiare quello ch'era di bisogno a le nozze, e la beata Vergine tornòe in Nazaret a casa de' suoi parenti. Nazaret è tanto a dire come fiore e, come dice san Bernardo, convonevole cosa fue che 'l fiore nascesse nel fiore e del fiore e al tempo de' fiori. Sì che quivi l'apparette l'angelo, e salutolla dicendo: "Ave gratia plena, dominus tecum, Benedetta tu sopra tutte le femmine". Dice san Bernardo: "Invitane a salutare la donna nostra l'essempro di Gabriello angelo, l'allegrezza di Giovanni Batista, e 'l guadagno del risalvamento". Ma da vedere è prima perché il Segnore volse che la sua madre fosse sposata, e assegnane san Bernardo tre ragioni, quando dice: "Necessariamente fu disposata Maria a Gioseppo, però che questo è nascosto a le demonia il misterio de la incarnazione ed è insieme provata la verginità de lo sposo ed è provveduto sì a la fama come a la vergogna de la vergine". La quarta ragione si è perché fosse tolto via la vergogna da ogne grado di femmine, cioè a le maritate, a le vergini e a le vedove, però che essa vergine fue in questi tre stati. La quinta ragione si è perché usasse ministerio de l'uomo. La sesta perché fosse provato buono il matrimonio, la settima perché fosse tessuta per l'uomo la tela de l'ordine de la 'ngenerazione. Disse dunque l'angelo: "Dio ti salvi, piena di grazia". Veramente piena, però che, come dice san Bernardo, nel ventre fue la grazia de la divinitade, nel cuore la grazia de la caritade, ne la bocca la grazia de la piacevolezza del parlare, ne le mani la grazia de la misericordia e de la largitade. Anche dice elli medesimo: "Veramente fu piena, imperò che del suo riempimento hae ogne gente: I pregioni n'hanno ricomperamento, l'infermi sanamento, li tristi consolamento, li peccatori perdonamento, li giusti la grazia, gli angeli letizia, a la perfine tutta la Trinità n'hae gloria, la persona del Figliuolo n'hae la sustanzia de la carne". "Il Segnore è teco, dice san Bernardo, il Signore Padre è teco, il quale ingenerò colui che tu concepi". Il Signore figliuolo è teco, lo quale tu vesti de la tua carne, il Signore Spirito Santo è teco dal quale concepi, Benedetta tu [in] mulieribus, cioè sopra tutte le femmine, imperò che tu sarai vergine madre e madre di Dio". A tre maniere di maladizione erano sottoposte le femmine: a la maladizione del brobio e del peccato e del tormento. Era la maladizione del brobio quanto al non concepere, onde Rachel concependo sì disse: "Ha tolta via da me il Segnore il brobio mio". Era la maladizione del peccato quanto a quelle che concepeano, onde dice il salmista: "Ecco che sono conceputo ne le iniquitadi". La maladizione del tormento era quanto a le partorite, onde dice il primo libro de la Bibbia: "In dolore parturirai". Adunque sola la vergine Maria fu benedetta tra le femmine; a la cui verginitade è aggiunto producimento, al producimento santitade nel concepere e a la santitade giocondità nel partorire. Ed è detta piena di grazia, secondo che dice san Bernardo, per quattro cose che risplendettero ne la sua mente, cioè divozione d'umilitade, reverenzia di castitade, grandezza di fede e martirio di cuore. È detto a lei: "Il Signore è teco" per quattro altre cose che risplendettoro a lei dal cielo; le quali sono queste: la santificazione di Maria, la salutazione de l'Angelo, e sopravvenimento de lo Spirito Santo e la incarnazione del figliuolo di Dio. Anche come elli medesimo fu detto a lei: "Benedetta tu in mulieribus" per quattro altre cose che risplendettero ne la sua carne, cioè perch'ella fue primitiera di verginità, produttiva sanza corrompimento, gravida sanza gravezza e partorente sanza dolore. Dice poscia il testo del Vangelio: "La quale, quando ebbe udito, fu turbata nel parlare de l'angelo e pensava chente fosse questa salutazione". Qui apparisce la loda de la Vergine ne l'udire, ne l'affetto e nel pensamento. Ne l'udire è lodata in lei la modestia, però che udì e tacette; ne l'affetto è lodata la vergogna, onde dice che fue turbata; nel pensamento è lodata la prudenzia, per due cagioni, ched ella si turbòe de la parola de l'angelo, non del vederlo, però che la beata Vergine vedea spesse volte gli angeli, ma non ne avea udito veruno che parlasse cotali cose. Pietro Ravignano assegna altre ragioni: "Era venuto l'angelo, ciò dice, lusinghevole in figura e terribile in parola, onde colei la quale il vedere sollecitòe pianamente, sì la turbòe troppo l'udire". Dice san Bernardo: "In ciòe ch'ella si turbòe ne la parola, sì venne a vergogna verginale; in ciò ch'essa non si turbòe nel vedere, venne da fortezza; in ciò che tacette e pensòe, venne da saviezza e da discrezione". E allora l'angelo confortando lei, sì disse: "Non temere, Maria, però che tu hai trovato grazia appo Dio". Dice san Bernardo: "Che grazia, pace tra Dio e gli uomini, distruzione de la morte e riparamento de la vita!" Ecco, dice, che conceperai e partorirai figliuolo e chiamerai il nome suo Jesù, cioè Salvatore, imperò che farà salvo il popolo suo da' peccati loro. Costui, ciò dice, sarà grande e fia chiamato figliuolo de l'Altissimo. Dice san Bernardo: "Questi è colui ch'è grande di forte padre, del secolo che dee venire prencipe di pace; veramente adunque grande, però ch'è grande Dio, grande uomo, grande dottore, grande profeta". E disse Maria a l'angelo: "Come sarà fatto questo, però ch'io non cognosco uomo, cioè ho proponimento di non cognoscere uomo?" E così fu vergine de la mente e de la carne e del proponimento. Ma ecco Maria che domanda, e chi domanda, sì dubita. Perché dunque venne solamente a Zaccheria la piaga de la mutolaggine? A questo assegna Pietro Ravignano quattro ragioni, e dice così: "Quel conoscitore de' peccatori non attendéo a le parole, ma a' cuori; non sentenziòe quello che quelli dicesse, ma quello che sentisse. Però che la cagione di quelli che domandavano è disguagliata l'una da l'altra, la maniera è per diverse cose, ché costei credette contra natura, colui dubitòe per la natura. Costei dimanda l'ordine de la cosa in terra, colui pronunzia che non possa essere quello che Dio vuole fare. Costei diede fede a la cosa sanza essemplo, colui per molti essempli non volse credere. Costei si maraviglia del parto verginale, colui dubita del concepere matrimoniale. Sì che non dubita la Vergine del fatto, ma dimanda del modo e de l'ordine, imperò che con ciò sia cosa che 'l modo del concepere sia in tre maniere, cioè naturale, spirituale e maraviglioso, dimanda in quale di questi modi debba concepere. E rispondendo l'angelo disse a lei: "Lo Spirito Santo sopravverrà in te" quasi dica "lo Spirito Santo farà il tuo concepimento". Onde è detto figliuolo di Dio conceputo di Spirito Santo per quattro ragioni. La prima si è per mostrarne la grande caritade, cioè per mostrare che la parola di Dio è fatta carne. Dice santo Giovanni nel terzo capitolo del Vangelio: "Di una tale maniera amò Domenedio il mondo, che ne diede l'Unigenito figliuolo suo". E questa è la ragione del Maestro de le Sentenzie. La seconda ragione si è per mostrare la grazia sanza meriti; è detto dunque conceputo di Spirito Santo, imperò che de la pura grazia, a la quale non andaro innanzi veruni meriti de li uomini, fece ciò. E questa ragione è di santo Agostino. La terza si è per l'operazione de la virtude, imperò che per l'operazione e per la virtù de lo Spirito Santo fu conceputo. E questa ragione è di santo Ambruosio. La quarta si è per lo motivo de la concezione; onde dice Ugo: "Il motivo con la concezione naturale si è l'amore de l'uomo a la femmina e de la femmina a l'uomo". "E così dice che avvenne ne la Vergine che, perché l'amore de lo Spirito Santo ardeva singularmente nel cuore di lei, però facea maravigliose cose ne la carne di lei". E la virtù de l'Altissimo adumbròe. Questa parola si spiana così secondo la Chiosa: "L'ombra si suole formare del lume e del corpo contrapposto; adunque la Vergine non potea, come pura femmina, comprendere nel suo corpo la plenitudine de la divinitade, ma la virtù de l'Altissimo sì la adombròe quando la luce non corporale de la divinità ricevette in lei il corpo de l'umanitade, acciò che potesse Dio patire". Questo spianamento par che voglia toccare san Bernardo, che dice così: "Dio è spirito, e noi siamo ombra del corpo suo; temperossi a noi, acciò che contrapposta la viva carne sua veggiamo la parola di Dio in carne, e 'l sole ne la nuvola, e 'l lume ne l'osso, e 'l cero ne la lanterna". Dice dunque san Bernardo a la Vergine: "Quello modo, cioè che tu concepirai di Spirito Santo, la virtude di Dio, Cristo, sì 'l nascose nel suo secretissimo consiglio adombrando, acciò che 'l sapesse pure elli e tu". Quasi dica l'angelo: "Che dimandi tu, madonna, da me che tu proverrai immantanente in te? Tu 'l saprai e beatamente il saprai; ma per tale maestro chente fia colui che n'è facitore. Io sono mandato annunziarti che tu conceperai arimagnendo vergine, non a mostrarti espressamente il modo. Ovvero adombrerà, cioè che ti rifrigerrà dal caldo di tutti i vizii". Ed ecco Elisabetta tua parente, c'ha conceputo in sua vecchiezza, dice: "Ecco acciò che tu mostri che 'l fatto sia grande e novello disusato". Secondo che dice san Bernardo per quattro cagioni fu detto a la Vergine che Elisabetta avea conceputo. La prima fu cagione di molta letizia, la seconda fue perfezione di scienzia, la terza fue perfezione di dottrina, la quarta fu il servigio di misericordia. Dice dunque così san Geronimo: "Il concepere de la parente sterile è annunziato a Maria, perché, aggiugnendo miracolo a miracolo, si raguni allegrezza con allegrezza. Ovvero per ciò che si convenìa che la Vergine sapesse prima per l'angelo ch'ella l'udisse dire ad uomo la parola la quale si dovea immantanente divolgare in tutte le parti, acciò che la madre di Dio non paresse rimossa da i consigli del figliuolo, se di quelle cose che si fanno così propiamente in terra fosse rimasa non sapiente. Ovvero che le fu prima detto, acciò che, essendo insegnato ora l'avvenimento dal Salvatore ora quello del Batista, tenendo bene a mente il tempo e l'ordine de le cosa, sappia poscia meglio appalesare la veritade a li scrittori. Ovvero perché, udendo la giovane che la sua parente vecchierella era gravida, pensasse del servigio, acciò che al profeta piccolino sia in questo modo dato il luogo di fare servigio al Segnore e sia fatto più maraviglioso l'uno miracolo per l'altro". Anche dice san Bernardo parlando a la Vergine: "Da' la risposta tu, vergine, affrettatamente. O Madonna, rispondi la parola e ricevi la parola, dae il tuo e ricevi quello di Dio, manda fuori quello ch'è passatoio e ricevi quello ch'è sempiternale. Leva su, corri e apri. Levati per la fede, corri per la divozione e apri per lo consentimento". Allora Maria con le mani distese e con gli occhi levati al cielo, disse: "Ecco l'ancella del Segnore, sia fatto a me secondo la tua parola". Dice san Bernardo: "Ad altri si legge che fu fatta la parola di Dio ne l'orecchie, ad altri ne la bocca, ad altri ne la mano; ma a Maria fu fatta ne l'orecchie per la salutazione de l'angelo, nel cuore per la fede, ne la bocca per la confessione, ne la mano per lo toccamento, nel ventre per la 'ncarnazione, nel grembo per lo sostenimento, ne le braccia per l'offerimento". Sia fatto a me secondo la parola tua. E Bernardo: "Non voglio che sia fatta a me isgridatamente predicata, ovvero figuratamente significata, ovvero imaginativamente sognata la parola, ma in silenzio inspirata, personalmente incarnata, e corporalmente inviscerata". Incontanente il figliuolo di Dio fu conceputo nel suo ventre, perfetto Dio e perfetto uomo; e in quello primo tratto che fu conceputo, sì fue di tanta potenzia e di tanta sapienzia quanto elli ebbe nel trentesimo anno. Allora levandosi Maria andò a Lisabetta e, abbiendola salutata, Giovanni le si rallegròe nel ventre. Dice qui la Chiosa: "Per ciò che con la lingua non si poteva rallegrare, rallegrasi ne l'animo e saluta e comincia a fare l'Officio de la sua precursoria". Ora stette a servirla tre mesi infino a tanto che Giovanni nascesse; lo quale ella levòe di terra con le sue mani, secondamente che si legge nel libro de' Giusti. Dicesi che Domenedio in questo cotale die operò molte cose per molti scorrimenti di temporali, le quali cose dichiaròe così san Gregorio in questi versi: Dio ti salvi die festereccio, il quale costrigni le piaghe nostre! L'angelo fu mandato, Cristo fu morto in su la Croce. Adamo fu fatto e nel medesimo tempo cadde, Per lo merito de la decima cadde morto Abello dal fratello. Offerisce Melchisedec, Isaac è messo al sacrificio. È dicollato il Batista, beato di Cristo E Pietro da la carcere liberato e Jacopo morto da Erode Molti corpi de' santi risucitano con Cristo, E 'l ladro riceve per Cristo il dolce riposo. Amen. Uno cavaliere ricco e nobile rinunziò al mondo ed entròe ne l'ordine di Cestella e, non sappiendo questi lettera e vergognandosi li monaci di fare stare così gentile persona tra ladici, diedergli uno maestro, acciò che pure un poco che sapesse non ne stesse tra ladici. Ma stando lungo tempo col maestro e non potendo avere apparato altro che queste due parole, ciò sono: "Ave Maria", sì le ritenne con tanto desiderio che dovunque andava o stava, o ciò che faceva, sempre sempre rogumava queste due parole. A la perfine morì costui e fu soppellito nel cimiterio con gli altri frati; ed eccoti sopra l'avello suo crescere uno bello giglio e in catuna foglia avea scritto di lettere d'oro: "Ave Maria". Correndo tutti a sì grande fatto vedere, trassero la terra del sepolcro, e la radice del giglio trovarono che procedeva de la bocca del morto. Sì che intesono con quanta divozione colui dicesse quelle parole, lo quale il Segnore avea alluminato d'onore di sì grande miracolo. Uno cavaliere fu ch'aveva uno castello in su la strada e tutti quelli che passavano spogliava sanza cagione veruna, ma pure salutava ogne die la Vergine Maria, né non volea, per impedimento che li venisse, lasciare passare veruno dì ch'elli non la salutasse. Ora intervenne che alcuno santo uomo religioso passava per quella contrada, sì che, volendolo i rubatori spogliare pregolli che 'l menassero al loro segnore, al quale elli avea a dire alcuna credenza. E, sendovi menato, pregò il cavaliere che ragunasse tutti quelli de la sua famiglia e predicasse la parola di Dio. I quali essendo venuti, disse il frate: "Non ci sono tutti, alcuno c'è meno". Allora dicendo uno che solo il canovaio vi mancava; disse il santo: "Veramente quegli ci è meno". Sì che tosto mandarono per lui e fu menato nel mezzo. E abbiendo veduto l'uomo di Dio, stravolse terribilmente gli occhi e menava il capo come fosse uno matto e non era ardito d'andare più da presso. E l'uomo santo sì gli disse: "Io ti scongiuro per lo nome del nostro Signore Jesù Cristo che tu ci manifesti chi tu se', e per quale cagione tu ci venisti, dillo in palese a tutti noi". E quelli disse: "Oimè, che scongiurato sono costretto di dire o voglia io, o no, io non sono uomo, ma diavolo che ho preso forma d'uomo, e sono stato così XIIII anni con questo cavaliere. Però che 'l nostro prencipe m'ha mandato qua, acciò che in quello dì che questi non dicesse la salutazione di santa Maria diligentemente, vi ponessi cura, acciò che, avuta la balia addosso a lui, immantanente io lo strangolassi, sì che faccendo la sua fine ne' suoi mali fosse nostro. Ma imperò che ogne die e' diceva quella salutazione, non poteva avere podestà in lui; ecco ch'io abbo osservato diligentemente di dì in die e non ha lasciato passare veruno dì che non l'abbia detta e salutata". Quando il cavaliere ebbe udito ciò, fortemente stupidìo, e gittandosi a' piedi del santo uomo, domandolli perdonanza e mutòe la vita sua in migliore opere. E l'uomo santo disse al demonio: "Nel nome di Jesù Cristo ti comando che tu ti parta di qui, e da quinci innanzi non possedere cotale luogo dove tu possa nuocere a veruno che chiami la Vergine Maria. Sì tosto come 'l santo uomo ebbe dati questi comandamenti, el demonio isparve di subito e il cavaliere con reverenza e ringraziamenti permise al santo uomo d'andarsene libero".
cap. 51, Passione G. CristoLa passione del nostro Segnore sì fu amara per lo dolore, dispetta per lo schernire, fruttuosa per la molta utilitade. Il dolore è accagionato per cinque cose. Primieramente di ciò che questa passione fue vituperosa, imperò che fu in vituperoso luogo, cioè in monte Calvaridove i malifattori erano puniti, anche per lo vituperoso tormento però che fu condannato ad essere morto di soccissima morte. Ché la Croce era tormento de' ladroni e, avvegna ché la Croce fosse allora di molta vergogna, ora si è di molta gloria. Dice santo Agostino: "La Croce, la quale solea essere tormento de' ladroni, ritorna ora a le fronti de li imperadori; e se Domenedio ha fatto cotanto onore al tormento suo, quanto ne farà al servigiale suo?" Anche per la cattiva compagnia, però che con escellerate persone fue giudicato, cioè con i ladroni che prima furono scellerati uomini. Ma l'uno di loro che avea nome Dismas come è detto nel Vangelio di Nicodemo, sì si convertìo poi, lo quale stava dal lato ritto, ma l'altro fue dannato lo quale avea nome Gesmas; sì che a l'uno diede il regno e a l'altro il tormento. Onde dice santo Ambrogio: "Usanza è de li uomini, quando si partono di questa vita, di fare testamento de le loro cose, onde Cristo considerando che dovea morire fece questo testamento: A gli apostoli lasciò persecuzione e a' discepoli pace, a' giudei il corpo, al suo padre lo spirito, a la Vergine il suo amato discepolo per governatore e servidore come propio figliuolo, al ladrone il Paradiso, a' peccatori lo 'nferno, e a li cristiani di penitenzia raccomandava la Croce. Ecco il testamento che Cristo fece a la morte stando impiccato in su la Croce. Nel secondo luogo fue accagionato il dolore di ciò che la pena ch'elli ricevette sì fue non giusta, però che non fece peccato, non fu trovato una mala parola ne la sua bocca e però la pena che viene altrui indegnamente sì è più da dolere. Ché di tre cose massimamente l'accusavano, cioè l'una, perché vietava che fosse renduto il tributo a Cesare, l'altra, perché si faceva re e perché si faceva figliuolo di Dio. Contro a queste tre cose diciamo noi il Venerdì Santo in persona di Cristo tre scuse, che dicono: "Popule meus". Con l'altre parole che seguitano, rimprovera loro tre beneficii fatti a loro, ciò furono la liberagione de l'Egitto, com'egli resse nel deserto e 'l piantamento de la vigna in ottimo luogo, quasi dica Cristo: "Accusimi tu, popolo, del rendimento del tributo, che dovesti anzi ringraziarmi ché io ti liberai dal tributo; accusimi tu perch'io mi chiamai re, che mi doveresti anzi rendere grazie che io ti pascei realmente nel deserto; accusimi tu perch'io mi chiamai figliuolo di Dio, maggioremente mi doveresti rendere grazie perch'io ti elessi ne la vigna mia e piantai te in luogo ottimo". Nel terzo luogo perch'elli fu morto da li amici, che più sarebbe da sostenere il dolore chi 'l patisse da coloro che debbono essere nemici, ovvero da coloro che fossono stranieri, o a cui elli avesse fatto alcuno danno; ma Cristo fu morto da li amici e da coloro de la cui schiatta nacque. Di questi due si dice nel Salmo: "Gli amici miei e li prossimi miei sono stati contra di me". Anche fu morto da coloro a' quali elli avea fatto molti beni, onde dice san Giob nel XIX capitolo: "Li conoscenti miei sono sceverati da me come stranieri". E santo Giovanni dice nel Vangelio, ne l'ottavo capitolo: "Molte buone opere v'ho mostrate da padre mio". Dice san Bernardo: "O buono Gesù, come dolcemente tu conversasti con gli uomini! Come grandi cose tu donasti a loro, come dure cose tu patisti per loro, dure parole, più dure battiture e durissimi tormenti de la Croce". Nel quarto luogo, per ragione de la tenerezza del corpo, onde di lui è detto in figura di David nel secondo libro de' Re, presso che a la fine: "Elli è com'uno vermicello teneruzzo di legno". Dice san Bernardo: "O giudei, voi siete pietre, ma voi percotete una pietra più molle, la quale risuona suono di pietade e rampollane olio di caritade". Anche dice san Geronimo: "Dato fu Jesù a battere a' cavalieri, e quello santissimo corpo e petto capace di Dio fu tutto segnato da le battiture". Nel quinto luogo, però che fue universale, però che fue tormentato per tutte le parti del corpo e per tutti i sensi. Che prima fu il dolore ne li occhi, però che lagrimò, come dice san Paulo, a li Ebrei nel quinto capitolo. Dice san Bernardo: "Montò Cristo in alto, per essere udito più da lunga; gridòe fortemente, perché niuno si scusasse; al grido aggiunse lagrime, perché l'uomo n'avesse compassione". Altra volta lagrimò due volte, cioè fue ne· risucitare di Lazzaro, e sopra Gerusalem. Sì che le primaie furono lagrime d'amore, onde dicevano: "Vedete come l'amava!"; le seconde furono di compassione, ma le terze furono di dolore. Nel secondo luogo fue il dolore ne l'udire, quando elli udìo cotante vergogne e bestemmie e villanie, quattro cose ebbe in sé, contra le quali elli udìo vituperi. Imperò ch'elli ebbe in sé somma nobilitade, però che essendo figliuolo di Dio, secondo la deitade, essendo nato di schiatta reale secondo l'umanitade eziandio secondo ch'elli era uomo, sì era re de' re e signore de' signori. Ancora ebbe veritade da non potere dire, per ciò ch'era via e veritade e vita, onde dice anche di sé: "Il sermone tuo, padre mio, sì è verace, il figliuolo è sermone, parola del padre". Ancora ebbe potenzia da non potere essere soperchiata, però che tutte le cose sono fatte per lui. Ancora ebbe singulare bontà, però che neuno è buono altri che solo Iddio. Primieramente adunque udì vergogne e bestemmie contra la nobilitade, come dice san Matteo che li Giudei diceano di Cristo: "Or non è costui figliuolo d'uno maestro di legname, ovvero fabbro? Or non si chiama la madre sua Maria?" Secondariamente contra la podestade sua ricevette vergogna, onde dice san Matteo, nel XII capitolo, che li Giudei diceano: "Questi non caccia le demonia se non in virtù di Belzabub, prencipe de' demoni". Anche dicevano in altro luogo: "Egli ha fatti salvi gli altri e se medesimo non può salvare". Ecco che 'l chiamano meno possente, con ciò fosse cosa impertanto ched elli abbattesse li suoi avversarii con la sola parola. Ché, andandolo egli caendo, e elli disse a loro: "Cui adomandate voi?" Ellino rispuosero: "Jesù Nazareno". E elli disse a loro: "Io sono". Immantanente caddero. Dice qui santo Agostino: "Una boce abbattéo una turba fiera, d'arme terribile e percossela sanza veruna lancia o coltello e scacciolla con la vertude de la nascosa deitade. Che farà dunque quando verrà a giudicare, quando colui che dovea essere giudicato fece questo? Che potrà elli fare colui che dovrà regnare, quando dovendo morire poté fare questo? Nel terzo luogo quanto a la veritade, onde dice san Giovanni ne l'ottavo capitolo: "Tu dai testimonianza di te medesimo, la tua testimonianza non è verace". Ecco che 'l chiamano bugiardo, con ciò sia cosa che impertanto ched e' sia via e verità e vita. Questa verità, che Cristo era, non meritò d'udire Pilato che cosa fosse verità avvegna ch'elli ne domandasse a ciò fue perch'elli sentenziò la veritade contra a veritade, cioè esso Cristo il quale è veritade. Bene cominciò elli da la verità, ma non vi stette entro fermo: e però cominciò la quistione de la verità ma non fue degno d'udire la soluzione. Un'altra ragione n'assegna santo Agostino che dice che quando Pilato ebbe fatta la quistione, sì li venne in memoria l'usanza de' Giudei, come solevano lasciare loro uno pregione per la Pasqua e però uscì fuori immantenente e non aspettò la risposta de la domanda. La terza ragione dice santo Giovanni Grisostimo, sì è perché sapeva bene che la questione era sì malagevole che avea bisogno di molto scuoterla e in molto tempo e elli affrettava per liberare Cristo, onde tosto uscì fuori al popolo. Bene si legge elli nel Vangelo di Niccodemo, che quando elli ebbe domandato: "Che è verità?" Cristo li rispuose: "La verità è dal cielo". Disse Pilato: "In terra non ha dunque verità?" Rispuose Cristo: "Come può essere la verità in terra, la quale è giudicata da coloro che hanno podestade in terra?" Nel quarto luogo feceno contra la bontade, onde dicevano ched elli era peccatore nel corpo, come dice santo Joanni che li giudei dicevano di lui: "Noi sapemo che questo uomo è peccatore". Anche il chiamavano ingannatore in parole come dice santo Luca nel tredecimo capitolo che li giudei dicevano di Cristo: "E' va commovendo il popolo, ammaestrando per tutta la provincia di Giudea". Anche il chiamavano transandatore de la legge in operazione, come dice santo Joanni nel nono capitolo: "Non è questo uomo da Dio che non guarda il sabato". Nel terzo luogo fu il dolore ne l'adorato, imperò che 'l monte Calvario era luogo putente però che v'erano li corpi de li uomini morti puzzolenti e stati guasti da la giustizia. Onde si dice nella Storia Scolastica che propiamente Calvario è l'osso nudo del capo onde era chiamato Calvari, però che quivi era calvezza di teschi di capi tagliati e morti e rei uomini e molti ve n'erano sparti. Nel quarto luogo fu il dolore nel gustare onde gridando elli: "Abbo sete", sì li diedero a bere aceto mischiato con fiele e con mirra, acciò che per lo aceto morisse più tosto, e così esse guardie fossero più tosto liberi da l'officio de la guardia; però che si dice che se i crucefissi beano l'aceto si muoiono più tosto. Mischiato mirra e fiele acciò che per la mirra fosse punito l'odorato, e per lo fiele il gusto. Dice santo Agostino: "Per mero è ripieno la sinceritade d'aceto, la dolcezza è mischiata di fiele e aggiunta la innocenzia al reo, muore la vita per lo morto". Nel quinto luogo fue la pena nel toccare, però che da la pianta del piede insino al capo non rimase in lui sanitade, onde san Bernardo dice come elli ebbe dolore in tutt'i sensi del corpo. Il capo che fa tremare gli spiriti angelici è punto da le spine, la faccia bella sopra tutti i figliuoli de li uomini è vituperata da gli sputagli de' giudei, gli occhi più chiari del sole sono fasciati, gli orecchi che odono i canti de gli angeli odono gli assalti de' peccatori de l'accuse false, la bocca che ammaestrava gli angeli è abbeverata di fiele e d'aceto, li piedi che la loro predella è adorata, però ch'ella è santa e secondamente che dice David profeta nel salterio, sì furono conficcati a la croce col chiavello, le mani che formarono il cielo e l'uomo e tutte le cose, sono distese ne la croce e confitte con chiavelli, il corpo è battuto, il costato è forzato con la lancia, e che più? non rimase in lui altro che la lingua, acciò che pregasse per li peccatori e raccomandasse la madre al discepolo. Secondariamente fu la sua passione dispetta per le beffe che furono fatte di lui, e ciò fu per quattro stagioni. La prima fu in casa d'Anna là ove ricevette gli sputi e le gotate e la fasciatura de gli occhi. Dice san Bernardo: "Lo volto tuo disideroso, o buono Jesù, nel quale disiderano gli angeli di sguardare si sozzarono con li sputi e batterono con le mani e copersero con uno velo per istrazio e anche l'afflissero con amare fedite". La seconda volta fu in casa d'Erode, lo quale riputando Cristo un pazzo e di non sana memoria in ciò che non poteva avere risposta veruna da lui, per beffe e per dilegione sì lo vestì di vestimento bianco. Dice san Bernardo parlando in persona di Cristo a' peccatori: "Tu se' uomo e hai ghirlanda di fiori e io Dio e uomo abbo la corona de le spine, tu hai gli guanti in mano e io gli chiovi confitti; tu vai ballando col vestire bianco e io per te fu' schernito da Erode in vestire bianco; tu va' saltando nel ballo co' piedi ed io per te m'affaticai co' piedi; tu nel ballo stendi le braccia a dimostrare allegrezza e io l'ebbi distese ne la croce a vergogna; io ne la croce mi dolsi e tu ne la croce t'allegri; tu hai coperto il lato e 'l petto in segno di vanagloria ed io per te abbo il lato forato. Ma pertanto ritorna a me ed io ti riceverabbo". Ma perché taceva il Segnore al tempo de la sua passione dinanzi ad Erode e a Pilato e a Giudei è triplice la ragione. La prima ragione perché non erano degni d'udire la sua risposta, la seconda si è perché Eva avea peccato per loquacità e per ciò Cristo volle satisfacere per tacere, la terza perché ciò che rispondeva si calognavano. La terza volta sì fu schernito in casa di Pilato là dove i cavalieri l'attornearono d'uno amanto di porpore e puosorli la canna in mano e la corona de le spine in sul capo e inginocchiati dinanzi da lui, e' sì dicevano: "Iddio ti salvi, Re di giudei!" E quella cotale corona si fu di giunchi marini che tagliano e passano non meno che faccia la spina; sì che trapassòe il capo e trassene il sangue. Dice san Bernardo: "Quello capo divino per molta splenditudine l'attornearono di molta spessitudine di spine sì fu foracchiato insino al cervello". De l'anima sono tre openioni, cioè dove l'anima hae la principale sedia, ov'è il cuore per quella parola che dice: "Del cuore escono li pensieri"; o nel sangue, per quello ch'è scritto nel Levitico: "L'anima d'ogne carne è nel sangue"; o nel capo per quella parola che dice: "E, inchinato il capo, mandòe fuori lo spirito". Queste tre openioni pare che sapessero li giudei almeno per operazione, ché per ischiantarli l'anima dal corpo sì l'andarono caendo nel capo, quando ellino gli confissero le spine infino al cervello e andarolla caendo nel sangue quando eglino gli apersono le vene ne le mani e ne' piedi, andarolla caendo nel cuore quando ellino gli forarono il costato con la lancia. Contra queste tre schernie tramezziamo noi ne l'Officio di Venerdì Santo innanzi a l'orazione de la Croce tre adorazioni dicendo: "Agios." con gli altri versi, vogliendo quasi onorare tre volte colui che fu schernito per noi tre volte. Nel quarto luogo fu ne la Croce, come dice san Matteo nel Vangelio del Passio: "Li principi de' sacerdoti, schernendo lui con li più vecchi e con li scribi, diceano: "Sed elli è re d'Israel, e' scenda de la croce". Dice san Bernardo in questa parte: "Intanto dona più la pazienza e loda l'umiltà e adempie l'obbidienza e compie la carità e rafferma la pace. Di queste quattro maniere di virtù sono ornati quattro corna de la croce: e quello disopra è la carità, del lato diritto l'obbedienzia, dal manco la pazienzia, ma la radice di tutte le vertude, cioè l'umiltà, nel profondo". Tutte queste cose che Cristo patìo, ricoglie san Bernardo in brievi parole, dicendo: "Mentre che io viverò, sì mi ricorderò de le fatiche ch'elli sostenne in predicando, e de le lassezze in discorrendo, e de le vigilie in orando, e de le tentazioni in digiunando, e de le lagrime in increscendoli di me e de li altri, e de li aguati in parlando. A la perfine, de le villanie de li sputi, de le gotate e de le beffe, de' rimproveri, de' chiavelli." Nel terzo luogo fue la sua passione fruttuosa per la utilitade; e considerasi massimamente l'utilità di quella in tre maniere: cioè remissione de' peccati, donamento di grazia e concedimento di gloria. E queste tre cose sono notate nel titolo de la Croce, cioè ne la sopraddetta scritta; però che vi si dice Jesù quanto al primo, Nazareno quanto al secondo, re de' Giudei quanto al terzo, però che là saremo tutti re. Di questa utilitade parla così Agostino: "Cristo distrusse la colpa presente, la passata e quella che dovea venire. I peccati passati tolse via perdonandoli, e' presenti ritraendo gli uomini da quelli, e quelli che doveano venire dando la sua grazia a li uomini la quale usassono". Di tale utilità dice ancora Agostino: "Anche ci maravigliamo e rallegriamo, amiamo, lodiamo, adoriamo, imperò che per la morte del nostro ricomperatore siamo chiamati da le tenebre a la luce, di morte a vita, di corruzione a gloria, di sbandimento al paese, di pianto ad allegrezza". Come fosse utile il modo del nostro ricomperatore, è manifesto per quattro ragioni. Ciò sono: perché molto fu accettevole ad umiliare Iddio, a noi fu molto convonevole a guarire la piaga, fu efficacissimo ad attrarre l'umana generazione, fu savissimo a vincere l'avversario. Primieramente fu accettevolissimo ad umiliare Domenedio. Dice santo Anselmo, in un libro che si chiama Perché Dio uomo: "Neuna cosa, ciò dice, più aspra né più malagevole può l'uomo patire a l'onore di Dio che la morte, e massimamente se ciò fa per ispontana volontade e non per necessitade veruna". Questo adunque fece Cristo; onde dice san Paulo ne la pistola a gli Efesiani, nel terzo capitolo: "Diede se medesimo offerta e sacrificio a Dio in odore di soavitade". Come fosse sagrificio umiliante e racconciante noi con Dio, dice santo Agostino nel libro de la Trinitade: "Che si potrebbe ricevere sì gran cosa come la carne del sacrificio del nostro corpo, compimento del sacerdote nostro?" Quattro cose si debbono considerare nel sacrificio: cioè a chi offerse, che cosa offerse, chi offerse e per cui offerse. Esso medesimo ch'è uno tramezzatore de l'uno e de l'altro, per sacrificio di pace ci racconciòe con Domenedio, una cosa stante colui al quale offerìa e quella cosa che offerìa. Ancora dice esso medesimo Agostino: "Cristo è sacerdote e sacrificio, Dio e tempio. Sacerdote, per lo quale siamo racconci; sacrificio, col quale siamo racconci; Dio, al quale siamo racconci e tempio nel quale siamo racconci". Onde santo Agostino in persona di Cristo rimprovera ad alquanti questo racconciamento, e dice così: "Con ciò fosse cosa che tu fossi nimico, sì ti racconciai col Padre mio per me stesso; essendo te da lunga, io venni per ricomperatti; errando te tra monimenti e monti e tra le selve, sì ti andai caendo, e trovai te tra le pietre e tra 'l legname; e perché tu non fossi squarciato da la bocca de' lupi e de le fiere rapaci, sì ti raccolsi e in su le mie spalle ti portai e rende'ti al Padre mio, affatica'mi, sudai, missi il capo mio tra le spine, diedi le mani mie a li chiavelli, lascia'mi aprire il costato con la lancia; non dico de le ingiurie, ma di cotante asprezze sono stato lacerato, isparsi il mio sangue, puosi la mia vita per accostarti a me, e tu ti scosti pur da me". Nel secondo luogo fu molto convenevole a sanare il malore; ed attendesi questa convonevolezza da la parte del tempo, da la parte del luogo, da la parte del modo. Primieramente da la parte del tempo, però che Adamo fu fatto e peccòe nel mese di marzo e in venerdì e ne l'ora di mezzodì, e Cristo in quello mese e in quello die e in quella medesima ora volse patire pena, cioè nel Venerdì e nel mezzodie, come peccòe Adamo. Secondariamente da la parte del luogo; ché se tu consideri il luogo de la passione, tu sì ritroverrai che fu comunale e speziale e singulare. Luogo comunale fu la terra di promissione e speziale fu monte Calvari, singulare fu la croce. Nel luogo comunale fu fatto Adamo, cioè nel campo Damasceno presso a Damasco. Nel luogo speziale fu seppellito, cioè colà dove Cristo fu passionato. Ma san Geronimo dice che Adamo fu seppellito in Ebron, come spressamente si truova scritto nel quarto decimo capitolo nel libro di Josuè. In luogo singulare, cioè nel luogo nel quale fu ingannato l'uomo; e in una storia de' Greci si truova che fu crocefisso in quello medesimo luogoro in che Adamo peccò. Nel terzo luogo da la parte del modo di curare, ché 'l modo di curare fue per cose somiglianti e per cose contrarie. Per cose somiglianti, per ciò che, come dice santo Agostino nel libro de la Dottrina Cristiana, ingannato da donna, nato di donna l'uomo liberòe gli uomini e 'l mortale i mortali, e liberòe i morti con la morte. Anche dice santo Ambrosio: "Di terra vergine fu fatto Adamo, di femmina vergine nacque Cristo. Colui a la imagine di Dio, costui imagine di Dio; per la femmina la stoltizia, per femmina la sapienza; ignudo Adamo, ignudo Cristo; la morte per l'albore, la vita per la Croce; nel diserto Adamo, nel diserto Cristo". Ancora le cose contrarie; che, però che Adamo avea peccato per soperbia, come dice san Gregorio, e per disubbidienzia e per gola, che si volle assimigliare a Dio per altezza di scienzia, trapassòe il comandamento di Dio per dispregio e assaggiare la soavitade del pome. E però che la cura è da fare per cosa che si convegna, però che questo modo fu molto convonevole a sadisfare, però che Cristo sattisfece per umiliazione di sé, per adempimento del volere di Dio e per afflizione de la carne. Però dice san Paulo ne la Pistola a' Filippesi nel secondo capitolo: "Umiliò Cristo se medesimo quanto al primo, fatto obbediente quanto al secondo, infino a la morte de la croce quanto al terzo". Nel terzo luogo fue efficacissimo a trarre l'uomo a sé; ché giammai non poté più trarre l'uomo a l'amore e a la fidanza sua, salvo l'albitrio de la libertade. Dice qui san Bernardo: "Sopra tutte quelle cose che mi ti rende amabile, o buono Jesù, si è il calice de la passione che tu beesti, che fu opera del nostro ricomperamento. Questa cosa è quella ch'al postutto guadagna a sé tutto il nostro amore agevolemente; questo è quello che la nostra devozione più lusinghevolemente alletta e più giustamente adomanda e più tosto desidera; e più forte là, dove, o Jesù, t'annichilasti tu, dove ti spogliasti tu de' naturali razzi, dove risplendette piùe la pietade, dove s'aperse più la caritade, dove abbondò più la larghezza". De la fidanza dice san Paolo a li Romani, ottavo capitolo: "Colui il quale non perdonòe al suo propio figliuolo, ma per tutti quanti noi sì 'l diede, or come non ci donerà elli anche tutte le cose?" Con lui insieme dice san Bernardo: "Quale sia quegli che non sia rapito a speranza d'impetrare fidanza, chi bene attende a le disposizioni del corpo di Cristo, cioè a vedere il capo inchinato, a basciare le braccia distese, ad abbracciare le mani forate, a donare il lato aperto, ad amare i piedi confitti, a muovere il corpo disteso, a darsi tutto quanto a noi". Nel quarto luogo fu savissimo a combattere con l'avversario, nemico de l'umana generazione. Dice san Giob nel XXV capitolo: "La prudenzia sua percosse il superbo"; e ne l'ultimo capitolo: "Or potrai tu prendere Leviatan con l'amo?" Cristo nascose la sua deitade come amo sotto l'esca de l'umanitade, e 'l diavolo, volendo prendere l'esca de la carne, fu preso da l'amo de la deitade. Di questo parla così tanto Agostino: "Venne il ricomperatore, e fu preso lo ingannatore; e che fece il ricomperatore al pregioniere nostro? tese la trappola: la croce sua, e puosevi l'esca: il sangue suo. E quegli volendo spandere il sangue del non debitore, sì guastòe i debitori; questo cotale debito chiama l'apostolo carta, la quale Cristo appiccòe a la Croce. De la quale carta dice Agostino: "Eva apprestò il peccato dal diavolo, scrisse la carta, dette un mallevadore; de la quale crebbe l'usura a li rimanenti, imperò che allora il diavolo fece la prestanza del peccato, quando l'uomo consentette al suo reo conforto, contro al comandamento di Dio; la carta scrisse l'uomo medesimo, quando porse la mano al pome dinegato per Dio; mallevadore diede, quando fece consentire l'uomo al peccato; e così crebbe l'usura del peccato a quelli che vennero dopo lui". Ma Cristo ci prosciolse da tutte queste cose. Onde dice san Bernardo nel sermone di Venerdì Santo che Cristo rimprovera questo beneficio a coloro che lo spregiano, e dice così: "Popol mio, che t'abbo io potuto fare che io non t'abbia fatto? Che cagione dunque hai tu, che più ti piace servire al diavolo che a me? Che se questo paresse poco a li sconosciuti, non vi ricomperò elli, ma io. E di che prezzo? Certo non di prezzo corporale d'oro o d'argento, non di sole o di luna, non d'alcuno angelo, ma del mio propio corpo. Ancora se per molte cotante ragione non si dece di richiedervi del servigio che voi mi dovete rendere lasciando ogni altra cosa, almeno del danaio del die vi convenite con esso meco". E però che Cristo fu messo a la morte, da Giuda per avarizia, da' giudei per invidia, da Pilato per paura, però cade a vedere de la loro pena. Ma de la pena e del nascimento di Giuda troverrai ne la leggenda di san Mattia; de la pena e de lo scadimento de li giudei troverrai in quella di santo Jacopo minore; ma de la pena e del nascimento di Pilato si truova scritto in questo modo in una storia che non è bene autentica. Fue uno re ch'ebbe nome Tiro; il quale ebbe a fare con una garzonetta ch'avea nome Pila, figliuola d'uno mugnaio ch'era chiamato Atus, e ebbe uno figliuolo; sì che questa Pila compuose un nome del suo e di quello del padre che avea nome Atus, e puose nome al figliuolo Pilato. E avendo Pilato tre anni, Pila sì lo mandò al re; sì che il re avea uno figliuolo de la reina quasi del tempo di Pilato; ed essendo venuti al tempo che conoscevano il bene e 'l male, Pilato con l'altro fanciullo del re, spesse volte giucavano insieme combattendo e con la rombola in mano. Ma il figliuolo madornale del re, com'egli era più nobile per generazione, così era trovato essere più valentre che Pilato in tutte cose, e adatto più in ogne maniera di battaglia. Laonde Pilato, mosso ad invidia, sì uccise il fratello. La qualcosa quando il re l'ebbe saputo fu fortemente addolorato e, chiamato lo consiglio, domandò che fosse da fare de l'uomo. E tutti dissero che era degno di morire; ma il re, tornato in se medesimo, non volle arrogere danno a danno, ma mandollo a Roma per istadico del tributo che dovea dare ogni anno a li romani, volendo essere fuori de la morte del figliuolo ed essere dilibero, sotto questa spezie, da tributo. A quello tempo era a Roma il figliuolo del re di Francia per quella medesima cagione, e Pilato gli si fece a compagno; e veggendosi avanzare da colui in ingegno e in costumi, mosso da invidia, sì lo uccise. E cercando i romani quello che dovessero fare di costui, dissono così: "Se questi hae a vivere, c'ha morto il fratello e strozzato il compagno, potrà essere molto utile a la repubblica; ed esso, feroce, domerà i colli de' feroci nemici". Sì che dissero così: "Con ciò sia cosa ched elli sia degno di morte, sia mandato per signore a quelle genti ch'abitano ne l'isola di Ponthos, i quali non patiscono veruno giudice, se per avventura la loro contumacia sia domata de la malizia di lui e, se no, si abbia quello di ch'egli hae meritato". E così fu mandato là, ma non che non sapesse a' quali e' fosse mandato; e pensandosi così chetamente il fatto e vogliendo conservare la vita, quella malvagia gente sottomise al postutto or con minacce, ora con tormenti, ora con prezzo. Sì che, perché fue vincitore di così dura gente, fu chiamato Ponzio Pilato da quella isola di Ponthos. E abbiendo udito Erode lo 'ngegnoso uomo ch'egli era, rallegrandosi a le malizie di lui, esso malizioso, sì lo invitòe a sé con donamenti e con tramezzatori, e diedeli la sua podestade sopra la provincia di Giudea e sopra Gerusalem. Il quale, abbiendo ragunata molta pecunia, andossene a Roma, non sappiendone Erode nulla, e offerse infinita pecunia a Tiberio imperadore, e impetròe che li fosse dato ciò che teneva da Erode per li donamenti ch'elli fece al detto imperadore. E di ciò diventarono nemici Erode e Pilato infino al tempo de la passione di Cristo; ché allora si racconciarono insieme, però che Pilato gli mandò il Segnore. Un'altra cagione di nimistade assegnano le Storie Scolastiche. Ché uno, faccendosi figliuolo di Dio, avea ingannati molti de' Galilei; e abbiendogli menati in uno luogo che si chiama Garizin, là dove avea detto ch'elli sarebbe salito in cielo, sì che Pilato venne sopra loro e uccise lui con tutti i suoi seguaci per temenza ch'elli non ne ingannasse altressì gli giudei. E però diventarono nemici, perché Erode signoreggiava in Galilea. E l'una cagione e l'altra può essere vera. E con ciò fosse cosa che Pilato avesse dato il Signore a' Giudei a crucifiggere, temendo che non avesse offeso lo imperadore di ciò ch'avea condannato l'uomo sanza colpa, mandò uno suo famigliare a lo imperadore a scusarsi. Infrattanto, avendo lo imperadore una grave infermità e essendoli mandato a dire come Jesù curava ogne cosa con la sola parola, non sappiendo che Pilato l'avesse dato a la morte, disse ad Albano suo credenziere: "Va tosto in Giudea, e dirai a Pilato che mi mandi quello medico che sana ogne cosa con la sua parola, acciò che mi renda sanitade". E dicendo a Pilato queste cose Albano, Pilato impaurito chiese indugio XIIII dì. Infra 'l quale tempo Albano domandò una donna, la quale avea nome Veronica, ch'era stata molto famigliare di Jesù, dove si potesse trovare Jesù; e quella disse: "Oimè ch'egli era mio Iddio e mio segnore, lo quale Pilato condannòe a morte, dato a lui per invidia, e fecelo mettere in croce!" Allora quelli disse: "Fortemente me ne duole; per ciò ch'io non posso adempiere quello per che 'l Signore mio m'ha mandato!" E quella disse: "Quando il Signore mio andava predicando qua e là, e io male volentieri stava sanza lui vedere, vollimi fare dipignere la sua imagine, acciò che, quando io vedere non lo potessi lui, almeno contemplassi la sua imagine; e portando me uno panno bianco al dipintore per farlo dipignere, il Segnore mi venne incontrato. E richiesemidove io andava, e dicendoli me la cagione del mio viaggio, chiesemi il panno e fregollosi per tutto il volto e 'l segnòe quello panno de la sua venerabile faccia. Se 'l segnore tuo vedrà devotamente l'aspetto di questa imagine, incontanente avrà il beneficio de la sua santade". E quelli disse: "Potrebbesi questa imagine comperare con oro o con argento?" "Non ciò, disse quella, ma con pietoso effetto di devozione. Verrabbo con essa adunque teco e recherò a vedere la imagine a lo imperadore, e tornerommi a casa". Sì che ne vennero insieme a Roma. Disse Albano a lo 'mperadore: "Jesù, ch'era dinanzi da te disiderato, Pilato e li giudei uccisero ingiustamente e per invidia il chiavellarono in su la croce. Ora è venuta con esso meco una discepola di questo Jesù, e reca seco una imagine, la quale se tu ragguarderai bene divotamente, incontanente diverrai sano". Sì che lo imperadore fece ornare la via di zendadi e di sciamiti, e comandò che li fosse presentata la imagine; e sì tosto, come l'ebbe veduta, incontanente sì riebbe la santade di prima. Sì che, per comandamento de lo imperadore, Pilato fu menato preso a Roma e presentato a lo 'mperadore. Ma Pilato portò seco la tonica del Segnore sanza costura, e andò vestito con essa dinanzi, a lo 'mperadore. Sì tosto come lo imperadore l'ebbe veduto, ogne ira che avea puose giù e levollisi dinanzi, né non li poté parlare veruna dura parola; e colui che parea terribile e fiero da che quelli si era partito, diventava mansueto da che gli era presente. E quando lo 'mperadore gli avea data la licenzia di partire, sì 'ncontanente s'adirava e terribilemente contra di lui, gridando come non gli avea mostrata l'ira ch'egli avea nel cuore. E faccendolo richiamare, contastando e giurando che quelli era figliuolo di morte e che non era licito ched elli vivesse sopra la terra, sì tosto com'elli il vide, il salutò e cacciò via da sé ogne crudelezza d'animo. Tutti si maravigliavano di ciò e, esso medesimo, se ne maravigliava di ciò; che quando quegli gli si era levato dinanzi, così fortemente s'adirava contra di lui, e quando elli era presente, non li potea parlare nulla aspramente. A la perfine, per volontà di Dio, ovvero per conforto d'alcuno cristiano, per la ventura lo 'mperadore gli fece spogliare la tonica; e incontanente riebbe la fierezza de l'animo. E maravigliandosi di ciò Cesare, seppe che quella era stata la tonica di Jesù Cristo. Allora lo fece mettere in prigione infino a tanto ched e' pensasse quello che dovesse essere fatto di lui. Sì che, avuto il consiglio, fu data la sentenzia che fosse condannato a fare sozzissima morte. Udendo ciò Pilato col suo coltello s'uccise se medesimo. Udendo ciò lo 'mperadore, sì disse: "Veramente è morto di sozzissima morte, al quale la propia mano non ha perdonato". Sì che fu legato ad uno grande carico e fu gittato nel Tevere. Allora le demonia sozze, rallegrandosi al corpo sozzo, isturbavano l'acque, commoveano l'aere e generavanvi folgori e tempestadi e tuoni e gragnuole, sì che tutte le persone erano prese da una mirabile paura. Sì che i Romani, traendone fuori per istrazio, il portarono in Vienna e tuffarollo entro il fiume del Rodano. Ché Vienna è detta quasi viva geenna, cioè fuoco, però che allora era un luogo di maladizione. Ma le demonia furono presenti là, operando quelle medesime cose che facevano a Roma; sì che gli uomini di quella contrada, non potendo patire quella pistilenzia de le demonia, rimossero da sé quello vasello di maledizione e commisserlo a sotterrare nel territorio di Losania. Ed essendo coloro troppo gravati de le dette pestilenzie, rimosserlo da loro e gittarollo in uno pozzo attorniato di montagne; nel quale luogo, come le persone dicono, non mollano ancora le tormentagioni de le demonia a bullicare. Infino a qui si legge ne la detta storia non autentica; la quale, s'è da raccontare, e rimagna ne l'arbitrio del leggitore a sua sentenzia. Ma ne le Storie Scolastiche sì si legge che Pilato fu accusato a Tiberio da' giudei di sforzata morte di non colpevoli e che, contradicendo li giudei, ponea nel tempio l'imagini de' pagani e che la pecunia ch'era messa nel ceppo del tempio sì spendea al suo uso, faccendone condotto d'acqua in casa sua; onde per tutte queste cose fu mandato a ternafine a Leon sopra Rodano, là onde era stato natìo, acciò che vi morisse in vergogna de la sua gente. Puote bene essere che prima fosse mandato a tornafine a Leon sopra Rodano per l'accuse de' giudei; ma poscia, udito dire de la morte del Segnore, lo 'mperadore il fece ritornare e fece di lui come detto è di prima. Ma santo Eusepio e Beda ne le loro Croniche non dicono che fosse mandato a tornafine, ma pur che, caggendo elli in molte miserie, con la sua propia mano s'uccise. Abbiendo detto de le feste che corrono fra 'l tempo de lo sviamento; il quale tempo cominciò da Adamo e bastòe infino a Moisé, lo quale tempo rappresenta la Chiesa da la sessuagesima infino a la Pasqua; seguita ora a vedere de le feste che vegnono, fra 'l tempo de la riconciliazione, lo quale tempo rappresenta la Chiesa da la Pasqua da la Resurressione infino a l'ottava di Pentecoste.
cap. 52, Resurrez. G. CristoLa resurressione di Cristo fu fatta il terzo dì dopo la sua passione; de la quale sono da considerare sette cose. E prima è da vedere come tre dì e tre notti stette nel sepolcro e al terzo dì risucitò. E diciamo, secondo il detto di santo Agostino, che si prende parte per tutto; e ciò è vero in questo modo: che si prenda il primo die secondo l'ultima parte di sé, il secondo die secondo tutto sé e 'l terzo secondo la prima parte di sé; e così sono tre dì e ciascuno di questi dì ebbe la sua notte dinanzi. Però che allora, secondo il detto di Beda, fu mutato l'ordine e 'l corso de dì e de le notti; e che imprima andavano il dì innanzi e le notti dietro; ma dopo la passione si rimutò questo ordine, sì che le notti vanno innanzi e i dì vanno di dietro. E ciò si convenne nel misterio santo, però che l'uomo dal primo dì de la grazia cadde ne la notte de la colpa e, per la passione e resurressione di Cristo, da la notte di colpa tornòe al die de la grazia. Nel secondo s'addomanda perché non risucitòe a mano a mano, cioè subito, ma aspettossi al terzo die; e assegnasene cinque ragioni. La prima fue per la significazione, acciò che per questo fosse significato che la luce de la sua morte curò la nostra doppia morte; e però giacque nel sepolcro uno die entero e due notti, acciò che per lo die s'intenda la luce de la sua morte, e per le due notti la nostra doppia morte. E questa ragione pone la Chiosa sopra quella parola del Vangelio di santo Luca nel XXIV capitolo: "Convenne che Cristo patisse." La seconda ragione si è per la pruova; ché sì come ne la bocca di due o di tre testimoni sta ogni parola, così in tre dì sta ogne fatto a provare, acciò che veramente morto fosse provato quando tre dì giacque nel sepolcro. La terza ragione fu per mostrare la sua potenzia; però che, se di subito fosse risucitato, non parrebbe già ch'elli avesse potenzia di morire come di risucitare. Onde sopra quella parola che dice san Paulo, ne la prima Pistola a' Corinti nel XV capitolo: "Per ciò che Cristo morìo per li peccati nostri" dice la Chiosa: "E però che la morte si è andato innanzi, acciò che, sì come si mostra la verace morte, così si pruova la vera resurressione". La quarta ragione si è per figurare le cose di che noi dovavamo essere ristorati; onde dice Pietro Ravignano: "Tre dì volle che avesse la sua sepoltura, cioè per ristorare le cose di terra, e per ricomperare quelle ch'erano al limbo de lo inferno". La quinta cagione si è per ristorare tre stati di giusti; onde dice san Gregorio sopra lo Ezechiel: "Il venerdì fu morto Cristo, il sabato si posòe nel sepolcro e la Domenica risucitò. La vita presente è ancora a noi venerdì, però che da molti dolori siamo tormentati; ma il sabato quasi ci riposiamo nel sepolcro, però che troviamo riposo a l'anima dopo la morte; e la Domenica quasi ne l'ottavo dì ci leviamo da la morte e ne la gloria de l'anima insieme con la carne ci allegriamo. Sì che abbiamo dolore nel sesto dì, e riposo nel settimo e gloria ne l'ottavo". Insino a qui sono parole di san Gregorio. Nel terzo luogo s'adomanda come risucitasse; e diciamo che risucitòe potentemente, però che per propia vertude risucitò, come disse nel Vangelio di santo Giovanni nel nono capitolo: "Io abbo potenzia di porre giù la vita mia, e abbo potenzia di ripigliarla un'altra volta". Anche dice in altro luogo: "Disfate questo tempio e io lo rifarò in tre dì". Anche risucitò beatamente, imperò che puose giù ogni miseria, come dice nel Vangelio di san Giovanni nel XXVI capitolo: "Poi ch'io sarò risucitato, sì v'andrò innanzi in Galilea". Galilea è interpretata trapassamento. Adunque Cristo quando risucitò, andò innanzi in Galilea, imperò che de la miseria passòe a la gloria e de la corruzione a stato di non mai corrompersi. Andò innanzi, imperò che lasciò la immortalitade; onde dice san Leone papa: "Dopo la passione di Cristo, rotti i legami de la morte, la infermità trapassòe in virtude, la mortalitade in eternitade, la vergogna in gloria". Anche risucitò utilemente però che prima prese la preda come dice Jeremia nel quarto capitolo: "Montòe il leone del letto suo, e lo rubatore de' pagani s'è levato". Anche dice nel Vangelio di san Giovanni: "Quando io sarò levato di terra, cioè traendo l'anima mia del limbo e 'l corpo del sepolcro, io trarabbo tutte le cose a me medesimo". Anche risucitò miracolosamente, imperò che, sì come elli uscì fuori del ventre de la madre rimagnendo chiuso e sì come entrò a gli apostoli essendo serrate le porte, così risucitò del sepolcro stando esso chiuso. Onde si legge ne la Storia Scolastica che uno monaco di san Lorenzo fuori de le mura di Roma ne li anni Domini MCXI, maravigliandosi de la cintura sua, de la quale era cinto, come non sciolta fosse gittata innanzi a lui, li venne una boce ne l'aere e disse così: "Così poteo uscire Cristo del sepolcro stando chiuso". Anche risucitò veramente, però che risucitò in corpo verace e in suo propio corpo. In sei modi si provò essere risucitato veramente: il primo modo per l'angelo il quale non mentisce; il secondo modo per lo spesso apparire; il terzo per lo mangiare, per lo quale è manifesta cosa che non risucitasse per arte di demonio; il quarto per lo toccamento, per lo quale si mostra ch'elli risucitasse in verace corpo; il quinto per lo mostramento de le margini per la quale cosa si pruova che risucitasse in quello corpo nel quale fu morto; il sesto per lo entrare in casa stando le porte serrate, in ciò si mostra ch'elli risucitò col corpo glorioso. Tutti questi dubbi intorno a la resurressione di Cristo pare fossero nei discepoli. Ancora risucitò inmortalmente, come dice san Paulo a' Romani nel sesto capitolo: "Cristo risucitando da morte giammai non muore". Ma bene dice Dioniso, ne la pistola che mando a Demofilo, che Cristo, poi che fu salito in cielo, disse al beato Carpo: "Apparecchiato sono di morire un'altra volta per coloro che si debbono salvare". Per la qualcosa pare che, se possibile fosse ancora, sarebbe apparecchiato a morire per tutti. Ché raccontòe il beato Carpo, uomo di grande santitade a san Dionisio (sì come esso san Dionigio dice), che abbiendo uno sanza fede convertito uno cristiano, sì l'ebbe per male Carpo e recollosi sì a noia che gliene venne infermitade. (Ed era di tanta santitade che giammai non diceva Messa ched e' non avesse alcuna revelazione da cielo o alcuna visione). E dovendo lui pregare Domenedio che gli convertisse, sì 'l pregava continuamente gli facesse ardere abendue insieme sanza misericordia. Ed eccoti entro la mezzanotte, mentre ch'elli vegghiava e fatta questa cotale orazione, subitamente la casa, ne la quale era, fue partita in due parti e una grande fornace v'appare e, ragguardando in suso, vidde il cielo aperto e Jesù Cristo accerchiato di moltitudine d'angeli. Poscia vidde intorno a la fornace stare quelli due uomini tutti in triemito, i quali erano tirati ne la fornace per forza con morsi e con avvolgimenti da li serpenti che uscivano de la fornace, e d'alquanti uomini erano sospinti. Le quali cose vedendo Carpo tanto gli giovava di vedere questa vendetta di costoro che a la visione disopra non poneva mente, e molto si recava a noia che quelli serpenti non li traevano tosto entro la fornace. A la perfine con malagevolezza ragguardando il cielo e avendo vista la visione di prima, ecco Jesù Cristo, misericordioso di quelli uomini, discendere d'in su la sedia celestiale infino a coloro con moltitudine d'angeli, e diede le mani a coloro e liberolli; e disse Jesù Cristo a Carpo stendendoli la mano inverso lui e dice: "Poni mente la mano a me, ancora sono apparecchiato di patire per li uomini che si debbono salvare, e questo m'è amichevole, non che gli altri uomini pecchino". Questa visione che racconta Dionigi, ponemmo qui per prova di ciò. Nel quarto luogo s'adimanda perché non s'aspettò di risucitare con gli altri. E assegnasene tre ragioni. E la prima è per la dignità del suo corpo; ché, essendo il suo corpo dignissimo, perché era unito a la deitade, non gli si confese di stare tanto sotto la polvere come dice il salmista: "Non darai al santo tuo, cioè al corpo santificato, cioè deificato, vedere corrompimento". Anche dice il salmista: "Levati, messere, nel riposo tuo, tu e l'arca de la tua santificazione". E chiamasi arca di santificazione il corpo che contiene in sé la deitade. La seconda ragione si è per la fermezza de la fede; ché se non fosse risucitato, allora la fede sarebbe stata perita e non avrebbe altri creduto il vero Iddio. E ciò è manifesto, perché al tempo de la passione di Cristo, trattone la Vergine gloriosa, tutti quanti perdettero la fede; ma per la resurressione sì la racquistarono, come dice l'apostolo Paulo ne la prima Pistola a' Corinti XV capitolo: "Se Cristo non resurressie, vana è la fede nostra". La terza ragione si è per lo essemplo de la nostra resurressione; ché più rado si troverebbe chi sperasse la resurressione de' corpi umani se non vedesse andare innanzi la cagione in alcuno essemplo. Però dice l'Apostolo: "Se Cristo risucitòe e noi risuciteremo, però che la sua resurressione è cagione d'essemplo de la nostra resurressione". Dice san Gregorio: "Il Segnore ne mostrò per essemplo quello che ci promisse in guiderdone; ché come li fedeli conoscessono lui essere risucitato, così sperassono in loro medesimi li guiderdoni della resurressione a la fine del mondo". Anche dice elli medesimo: "Non volle che fosse più che tre dì la sua morte, acciò che, se in lui fosse indugiata la resurressione, non fosse al postutto disperata in noi". Abbiamo, ciò ci dice, speranza del nostro resurressire, considerato noi la gloria del capo nostro". Nel quinto luogo fa dimanda perché Cristo risucitò. E assegnasene quattro ragioni. La prima si è perché la resurressione di Cristo adopera il giustificare de' peccatori; la seconda si è perch'ella insegna novitade di costumi; la terza si è perch'ella genera speranza de' guiderdonamenti de' doni; la quarta si è perch'ella cria il risucitamento di tutti. Del primo dice san Paulo a' Romani, nel quarto capitolo: "Dato fu per li peccati nostri e risucitòe per lo giustificamento nostro". Del secondo dice nel sesto capitolo: "Sì come Cristo risucitòe da morte per la gloria del padre, così noi andiamo in novità di vita". Del terzo dice ne la prima Pistola di san Piero, nel secondo capitolo: "Il quale per la grande sua misericordia n'ha ringenerati in speranza viva per la resurressione di Jesù Cristo da morte". Del quarto dice san Paulo ne la prima Pistola a' Corinti nel XV capitolo: "Cristo risucitò primo, principio di coloro che muoiono; però che, come per l'uomo venne la morte, così per uomo venne il risucitamento de' morti". Ed è da notare che, come si manifesta per le predette cose, Cristo ebbe quattro cose propie. La prima è che la nostra resurressione s'indugia infino a la fine del mondo, ma la sua fu fatta il terzo die. La seconda si è che noi per lui risuciteremo, ma egli per se medesimo. Onde dice santo Ambrosio: "Come poté elli adomandare aiuto di risucitare il suo corpo, colui che risucitò gli altri?" La terza cosa è che noi c'incenneriamo, ma il corpo suo non si poté incennerare. La quarta è che la sua resurressione in speranza de la nostra resurressione si è cagione efficiente, essemplare e sacramentale. De la prima cagione dice la Chiosa sopra quella parola la qual'è del Salmo che dice: "Al vespro dimorerà il pianto e al mattutino la letizia". Dice così la Chiosa: "Cristo è cagione efficiente de la resurressione nostra de l'anima al tempo presente e del corpo nel tempo che dee venire". De la seconda cagione dice san Paulo ne la prima Pistola a' Corinti, nel XV capitolo: "Se Cristo risucitò, e noi risuciteremo". De la terza dice ne la Pistola a' Romani nel VI capitolo: "Che come Cristo risucitò, così noi andiamo in novità di vita". La sesta cosa che s'adomanda si è quante volte apparve risucitando. E dovemo sapere il dì che resurresse apparve cinque volte e altri dì altre cinque volte. Primieramente apparve a Maria Maddalena, come dice san Giovanni nel XX capitolo del Vangelo e santo Marco ne l'ultimo: "Risucitando la mattina il primo dì de la settimana apparve imprima a la Maddalena, la quale rapporta significazione di penitenzia". E apparve a lei di prima per cinque cagioni. La prima si è perché ella amava più ardentemente, come dice santo Luca nel settimo capitolo: "Perdonati li sono molti peccati perch'ella amò molto". La seconda cagione si è per mostrare che fosse morto per li peccatori, come dice san Matteo nel nono capitolo: "Non sono venuto a chiamare li giusti, ma i peccatori a penitenzia". La terza è perché le meretrici vanno innanzi a' savii nel regno di Dio, come dice san Matteo nel XXI capitolo: "In verità vi dico che le meretrici v'andranno innanzi nel reame di Dio". La quarta, che come la femmina fu messaggera de la morte, così fosse de la vita, secondo la Chiosa. La quinta, acciò che là dove abbondò l'offesa, soprabbondasse la grazia, come disse san Paulo a' Romani nel quarto capitolo. La seconda volta apparve a le donne che tornavano dal monimento quando disse loro: "Dio ti salvi" e elle andarono umilemente e gittarolisi a' piedi, là dove si mostra il grande loro affetto. La terza volta apparve a san Pietro, ma non si sa il dove né il quando, se non per la ventura quando tornava da monimento con santo Joanni. Poté bene essere che san Piero in alcuno luogo si scostò da san Giovanni e là gli apparve il Segnore, come dice santo Luca ne l'ultimo capitolo. Piero è interpetrato ubbidente, e rapporta la significazione de li ubbidenti a' quali Cristo apparisce. La quarta volta apparve a li discepoli che andavano in Emaus; lo quale è interpretato desiderio di consiglio, e significa li poveri di Cristo, che adempiono quella parola del Vangelio: "Va, vendi ciò che tu hai e da' a' poveri e seguitami". La quinta volta apparve a gli apostoli insieme raccolti, i quali hanno a significare li religiosi, come dice santo Joanni nel XX capitolo. Queste cinque apparizioni fatte il die di resurresso rappresenta il prete a la Messa volgendosi cinque volte al popolo. Ma il terzo rivolgimento si fa con silenzio; che significa la terza apparizione fatta a san Piero, la quale non si sa dove, ovvero quando fu fatta. La sesta volta apparve l'ottavo dì a li apostoli, cioè i discepoli raunati insieme, essendovi san Tomaso; il quale disse che non crederebbe sed elli non vedesse; e significa coloro che dubitano ne la fede, come dice santo Joanni nel XX capitolo. La settima volta apparve a li discepoli che pescavano, come dice santo Joanni ne l'ultimo capitolo; e significa i predicatori. L'ottava volta a li discepoli nel monte Tabor, come dice san Matteo ne l'ultimo capitolo; e significa i contemplanti, però che nel detto monte si trasfigurò Cristo. La nona volta a li undici discepoli che mangiavano nel cenaculo, là dove Cristo riprese la durezza loro, come dice san Marco ne l'ultimo capitolo; e significano li peccatori per lo numero d'undici di trapassamento, i quali Dio alcuna volta per sua misericordia visita. La decima volta apparve nel monte d'Oliveto, là onde salette in cielo; e significa i misericordiosi per le ulive, onde del monte d'ulive si sale in cielo; imperò che la pietade vale a tutte le cose per la promessione che ha, come dice san Paulo ne la prima Pistola a Timoteo nel quarto capitolo. Dicesi che furono altre tre apparizioni il dì medesimo di risurresso, avvegna che ciò non s'abbia per lo testo del Vangelio. La prima ch'elli apparve a san Jacopo minore, del quale apparimento cerca ne la sua leggenda. La seconda fu ch'elli apparve a Giuseppo, come si legge nel Vangelio di Nicodemo. Ché abbiendo udito li giudei ched elli avea seppellito il corpo di Cristo, indegnati contra di lui sì 'l presono e rinchiuserlo in una camera diligentemente serrata e suggellata, e dopo il sabato il volevano uccidere. E ecco Jesù in quella notte di resurresso, stando la casa sospesa in quattro cantoni, entròe a lui e forbilli il volto de le lacrime e diedeli bascio e, stando salvi e' suggellati, sì lo ne trasse e rimenollone in casa sua in Arimatia. La terza volta d'apparizione fu ch'elli apparve a la madre sua prima ch'a tutti, avvegna che ciò tacessero i Vangelisti. La qualcosa la chiesa di Roma pare che voglia approvare, che in quello die fu la stazone a santa Maria Maggiore. E se ciò non si crede, perché neuno Vangelista il pone, ne consegne che dopo la resurressione non le apparve, perché neuno Vangelista pone il dove e il quando. Ma non piaccia Dio che così fatto figliuolo avesse così vilmente anneghiettita così fatta madre, degna sopra tutte l'altre persone, e che non la vicitasse, la quale sopra tutti meritòe, ciò è sopra tutti fu dolente de la sua passione. E così si confacea a lui di visitarla, il quale fa tutte le cose bene, con ciò sia cosa ch'ogne sconvonevole sia impossibile a Dio. Pare che fosse quasi necessario d'apparire prima a lei ch'a gli altri; ma però li Vangelisti non lo dissero, imperò che de le sue lode tacettero; però che per fermezza lasciarono. Ciò ché com'ellino scrissono la santificazione di Joanni Batista entro il ventre de la madre di Dio, al postutto tacettero, però che dal minore lasciarono che fosse provato; così scrivendo che Cristo apparisse a meno degne persone di lei, lasciarono che massimamente, per fermezza, apparisse a lei che n'era degna. Potrebbesi ancora dire ched elli intendeano ad inducere solamente testimoni de la resurressione; onde con ciò sia cosa che la madre non convenevolemente testimoni per lo figliuolo di lei, non volessono fare menzione veruna. Che così dice santo Ambrosio nel libro de le Vergini: "Che Cristo debbe innanzi a tutti rallegrare la madre, la quale è manifesto che sopra tutti gli altri si dolse più de la morte". La settima questione che si fa de la resurressione sì è com'elli trasse i santi Padri del Limbo. Certa cosa è ch'elli scese a lo 'nferno, ma quello che vi si facesse niuno Vangelista il pone. Ma santo Agostino dice così in uno suo sermone: "Cristo diede al Padre lo spirito, e l'anima unita a la deitade discese al profondo del ninferno; ed essendo giunto al termine de le tenebre quasi com'uno rubatore splendiente e terribile, ragguardoro in lui quelli malvagii e le schiere infernali spaventate cominciarono a domandare dicendo: "Onde questi così forte, così terribile, così splendiente, così chiaro? Quello mondo che fu suggetto a noi, non ci mandò mai cotale morto, mai non mandò a l'inferno cotali presenti; chi è dunque questi ch'è così fuori di paura e entra ne' nostri confini, e non solamente non teme i nostri tormenti, ma maggiormente proscioglie gli altri de' nostri legami? Ecco, coloro che soleano sospirare sotto nostri tormenti ci fanno assalto del ricevimento de la salute, e non solamente già non temono noi, ma ancora ci minacciano. Unquemai così non insuperbirono li morti quine; mai non furono così lieti i pregioni. Or perché ci volestu menare qua costui? O prencipe nostro, perita è ogni tua letizia, in pianto sono convertite l'allegrezze tue; da che tu impicchi Cristo nel legno e non sai quanto danno tu sostenghi nel ninferno". Dopo queste crudeli voci di coloro, al comandamento di colui, cioè del Signore, furono rotti tutt'i serragli de lo 'nferno e gl'infiniti popoli de' santi gittaronsi a le ginocchia sue e con lamentevole boce dicevano: "Ben sie venuto, ricomperatore del mondo; ben sie tu venuto, lo quale noi disiderando continuamente aspettavamo. Tu discendesti per noi a lo 'nferno, ora non ci venire meno da che sarai tu tornato al luogo disopra. Sali su, Signore Jesù, del ninferno, spogliato ed inferriato ne' suo' legami il fattore de la morte; rendi la letizia al mondo, soccorri, ciò dicono, a spegnere le crudeli pene e, faccendo misericordia, prosciogli gl'incarcerati, tra li quinci, prosciogli i peccatori, da che tu sarai montato, difendi i tuoi". Questi sono detti di santo Agostino. Ma nel Vangelio di Niccodemo, si legge che Zano e Leuzio figliuoli di Simeone vecchio, risucitando con Cristo apparetteno ad Anna e a Caifas e a Niccodemo e a Giuseppo e a Gamaliel, e richiesti da loro quello che Cristo facesse a l'inferno, sì dissero: "Essendo noi con tutti i nostri padri ne la scurità de le tenebre, subitamente vi si fece uno colore orino di sole e porporino e la reale luce risplendente sopra noi; e incontanente venne Adamo, si rallegrò e disse: "Questa luce si è del fattore del lume sempiternale, il quale a noi e per noi promisse di mandare l'eternale lume suo". Allora gridòe Isaia e disse: "Questi è luce del padre, figliuolo di Dio, com'io profetai, essendo me vivo nel mondo: il popolo, che andava in tenebre, vidde una grande luce". Allora Simeone, nostro padre, rallegrandosi, sì disse: "Glorificate il Signore, imperò ch'io ricevetti Cristo ne le mie mani nel tempio e, ammaestrandomi lo Spirito Santo,dissi: "Ora lasci tu, Signore, lo servo tuo in pace". Poscia venne Joanni Batista e disse: "Io lo battezzai e apparecchia'li la via e mostra'lo a dito così dicendo: "Ecco l'agnello di Dio". Allora disse Set: "Essendo io andato a le porte del Paradiso a pregare il Segnore che mi mandasse l'angelo suo, che mi desse de l'olio de la misericordia per ugnere il corpo d'Adamo mio padre, da ch'egli era infermo, e san Michele angelo m'apparve e disse: "Non ti affaticare con lagrime pregando per l'olio del legno de la misericordia; però che tu non ne potrai avere se prima non si compiono cinque milia e cinquecento anni". Udendo ciò, tutt'i patriarci e profeti sì s'allegrarono di grande allegrezza. Allora Satanas, prencipe di morte, disse al ninferno: "Apparecchiatevi a ricevere Jesù, che si gloria d'essere figliuolo di Dio; ma egli è uomo che teme la morte; onde dicea: "Trista è l'anima mia infino a la morte"; e molti, ch'io feci ciechi, elli sanòe e zoppi dirizzòe". Rispuose lo 'nferno, e disse: "Potrai tu essere chente questo Jesù che contradia la potenzia tua? Ché se disse che temea la morte, sì ti vuole pigliare, e guai sarà a te sempiternalmente". Disse Satanas: "Io sì 'l tentai e commossi il popolo contra di lui; io arrotai la lancia e mischiai il fiele e l'aceto e apparecchiai il legno de la croce; ed è presso la morte per menarlo a te". Disse lo 'nferno: "Or è elli colui che risucitòe Lazaro lo quale io tenea?" Rispuose il diavolo: "Quelli è esso". Allora disse lo 'nferno: "Io ti scongiuro, per le virtudi tue e per le mie, che tu non lo meni qua a me; però che, quando io udii il comandamento de la sua parola, tutto tremai e non pote' ritenere Lazaro; ma scorrendosi come fa l'aquila sovr'ogni leggerezza, saltò da noi". E parlando queste cose, venne una voce come un truono che disse: "Levate via, principi, le porte vostre e levatevi quindi, porti eternali, e enterrà il re di gloria!" A questa voce corsero le demonia a le porte del metallo e chiusorle con chiavistelli di ferro. Allora disse David profeta: "Or non profetai io: Lodino il Signore le misericordie sue, imperò che ruppe le porte del metallo, e spezzòe li chiavistelli del ferro". E venne un'altra voce che disse: "Anche togliete via le porte". Allora il ninferno, poiché aveva gridato due volte quasi come non lo sapesse, disse: "Qual è questo re di gloria?" Disse David: "Segnore forte e potente, Segnore potente in battaglia, egli è il re di gloria". Allora sopravvenne il re di gloria e alluminòe le tenebre eternali e, stendendo la mano, prese la mano diritta d'Adamo e disse a lui: "Pace sia a te con tutti i figliuoli tuoi, giusti miei". E montòe da l'inferno, e tutti i santi con lui; e 'l Segnore tenendo la mano d'Adamo, sì la diede a san Michele e menolli entro nel Paradiso. A i quali vennero incontro i due uomini vecchi di tempo e furono domandati da' santi: "Chi siete voi, che non siete stati ancora con esso noi nel ninferno e siete allogati nel Paradiso?" Rispuose l'uno: "Io sono Enoc che sono traslatato qua, e costui è Elia, che ci fu portato qua in su uno carro di fuoco, e ancora non abbiamo assaggiato la morte, ma dobbiamo essere riservati infino a l'avvenimento d'Anticristo e dovemo combattere con lui e essere morti da lui e dopo tre dì e mezzo dobbiamo essere risucitati, cioè ricevuti da nuvoli". E dicendo queste cose, eccoti sopravvenire un altro uomo che portava in su le spalle il legno de la croce, e dimandando ellino chi e' fosse, quegli disse: "Io fui ladro e fui crocifisso con Jesù e credetti in esso Salvatore e prega'lo per la mia salute, e elli mi disse: "Oggi sarai meco in Paradiso", e diedemi questo segno de la Croce così dicendo: "Portando te questo, va nel Paradiso e se l'angelo che v'è per guardiano non ti lasciasse andare dentro, mostragli il segno de la croce, così dicendo: Cristo mi disse, portando te questo, vanne nel Paradiso, e se l'angelo che v'è per guardia non ti lasciasse entrare, mostragli il segno de la Croce e dirai: "Cristo, il quale è ora crocifisso, m'ha mandato". E abbiendo detto queste cose, immantinente lo menò l'angelo dentro e allogollo a la diritta parte del Paradiso". Abbiendo detto queste cose Çarino e Leuzio tosto disparirono e più non furono veduti. Gregorio Nisseno, ovvero, secondo ch'altri vogliono dire, Agostino, dice così di costui: "Incontanente che Cristo discese, l'eternale notte de lo 'nferno risplendette; immantanente quelli ferruginosi portinari per la paura che sopravvenìa loro, sommormorarono fra loro medesimi cotali silenzi ombrosi: "Or ch'è questi così terribile che risplende di tanto splendore? Unquemai cotale non lo ricevette il nostro inferno, unquemai in nostra tana none vomicò uno così fatto il mondo. Questi è salito re e non debitore; è rompitore e distruggitore; non è peccatore, ma è rubatore. Noi veggiamo il giudice non lo rinchinevole; a noi è venuto a combattere non a sottomettersi; è venuto a rappare e non per istare.
cap. 53, S. SecondoSecondo, valentre cavaliere ma di Cristo nobile combattitore e martire di Dio glorioso, ne la città d'Asti fu coronato di martirio, per la cui gloriosa presenzia la detta città è alluminata e da lui come di singulare padrone s'allegra. Questi fu ammaestrato ne la fede da santo Calocero, il quale era tenuto in carcere da Saprizio prefetto ne la città d'Asti. Con ciò dunque fosse cosa che santo Marziano fosse tenuto in pregione a Tortona, Saprizio vi volle andare per farlo sacrificare a l'idole; e questo san Secondo, quasi per cagione di sollazzo, si misse ad andare con lui desiderando molto di vedere san Marziano. Sì che, essendo già fuori de la città d'Asti, una colomba discese sopra Secondo e puoseglisi in sul capo. Al quale disse Saprizio: "Vedi Secondo che gli dei nostri ci vogliono bene, ché t'hanno mandato gli uccelli dal cielo per vicitarti". Ed essendo giunti ad uno fiume, vidde Secondo uno angelo che andava sopra l'acqua e dicea a lui: "Secondo, abbi la fede e così andrai sopra i coltivatori de l'idole". Al quale disse Saprizio: "Fratello mio Secondo, io odo gli dei che parlano teco". Rispuose Secondo: "Andiamo a li desiderii del cuore nostro". E, sendo capitati ad un altro fiume, l'angelo per simigliante modo gli apparve quivi medesimo e sì li disse: "Secondo, credi tu in Dio o dubitine tu per la ventura?" Al quale rispuose Secondo: "Io credo la verità de la sua passione". Al quale disse Saprizio: "Che è quello ch'io odo?" Ed entrando loro in Tortona, Marziano, per comandamento de l'angelo uscendo de la carcere, apparve a Secondo e disse a lui: "Entra, Secondo, ne la via de la veritade e va per quella, acciò che tu prendi la corona de la fede". Disse Saprizio: "Chi è questi che vi parla e pare che sogni?" Al quale disse Secondo: "A te pare sogno, ma a me si è ammonimento e conforto". Dopo queste cose andò Secondo a Melano e l'angelo di Dio menò a lui, fuori de la città, san Faustino e Jonita, i quali erano tenuti pregioni in carcere, e ricevette battesimo da loro dando loro l'acqua una nuvola. Ed eccoti subitamente venire di cielo una colomba, e recando il corpo e 'l sangue del Segnore, e sì lo diede a Faustino e a Jonita. Ma Faustino diede il corpo del Segnore e 'l sangue a Secondo, che lo dovesse portare a san Marziano; sì che tornando Secondo, con ciò fosse cosa che già fosse notte e fosse venuto a la riva del Po, l'angelo di Dio sì li prese il freno del cavallo e trasportollo sopra il Po e menollo infino a Tortona entro a la carcere a san Marziano. E diede Secondo a san Marziano il presente di Faustino. E quegli il prese e Disse: "Il corpo e 'l sangue del Signore sia con esso meco in vita eterna". Allora, al comandamento de l'angelo, Secondo uscìe de la carcere e andonne a l'albergo. Dopo questo san Marziano ricevette la sentenzia del capo e santo Secondo tolse il corpo e soppellillo. La qualcosa udendo Saprizio, chiamollo a sé e sì li disse: "A quello ch'io veggio, tu mostri d'essere cristiano". Al quale rispuose Secondo: "Veramente mi confesso d'essere cristiano". E quelli disse: "Io veggio che tu desideri la morte". Rispuose Secondo: "A te si dee la morte maggioremente". E non volendo sacrificare, comandò che fosse spogliato; immantenente l'angelo di Dio vi fu presente e apparecchiogli una vesta. Allora Saprizio, faccendolo mettere a la colla, tanto lo fece tormentare, che le braccia sì si schiantarono de le loro giunture. Ma essendogli renduta la santade dal Segnore, comandò che fosse rinchiuso in pregione, e quando vi fu dentro, l'angelo di Dio venne a lui e sì li disse: "Levati su, Secondo, e vieni dietro e menerotti al criatore tuo". Allora il menòe insino a la città d'Asti e puoselo ne la guardia, dov'era Calocero e 'l Salvatore con lui. Vedendo Secondo costui, sì si gittò a' piedi. Al quale disse il Salvatore: "Non avere paura, Secondo, ché io sono il Segnore Dio tuo, che ti trarrò d'ogne male" e, benedicendoli, salìo in cielo. Sì che la mattina Saprizio mandò a la carcere i suoi berrovieri, i quali trovarono bene la carcere suggellata, ma non vi trovarono Secondo. E andando Saprizio da Tortona a la città d'Asti, per punire almeno Calocero, comandò che 'l detto Calocero gli fosse presentato innanzi; e eccoti tornare i messi e dissero che Secondo era con Calocero. Ed essendo menati amendue a lui, disse a loro: "I nostri dei conoscendovi per loro disprezzatori, vogliono che voi insieme moiate". Sì che, non volendo costoro fare sacrifizio a l'idole, fece collare pece con resina e spargere sopra i capi loro e gittare ne le loro bocche. Ma ellino la beevano come fosse acqua soavissima con grande disiderio, e con chiara boce diceano: "Come sono dolci a le gote nostre le parole tue, più che mele a la bocca nostra!" Allora Saprizio diede la sentenzia sopra loro, cioè che Secondo fosse dicollato ne la città d'Asti e Callocero fosse mandato ad Albigano e là fosse punito. Essendo dicollato Secondo, ecco gli angeli di Dio: e' tolsero il corpo suo, e con molte laude e con canto il misero ne la sepoltura. E fu martirizzato di tre dì uscente Marzo. Il mese d'Aprile e le sue feste e le leggende di quelli santi.
cap. 54, S. Maria Egiz.Maria Egiziaca, la quale è detta peccatrice, XLVII anni stette nel deserto a menare vita asprissima. Sì che uno abate che avea nome Zosima, abbiendo valicato il fiume Giordano, andava scorrendo gran parte de l'ermo se per avventura trovasse alcuno santo padre, sì che vidde uno che andava col corpo ignudo e nero divampato per lo caldo del sole. Questa sì era Maria Egiziaca, la quale cominciò tanto tosto a fuggire; e Zosima cominciò più tosto a correrle dietro. Allora quella disse: "Abbate Zosima, perché mi perseguiti? Perdonami, ch'io non mi posso rivolgere a te la faccia mia, però ch'io sono femmina e sono ignuda; ma gittami il mantellino tuo, acciò ch'io ti possa vedere sanza vergogna". Quegli udendosi chiamare per nome, maravigliandosi, le gittò il mantello e, gittandosi in terra, sì la pregò ch'ella 'l benedicesse. E quella disse: "A te, padre, si confà di benedicere più, che se' ordinato di dignità sacerdotale". Quando quelli ebbi udito chiamarsi e sì per lo nome e per l'officio, più si maraviglia e maggiormente la pregava inchinevolmente ch'ella il benedicesse. Allora quella disse: "Benedicavi Iddio ricomperatore de l'anime nostre". E stando ella in orazione con le mani giunte e distese, sì la vidde levare da terra a la misura d'uno braccio. Allora cominciò il vecchio a dubitare che quello non fosse spirito che si infignesse d'adorare. Al quale ella disse: "Dio il ti perdoni, che me peccatrice istimasti ch'io fossi ispirito immondo". Allora Zosima la cominciò a scongiurare per Domenedio ch'ella li dovesse manifestare la vita sua. E quella rispuose: "Perdonalomi, padre, ché se tu m'udissi raccontare la condizione mia, tu fuggiresti come tu fossi spaventato da serpente, e l'orecchie tue saranno contaminate per le mie parole, e l'aere sarà infetta da le sozzure". E con ciò fosse cosa che quelli pure soprastesse a le parole, ella cominciò e disse: "Io, fratello, che fui nata ne l'Egitto, quando io ebbi XII anni compiuti sì me ne venni in Alessandra e ivi mi diedi al peccato carnale XVII anni e non mi disdissi mai a veruno uomo. Sì che andando gli uomini di quella contrada in Gerusalem per adorare la santa Croce, io pregai i nocchieri che mi lasciassono entrare ne la nave. E dopo il passaggio mi domandavano il navilio, e io dissi loro: "Non abbo che vi dare, ma per lo passaggio prendetevi il corpo mio. E così m'ebbero e usarono per lo passaggio il corpo mio". "Ed essendo venuta in Gerusalem e giunta a le porte de la Chiesa per adorare la santa Croce, subitamente e invisibilmente mi senti' cacciare, e non fui lasciata entrare ne la chiesa. Sì che anche e anche vi rivenni infino al liminare de l'uscio, e subitamente era cacciata; non per ciò che l'altre non vi entrassono liberamente, e pure io sola era cacciata. Allora ritornai a me medesima e pensai che ciò m'intervenisse per li molti e gravi peccati miei, sì che mi piegai il petto con le mani, e spandeo amarissime lagrime e cominciai a sospirare gravemente adentro; e, ponendo mente, sì vi vidi la 'magine de la beata Vergine Maria. E incomincia'la a pregare con molte lagrime ch'ella m'accattasse grazia del perdonamento de' miei peccati e che mi lasciasse entrare dentro per adorare la santa Croce, promettendo io di rinunziare al secolo e di permanere da indi innanzi in castitade. Ed abbiendo me pregato ciò, prendendo fidanza al nome de la Vergine Maria, andai un'altra volta a le reggi de la chiesa, e sanza ogni impedimento entrai ne la chiesa. E poi ch'ebbi adorata divotissimamente la santa Croce, una sì mi diede tre danari; laonde io comperai tre pani, e udii una voce che mi disse: "Se tu valicherai il fiume Giordano, tu sarai salva". E così il valicai io e venni in questo diserto, nel quale sono stata XLVII anni sanza veduta di veruno uomo; e quelli pani ch'io avea comperati per li temporali, indurarono come pietra e bastaronmi XLVII anni mangiando di quelli pani e d'erbe; le vestimenta mia già è buono tempo furono tutte macere; XVII anni sono stata molestata da le tentazioni de la carne in questo diserto, ma ora, per la grazia di Dio, ne sono dilibera. E ecco che t'abbo detto tutte le mie opere, priegoti che tu facci priego al Segnore per me". Allora il vecchio si gittò in terra e benedisse Iddio ne la servigiale sua. E quella disse: "Io ti priego per Dio, che tu il die de la cena Domini torni a me al fiume Giordano, e reca teco il corpo del Signore; e io ti verrò làe incontro e riceverollo de la tua mano, ché dal die in qua ch'io ci venni, non presi il corpo di Cristo. Sì che tornando il vecchio al monisterio, rivolto l'anno, in quello die de la cena, tolse il corpo di Cristo e, vegnendo infino a la riva del fiume Giordano, e' puose mente ed ebbela veduta stare da l'altra parte del fiume. E quella sì fece il segno de la Croce e andò sopra l'acqua tanto che fu giunta al vecchio. E elli vedendo ciò, stupedìo tutto e gittossi umilemente a' piedi suoi. Al quale ella disse: "Guarda non fare, con ciò sia cosa tu abbi teco i sacramenti di Cristo e la dignità del pretatico, ma ripriegoti che 'l seguente anno ritorni a me, padre". Allora ella, fatto il segno de la Croce, e passòe sopra l'acqua del fiume Giordano e ritornò ne la solitudine del diserto; e 'l vecchio tornòe al monisterio. Il seguente anno rivenne al luogo là dove l'avea prima parlato e trovò ch'era morta in quello luogo. E quegli cominciò a piagnere, né non fu ardito di toccarla, e disse fra se stesso: "Io per certo volea soppellire il corpo de la santa, ma io abbo temenza che ciò non le dispiaccia". E pensando lui di queste cose puose mente e viddele scritto a capo, in terra, che diceva così: "Seppellisci tu, Zosima, il corpicello di Maria, rendi la polvere sua a la terra, e priega Iddio per me, per lo cui comandamento cotale die del mese d'aprile lasciai questo mondo". Allora il vecchio seppe per certo ch'ella appena ebbe preso il corpo di Cristo e fu tornata al diserto, sì finìo la vita sua; e quello diserto che Zosima andòe appena in XXX dì, ella andòe in una ora e passò a Dio. Sì che cavando il vecchio la terra e non potendo, vide uno leone venire a sé mansuetissimamente, e disse a lui il vecchio: "Questa santa donna sì ha comandato di seppellire il corpo suo e io, perché sono vecchio, non posso bene cavare, né non abbo ferro acconcio a ciò, ma tu cava la terra, acciò ch'io possa seppellire il corpo suo santissimo". Allora il leone cominciò a cavare e apparecchiò la fossa acconcia. E fatto ciò il leone si partìo com'uno agnello mansueto e 'l vecchio ritornò poi al monisterio suo, dando gloria a Dio di sì fatta santa.
cap. 55, S. AmbrogioAmbrosio, figliuolo d'Ambrosino prefetto di Roma, stando ne la culla in sala del palagio e dormendo, subitamente venne uno sciame d'ape e copersongli la bocca e la faccia in tal modo come s'elle entrassono nell'arnie loro e uscissono insieme. Le quali api poscia si levarono in tanta altezza de l'aria, che non si potevano vedere con occhi d'uomo. La quale cosa, essendo così fatta, il padre spaventato disse così: "Se questo fanciullo avrà a vivere, grande fatto sarà poscia". Quando venne crescendo e vedea la madre e la serocchia, santa vergine, basciare la mano a' preti, per giuoco porgea la mano a la serocchia e dicea: "E conviene che tu mi basci la mano"; e quella, non sappiendo quello che dovea intervenire, sì dicea si rifiutava di fare. Ammaestrato dunque a Roma di lettera, con ciò fosse cosa ch'elli andasse bene per mano le cagioni del pretore, fu mandato da Valentiniano imperadore a reggere le provincie di Liguria e d'Emilia e, sendo venuto a Melano e non avendovi vescovo, raunossi il popolo a provvedersi di vescovo. Ma nascendovi uno grande romore tra li ariani e i cattolici del chiamare il vescovo, andò là Ambrosio per pacificare quella discordia, e incontanente sonòe una boce di fanciullo e disse: "Ambrosio vescovo"; nel quale tutti ad uno animo acconsentirono gridando: "Ambrosio vescovo". La quale cosa quelli conoscendo, per rimuoverli da sé con paure, uscendo de la chiesa, salìo in sedia e, contra sua usanza, comandò che fosse fatto tormenti a le persone. E faccendo ciò, il popolo neente di meno gridava: "Il peccato tuo sia sopra noi". Allora quegli adirato tornò a casa e volsesi conventare in filosofia. La quale cosa, acciò che non lo facesse, fu richiamato. Allora fece entrare a sé palesemente le meritrici, acciò che, veduto questo, si ritraesse il popolo dal suo eleggere; ma non giovando a questo nulla e sempre il popolo gridando: "Il peccato tuo sia sopra noi", entro la mezzanotte si misse a fuggire e, pensandosi d'andare a Como, la mattina fu trovato innanzi a la porta di Melano, la quale si chiama Romana. Il quale così trovato, essendo guardato dal popolo, fu mandata ambasciata a lo imperadore Valentiniano; il quale con grande allegrezza ricevette che i giudici, i quali erano mandati a sé, fossero domandati per sacerdoti. Rallegrossi anche Probo prefetto, di ciò che la parola sua la quale avea detta, era adempiuta; però ch'egli gli avea detto quando andava dandogli le comandamenta: "Va e fa non come giudice, ma come vescovo". Ancora fra questo rapportamento che si facea a lo 'mperadore, sì si nascose un'altra volta; sì che trovato ancora, con ciò fosse cosa che non fosse ancora battezzato, fu battezzato e in capo de gli otto dì fu messo in sedia vescovile. E dopo quattro anni essendo venuto a Roma, la sua serocchia vergine consegrata basciando la mano a lui, elli sorrise e disse: "Ecco com'io diceva che tu basci la mano al prete". Essendo andato in una città per ordinare alcuno vescovo, contrastando a la sua elezione la imperadrice Giustina e li altri eretici, perché volieno alcuno di loro setta fosse ordinato; avvenne che una de le vergini de li ariani Paterini, la più svergognata de l'altre, salìo su ad alti e prese santo Ambrosio per lo vestimento, vogliendolo tirare dal lato de le donne, acciò che, battuto da esse con ingiuria, fosse cacciato fuori de la chiesa. A la quale disse Ambrosio; "Perch'io non sia; degno d'essere sì grande sacerdote, a te pure non si conviene di mettere mano contra a qualunque prete sia, onde dovresti temere il giudicio di Dio, che non te ne intervenisse alcuna cosa". Il quale detto sì confermò per fatto; ché l'altro dì la portò morta infino al sepolcro rendendole grazia per vergogna che avea ricevuto da lei. La quale cose misse grande paura a tutti. Dopo questo tornò a Melano e sostenne molti agguati da la imperadrice Justina; la quale, con donamenti e con oro, commovea i popoli contra di lui. Con ciò dunque fosse cosa che molti intendessero a mandarlo a' confini, uno di loro più disavventurato de li altri, si mosse in tanto furore che tolse a pigione una casa lungo la chiesa; per questa cagione: acciò che, tenendovi apparecchiato uno carro, procurando ciò Giustina e comandando, più leggieremente il pigliassero e mandassero a' confini. Ma per giudicio di Dio in quello die che quelli il si credea pigliare, di quella casa fu cacciato fuori e mandato a' confini in quello carro medesimo. Al quale santo Ambrosio, rendendo bene per male, sì fece dare le spese e l'altre necessitadi. Il canto e l'ufficio ordina che si facesse ne la chiesa di Melano. Erano a quello tempo indemoniati che gridavano a grandi boci d'essere tormentati da santo Ambrosio; e la 'mperadrice Justina, abitando con li ariani, dicea: "Ambrosio corrompe gli uomini per pecunia ched elli si confessino indemoniati e tormentati da lui". Allora subitamente uno di quelli ariani, che erano ivi presente, preso fu dal demonio e gittossi nel pozzo di loro e diceva: "Voglia Dio che così siano tormentati, come sono io, quelli che non credono ad Ambruosio!" E coloro, vergognatisi di ciò, pigliarono quello indemoniato e gittarollo entro in uno pelago e fecerlovi affogare entro. Uno paterino molto agro disputatore, duro e da non potere convertire a la fede, udendo predicare santo Ambruosio, sì li vidde a l'orecchie uno angelo che li diceva le parole, le quali e' predicava al popolo. La quale cosa quando ebbe così veduto; la fede la quale perseguitava, cominciò a difendere. Uno indovino chiamava le demonia e mandavali a fare nocimento a santo Ambrosio; ma le demonia ritornavano a lui e dicevano che non che a lui, ma pure a le porte de la casa sua non si poteano appressare; però che un fuoco da non potere essere soperchiato armava tutto quello abituro, intanto che quelli che ne fossero di lungi ardea. E detti indovini, essendo tormentati dal giudice d'alcuno malificio, gridavano che da Ambrosio erano tormentati. Uno indemoniato entrando in Melano, il demonio il lasciò e uscendone il riprese. Dimandato di ciò il demonio sì rispuose che avea avuto paura d'Ambruosio, ma santo Ambruosio udendo gridare le demonia che fossero tormentate da lui, sì diceva che per li loro malefici erano tormentati. Uno, corrotto de la reina per prezzo, entrò una notte ne la camera del santo per ucciderlo, e levando il colpo del coltello per darli, incontanente gli si seccò la mano. Una volta che gli uomini de la città di Tessalonica aveano fallato alcuna cosa contro lo imperadore, lo 'mperadore perdonò loro per gli prieghi di santo Ambruosio. Adoperando celatamente la malizia di quelli de la corte per promissione de lo imperadore, non sappiendo ciò santo Ambrosio, molti di quella città furono morti. La qualcosa quando santo Ambruosio ebbe ispiata, vietòe a lo 'mperadore l'entrare de la chiesa. Al quale dicendo lo 'mperadore che David avea commesso l'avolterio e 'l micidio, el santo rispuose: "Tu che hai seguitato l'errante, or seguita il correggente". La quale parola quando lo 'mperadore ebbe intesa, sì l'ebbe sì per bene che non contese di fare palese penitenzia. Uno indemoniato gridando ch'era tormentato da Ambruosio, disse a lui il santo: "Sta mutolo, diavolo, però che non ti tormenta Ambrosio, ma la invidia tua; però che tu vedi montare gli uomini là ove, onde tu cadesti sozzamente; ma Ambrosio non sa gonfiarsi". E quegli incontanente ammutolò quello indemoniato. Una volta che santo Ambruosio andava per la città, uno si cadde un grande stoscio, e giacevasi colà in terra; un altro, veggendo costui, rise. Al quale disse santo Ambruosio: "E tu che stai guarda che tu non caggi". Detto ciò, incontanente si dolette de la sua propia caduta quelli che avea riso de l'altrui caduta. Anche una volta che santo Ambrosio andò al palagio di Macedonio, mastro de li ufficii, a pregarlo per alcuna persona, ma non potendovi entrare, sì disse: "E tu verrai a la chiesa e, stando le porte aperte, non vi potrai entrare". Passato alcuno tempo Macedonio, temendo i nemici, fuggìo a la chiesa e, fuggendo a la chiesa e stando le porte aperte, non poté rinvenire l'entrata. Or fue di tant'astinenza ch'ogni die, fuori che 'l sabato e la Domenica e certe feste, e' digiunava. Fue ancora di tanta largitade e cortesia che ogne cosa dava a' poveri, né non si riserbava nulla. Fue di tanta compassione che quando alcuno si confessava da lui del suo cadimento, sì piagnea il santo sì amaramente che costrignea altressì di piagnere lui. Di tanta umilitade e fatica fue che i libri, i quali dittava elli stesso, con la sua mano scrivea se non fosse già infermo. Di tanta pietade e dolcezza era che, quando gli era nunziata la morte d'alcuno prete, ovvero vescovo, piagnea sì amarissimamente che appena si poteva racconsolare. E quando era domandato perché piangesse così i santi uomini che andavano a la gloria, sì disse: "Non pensate voi ch'io pianga perché si partano, ma perché e' m'entrano innanzi e perché si truovano malagevolemente chi sia degno di così grande officio". Di tanta fermezza e fortezza era che i vizi de lo 'mperadore, ovvero di baroni, non palpitava, ma con libera boce li riprendea tutti costantissimamente. Una volta abbiendo commesso alcuna persona alcuno vizio, essendo menato dinanzi da lui, disse santo Ambruogio: "E' conviene che sia dato al diavolo a morte corporale". In quello punto, abbiendo le parole in bocca ancora, lo spirito maligno lo 'ncominciò a sterpellare. Una volta, come dicono alcuni, andando lui a Roma, essendo albergato in una villa di Toscana a casa d'uno uomo ricchissimo molto, sì lo domandò sollicitamente de lo stato suo, e l'uomo disse: "Lo stato mio, signore mio, è stato bene avventurato sempre e glorioso: ecco ch'io abbo abbondanza di ricchezze sanza fine, con molti servi e bella e grande gente di figliuoli e di nepoti, e tutte cose abbo sempre avute a mio volere, né non sentii giammai che fosse tristizia". Udendo ciò, il santo maravigliossi fortemente e disse a' compagni suoi: "Levate su, levate su e fuggiamo quinci, però che 'l Signore non è in questo luogo. Affrettatevi, figliuoli, affrettatevi, figliuoli, e non fate dimoranza neuna in fuggire, acciò che non ci colga qui la vendetta di Dio e involgaci insieme co' peccati di costoro". Sì che, fuggendo costoro ed essendo andati un poco oltre, subitamente s'aperse la terra e inghiottìo quell'uomo con tutti i suoi beni che s'appartenevano a lui, in tale maniera che segnale veruno non ne rimase. La qualcosa veggendo santo Ambruogio, sì disse: "Ecco, frati miei, come misericordievolemente Dio perdona quando elli affligge l'uomo in questa vita, e come aspramente s'adira quando dà le cose prosperevoli. Ma nel detto luogo rimase una profondissima fossa, la quale, infino al dì d'oggi, sta per testimonianza di questo fatto. E veggendo santo Ambruosio la radice di tutt'i mali, cioè l'avarizia, crescere in tutti, e massimamente in coloro ch'erano ordinati in segnorie, ch'ogni uomo rivendeano, e anche in coloro che erano ordinati ne i santi uffici, incominciò fortemente a piangere, e pregò Domenedio molto ferventemente che lo traesse di questo mondo. La quale cosa quando ebbe impetrata da Dio, rallegrossi, e manifestollo a' suoi frati che starebbe con loro infino a Risurresso. E pochi dì di prima che si ponesse a giacere, abbiendo dettato col notaio suo il quarantesimo quarto salmo e cominciato a l'altro, subitamente veggendo il detto notaio uno piccolo fuoco a modo d'uno scudo, coperse il capo suo; e a poco insieme gli entròe per la bocca, come abitatore in sua casa. Allora la faccia sua sì si fece come neve, ma poi tornò a lo stato suo. In quello die fece la fine al dittare e a lo scrivere, né non potéo compiere quello salmo e da ivi a pochi dì infermòe. Allora il conte d'Italia essendo a Melano, fecesi venire tutti i nobili uomini dicendo che, se cotale uomo andasse di questo mondo, sarebbe pericolo di morte tutta Italia; sì che gli pregò ch'andassero a visitarlo e a pregarlo ch'egli s'accattasse da Domenedio spazio d'uno anno di vita. La quale cosa quando quegli ebbe udito da loro, sì disse: "Non sono sì vivuto tra voi ch'io mi vergogni di vivere, né non ho paura di morire abbiendo noi buono signore". In quello tempo trattavano quattro suoi diaconi tra loro che fosse buono dopo la morte di costui. Ed essendo molto di lungi da lui e abbiendo nominato così chetamente Simpliciano, sì che appena si poteano udire tra loro, elli, posto di lungi da loro, gridòe tre volte: "È vecchio, ma è buono". Coloro udendo ciò, spaventati fuggirono, e poscia lo elessero; nel luogo dove giaceva, vide venirgli incontro Gesù e sorridergli con sguardo lieto. Onorato vescovo di Vercelle, aspettando il passamento di santo Ambruogio, sì li venne un sonno e udì una boce la quale gli disse tre volte: "Leva su, che ora si dee passare". Quegli si levò e venne ratto a Melano e diedegli il Sacramento del corpo di Cristo e, incontanente che l'ebbe preso, distese le mani in modo di croce e fra le parole de l'orazione, mandò fuori lo spirito. Fu al tempo de gli anni Domini CCCXCVII. Ed essendo la notte de la Pasqua portato il corpo suo a la chiesa, molti garzoncelli battezzati diceano che lo vedevano, sì che altri il mostravano a' parenti loro che sedea in su la sedia, altri che saliva e mostravalo a dito, altri dicevano che aveano veduto una stella sopra il corpo suo. Un prete, stando in convito con molti altri e dicendo male di santo Ambrogio, incontanente gli venne piaga addosso, sì che del convito fu portato al letto e finì la vita sua. Ne la città di Cartagine, istando in convito insieme tre vescovi e l'uno di loro abbominando santo Ambruosio, fu detto quello che era intervenuto al prete che avea fatto il simigliante. Quegli faccendosene beffe, incontanente gli venne una piaga mortale, e compiéo il sezzaio dì. Per queste cose che dette sono e per molte altre, è lodevole questo santo in molte cose: e prima in cortesia, per ciò che tutto ciò che avea sì era de' poveri; onde dice e si dice di lui, ed è scritto entro el decreto Convenior nel XXIII capitolo ne l'ottava quistione - che a lo 'mperadore Liosbe che li domandava la chiesa maggiore, rispuose in questo modo: "Se mi domandasse il sindaco mio o l'oro mio o cotale mia cosa, non resistere' avvegna che ciò ch'è mio, sì è de li poveri". Nel secondo luogo è lodevole in purità di mondizia, però che vergine fue. Onde san Geronimo racconta ched elli disse: "La verginità non solamente offeriamo, ma conserviamo". Nel terzo luogo è lodato da fermezza di fede; onde quando lo 'mperadore gli domandava la chiesa, disse così, - ed è scritto in quello capitolo del decreto, che detto è di sopra: "Imprima è che tu mi tolghi l'anima che la fede". Nel quarto luogo è lodato da disiderio di martirio; onde si legge ne la Pistola sua De la chiesa che non fosse da dare, che 'l proposto di Valentiniano mandò, così dicendo, a santo Ambruosio: "Se tu spregi Valentiniano, io ti tolgo il capo". Al quale rispose santo Ambruosio: "Dio ti lasci fare quello che tu mi minacci, e Dio il voglia ched egli si muova da la chiesa, e convertiscano in me le loro lance e tolgansi la sete nel sangue mio". Nel quinto luogo è lodato da perseveranza d'orazione; onde di lui si dice ne l'undecimo libro de la Storia Ecclesiastica che: "Ambruogio contro il furore de la reina non si difendea con mano o con lancia, ma con digiuni e continovate vigilie, stando sotto l'altare per orazioni apparecchiava a Dio per suo difensore e de la Chiesa". Nel sesto luogo è lodato da spandimento di lagrime; però ch'elli ebbe tre maniere di lagrime: cioè lagrime di consolazione per l'altrui colpe; onde dice di lui Paulino ne la leggenda, che quando alcuno gli confessava il cadimento in peccato, piagnea sì amarissimamente che costrignea simigliantemente a piagnere la persona. Anche ebbe lagrime di divozione per li eternali disiderii; onde come detto è disopra, essendo domandato perché piagnesse così i santi uomini che morivano, e quelli rispuose: "Non crediate voi che io pianga perch'ellino se ne sono andati, ma perché mi sono entrati innanzi a la gloria". Anche ebbe lagrime di compassione per le ingiurie altrui; onde elli dice di sé, e ciò è scritto nel capitolo che detto è disopra del decreto: "Incontra i cavalieri barbereschi le lagrime mie sono l'arme mie, cotali sono l'armadure del prete, altrementi non posso né debbo contrastare". Nel settimo luogo è lodato da forte costanzia, la quale appare massimamente in tre cose. La prima si è nel difendere la veritade de la fede cattolica; onde si legge ne l'undecimo libro de la Storia Ecclesiastica che Justina madre di Valenziano imperadore, la quale era balia e favoratrice de la resia d'Ario, sì cominciò a conturbare lo stato de la Chiesa e a minacciare i preti di cacciarli e di sbandirli, se non rivocassero i decreti del concilio ariano con la quale battaglia stimolava molto il muro e la torre fortissima de la Chiesa, ciò era santo Ambruosio. Sì come nel suo profazio così canta la Chiesa di lui: "Di tanta virtù, di costanzia tu, Domenedio, conformasti Ambrosio, di tanto dono da cielo l'abbellisti, che per lui erano tormentate le demonia cacciandole de le corpora umane, e la empiezza de li ariani da lungi scacciata venìa meno, e li colli de' Signori mondani al tuo giogo sottomessi facea stare umili. Nel secondo luogo si mostra la sua costanzia nel difendere la libertà de la Chiesa; onde volendoli lo 'mperadore torre la chiesa, sì si misse ad andare contra lo 'mperadore santo Ambruogio, come dice nel dicreto disopra trentesimo terzo, questione ottava, là ove dice: "Io sono richesto da' conti, che tostamente debbia dare la chiesa, dicendo elli che lo 'mperadore ha comandato che debbia essere data per sua ragione". A i quali esso disse: "Sed elli domanda alcuna mia cosa, assalitemi; se domanda il corpo, io vi verrò incontro; se voi mi volete mettere in pregione, fatelo; se mi volete uccidere, volontà io n'abbo. No m'attornierò di moltitudine di popoli, né non mi terrò a li altari pregandovi de la vita, ma per li altari accettevolemente sarò sacrificato. Ecci comandato di dare la chiesa, sianne costretti per comandamenti reali, ma noi siamo confermati per le parole de la Scrittura, la quale dice: "Come una de le matte femmine hai parlato, non ti gravare, imperadore, che tu pensi d'avere alcuna ragione d'imperio in quelle cose che di Dio sono. A lo 'mperadore si pertengono i palagi, a i preti le chiese. Santo Naboth difese le ragioni sue col suo propio corpo: se dunque quegli non diede la vigna sua, daremo noi la chiesa di Cristo? S'è tributo di Cesare, non li sia negato; s'è chiesa di Dio, e' non sia donata a lo 'mperadore. Se del mio mi fosse domandato alcuna cosa, o campo, o casa, od oro, od argento, cioè che fosse di mia ragione, volentieri darei, ma nel tempio di Dio neuna cosa posso dare né torre, con ciò sia cosa ch'io l'abbia ricevuto a guardia, non per dare". Nel terzo luogo si mostra la sua costanzia in riprendere li vizii; onde si legge ne la Storia Tripertita ed in una cronica che, levatosi un romore ne la città di Tessalonica, furono lapidati alcuni giudici; laonde Teodosio imperadore, abbiendo indegnamento di ciò, comandò che tutti fossono morti, non divisando i non colpevoli da' colpevoli, là ove furono morti presso che cinque migliaia d'uomini. Vegnendo dunque lo 'mperadore a Melano, e volendo entrare ne la chiesa, santo Ambruosio gli si parò dinanzi a la porta e vietolli l'entrare così dicendo: "Perché tu, imperadore, dopo la cagione di cotanto furore non conosci la gravezza de la tua presunzione? ma per la ventura, la potenzia de lo 'mperio vieta il riconoscere del peccato? a te si confà che la ragione vinca la potenzia, prencipe se' o tu imperadore, ma de' conservi. Con che occhi dunque vedrai il tempio del comunale segnore, con che piedi scalpiterai lo smalto santo, come stenderai tu le mani a Dio, le quali gocciolano ancora sangue non giusto, con che presunzione riceverai tu con la bocca tua il beveraggio del sangue di Cristo, quando per lo furore de le tue parole è sparto cotanto sangue sanza ragione? Partiti dunque, partiti, e non ti sforzare d'accrescere al secondo peccato la malvagità di prima; ricevi il legame di che il Signore t'ha ora legato; ecco la grande medicina di santade". Con queste parole lo 'mperadore ubbidente piagnendo e lagrimando, ritornò a le reali magioni. Essendo dunque stato molto in pianto, Ruffino maestro de' cavalieri richiese quale era la cagione di sì grande pianto e tristizia. E quelli rispuose: "Tu sì non senti li miei mali, ché a li schiavi e a mendichi stanno aperte le chiese e a me stanno chiuse". E ciò dicendo ad ogne parola dava singhiozzi di pianto. Al quale disse Ruffino: "Io me ne vo ratto, se tu vuogli, ad Ambruogio, acciò che sciolga del legame laonde elli t'hae legato". E quegli rispuose: "Tu non lo potrai tanto lusingare, però che non teme la imperiale potenza per potere travalicare la divina legge". Ma promettendo quegli di pure piegarlo, comandogli che andasse, ed egli gli tenne un poco dietro. Sì tosto come santo Ambruogio vidde Ruffino, sì li disse: "Di svergognato cane se' seguitatore, o Ruffino, essendo, ciò dico, facitore di cotanta mortalità, ora scoprendoti la vergogna del volto, non ti vergogni d'abbaiare contra la maestà divina, cioè Cristo?" Ed abbiendo Ruffino pregato pe' lo 'mperadore, e dicendo: "Eccolo che mi viene dietro", infiammato di supernale zelo santo Ambruogio sì disse: "Io ti dico dinanzi che io gli vieterabbo l'entrare de la Chiesa, ma se vuole mutare la sua signoria in crudelezza, io sono per ricevere volentieri la morte". La qualcosa quando Ruffino ebbe raccontato a lo 'mperadore, sì disse: "Io andrò a lui per ricevere ragionevoli villanie ne la mia faccia". Ed essendo venuto, e domandato che fossero sciolti li suoi legami, faccendolisi incontro santo Ambruosio, sì li vietò l'entrata e disseli: "Che pentimento hai tu mostrato dopo cotante iniquitadi?" E quelli disse: "A te sia d'imporre, a me d'ubbidire". Con ciò dunque fosse cosa che lo imperadore allegasse come David avea commesso l'avolterio e 'l micidio, disse santo Ambruosio: "Tu che hai seguitato l'errante, or seguita l'ammendante". La quale parola sì accettevolemente ricevette lo 'mperadore, che non disdisse di fare palese penitenzia. Con ciò dunque cosa che esso riconciliato fosse entrato ne la chiesa e stesse dentro a cancelli, sì lo richiese santo Ambruogio quello che facesse ivi. E quelli dicendo ch'aspettava di ricevere li santi misterii, santo Ambruogio disse: "O imperadore, i luoghi dentro sono donati pure a' preti, esci dunque fuori di quinci, e voglio che tu aspetti questo comunemente con gli altri, ché la porpore che fa imperadori non fa preti". Al quale lo 'mperadore incontanente ubbidette. Ed essendo ritornati in Costantinopoli e stando fuori de' cancelli, il vescovo gli comandò ch'elli entrasse dentro, e quelli disse: "A grande pena ho potuto apprendere che differenza abbia da imperadore a prete, a grande pena ho trovato maestro di verità, se non Ambruogio da essere chiamato esso solo Pontefice". Ne lo ottavo capitolo in sagra dottrina hae alta profonditade. Geronimo de' XII dottori: "Ambruosio sopra le profondissime cose de' profondi rapito è uccello d'aere, quanto più entra in profondo, pare che rapisca frutto da alto, cioè ferma stabilitade". Dice san Geronimo nel detto luogo di lui: "Sono tutte le sentenze de la fede e de la Chiesa, eziandio di tutte le virtudi sono le sue ferme colonne che abbelliscono e fanno onesto". Dice santo Agostino nel libro de le Nozze e Contratti: "Pelagio, vescovo de' Paterini loda così santo Ambruosio e dice: "Il beato Ambruosio vescovo, ne li cui libri ispezialmente riluce la fede de la chiesa di Roma, il quale fra li scrittori latini risplendette com'uno fiore". E dice poi santo Agostino: "La cui fede e 'l purissimo senso ne le Scritture non è veruno nemico ardito di riprendere". Di grande autoritade fra li antichi dottori, sì come santo Agostino tenea le sue parole per grande autoritade. Onde racconta Agostino ad Januario che, maravigliandosi la madre sua di ciò che a Melano non si digiunava il sabato, e dimandando Agostino santo Ambruogio perché ciò fosse, e quelli disse e rispuose: "Quand'io vegno a Roma, sì digiuno il sabato; e così fa tu; a qualunque chiesa tu andrai, tieni e' costumi di quella, se tu non vuogli dare scandalo altrui, né altri a te". E sottopone Agostino a queste parole e dice: "Io pensando spesse volte di questa sentenza, per tale io l'abbo sempre, come se io l'avessi avuta per miracolo di Dio dimostrato". La vita e la passione di santo Tiburtino e san Valeriano si contiene ne la leggenda di santa Cicilia.
cap. 56, S. GiorgioLa su' leggenda si pone tra le scritture non autenticate nel concilio generale di Nicea in ciò che 'l suo martirio non abbiamo per certano raccontamento; ché nel calendario di Beda si dice che fu passionato in Persa ne la città di Diaspoli, la quale era prima chiamata Lidda, ed è presso a Gioppe. In altro luogo si legge che fu martirizzato sotto Diocleziano e Massimiano imperadori. In altro luogo si legge che fu martirizzato sotto Diocleziano imperadore di Persia, presenti iviritto LXXX re del suo imperio. Qui si pone sotto Daziano preside, essendo imperadori Diocleziano e Massimiano. Giorgio cavaliere de la gente di Cappadocia capitò una volta ne la provincia di Libia ne la città che si chiama Silena, appresso la quale avea uno lago a modo di mare, nel quale stava nascoso uno drago pestilenzioso; il quale lo popolo contra di lui drago armato mettea al fuggire e, vegnendo infino a le mura de la cittade, col suo fiato ogne persona maculava. Per la quale cosa i cittadini costretti, due pecore gli davano ogne die per acquestare il suo furore; altrementi per questo modo assaliva i muri de la cittade e maculava l'aere, laonde molti ne morivano. Con ciò dunque fosse cosa che le pecore venissono già quasi meno, massimamente perché grande abbondanza non aveano, fecero consiglio di dare una pecora con uno uomo. E mettendosi per sorte i figliuoli e le figliuole di tutti e non traendone persona né grande né piccolo, già erano poco meno che consumati e' figliuoli e le figliuole del popolo. Una volta vennero le sorte a la figliuola del re e fu giudicata che fosse data al dragone. Allora il re contristato disse: "Togliete oro e argento e la metà del reame mio, e lasciate la mia figliuola che non muoia per cotale maniera". E 'l popolo gli rispuose con furore e disse: "Tu, re, mettesti questo bando, e sono ora morti tutti i nostri fanciulli e tu vuogli campare la tua figliuola? Se tu non compierai ne la figliuola tua quello che tu ordinasti ne gli altri, noi metteremo a fuoco te e casa tua". Veggendo ciò il re, cominciò a piagnere la figliuola, così dicendo: "Oimè, figliuola mia, che farò io, o che dirò di te? che mai non debbo vedere le tue nozze?" E rivolgendosi al popolo, sì disse: "Io vi priego che voi mi diate indugio otto dì a potere piagnere la mia figliuola". Abbiendo assentito il popolo, in capo de gli otto dì ritornò con furore e disse: "Perché lasci morire il popolo tuo per la figliuola tua? Ecco che tutti noi moiamo del fiato del dragone". Allora il re veggendo che non potea liberare la figliuola, sì la vestìo di vestimenti reali e, abbracciandola con lagrime, sì disse: "Oimè, figliuola mia dolcissima, che mi credea nutrire di te figliuoli in palazzo reale e ora vai per essere divorata dal dragone! Oimè, figliuola mia dolcissima, io m'aspettava d'invitare i principi a le tue nozze ed ornare il palazzo di pietre preziose e d'udire organi e tamburi, e tu vai ora ad essere divorata dal dragone!" E così la basciòe e lasciolla andare, così dicendo: "Volesse lo Iddio ch'io fossi anzi morto che vivo, figliuola mia, innanzi ch'io t'avessi così perduta!" Allora quella si gittò a' piedi del padre chiedendoli la sua benedizione; e abbiendola il padre benedetta con lagrime, andonne al lago. E passando quindi santo Giorgio e vedendo questa fanciulla piagnere, sì la domandò quello ch'ella avesse; e quella disse: "O buono giovane, monta tosto in sul tuo cavallo, e fuggi sì che tu non muoia insieme con meco". A la quale disse san Giorgio: "Non temere, figliuola, ma dimmi quello che tu aspetti qui, al ragguardamento di tutto il popolo". E quella disse: "A me pare, o buono giovane, che tu sia di grande coraggio; ma perché hai tu voglia di morire meco? Fuggi tosto". A la quale disse san Giorgio: "Quinci non mi partirò io, mentre che tu non mi dimostri quello che tu hai". E abbiendoli quella detto tutto il fatto, disse san Giorgio: "Non avere paura, figliuola, che io t'aiuterò nel nome di Cristo". E quella: "Buono cavaliere, non volere perire meco! basta che io sola muoia, però che tu non mi potresti deliberare e meco potresti perire". Parlando costoro queste cose, eccoti venire il dragone e levò alto il capo fuori del lago. Allora la fanciulla intrementita, disse: "Fuggi, buono segnore, fuggi tosto". Allora san Giorgio montando in sul cavallo e armandosi col segno de la santa Croce, arditamente assalisce il dragone che venìa contra sé, e crollando fortemente la lancia e raccomandandosi a Domenedio, e' sì 'l fedio gravemente e cacciollo a terra e disse a la fanciulla: "Gitta la correggia tua in collo al dragone e non dubitare di nulla, figliuola mia". E abbiendo fatto ciò, sì la seguitava come fosse uno mansuetissimo catello. Sì che menandolo così per la città, la gente veggendo ciò, incominciò a fuggire su per li monti e sopra le grandi torri, e dicevano: "Guai a noi, ché tutti quanti morremo!" Allora san Giorgio accennò loro, così dicendo: "Non ne abbiate paura niuna, ché 'l Segnore però m'ha mandato a voi, acciò ch'io vi liberi de le pene del dragone; pure che voi crediate in Cristo e catuno di voi sia battezzato, sì ucciderabbo questo dragone". Allora fu battezzato il re e tutto il popolo, e santo Giorgio trasse fuori la spada e uccise il dragone e comandò che fosse portato fuori de la città. Allora quattro paia di buoi il menarono in uno grande campo fuori de la città; e battezzaronsi il quello die XX migliaia d'uomini sanza le femmine e senza i fanciulli, e il re in onore de la beata Maria e del beato Giorgio fece una chiesa di maravigliosa altezza e grandezza; e del suo altare esce una fontana viva, il cui beveraggio sana tutti gl'infermi, e 'l signore de la terra offerse molta pecunia a san Giorgio; la quale egli rifiutando di torre, comandòe che fosse data a' poveri. Allora san Giorgio di quattro cose brievemente ammaestròe il re, cioè ch'elli avesse istudio de le chiese di Dio e che onorasse li preti e che udisse diligentemente l'Ufficio divino e sempre si ricordasse de' poveri. E così basciato il re, si partìo quindi. Ma in alcuni libri si legge che, quando il dragone andava a divorare la donzella, san Giorgio s'armòe con la Croce e assalendo il dragone, sì lo uccise. In quello tempo, signoreggiando Diocleziano e Massimiano imperadori, ebbero tanta persecuzione i cristiani sotto Daziano preside che in uno mese ne furono coronati bene da martirio XVII migliaia; onde tra cotante maniere di tormenti molti di cristiani venivano meno, e sacrificavano a gli idoli. La quale cosa veggendo santo Giorgio, tocco dal dolore del cuore dentro, tutto ciò che avea diede a' poveri, e lasciò l'abito cavalleresco e vestissi l'abito de' cristiani e, gittandosi nel mezzo di loro, gridòe e disse: "Tutt'i domenedii de' pagani sono dimonia, ma il Segnore fece li cieli!" Al quale il preside adirato disse: "Con quale prosunzione ardisci tu di chiamare li nostri domenedii demonia? dicci donde tu se' e come è il tuo nome? "Al quale san Giorgio disse: "Io sono chiamato Giorgio, nato di nobile schiatta de la città di Cappadocia e con l'aiuto di Dio abbo vinta pestilenza, ma ogni cosa abbo abbandonato per servire a Dio del cielo". E non potendolo il preside inchinare a sé, comandò che fosse messo a la colla e da membro a membro isquarciare il suo corpo con unghiali di ferro, ponendo sopra tutto questo le faccelline accese a le sue costole e, aprendosi le fessure de le interiosa, comandò che col sale fossono stropicciate le sue piaghe. In quella medesima notte gli apparve il Segnore con grande lume e sì 'l confortòe in doppio modo; per la cui melata visione e parlare fue così confortato che per niente aveva li tormenti. Veggendo Daziano che con pene non lo poteva soperchiare, fecesi venire uno incantatore e sì li disse: "I cristiani con loro arti si fanno beffe di tormenti e hanno per nulla i sacrificii de' nostri iddei". Rispuose lo 'ncantatore: "S'io non potrò soperchiare l'arti sue, fammi tagliare il capo". Sì che misse mano a sue malie e chiamare nomora di suoi iddei, e poscia mischiò vino con veleno e porselo a bere a san Giorgio; contra 'l quale beveraggio il santo di Dio fece il segno de la Croce; e, bevuto che l'ebbe, non sentì male veruno. Ancora lo 'ncantatore mischiò più forte veleno che non fu il primaio, e l'uomo di Dio, fatto ch'ebbe il segno de la santa Croce, sanza veruno male lo si bevve. Vedendo ciò lo 'ncantatore, incontanente si gittò a' piedi suoi e con grande lamento chiese perdonanza e domandò d'essere fatto cristiano; lo quale a mano a mano il giudice lo fece dicollare. E 'l seguente die comandò che san Giorgio fosse posto in su la ruota attorniata intorno intorno di coltelli a due tagli; ma la ruota si spezzò immantanente e san Giorgio fu trovato ch'al postutto non avea avuto male veruno. Allora adirato Daziano comandò che fosse gittato dentro ad una caldaia piena di piombo colato; ed elli fece il segno de la Croce ed entrovvi dentro, ma per la virtù di Dio vi si cominciò a rallegrare come in uno bagno. Veggendo ciò Daziano pensò d'attrarrelo per lusinghe colui lo quale non potea soperchiare per minacce né con tormenti, e disse a lui: "Or vedi, Giorgio, figliuolo mio, di quanta mansuetudine sono li nostri dei che così pazientemente sostegnono d'essere biastemmiati e niente di meno sono apparecchiati a perdonarti se tu ti vuogli convertire. Fa dunque, diletto figliuolo mio, quello ch'io ti conforto, che tu lasci cotesta setta e sacrifichi a' nostri dei, acciò che tu accatti ancora da costoro e da noi grandi onori". Al quale san Giorgio sorridendo disse: "Di', or perché non mi confortasti tu così dal principio con lusinghevoli parole, anzi che con tormenti? ecco ch'io sono apparecchiato di fare quello onde tu mi conforti". Per questa impromessa beffato Daziano, sì si fece lieto e fece mettere bando che tutta la sua gente si dovesse ragunare per vedere Giorgio, che tanto avea combattuto, che ora a la perfine voleva credere e sacrificare. Sì che essendo ornata tutta la cittade per la letizia, dovendo san Giorgio entrare nel tempio per sacrificare ed essendo tutti presenti là molto allegri, con le ginocchia in terra pregò Domenedio che, a sua laude e acciò che 'l popolo si convertisse in tal guisa, n'abissasse il tempio con l'idole, che neuna cosa al postutto ne rimanesse. Immantanente discese il fuoco da cielo e arse il tempio con gli dei e co' preti loro, e aprendosi la terra tutto quello incendio tranghiottìo. Qui grida santo Ambrosio nel Prefazio e dice così: "Giorgio fedelissimo cavaliere di Cristo, coprendosi del nome del cristianesimo, solo in tra ' coltivatori di Cristo, confessò el figliuolo di Dio. Al quale la divina grazia concedette tanta fermezza di fede che dispregiava li comandamenti de' crudeli signori e non temea i tormenti de le pene sanza numero. O bene avventurato e glorioso combattitore di Dio, lo quale non solamente non fu ingannato per lusinghevole promessa di temporale regname, ma, disprezzato il perseguitatore, in abisso mandò le maravigliose cose di suoi idoli!" Insino qui parla santo Ambrosio. Udendo Daziano queste cose, sì si fece menare dinanzi san Giorgio e disse a lui: "O pessimo di tutti gli uomini, che malifici sono questi tuoi, che hai commesso sì grande peccato?" Al quale disse san Giorgio: "Non creder tu, re, che sia così, ma vieni meco e vedemi sacrificare un'altra volta". Al quale disse il re: "Io intendo lo 'nganno tuo, ché tu vuogli fare tranghiottire me come tu hai fatto il tempio e gli idoli miei". Al quale disse san Gregorio: "Dimmi tu, misero, gli dei tuoi li quali non poterono aiutare se medesimi, come aiuteranno te?" Adirato il re molto disse ad Alessandra, sua moglie: "Io vegno sì meno ch'io mi morrò, perch'io mi veggio soperchiato da questo uomo". E quella gli disse: "Crudele tiranno, or non ti diss'io più volte che tu non facessi noia a li cristiani, però che 'l Domenedio loro combattea per loro? Or sappi tu ch'io voglio essere fatta cristiana". Allora isbigottito lo imperadore e' disse: "Oimè dolente! or se' tu anche ingannata?" E fecela impiccare per li capelli e batterla duramente con coreggiati. La quale essendo così battuta, disse a san Giorgio: "O Giorgio, lume di veritade, dove pensi tu che io pervenga non essendo rinata ne l'acqua del battesimo?" A la quale disse san Giorgio: "Non dubitare, figliuola, ché 'l sangue tuo sparto ti sarà battesimo e corona". Allora quella facendo orazione a Dio, mandò fuori lo spirito. E 'l seguente dì ricevette san Giorgio una cotale sentenza, che fosse trascinato per tutta la città e poi gli fosse tagliata la testa. E fece orazione a Dio che qualunque persona adomandasse il suo aiuto, fosse esaudito ne la sua orazione; e venneli la notte da Dio una boce, e disseli che così sarà fatto, com'elli avea pregato. E compiuta l'orazione fugli tagliato il capo, ed ebbe compiuto il martirio sotto Diocleziano e Massimiano ne li anni Domini nel torno di CCLXXXVII. E ritornando Daziano di quello luogo dove san Giorgio era dicollato al palazzo, venne il fuoco di Dio da cielo, e consumollo con tutti i suoi sergenti. Racconta Gregorio Turonese che portando alcune persone alcune reliquie di san Giorgio, essendo albergati ad uno oratorio, la mattina quando si venìano a partire in neuno modo poterono muovere la cassa infino a tanto che non ve ne lasciarono alcuna particella di quelle reliquie.
cap. 57, S. MarcoMarco, evangelista de la schiatta di Levi e sacerdote, figliuolo spirituale di san Piero apostolo nel battesimo e suo discepolo ne la parola di Dio, con esso san Piero andò a Roma. E predicando là san Piero il Vangelo, pregarono i cristiani ch'erano a Roma, san Marco Vangelista che dovesse scrivere lo Vangelio a perpetuale memoria de' fedeli. Lo quale elli certamente, come ebbe da la bocca del maestro suo messere san Piero, sì scrisse con fedele materia; e 'l detto san Piero esaminando diligentemente il detto Vangelio, poi che l'ebbe veduto pieno di tutta veritade, sì l'approvò da ricevere da tutti quanti i fedeli cristiani. E veggendo san Piero san Marco fermo ne la fede, sì 'l mandò in Aquilea, ove predicando la parola di Dio, convertìo innumerabile gente a la fede di Cristo, e quivi simigliantemente scrisse il Vangelio suo, il quale Vangelio si mostra insino al die d'oggi ne la chiesa d'Aquilea e conservasi là entro con molta divozione. A la perfine san Marco menòe a Roma a san Piero uno cittadino d'Aquilea, chiamato Ermagora, lo quale elli avea convertito a la fede di Cristo, e fecelo consecrare vescovo d'Aquilea per le mani di san Piero. Sì che abbiendo questo Ermagora ricevuto l'officio del vescovado, poi ch'ebbe bene governato la chiesa d'Aquilea, a la perfine fue preso da li nemici e ricevette corona di martirio in quello luogo. E san Marco fue mandato da san Piero in Alessandra là ove fu di prima predicatore de la parola di Dio. E nel primo suo entrare (come dice Philo savissimo di parlare sopra tutti gli giuderi), sì si raunò grande moltitudine a fede e a divozione e a osservamento di castità, e Papia vescovo di Geropoli, dichiaròe per lucente materia le sue molto chiarite laudi. E Pietro Damiano dice così di lui: "Tanta grazia gli diede Domenedio in Alessandra che tutti quelli che veniano così rozzi a la fede, incontanente parea che volassero per castitade e perseveranza di tutta supernale conversazione a stato di perfezione monachile, al quale elli gli traeva, ora per operare miracoli, ora per predicare divine parole, e non solamente per questi modi, ma ancora per altri essempli di lui". E molte altre cose ne dice: "Ora intervenne poscia che ritornò in Italia, acciò che la terra la quale gli era stata data a scrivere lo Vangelio fosse degna di possedere le sue sante orliquie. Beata se' città d'Alessandra imporporata del vittorioso sangue di costui, e bene avventurata se' di costui, Italia, fatta ricca del tesoro del corpo suo!" Tanta umilità si dice ch'elli ebbe, che 'l dito grosso si tagliò per non potere per giudicio umano essere promovuto ad ordine sacerdotale. Ma la disposizione di Dio e l'autorità di san Piero ebbe più valore, ché il mandò in Alessandria per vescovo. E sì tosto come fue entrato in Alessandra subitamente il calzamento li su ruppe e sciolse; la qual cosa intendendo in ispirito, sì disse: "Veramente ha fatto il Segnore il mio viaggio ispedito, né 'l diavolo m'ha potuto impedimentire me, lo quale il Segnore ha di già prosciolto da l'opere morte". E veggendo san Marco uno che richiedea i calzari vecchi, diedeli a riconciare i suoi; e quelli faccendo ciò, sì si fedìo gravemente la mano manca, e incominciò a gridare fortemente: "Uno Dio". Udendo ciò san Marco disse: "Veramente ha fatto il Signore il mio viaggio prosperevole!". Allora fece un poco di loto con lo sputo e unsene la mano di colui, e incontanente riebbe sanitade. Veggendo quello uomo tanta efficacia in costui, sì li menò in casa e cominciò a sentire da lui chi e' fosse, e donde e' venisse. Allora san Marco confessò ch'egli era servo del nostro Signore Jesù Cristo; e quelli disse: "Io lo vorrei vedere". Disse san Marco: "E io lo ti mosterrò in questo luogo". E cominciò san Marco a predicarli Cristo e battezzollo con tutti quelli di casa sua. Udendo gli uomini di quella città che alcuno uomo di Galilea, il quale dispregiava i sacrifici de li dei, v'era venuto, sì li missero agguati. Conoscendo ciò il santo, sì ordinò quell'uomo ch'elli avea curato, il quale avea nome Aniano, vescovo di quella cittade, ed elli andòe in Pentapoli e, statovi due anni, ritornò anche in Alessandria e trovovvi i fedeli ch'erano moltiplicati. Ma i Pontefici de' tempi si sforzavano di prenderlo e, dicendo san Marco la Messa ne la solennità de la Pasqua, raunaronsi a lui e misserli una fune in collo e strascinavallo per la cittade, così dicendo: "Tiriamo il bufalo al luogo del bifolco". E le carni sue scorreano per la terra, e le pietre sì 'l bagnavano del suo sangue. Dopo queste cose fu messo in pregione e l'angelo di Dio lo venne a confortare, e ancora messere Jesù Cristo lo venne a visitare, e confortollo così dicendo: "Pace sia a te, Marco Vangelisto mio, non temere di nulla, però ch'io sono teco per liberarti". E la mattina vegnente li missero anche la fune in collo, e vannolo trascinando qua e là tutta via gridando: "Traete la bufola al luogo del bifolco". E mentre ch'elli era così strascinato, rendea grazie a Dio, e dicea: "Ne le mani tue, Signore mio, raccomando lo spirito mio". E dicendo queste parole mandò fuori lo spirito, intorno a gli anni Domini LVII sotto Nerone. E volendolo i pagani ardere, subitamente si turbòe l'aere, e venne la gragniuola e tuoni terribili e baleni con saette folgori, sì che ogni persona si brigava di scampare, e lasciarono iveritto il santo corpo, sanza essere tocco, ma li cristiani tolsero il corpo suo, soppellirollo ne la chiesa con tutta reverenzia. Or fue la forma del beato santo Marco in questa maniera: col naso lungo, con le ciglia in giù, con gli occhi belli, calva la testa, con barba lunga, di buona statura, di mezzana etade, con alquanti peli canuti, continente d'affetto e pieno de la grazia di Dio. Ne li anni Domini de la Incarnazione CCCCLXVIII li Viniziani, con gente armata, tolsero il corpo de la città d'Alessandria e traslatarolo a Vinegia, là dov'è fatta la chiesa meravigliosamente bella al suo nome. Ma alcuni mercatanti di Vinegia indussero con prieghi e con grande promessa, due petri in Alessandria, guardiani del corpo di san Marco, che lasciassero torre loro quello corpo e trasportarolo a Vinegia. Ma quando si traeva de l'avello, tanto odore scorse per tutta Alessandria che tutti si maravigliavano onde venisse tanta soavitade d'odore. E navicando loro e manifestando a' navicatori com'ellino portavano il corpo di san Marco, uno d'elli disse: "Forse vi portate il corpo d'alcuno d'Egitto che v'è stato, e credetevi portare il corpo di san Marco". Sì che immantanente la nave, là ove era il corpo di san Marco, si volse per se medesima maravigliosamente, e percosse tosto la nave ne la quale colui era, e ruppe parte del lato di quella nave non lasciandola mentre che quelli che dentro v'erano non gridarono tutti, confessando che quello era il corpo di san Marco. Una notte certe navi erano guidate per velocissimo [ms.: testrinissimo] corso. Li nocchieri, commossi da tempesta e involti in tenebre, non sapieno dove s'andare, sì che san Marco apparve a uno monaco guardiano del corpo suo, e sì li disse: "Di' a questi uomini che tosto pongano giù le vele, imperò che non sono molto lungi da terra". Le quali poste giù, fatta la mattina, sì si trovarono presso ad una isola. Ma passando loro per diverse riviere, e tenendo a tutti celato il santo tesoro, venìano gli abitanti di quelle contrade, e gridavano: "O come voi siete beati, i quali portate il corpo di santo Marco! Lasciatelo, e adorate umilemente!". Uno nocchiero ch'al postutto credea non fossero queste cose, fu preso dal demonio, e tanto tormentato infino a tanto ched elli fu menato al corpo del santo e confessò quello ch'era. E quando fu liberato diede gloria a Dio, e da indi innanzi ebbe grande divozione di san Marco. Intorno a gli anni Domini MCCXII a Pavia nel convento de' frati Predicatori fue un frate di religiosa e santa vita che avea nome Giuliano, natìo di Faenza, giovane del corpo, ma canuto de la mente, il quale essendo infermo in sul trabocchetto, e domandando il priore de la casa quello che li pareva di lui, e quelli dicendo com'elli era presso a la morte, e quegli immantanente rallegrato ne la faccia, lodando Domenedio con le mani e con tutto il cuore e col corpo, incominciò a gridare e a dire: "Date luogo, frati, poi che per la troppa abbondanza de la letizia uscirà tosto l'anima del corpo, di ciò ch'io abbo udite così allegre novelle". E levando le mani a cielo cominciò a dire: "Trai di carcere l'anima mia, acciò che lodi il nome tuo santo! Malagurato io uomo, chi mi camperà del corpo di questa morte?" Infra queste cose quelli addormentato d'un lieve sonno vidde san Marco venire a sé, e accostarlisi a lato al letto, ed eccoti una boce e disse a lui: "Che fa' tu costì, Marco?" E quelli rispuose: "Io sono venuto a costui che muore, però che 'l suo servigio è piaciuto a Dio". E anche parlò la boce a lui: "Perché se' tu tra li altri santi spezialmente venuto a lui?" E quelli rispuose: "Perch'elli hae avuto speziale divozione in me, e hae visitato per continova divozione il luogo dove il mio corpo si riposa, e però sono venuto a visitare lui ne l'ora de la sua morte". Ed eccoti venire alcuni vestiti a bianco, e riempierono tutta la casa. A' quali disse san Marco: "Perché ci sete voi venuti?" E coloro dissono: "Per rappresentare l'anima di costui nel cospetto di Dio". Isvegliato quello frate, mandò incontanente per lo priore dal quale io udì dire queste cose, e raccontandoli queste cose, come avea veduto in visione, con molta allegrezza, bene e venturatamente morìo in pace.
cap. 58, S. MarcellinoMarcellino governò la chiesa di Roma IX anni e IV mesi. Questi fu preso per comandamento di Diocleziano e di Massimiano, e fu menato a fare sacrificio a l'idole. E con ciò fosse cosa che elli non consentisse, dovendo di ciò sostenere molte maniere di tormenti, per la paura ch'ebbe de la passione, due granella d'incenso misse nel sacrificio. Allora fu la letizia grande de l'infedeli, ma i fedeli furono percossi da grande tristizia. Ma non pertanto che 'l capo fosse infermato, le più forte membra si rilevarono, e hanno per nulla le minaccie de li prencipi. Allora i fedeli sì si raunarono dal sommo Pontefice e ripreserlo duramente. Ma elli già pentuto pianse molto e dispuosesi del Papato; ma pertanto tutto la gente il richiamò un'altra volta. Udendo ciò l'imperadori sì 'l fecero pigliare un'altra volta e, non volendo sacrificare per veruno modo, comandarono che li fosse tagliato il capo; e intanto crebbe il furore de' nemici che in uno mese furono morti di XVII milia di cristiani. E dovendo Marcellino essere dicapitato, affermossi che non era degno d'essere messo in cimitero di cristiani, e per ciò scomunicò tutti coloro che fossero arditi di soppellirlo. Per la qualcosa il corpo suo rimase disotterrato XXXV dì. Dopo questo venne san Piero apostolo e apparve a Marcello, successore di san Marcellino, e sì li disse: "Frate Marcello, perché non mi seppillisci tu?" E quelli disse: "Or non fosti seppellito già è buono tempo?" "Messere, rispuose l'apostolo, io mi tegno disotterrato infino a tanto che io vedròe disotterrato Marcellino". Al quale quelli rispuose: "Non sai tu, Messere, ched elli scomunicò chiunque il seppellisse?" Rispuose san Piero: "Or non dice la Scrittura che chi s'aumilierà sarà esaltato? onde tu dovevi tenere mente a queste cose; va dunque e seppelliscile a' piedi miei". Quegli andò incontanente e adempié il comandamento.
cap. 59, S. VitaleLa sua passione si crede che fosse trovata nel libretto di san Gervasio e Protasio, che la dovéreno scrivere. Vitale cavaliere consolare ingeneròe di Valeria sua moglie, san Gervasio e Protasio. Entrato costui in Ravenna con Paulino giudice e veggendo ad uno cristiano medico, ch'era nel detto luogo, dopo molte maniere di tormenti, doverli, secondo il comandamento, essergli tagliata la testa, ed esso medico essendone molto sbigottito, gridòe a lui san Vitale, e sì li disse: "O frate Ursicino medico, il quale se' usato di medicare gli altri, non volere uccidere te medesimo de la eternale morte, e però che tu per molte passioni se' venuto a la vittoria, non volere perdere la corona che t'è apparecchiata da Domenedio". Udendo ciò Ursicino confortossi tutto quanto e, pentuto de la paura di prima, ricevette allegramente il martirio; e san Vitale il fece soppellire onoratamente. Dopo questo sprezzòe di venire a Paulino. Questi molto s'indegnò; sì che perché Vitale non volesse venire a lui, sì ancora perché si trasse a sé Ursicino, il quale volea sacrificare, sì ancora perché si mostrò d'essere cristiano, comandò che fosse levato a la colla. Al quale disse san Vitale: "Molto se' tu stolto se tu mi pensi d'ingannare, il quale mi sono studiato di liberare li altri". Disse Paulino a' santi suoi: "Menatelo a la palma e, se non vuole sacrificare, fatevi una fossa profondissima tanto che voi troviate l'acqua e ivi il sotterrate vivo col capo di sotto". Coloro il fecero, e sotterrarono san Vitale ivi così vivo, intorno a gli anni Domini LII, sotto Nerone. E 'l sacerdote de l'idoli, il quale avea dato questo consiglio, incontanente compreso dal dimonio, per sette dì impazzando, gridòe nel detto luogo e disse: "Tu m'incendi, san Vitale!" E in capo di VII dì fu traboccato dal dimonio entro il fiume, e così miserabilemente morìo. Tornando la moglie di san Vitale a Melano, trovò alquanti che facevano sacrificio a gl'idoli; i quali confortando lei che mangiasse di quello cotale sacrificio, ella rispuose: "Io sono cristiana, non m'è lecito di manicare di vostri sacrifici". Coloro udendo questo, sì crudelmente la batterono, che li uomini che erano con lei, insino a Melano la menarono tramortita, là ove, infra 'l terzo die, beatamente passòe di questa vita, e andò al Segnore.
cap. 60, Vergine d'AntiochiaUna Vergine fu in Antiochia, la cui storia racconta santo Ambrosio nel secondo libro de le Vergini, in questo modo: "In Antiochia fu una vergine novellamente, la quale fuggiva i palesi vedimenti de le persone; ma quanto più schifava gli occhi de gli uomini, tanto più incendea i villani sguardamenti. Ché la bellezza udita e non veduta è più desiderata per due stimoli di desideri, cioè d'amore e di conoscimento, mentre che neuna cosa occorre la quale meno piaccia, e più si pensa che sia quello che piaccia; quello che l'occhio di fuori dimostrativo non vede, l'occhio dentro va ispiando, ma l'animo amatore desidera. Adunque la santa Vergine di Dio, acciò che lungamente non si nutricassono gli uomini del mal uso per la speranza del disiderio, faccendo promissione d'osservare castitade, in tal modo ristrinse gli ardori de' cattivi, che già non era amata, ma tradita. Ecco la persecuzione. La fanciulla che non sapea fuggire, certamente paurosa, acciò che non cadesse a le mani di coloro che le ponevano agguati, apparecchiò a vertude l'animo de la castità, sì religiosamente che non temesse la morte, e sì castamente che non temeva la morte. Sì che venne il die d'avere la corona, il maggiore aspettamento di tutti; è menata fuori la fanciulla, la quale avea fatto promessione di doppia battaglia di castitade e di religione. Ma poi ch'ebbero veduto la fermezza de la promessione, apparecchiata a' tormenti per paura di non perdere la vergogna, vergognandosi a li sguardi, cominciarono a pensare in che modo le tollessero con la religione lo spirito de la castitade, e per torre quello ch'era più eziandio quello che avessono lasciato in lei tollendo da lei. E così le comandò che o ella sacrifichi, o ella sia messa al bordello. Come coltivano gli dei loro coloro che così fanno vendette, ovvero come vivono coloro che così vanno giudicando? [ms.: mendicando] Ma la fanciulla, non ch'ella dubitasse de la religione, ma perché temea de la vergogna, disse così: "Che faremo oggi?" Disse fra sé medesima: "O sarò martire, o sarò vergine, l'una di queste corone s'avrà. Ma non si conosce nome di vergine, là ove si riniega il fattore de la verginitade. Come puoi tu essere vergine se tu abiti con la meretrice? Come puoi essere vergine se tu ami l'avolterio? E come puoi essere vergine se tu domandi amore? Più è da sostenere d'avere la mente vergine, che la carne. Catuno è bene sollicito, ma se non è lecito, almeno ad uomo non siamo caste, ma a Dio. E Raab fu meretrice, ma poi che credette a Dio, sì trovò salute. E Giuditta s'adornòe per piacere a l'adoltero, e pertanto niuna la giudicava avoltera, perch'ella il facea per religione di fede, e non per mal amore. Bene ci cadde l'essemplo, ché se quella la quale si commisse a la religione e servòe la castitade e 'l paese, forse che noi servando la religione conserveremo la castitade? Che se Giuditta avesse soprapposta la castità a la religione, perduta che fosse la patria, anche averebbe perduta la castità. Adunque informata di cotali essempli, ritenendo insiememente ne l'animo le parole di Cristo le quali disse: "Chiunque perderà la vita sua per me, sì la troverrà" pianse e tacette, acciò che l'adultero non la udisse come parlante; e non elesse la 'ngiuria de la castità, ma ricusòe quella di Cristo, pensando quella che non può avolterare il corpo colei la quale non l'hae avolterato con la boce. Già per adrieto si vergognava l'anima mia e teme di dire l'ordine vituperoso de le cose fatte e di manifestarlo. Chiudete l'orecchie, vergini di Dio! Menata è la pulcella di Dio al mal luogo, ma aprite l'orecchie, vergini di Dio! La vergine può essere abbattuta in terra, ma non volterata. Dovunqu' è la vergine di Dio, è tempio di Dio, né non infamano i sozzi luoghi la castitade, ma anche la castità leva via la 'nfamia del luogo. Grand' è scorrimento d'uomini carnali a nutrimento. Apparate li miracoli de' martiri, o sante vergini! apparate i vocaboli de le luogora. È rinchiusa dentro la colomba, fanno strepito li sparvieri, combattono tutti di fuori quale debbia prima assalire la preda. E quella con le mani levate in cielo, come se fosse venuta al luogo d'orazione, non ad abitazione di lussuria, disse: "O Cristo, tu domasti a la Vergine fieri leoni, tu puoi domare le fiere menti de li uomini. A' Caldei crebbe il fuoco; a' Giudei stette l'acqua sospesa per la tua misericordia non per sua natura; Susanna s'inginocchiò al luogo del tormento ed ebbe la vittoria di quelli avolteroni; diventòe secca la mano ritta che corrompea li doni del tuo tempio; ora è malmenato esso tempio tuo, non sostenere il peccato del sacrilegio, che non hai patito il furto. Sia benedetto ed ora il nome tuo, ché com'io venni al luogo de l'avolterio, così mi parto vergine". Appena comunque ebbe compiuta la sua orazione ed eccoti apparire uno uomo in figura d'uno cavaliere molto terribile; or che paura ebbe la Vergine a la quale il popolo pauroso diede luogo! Ma ella, non dimentica de la lezione di Daniello profeta, disse: "Daniello venne a vedere il tormento di Susanna, e quella che tutto il popolo avea condannata a morte, uno fue quelli che la prosciolse. E così puote in questo abito di lupo essere dentro pecora. Cristo sì ha e' suoi cavalieri, il quale eziandio hae legioni; or forse che ci è entrato un percossente: non ne avere paura, anima mia, cotali persone sogliono fare martiri". O vergine, la fede tua t'ha fatta salva. A la quale disse il cavaliere: "Io ti priego, serocchia, non avere paura sopra ciò, sono venuto a salvare l'anima tua, non a torlati. Conserva me, acciò che tu medesima sia conservata, come adoltero ci sono entrato, se tu vuoli, io n'uscirabbo martire: mutiamo le vestimenta; convegnonsi a me le tue cose, e le mie a te, ma l'uno e l'altro si convengono a Cristo. Il tuo vestimento mi mostrerrà d'essere vero cavaliere, e 'l mio ti mosterrà vergine. Bene sarai vestita, io sarò meglio spogliato, acciò che il persecutore mi conosca. Prendi abito che nascondi femmina, dammi chi mi sagri per martire. Vestiti il mantello che tegna celate le membra de la vergine e conservi la vergogna, prendi la copertura che cuopra le trecce e nasconda le bocche; sogliansi vergognare coloro che sono entrati nel bordello. Ma intendi sanamente quando tu ne sarai uscita fuori, non ti tenere niente drieto, ricorditi de la moglie di Lotto, la quale perché ragguardò i non casti, avvegna che ragguardasse con casti occhi, sì perdette la natura sua; e non avere temenzia, acciò che non perisca nulla del sacrificio. Io per te rendo sacrificio a Dio, tu per me rendi cavaliere a Cristo; sia buona cavaliera di castità, la quale ha tale soldo che non venne mai meno; abbi la pazienza de la giustizia, la quale con ispirituale armadura ricuopra il corpo; abbi lo scudo de la fede con lo quale tu scacci la piaga; abbi il cappello de la salute. Ché ivi è l'aiuto de la nostra salute là ov'è Cristo; però che capo de la femmina è l'uomo, e capo de la vergine è Cristo". E fra queste parole si spogliò il mantello; ancora ne fu avuto, per sospetto e per adoltero, perseguitante. La vergine inchinòe il capo, e 'l cavaliere cominciò ad offerire lo mantello. Che borbanza è quella! che grazia, con ciò fosse cosa che nel bordello combattessero del martirio! Aggiugnasi le persone il cavaliere e la vergine. Costoro disimiglianti intra loro di natura, ma per la misericordia di Dio somiglianti, acciò che sia compiuta la profezia che disse: "Allora pasceranno insieme e' lupi e gli agnelli". Ecco l'agnella e 'l lupo, i quali non solamente pascono, ma eziandio sono sacrificati. Che perché ci mettiamo in più parole? Mutato l'abito, la fanciulla campa del lacciuolo, già non con le sue ale, come quella ch'era rapportata con l'ali ispirituali, e che mai veruno secolo lo vidde ed esce fuori del bordello la vergine di Cristo. Ma coloro che teneano gli occhi e non vedevano col cuore, fremevano come rapitori a l'agnella, come li lupi a la preda. Uno ch'era più isfrenato, entròe dentro e non costrinse gli occhi testimonii del fatto, e disse: "Questo ch'è? una fanciulla ci entròe e pare uno uomo! Ecco che non è favola quella parola: la Gerbia per la Vergine, ma che vero è cavaliere di vergine. E io l'avea udito e non creduto, che Cristo convertìo l'acqua in vino, già ha cominciato a mutare le nature. Partiamci quinci mentre che noi siamo quello che noi fummo. Or sono mutato io, che veggio altra cosa ch'io non credo? Io venni al bordello: veggio lo stadico di tutti, e per tanto n'uscirò mutato, casto ci uscirò, che c'entrai adoltero: per giudicio del fatto, però che si dovea cotanta corona al vincitore; condannato è per la vergine colui che per la vergine è compreso". E così del bordello uscirono non solamente la vergine, ma i martiri. Rapportasi che la fanciulla corse al luogo del tormento e che abendue combatterono de la morte. Con ciò sia cosa che colui dicesse: "Io sono mandato ad essere morto, te prosciolse la sentenza quando ella tenne me". E quella gridava: "Io non t'abbo eletto per istadico de la morte, ma ho desiderato preda di vergogna. Se vergogna è dimandata, sta il sesso; se sangue è adimandato, non dimando mallevadore! Che io abbo onde pagare, in me è rapportata questa sentenzia, la quale per me è data. Certo che se io t'avessi dato per mallevadore di moneta, e in mia assenzia il giudice avesse giudicato a l'usuriere il tuo tributo, per quella sentenza mi convinceresti tu che col mio patrimonio tu sciogliessi i tuoi legami. E s'io ricusasse questo, chi direbbe ch'io non fossi degna di morte? Or quanto è maggiore lussuria di questo capitale! Morrabbo innocente, acciò ch'io non muoia nocente. Niuna cosa ci è in mezzo, ma oggi sarabbo colpevole del tuo sangue, ovvero del mio martirio. Se tosto sono tornata, chi è ardito di trarmene fuori? Se io ho fatta dimoranza, chi è ardito di prosciogliermene? Più sono tenuta a le leggi colpevole non solamente del mio fuggire, ma eziandio de l'altrui morte. Bastino le membra a la morte, a le quali non bastava di vivere. Hae la vergine luogo di piaga, che non l'avea di vituperio; io abbo cessato obbrobbrio, non t'abbo conceduto martirio; ho mutato vestimento, ma non la religione. Che se tu mi tolli la morte innanzi, già non m'hai ricomperata, ma pattovita. Guarda, priegotene, che tu non contendi, guarda che tu non abbia ardimento di contraddire. Non mi torre il beneficio, che tu mi desti, quando tu mi nieghi questa sentenzia, io hoe restituita quella disopra. La sentenza si muta ne la sentenza disopra; se quella di drieto non mi tiene, quella disopra tiene. Noi possiamo soddisfare a l'una sentenzia e a l'altra, se tu sostieni ch'io sia prima morto". Hanno altra pena che mettere in te, ne la vergine è obbligata vergogna. Adunque sarai più gloriosa se tu sarai veduta de l'adolterio fatta martire, che se di martire avessi renduto l'adoltera. Che aspettate voi? Due contesero e abendue vinsero: né non è lasciata la corona, ma è aggiunta. E così i santi martiri faccendo beneficio insieme l'uno a l'altro, l'una diede cominciamento al martirio, l'altro vi diede compimento. Ovvero eziandio che gli studii de li filosofi pognono Damone e Sinzia seguitatori di Pittagora, de' quali l'uno, sentenziato a morte, domandò e' tempo di fare suo testamento. E 'l tiranno molto scalterito a pensare che non potesse essere ritrovato, domandòe mallevadore che fosse morto per lui, se elli facesse dimoranza. Quale è più grande cosa de le due, non so: l'una cosa e l'altra è assai grande; l'uno truovò stadico di morte, l'altro si proferse e diede per istadico. Sì che faccendo dimoranza al tormento colui ch'era colpevole, il mallevadore con chiaro volto non rifiutò la morte. Ed essendo menato al luogo del tormento, l'amico ritornòe, inchinòe il capo e sottomisse il collo. Allora maravigliato il tiranno veggendo che quelli filosafi aveano più cara l'amistà che la vita, adomandò d'essere ricevuto in amistade da coloro i quali elli avea condannati. Tanta essere la grazia de la virtù, che inchinòe il tiranno. Queste cose furono degne di loda, ma di memoria a' nostri; però che colà furono abendue uomini, questa fu una vergine, la quale primamente vinse la natura; coloro furono amici, costoro non si conoscevano; coloro offersono loro medesimi al tiranno, ma costoro a più tiranni, e costei a più crudeli; là dove quello tiranno perdonòe, costoro uccisono. Tra coloro fu obbligata necessitade, in costoro fu la volontà libera da amendue. E per queste cose furono costoro più mascagni, però che coloro feciono a fine di grazia d'amistà, costoro per la corona del martirio; coloro combatterono a gli uomini, costoro a Dio". Queste cose sono di santo Ambruogio dottore.
cap. 61, S. Pietro martirePietro novello martire de l'ordine de' frati Predicatori, nobile campione de la fede, de la città di Verona fu il suo nascimento. Questi nacque nel mondo come lume splendiente ch'esce del fummo e come giglio candido de le spine e come rosa vermiglia de' pruni, quando de' parenti per errore accecati si rilieva un lucente predicatore e di coloro ch'erano piagati ne la mente e corrotti nel corpo, procede onore verginale, quando eziandio de le spine, cioè di coloro che sono diputati a l'eternale arsura, si rilieva così glorioso martire. Imperò che questo santissimo Pietro ebbe il suo padre e la sua madre infedeli ed eretici, ma del loro errore si conservò puro e netto in tutto. Essendo elli ancora di sette anni e tornando da la scuola, fue domandato una volta del zio suo, il quale sentiva di resia, che avesse apparato ne la scuola. E quelli rispuose che avea apparato: "Credo in uno Dio padre onnipotente, fattore del cielo e de la terra, de le cose che si veggiono e di quelle che non si veggiono". E 'l zio disse: "Non dire creatore del cielo e de la terra, con ciò sia cosa che non criasse le cose visibili; ma il diavolo criò tutte queste cose che si veggiono". Ma il fanciullo benedetto affermava pur che volea credere come avea letto. Allora quegli si sforzava, come potea, di fare credere queste cose al fanciullo con certe autoritadi; le quali tutte il fanciullo, pieno de lo Spirito Santo, in tal maniera rivolse intra lui, e in tale modo il fedìo col suo propio coltello di colui, ched elli non avea dove s'andasse. Quelli allora, non potendo sostenere questa vergogna del fanciullo, andossene al padre, e narrolli tutto quello ch'era stato fatto tra sé e il fanciullo, e con tutti i modi confortò che levasse Pietro da la scuola, e disse così: "Io temo che quando Pietro sarà bene ammaestrato, che non si converta a quella meretrice Chiesa di Roma, e così distrugga e confonda la fede nostra". Il quale, non sappiendo la verità, sì la disse quando come un altro Caifas profetòe che san Pietro martire dovea essere distruggitore de l'eresie. Ma imperò che Dio era facitore di questo fatto, il padre del fanciullo non acconsentìo a le parole del fratello, sperando che per alcuno grande vescovo di Paterini fosse bene ammaestrato in grammatica. Veggendo dunque il fanciullo santo che non era bene sicura cosa abitare con li scarpioni, disprezzando il mondo e li parenti, esso puro e netto, entròe ne l'ordine de' frati Predicatori. Nel quale ordine, come lodevolmente vi vivesse entro, messere Innocenzio papa ne la sua Pistola il dichiara così dicendo: "Con ciò sia cosa che san Piero, nel tempo de la sua adolescenzia, saviamente si scostasse de le buffe del mondo, trasportossi a l'ordine de' frati Predicatori. Nel quale ordine per ispazio di poco meno di XXX anni, armato de la schiera de le virtudi con la fede gonfaloniera, essendovi presente la speranza e in compagnia la caritade, fue sì valoroso e di grande profitto a la difensione de la detta fede per la quale tutto ardeva; intanto che stando in continua battaglia contra crudeli nemici, con la mente non paurosa e con lo spirito fervente, a la perfine compiette il suo combattimento lungo tempo durando col vincitrice martiro soperchiantemente bene avventurato. E così Pietro, fermo ne la pietra de la fede, a la perfine percosso con la pietra del martiro, a la pietà, cioè a Cristo, salette ad essere degnamente coronato. La verginità de la mente e del corpo sempre conservòe netta, né mai non si sentìo maculato d'alcuno peccato mortale, sì come fu provato per vera testimonianza de' suoi confessori; e perché il servo, pasciuto dilicatamente immattisce contra il signore, la carne sua ristrinse per continovo temperamento di mangiare e di bere. E per non essere insidiato da li nemici per la pigrezza corporale, continuamente s'esercitava ne l'opere spirituali, acciò che essendo sempre occupato al tutto ne le cose licite, non avessero luogo in lui le cose non licite e fosse sicuro de le spirituali malizie. La notte che diputata è al riposo de l'uomo, dopo il brieve sonno, mettea a li studii del leggere, e 'l tempo del sonno occupava in vegghiare. Il dì ispendea a l'utilitadi de l'anime, o soprastando a continuamente predicazioni fare, o udendo confessioni e confondendo la mortale dottrina de li eretici con forti ragioni; ne le quali cose ebbe speciale dono da Dio. Sopra tutto questo essendo grazioso in devozione, piano in umilitade, piacevole ne l'ubbidienza, soave ne la benignitade, compaziente in pietade, fermo ne la pazienzia, amorevole ne la caritade e in tutte cose bene composto di costumi maturi, per le profonde virtudi, che in sé erano, traeva gli altri. Ed essendo fervente amatore de la fede e speziale coltivatore di quella, combattitore molto ardente, in tale maniera s'era tutto dato al servigio di quella, che tutte sue parole e opere rendevano odore de la vertude di quella. E abbiendo grande disiderio di morire per amore di quella, provato è che ciò adimandasse principalmente da Dio con attente e spesse orazioni, pregando Domenedio che non lasciasse passare di questa vita ched e' non fosse abbeverato del calice de la passione; né non fue ingannato dal suo desiderio. Molti miracoli fece in sua vita; ché, essendo a Melano e disaminando uno vescovo de li eretici preso da' fedeli, ed essendovi ragunati molti vescovi e religiosi e grande parte de la cittade, ed era già andato il die molto innanzi sì per la predicazione e sì per la disaminazione, ed era sì grande il caldo che tutti gli affligea, disse allora quello vescovo a san Piero innanzi a tutta quella gente: "O Pietro perverso, se tu se' così santo, come questo matto popolo afferma di te, perché lasci tu morire costoro con questa arsura e non prieghi Iddio che ci ponga in mezzo alcuna nuvola, acciò che non muoia questo stolto popolo a tanto caldo?" Al quale rispuose san Piero martire: "Se tu vuogli promettere di rinnegare la resia tua, e di ricevere la fede cattolica, io pregherò il Segnore, e sarà quello che tu hai detto". Allora gli aiutator de' Paterini incominciarono a dire al vescovo a grande grida: "Prometti, prometti!" però che credeano che ciò non si potesse fare. La quale cosa il beato Pietro dinanzi a tutti promisse di fare, e massimamente con ciò fosse cosa che pur una picciolina neboluzza non si trovasse o vedesse ne l'aere. Ma i cattolici cominciarono a turbarsi ne l'obbligagione di santo Pietro, temendo che la fede cattolica non avesse vergogna per questo. Con ciò dunque fosse cosa che quello eretico non si volesse obbligare, santo Pietro, con grande fidanza, disse: "Acciò che 'l vero Iddio si mostri creatore de le cose che si veggiono e di quelle che non si veggiono, e a consolazione de' fedeli e a vergogna e a confusione de li eretici, priego Iddio ch'alcuna nebbia salga suso, e pongasi in mezzo tra 'l sole e 'l popolo". E, fatto ch'ebbe il segno de la Croce, immantanente fu fatto che una nuvoletta per una grande ora difese il popolo, e a modo d'uno padiglione gli teneva coperti. Uno attratto, che avea nome Asserbo, stato così rattratto cinque anni, che si tranava così per terra in uno staio, sì fu menato a Melano a san Pietro. E quando san Piero l'ebbe veduto sì 'l segnò, e quelli si levò ritto incontanente sano. Alcuni miracoli che 'l Signore fece per lui a sé vivente, il detto messere Innocenzio papa racconta e dice così ne la detta Pistola: "Uno figliuolo d'uno gentile uomo, non potendo né parlare né sputare per una grossa e orribile enfiatura di tutta la gola, san Pietro levò le mani al cielo a Domenedio, e fece il segno de la Croce sopra lui, e lo 'nfermo tolse la cappa di san Pietro e se la pose in sul luogo infermo, e immantanente fu sanato. Il detto gentile uomo essendo poi ad uno tempo gravato di ditorcimento di corpo, credendo e temendo per questo essere a rischio de la morte, sì si fece reverentemente recare la cappa medesima, la quale s'avea serbata infino allora, e posta che la s'ebbe in sul petto, incontanente gittò per bocca uno vermine che avea due capi e spessi peli peloso, e rimase pienamente sanato. Ancora uno giovane mutolo, mettendoli san Pietro il dito suo in bocca, e sciolto il legame de la lingua, ricevette il beneficio de la lingua. Queste cose e molte altre degnòe il Segnore da operare per lui mentre ch'elli visse in questo mondo. Ma con ciò fosse cosa che la pistilenzia de la resia crescesse ne la provincia di Lombardia e avesse macolate già molte cittadi per toccamento pestilenzioso, il sommo Pontefice a distruggere la detta pestilenzia del diavolo sì mandòe diversi inquisitori de l'ordine de' frati Predicatori in diverse contrade di Lombardia. Ma con ciò fosse cosa che a Melano avesse de li eretici molti quanto a novero, ma eziandio grandi quanto a potenzia secolare, aguti per frodolento parlare e pieni del senno del diavolo, il sommo Pontefice sapiendo e intendendo che san Pietro era uomo di grande animo, che non avea paura di moltitudine di nimici, pensando ancora di colui la sua costante e ferma vertude, per la quale eziandio in poca cosa non darebbe luogo a la potenzia de li avversarii, conoscendo ancora il suo parlare, per lo quale leggeremente iscoprirebbe le fallacie de li eretici, sappiendo soprattutto questo, ch'elli era ammaestrato de la divina sapienza pienamente, per la quale ragione velocemente confonderebbe le vani argomentazioni de li eretici, sì ordinòe esso sì valentre campione de la fede e sì buono combattitore di Dio, per suo inquisitore in Melano e nel suo contado, concedendoli piena autoritade e balìa. E elli faccendo bene l'officio a lui commesso, in ogne parte andava cercando gli eretici, non dando loro riposo veruno, ma maravigliosamente confondendoli tutti, potentemente scacciandoli, saviamente convincendoli, in tale modo che non potevano resistere a la sapienza e a lo Spirito Santo che parlava per lui. La qual cosa udendo gli eretici con molto loro dolore,cominciarono a trattare de la morte di lui con loro credenti e aiutatori, pensando di vivere in pace se così loro forte perseguitatore fosse levato di mezzo. Andando dunque il predicatore non pauroso, il quale tosto dovea essere martire, da Como a Melano per fare inquisizione de li eretici, in quello viaggio guadagnòe la vittoria del martirio, secondamente che Innocenzio papa racconta ne la sua Pistola in questo modo: "Con ciò fosse cosa che de la città di Como, là ove elli era priore de' frati de l'ordine suo i quali dimoravano in quella cittade - andasse a Melano per fare inquisizione contra gli eretici, come commessa gli era da messere l'apostolico Papa, (sì come esso palesemente avea detto dinanzi, in piuvica predicazione), uno di quelli eretici indotto da loro per priego e per pecunia, esso, scellerato, fece assalto contr' a lui proseguendo il cammino di salutevole proponimento; come lupo contra l'agnello, come fiero contra 'l mansueto, come l'empio contra 'l pietoso, come foribondo contra 'l benigno, come sfrenato contra 'l modesto, come scomunicato contra 'l santo, fu ardito di fare assalimento da operare, di fare sforzamento di dare la morte percotendo il santo capo di lui con crudeli e ismaniante fedite; e inebbriando il coltello del sangue del giusto, lui non cansando dal nemico, ma dando se medesimo per sacrificio in tutto, e sostenendo piacevolemente le percussioni crudeli del feditore, sì lo lasciò morto in quel luogo de la passione, e lo spirito domandando le cose supernali, e esso maledetto uomo dovendo percuotere il servo di Cristo. Elli non mormorando con boce di rammaricamento, ma sofferendo ogne cose pazientemente, lo spirito suo raccomandava al Segnore, così dicendo: "Ne le mani tue, Signore mio, raccomando lo spirito mio". Cominciò eziandio a dire il Credo in Dio, del quale in questo articolo non cessòe d'essere banditore, sì come quello micidiale, il quale fu preso da li fedeli, e di quinci adrieto frate Domenico, il quale era suo compagno e da quello medesimo micidiale fedito sopravvisse alquanti dì, raccontarono poscia. Ma con ciò fosse cosa che il martire di Dio ancora palpitasse, il crudele micidiale tolse il coltello e trafissegliele per le coste. E in quello die del suo martirio, meritòe in alcuno modo d'essere confessore, martire, profeta e dottore. Confessore fu in quanto ch'elli costantissimamente confessòe la fede di Cristo eziandio fra ' tormenti, e in quanto in quello die elli, fatta la confessione al modo usato, offerse a Domenedio sacrificio di laude. Martire fu in ciò che per difensione de la fede sparse il sangue suo. Profeta fu in quanto che elli abbiendo la febbre quartana e dicendoli i compagni che non potrebbe in quel die giugnere a Melano, esso rispuose: "Se noi non potremo pervenire a casa de' frati, sì potremmo albergare a san Simpliciano". E così fu. Ché portandosi il santo corpo di lui, i frati, per la troppa calca de la gente, non lo poterono in quello die recare a casa, ma posarollo a san Simpliciano, e rimasesi iviritto in quella notte. Dottore fu in ciò che eziandio quando era martirizzato insegnòe la vera fede, mentre che con chiara boce cantòe il Credo in Dio. La sua venerabile passione pare che fosse molto somigliante a la passione di Cristo. Imperò che Cristo fu passionato per la veritade, la quale elli predicava, e san Pietro martire fu morto per la verità la quale elli difendeva; Cristo fu passionato da lo 'nfedele popolo de' giuderi, san Pietro da la infedele gente de' Paterini; Cristo fu crocifisso nel tempo de la Pasqua, san Pietro in quello medesimo tempo sostenne martirio; Cristo quando era martirizzato diceva: "Ne le mani tue, Signore, raccomando lo spirito mio", san Pietro quando era ucciso quelle medesime parole dicea; Cristo per trenta danari fu tradito, acciò che fosse crocifisso, e san Pietro per quaranta libbre di paviesi fu venduto, acciò che fosse morto; Cristo per la sua passione addusse molta gente a la fede, e san Pietro per la sua morte convertìo a la fede molti eretici. E avvegnadio che questo valoroso campione de la fede ne la sua vita sbarbasse molto la pestilenziosa dottrina de li eretici, ma dopo la morte sua, per li suoi meriti e risplendienti miracoli, la divelse in tal maniera, che molti ne lasciavano l'errore loro e rifuggivano al grembo de la santa madre Ecclesia; sì che la città di Melano e 'l suo contado, là dove avea cotanti ragunamenti, fu sì purgata che, tali che ne furono cacciati e tali che ritornarono a la fede, neuno v'era ardito in alcuno modo d'apparire. Ed eziandio molti di loro grandissimi e famosi entrarono ne l'ordine de' frati Predicatori, li quali infino ad ora vanno perseguitando gli eretici, e tutt'i loro favoreggiatori con maraviglioso fervore di fede. E così il nostro Sansone uccise più di filistei morendo, che non ne uccise vivendo; e così il granello del grano caggente in terra e premuto da le mani de l'infedeli e mortito, sì cresce in piena spiga; e così il grappolo de l'uva, pigiato nel canale, n'entra in abbondanza di liquore; e così le spezie peste nel mortaio spandono il loro odore più pienamente d'intorno; e così il granello de la senape pesto, dimostra la sua vertude multiplicatamente. Dopo 'l glorioso trionfo del santo da molti miracoli l'ha il Segnore alluminato, de' quali il sommo Pontefice racconta così dicendo: "Dopo la morte sua, le lampane, che pendevano al suo venerabile sepolcro, più volte, sanza ogne studio d'uomo e ministerio, sono tate divinamente accese; però che convenevole cosa sera molto che colui il quale era stato eccellentemente chiarito del lume e del fuoco de la fede, singulare miracolo apparisse di lui di fuoco e di lume chiaro". "Uno mentre che mangiava con altri e abbominava la sua santitade e li miracoli, preso che ebbe uno morsello sotto questo affermamento che s'elli fallasse intorno a questo detto non lo potesse inghiottire, sentillo incontanente sì accostato a la sua gola dentro, che non lo poteva mandare giù, né pignere fuori. Ed era in grande turbazione, per la quale cosa tosto pentuto e cambiato il colore del volto, sentendosi quasi presso a la morte, fatto che ebbe fra se stesso boto che mai da indi innanzi non lascerebbe scorrere la lingua a cotali cose, mandò per bocca quello morsello e fu liberato e sano". "Una ritropica, vegnente per aiuto d'uomo al luogo de la passione di questo santo, fatta ch'ebbe l'orazione, incontanente fue interamente sanata". "Le femmine ingombrate da le demonia per lungo tempo esso martire le scacciò de le corpora con molto rigittamento di sangue e liberolle, le febbre cacciò via, e curòe le 'nfirmitadi molte e diverse". "Ad uno che avea il dito de la mano manca per mala bestemmia cavato per molti forami, maravigliosamente gliele saldòe e sanòe". "Uno garzone per una gravissima caduta essendo abbattuto in tale modo che parea che avesse perduto il movimento e 'l sentimento, ed era pianto per morto, sì tosto come fu posto in sul suo petto de la terra tocca dal santo sangue di questo martire, si levò ritto sano e salvo". "Anche una donna che avea ne le sue carni il granchio mordente che continovamente le rodea la carne, sì tosto come furono unte le piaghe di questa cotale terra, sì fue sanata". "Ancora altri, occupati da diverse infermitadi, i quali sono andati al suo onorevole sepolcro, hanno ricevuto quindi piena santade e tornati sono a casa sanza aiuto d'alcuna persona, che prima v'erano andati in su le carrette e in su altri sostentamenti". E con ciò fosse cosa che 'l sommo Pontefice Innocenzio quarto avesse fatto scrivere il nostro san Pietro martire a le letanie de' santi, i frati si ragunarono a capitolo di Melano, e vogliendo trasportare il corpo suo a più alto luogo, essendo stato più d'uno anno sotterrato, fu trovato sì 'ntero e sanza corruzione e sanza veruno fiatore, come se in quello dì medesimo fosse stato seppellito di prima. Sì che i frati il portarono con grande reverenza, quello corpo benedetto, in su uno grande pulpito a lato a la piazza, e ivi fu mostrato a tutto il popolo così sano e intero, e adorato da tutti umilmente. Fuori de' miracoli disopra detti, i quali sono posti ne le lettere del sommo Pontefice, ne sono trovati più altri. Ché sopra luogo de la passione sua hanno veduto più religiosi e altre persone discendere visibilemente luminari da cielo, intra ' quali luminari hanno dato testimonianza d'avere veduti due frati in abito di frati Predicatori. Uno giovane che avea nome Giuffredo de la città di Como, avendo del panno de la tonica di messere san Pietro, uno eretico, così per ischernire, gli disse che, sed e' credesse che fosse santo, che gittasse il panno nel fuoco, e se avvenisse che non ardesse, sanza dubbio sarebbe santo e elli s'accosterebbe a la sua fede. Allora gittò quello panno di santo Pietro martire sopra i carboni accesi, ma elli ne saltò fuori il panno del fuoco; poscia, per se medesimo ritornandosi sopra i carboni, sì li spense per tutto così ardenti. Allora quelli miscredente disse: "Così, così si farà né più né meno il panno de la tonica mia". Sì che fu posto sopra altri carboni, da una parte il panno de lo eretico, e da un'altra parte il panno di santo Pietro. E il panno de lo eretico, sì tosto come sentìo il calore del fuoco, al tutto arse, ma il panno di san Pietro ebbe valore nel fuoco, e spenselo in tale modo che pure uno pelo non si guastò dal fuoco. Vedendo ciò l'eretico tornò a via di veritade e palesòe il miracolo a tutta la gente e convertissi. A Fiorenza era uno giovane corrotto di resia. Andando costui con altri suoi compagni giovani ne la chiesa de' frati Predicatori di quella città, essendo innanzi ad una tavola là dov'era dipinto il martirio di santo Pietro martiro, veggendo colui dipinto che si dava del mannarese al santo, trasse fuori il coltello elli e disse: "Ora vi fossi io stato, ch'altrimenti avre' io percosso più forte!" E detta questa parola, immantanente diventòe mutolo. E domandandolo i compagni che elli avesse, e elli non potendo loro rispondere nulla, sì lo rimenarono a casa. Ma andando con loro per la via, vidde una chiesa di san Michele, sì che uscìe tra le mani de' compagni e entrò ne la chiesa e, inginocchiandosi iv'entro, con contrizione di cuore pregò santo Pietro martire che gli perdonasse, obbligandosi per boto, come potea, che s'elli il liberasse sì confesserebbe i peccati suo', e rinnegherebbe ogne resia. Allora subitamente riebbe la favella e, venuto a casa de' frati Predicatori, rinnegòe la resia, e confessossi i peccati suoi, e diede parola al confessore che predicasse in pieno popolo queste cose. E elli medesimo si levò in pieno e piuvico popolo a la predicazione del frate, e dinanzi a tutta la moltitudine confessòe questa cotale opera. Una nave essendo nel mezzo del mare in procinto [ms.: in mero] di rompersi per crudele tempesta, da la quale era commossa, essendo tutti intenebrati de la scura notte, tutti quanti i nocchieri domandavano aiuto da diversi santi; ma non vedendosi neuno dimostramento di campare e temendosi molto di pericolare, uno di loro, il quale era natìo di Genova, fatti che li ebbe stare cheti parlò così a loro: "O uomini frati, or non avete voi udito come uno de l'ordine de' frati Predicatori, che avea nome frate Pietro, ora novellamente per difensione de la fede cattolica è stato morto da li eretici, e come Dio mostra miracoli per lui? Adomandiamo dunque ora divotamente il suo aiuto, però che io abbo speranza che noi non saremo ingannati del nostro domandamento". Consentono tutti, e domandano e chiamano con divote preghiere san Pietro martire che sia a loro in aiuto. E pregando coloro così, immantanente l'antenna de la nave, là dove istà appiccata la vela, fu veduta tutta piena di cerotti accesi, sì che ogne scurità andò via per lo mirabile splendore di quelli ceri, e quella notte così buia si mutòe in die chiarissimo. E, ragguardando, videro uno con l'abito de' frati Predicatori, che stava sopra la vela, del quale niuno dubitòe che non fosse santo Pietro martire; sì che immantanente posòe il mare e fue grande bonaccia. Con ciò dunque fosse cosa che li detti nocchieri fossero venuti sani e salvi a Genova, vennero a casa de' frati Predicatori, e rendendo laude e grazie a Dio e amassero santo Pietro, narrarono il miracolo ad essi frati in che maniera e' fu lo miracolo. Una femmina in Fiandra abbiendo ne' suoi dì fatti tre fanciulli morti, essendo di ciò inodiata dal marito, pregò santo Pietro martire che le fosse in aiuto. E quando venne al partorire il quarto figliuolo, fu trovato simigliantemente morto. E togliendolo la madre, tutta si misse a pregare santo Pietro martire, e pregandolo con disiderosi prieghi ch'elli le dovesse fare vivo il figliuolo suo. Appena avea compiuta l'orazione, ed ecco che colui il quale era morto apparve vivo. Sì che essendo portato a battezzare, era ordinato che avesse nome Giovanni: sì che il prete dovendo dire il nome suo, non sappiendo disse Pietro, onde questo nome si ritenne poscia per la divozione di san Pietro. Ne la provincia de la Magna a Tragetto alcune femmine, vedendo correre grande gente a la chiesa de' frati Predicatori per onore di san Pietro martire, standosi così ne la piazza e filando, a coloro che v'erano presenti dicevano: "Ecco, questi frati Predicatori fanno ogne maniera di guadagnare, ché per potere ragunare grande moltitudine di danari per fare gran palagi hanno trovato uno novello martire". Mentre ch'elle dicevano queste parole a altre cotali, eccoti subitamente il filo torto insanguinato di sangue, e le dita, con ch'elle torceano, si riempievano di sangue. Quelle vedendo ciò e meravigliandosi, forbonsi le dita diligentemente per sapere se v'avesse veruna tagliatura; ma veggendo che tagliatura veruna non v'era, e che le dita erano tutte sane, e 'l filo tutto sanguinoso, con grande triemito e con pentimento, cominciarono a dire: "Al vero, perché noi abbiamo male detto e abbiamo abbominato il sangue del prezioso sangue martire, ci è addivenuto questa gran maraviglia". Sì che correndo a casa de' frati, raccontarono al priore tutto quello ch'era fatto, e appresentaro loro il filo insanguinato del sangue. E 'l priore a sollecitamento di molte persone, ragunòe e una solenne predicazione fece, e dinanzi a tutta la gente disse tutto ciò ch'era intervenuto a le dette femmine, e mostròe a tutti il filo così insanguinato. Ma uno maestro in grammatica stando a quella predicazione, incominciò a schernire molto quelli frati e a dire: "Vedete ora come questi frati ingannano i cuori de le semplici persone! Ché hanno posto insieme con alcune femminelle de le loro famigliari, che le intignessono quello filo nel sangue d'alcuna bestia, e così dicessono che fosse intervenuto miracolosamente". Dicendo lui queste cose, incontanente ricevette la piaga de la vendetta di Dio; e, come molti il si videro, uno caldo di febbre fortissima li diede sì addosso che convenne che, tra le mani de li amici, uscisse de la predica e fosse portato a casa sua. Ma con ciò fosse cosa che la febbre pure crescesse e quelli temesse che la morte non gli fosse presso, fecesi venire il detto priore e, confessando il peccato suo a Dio e al beato Pietro martire, dinanzi al detto priore fece boto che se per li suoi meriti elli ricevesse santade, elli l'avrebbe sempre in ispeziale divozione, e da indi innanzi non lascerebbe iscorrere la lingua a cotali cose. Maravigliosa cosa fu! Sì tosto come ebbe fatto il boto, sì ricevette santade interamente. Anche una volta che 'l soppriore del detto luogo facea venire in una nave alcune bellissime lapide e grandi per la costruzione de la predetta chiesa, la detta nave disaventuratamente s'accostòe in tale maniera a una isola, che per veruno modo non la potevano muovere. E discendendo i nocchieri, tutti a un'otta la sospigneano, ma non la potevano per nullo modo muovere, né azzicare. Sì che credendosi avere perduta la nave, il detto soppriore diede commiato a tutti gli altri e esso solo puose la mano a la nave, e sospingnendola lievemente sì disse: "Nel nome di san Piero martire, al cui nome e onore noi portiamo queste pietre, va". Incontanente la nave si mosse velocissimamente, e scostossi sana e salva da quella isola; sopra la quale, salendo i nocchieri tutti sani e allegri, ritornarono a casa loro a salvamento. Nel reame di Francia, ne la città di Senno, essendo caduta una fanciulla in una acqua che correa molto tosto, essendovi istata per grande spazio di tempo, a la perfine fu tratta morta de l'acqua. De la quale morte erano quattro segnali, cioè: il grande spazio del tempo e l'asprezza del corpo e la freddezza e la nerezza. Fue dunque portata a la chiesa de' frati da alcune persone, le quali, poi che l'ebbero botata a san Pietro martire, tosto si riebbe la vita e la santade di quella morta. Frate Giovanni di Polonia essendo a Bologna con la febbre quartana e dovendo sermonare a' cherici per la festa di san Pietro martire, temendo che in quella notte non li venisse l'accesso, com'elli aspettava secondo il corso naturale, acciò che non venisse meno nel sermone che gli era ingiunto che dovesse fare, convertissi a domandare l'aiuto di santo Pietro martire. E, andando a lo altare suo, con molta divozione pregò il santo che per li suoi meriti il dovesse aiutare, la cui gloria esso dovea predicare. E così intervenne che in quella notte cessòe la febbre, e mai poscia non l'oppresse. Una donna, che avea nome Girolda e moglie di Jacopo da Vallesana, essendo imperversita da dimoni per quattordici anni, venne a uno prete e disse così: "Io sono indemoniata, e lo spirito maligno mi briga". Incontanente il prete impaurito fuggìe dentro a la sagrestia, e tolse un libro, là dov'era le congiurazioni de' dimoni, e tolse la stola e missesi ogni cosa sotto la cappa celatamente, e con buona compagnia ritornò a la femmina. E quella, sì tosto com'ella il vide, sì disse: "Ladro pessimo, or dove andasti tu? Che è quello che tu hai portato nascostamente sotto la cappa?" E faccendo il prete i suoi scongiuramenti e non approdandole nulla, ella se ne venne a san Piero martire, essendo ancora vivo, e domandava d'essere aiutata da lui. E quelli le rispuose con boce di profezia, e disse così: "Confidati, figliuola, non ti disperare, però che s'io non ti posso fare ora quello che tu domandi, ma e' verrà tempo che, quella cosa che tu mi chiedi, tu l'averai pienamente". E così avvenne. Ché, dopo la passione di lui, essendo la detta femmina andata al suo sepolcro, fu al tutto deliberata da ogne tribulazione di demoni ch'ella avea. Una femmina, che avea nome Eufemia, d'uno luogo che si chiama Cortelunga del vescovado di Melano, per VII anni fu imperversata da dimoni; ma essendo menata al sepolcro di san Pietro martire, cominciorolla i demoni a dimenare più, e gridavano per la bocca di colei, udendo tutte le persone, e diceano: "Mariuola, Mariuola, Petrino, Petrino". Allora i demoni uscendo di lei, sì la lasciarono quasi per morta; ma, poco stante, si levò ritta pienamente guarita. E diceva che i dì de le domeniche e le feste, e massimamente quando la Messa si diceva, i demoni le davano più briga. Una femmina, che avea nome Nerbona di Borgo, per sei anni peravversita [sic] de le demonia, essendo menata al sepolcro di san Piero martire, a grande pena la poteano tenere molti uomini; tra i quali era uno credente de' Paterini, il quale avea nome Currado da Ladriano, il quale era venuto là per fare schernie de' miracoli di santo Pietro. E tenendo costui questa femmina insieme con gli altri, le dimonia sì cominciarono a dire per bocca di costei: "Perché ritieni tu? or non se' tu nostro? or non ti portammo noi in cotale luogo e facesti là oltre il cotale micidio? or non ti menammo noi al cotale luogo e a cotale, e ivi commettesti cotale e cotale peccato?" E dicendogli le dimonia molti peccati, i quali neuno altro sapea ch'egli, forte ne sbigottìo. Incontanente le demonia iscorticando il collo e 'l petto de la femmina, e uscendo quinderitta sì la lasciarono mezza morta, ma poco stante si levò al tutto guarita. E 'l detto Currado, vedendo queste cose, maravigliossi di ciò e sì si convertìo a la fede cattolica. Uno uomo che avea nome Opizo, credente de' Paterini, essendo venuto a la chiesa de' frati per cagione d'una retica sua parente, e andando al sepolcro di santo Pietro martire, sì vi vidde su posto due denari; sì che, togliendolisi quelli cotali danari, disse così: "Buona cosa è che noi ci beamo questi". Incontanente cominciò tutto a tremare, e non si potea muovere per veruno modo di quello luogo. Il quale ispaventato ripuose immantanente i detti danari ne lo loro luogo, e così si partìo quindi; ma veggendo la virtù di san Pietro, abbandonòe la resia e convertissi a la fede cattolica. Una monaca era ne la Magna nel chiostro d'Oetembach, de l'ordine di san Sisto, del vescovado di Costanzia, la quale avea patita, uno anno e più, una grande gotta nel ginocchio, sì che non vi poteva trovare rimedio veruno. Costei, per ciò che non poteva vicitare il sepolcro di santo Pietro martire, come quella ch'era ad ubbidenzia ed era constretta da gravissima infermitade, pensossi d'andare al sepolcro di santo Pietro, almeno co' passi de la mente, e di vicitarlo per continova divozione. E dicendo che in XIII dì si potea andare da quello luogo a Melano, ogne dì per ciascuna giornata, incominciò a dire cento paternostri ad onore di santo Pietro martire. Grande maraviglia! ché, comunque ella ebbe cominciato in questo modo a fare cotali andamenti di mente, sempre a poco a poco incominciò a migliorare del male suo; e poi ch'ebbe compiuta la sezzaia giornata, pervenuta al sepolcro del santo col viaggio de la mente, puose le ginocchia in terra come s'ella fosse corporalemente dinanzi al sepolcro; e tutto il saltero disse con grandissima divozione. Compiuto ch'ella ebbe di dire in tale modo, si sentìe dilibera, che già non sentiva punto di male. E ritornando per quello modo ch'ella era andata, anzi ch'ella avesse compiute le giornate fu al postutto diliberata e sana. Uno uomo di Canapizio, de la villa di Mazzato, il quale avea nome Ruffino, incorse in una grave infermitade: che li si ruppe la vena disotto e gittava continuamente dinanzi sangue, sì che da neuno medico potea ricevere medicina di rimedio veruno. Sì che, essendo il sangue scorso per sei dì e altrettante notti continovamente, chiamò divotamente messere santo Pietro martire che li fosse in aiuto; e sì fu subitamente dilibero che, tra quella orazione che fece e 'l suo sanamento ricevuto, non n'ebbe poco meno veruno tramezzo. Ed essendosi addormentato vide uno frate in abito di frati Predicatori, grosso nel volto e bruno, lo quale stimava che fosse il compagno di santo Pietro martire, sì come veramente di cotale forma era stato. Il quale gli spandea le palme piene di sangue, e offerìacele con un soave unguento, così dicendo: "Il sangue è ancora fresco, vieni dunque al fresco sangue di santo Pietro". E quegli, isvegliandosi, ordinò di vicitare il sepolcro di santo Pietro martire. Alcune contesse del Castel Massino, del distretto d'Ipozenza, abbiendo alcuna divozione e digiunando la sua vigilia, erano andate a la sua chiesa per udire cantare il vespro, sì che l'una di loro, per onore di santo Pietro martire, puose uno cerotto in su l'altare di santo Pietro apostolo che v'ardesse. Quando quelle furono ritornate a l'albergo loro, il prete di quindi, mosso d'avarizia, soffiòe in quello cerotto e volselo spegnere, ma il lume ritornòe a mano a mano e acceselo un'altra volta. La seconda volta e la terza lo volse anche spegnere, ma il lume ritornò come di prima. Onde per isdegno che gliene venne, entrò in coro, e trovò una candela accesa innanzi a l'altare maggiore, la quale il cherico v'avea posta per onore di santo Piero martire, che digiunava simigliantemente la sua vigilia. La quale candela il prete volse spegnere due volte, ma non potéo. Vedendo ciò il cherico, adirato sì disse: "Diavolo! or non vedete voi aperto miracolo, che santo Pietro non volle che tu spenghi la sua candela?" E così spaventati e stupiditi il prete e 'l cherico, sì 'l tornò in sul castello e raccontarono il miracolo a tutti. Uno uomo, che avea nome Robadeo, abbiendo perduto ogne cosa infino a' panni di dosso, trovossi la sera a casa e andò a letto suo con la lucerna accesa; e vedendosi avere così vili panni, e considerando ch'elli avea tanto perduto per la troppa disperazione, incominciò a chiamare li demoni e a raccomandarsi a loro con la sua maladetta bocca. Incontanente v'apparve tre dimoni, i quali ispensero la lucerna accesa e gittarolla per la sala, poscia presero lui per lo collo, e strignevallo sì fortemente che per veruno modo non potea parlare. E, dimenandolo molto di qua e di là, coloro che gli stavano disotto salirono disopra a lui, e dicevano: "Che è questo che tu fai, o Roba?" E le dimonia rispuosano: "Andate con la pace vostra, e entrate ne' letti vostri". Coloro credendo che quella boce fosse del detto uomo, tornaronsi nel palco disotto. Partendosi coloro, cominciò quelli ad essere più fortemente molto dimenato da le demonia. Coloro disotto sappiendo questo fatto, mandarono per lo prete, il quale scongiurando queste dimonia per lo nome di san Pietro martire, li due n'uscirono immantanente. E 'l seguente die fu menato al sepolcro di san Pietro martire; e andando a costui frate Guglielmo Vergellese, cominciò a riprendere il dimonio; e colui mentovò per nome quello frate, lo quale non avea giammai veduto, e chiamandolo sì li disse: "Frate Guglielmo, per te non n'uscirò io giammai, imperò che questi è nostro, e ha fatte l'opere nostre". E 'l frate domandò com'elli avesse nome; e quelli rispuose: "Ho nome Balcefas". Ma essendo iscongiurato per lo beato messere santo Pietro martire, gittò colui immantanente in terra e uscinne; e quelli rimase perfettamente sano e prese penitenzia salutevole. Disputando uno Paterino, molto agro disputatore e d'un singulare linguaggio, con san Pietro martire, abbiendo proposto molto sottilemente in palese tutti i suoi errori e agutamente, e costrignendo molto improntamente san Piero martire che dovesse rispondere a quelle cose che esso Paterino avea proposte; el santo domandò termine di potere diliberare, ed entrò in uno oratorio, la quale era presso, e con lagrime pregò Domenedio che li piacesse di difendere la sua fede, e quello parladore enfiato per superbia od elli il conducesse a la verità de la fede, od elli il punisse che gli togliesse la lingua, perché da indi innanzi non infiasse così per essa contra la verità de la fede. E ritornando a l'eretico, dinanzi a tutti coloro che v'erano presenti, palesemente disse che proponesse tutte sue ragioni un'altra volta. Il quale diventòe sì al tutto mutolo, che pure una sola parola per veruno modo non potea profferire. Onde gli eretici si partirono con vergogna, e i cattolici renderono grazie a Dio. Predicando lui una volta per la Domenica d'Ulivo a Melano, mentre ch'egli era vivo, essendo grandissima moltitudine d'uomini e di femmine a la sua predica, disse palesemente ad alta boce: "Io so per certo che gli eretici trattano la morte mia, sì che per la morte mia ho già fatto diposito di pecunia; ma facciano tutto ciò che possono, ché maggiormente gli perseguiterabbo morto che io non fo ora essendo vivo". La quale cosa come fosse vero, manifesta cosa è provata. A Firenze nel monistero di Ripole una monaca stando in orazione quello die che santo Pietro martire sostenne morte, vidde la beata Vergine sedere in su alta sedia ne la gloria, e due frati de l'ordine de' Predicatori salire in cielo ed essere allogati lungo a lato a lei, di qua e di là. E dimandando ella che ciò fosse, udì una boce che disse a lei: "Questi è frate Pietro che monta glorioso nel cospetto di Dio come fummo di spezie". E fu trovato per certo che quello medesimo die entròe ne la morte che la detta monaca vidde questa visione. Onde sostenendo ella una grande e grave infermitade, missesi tutta a pregare santo Pietro martire, e ricevette perfetta sanitade. Tornando uno scolaio da Magalona a Mompolieri per un saltofortemente gli si ruppe l'anguinaia, che troppo grande dolore ne seguitava, e non potea andare. Ricordandosi costui ch'elli avea una volta udito predicare una femmina che ponendo de la terra imbagnata del sangue di santo Pietro martire in su la rossura nel granchio ne divenne libera, disse così: "O Signore mio, io non abbo di quella terra, ma tu, che desti cotanta virtude a quella terra, sì la puoi dare simigliantemente a questa". E togliendo di quella terra di quiveritto, col segno de la santa Croce e col nome di messere san Pietro, puosene in sul luogo del male suo, e immantanente fue sanato e guarito. Ne gli anni Domini mille dugento cinquantanove, ne la città di Compostella, fue uno uomo che avea nome Benedetto, il quale avea le gambe enfiate come fossero otre, e 'l ventre enfiato a modo di femmina pregna, e la faccia per la molta enfiatura era orribile a vedere, e anche avea enfiato tutto il corpo, sì che parea una maraviglia a vedere. Costui, che appena si potea sostenere in sul bastone, domandando una volta limosina da una donna, quella gli rispuose: "Piuttosto ti sarebbe bisogno la fossa che veruno cibo; ma attienti al mio consiglio: vattene a casa de' frati Predicatori, e confessati de' tuoi peccati, e chiama l'aiuto di santo Pietro Martire". Costui si levò la mattina bene per tempo, e vennesene a casa de' frati e, trovando la porta de la chiesa sersata, puosesi lungo la porta, e addormentossi. Ed eccoti venire uno, che pareva di grande reverenza, in abito de' frati Predicatori apparve a lui e, coprendolo con la cappa, sì lo menò dentro a la Chiesa. Quando colui fue isvegliato trovossi dentro ne la chiesa e perfettamente guerito. La quale cosa fece maravigliare e sbigottirne molte persone, veggendo uno uomo ch'era poco meno che morto, essere così subitamente liberato, e dentro a la chiesa.
cap. 62, S. FilippoFilippo apostolo abbiendo predicato XX anni per Iscizia, fu preso da' pagani; e costretto era da loro a sacrificare a la statua di Marte. Allora subitamente uscìo disotto la base uno grande dragone, lo quale uccise il figliuolo del pontefice che apparecchiava il fuoco al sacrificio; e anche uccise due tribuni, i servi de' quali tenevano preso e inferriato san Filippo; e anche avvelenòe gli altri, con la puzza del fiato suo, che tutti ne infermavano. Disse santo Filippo: "Credete a me e spezzate questa statua e, in luogo di quella, adorate la Croce del Signore, acciò che gl'infermi vostri siano sanati e li morti vostri sucitati". E coloro ch'erano tormentati, sì gridavano e sì dicevano: "Fa pur che noi siamo sanati, e spezzeremo incontanente questo idolo". Allora san Filippo comanda al dragone che scendesse nel luogo disotto, sì che non ne occidesse al postutto persona. E elli si partì incontanente, e giammai più non comparìo. Allora san Filippo gli sanò tutti, e impetròe a quelli tre morti il beneficio de la vita. E così predicò per uno anno a tutti coloro che credevano, e di loro ordinò preti e diaconi, e vennese in Asia ne la cittade di Jerapoli, e quivi spense l'eresie de' Paterini e de' pagani, che si chiamano Ebroniti, i quali ammaestravano che Cristo avea preso carne fantastica. Ed eranvi due santissime vergini sue figliuole per le quali il Signore ne convertìo molti a la vera fede. E san Filippo, anzi a sette dì de la sua morte, chiamò a sé tutt'i vescovi e tutti i preti e sì disse loro: "Questi sette dì m'ha conceduti il Signore per lo vostro ammonimento". Egli avea da LXXXVII anni. Poscia vennero gl'infedeli e, preso che l'ebbero, sì 'l conficcarono in su la croce a modo del maestro suo, lo quale predicava; e così se n'andò a Domenedio e compiette beatamente la sua vita. E appresso di lui furono seppellite due sue figliuole, l'una dal lato ritto e l'altra dal manco. Di questo san Filippo dice così santo Isidoro, nel libro De la Vita e del Nascimento e de le Morte de' Santi: "Filippo Gallo a li Franceschi predica Cristo, e menòe al porto de la fede li barbari, e coloro ch'erano congiunti al mare oceano, al lume de la vera scienzia". Questo dice santo Isidoro. Ma Filippo, che fu l'uno di sette diacono, dice san Geronimo nel Martirologio, che questo cotale, glorioso di segni e di miracoli, morìo in pace in una città che si chiama Cesarea, VIIIentrante luglio, e a lato a lui furono sotterrate tre sue figliuole, e la quarta figliuola sì riposa il corpo suo in Efeso. Sì che il primo Filippo ha differenza da questo, che quegli fu apostolo, e questi fu diacono; quegli si riposa in Jerapoli, e questi in Cesarea; quegli ebbe due figliuole profetesse, questi n'ebbe quattro, avvegnadio che la Storia Ecclesiastica pare che dica, che fue Filippo apostolo quelli ch'ebbe quattro figliuole profetesse, ma in questo è da credere più a san Geronimo.
cap. 63, S. Jacopo minoreJacopo: questo apostolo è chiamato Jacopo d'Alfeo, cioè figliuolo d'Alfeo; è chiamato Jacopo fratello del Signore e Jacopo minore e Jacopo giusto. Jacopo d'Alfeo è detto, non solamente secondo la carne, ma eziandio secondo la interpretazione del nome. Alfeo è interpretato: ammaestrato, ovvero ammaestramento, ovvero fuggitìo, ovvero cavaliere. È detto Jacopo d'Alfeo, perché fu ammaestrato per scienza che gli fu espirata; è detto ammaestramento, perché ammaestrò gli altri; è detto fuggitìo dal mondo per lo spregio; è detto cavaliere uno perché si riputòe umile. Fratello del Signore è detto, però che si dice ched elli sì li fue molto simigliante, intanto che molti credeano, ed erano ne la sua fattezza ingannati. Onde quando gli giuderi andavano a prendere Cristo, acciò che li giuderi per errore non prendessono san Jacopo in luogo di Cristo, ricevettero da Giuda il segnale del bascio; imperò che Giuda, come famigliare di loro, discernea troppo bene Cristo da san Jacopo. E di ciò dà testimonianza santo Ignazio ne la Pistola la quale e' manda a santo Giovanni Evangelista, ove dice così: "Sed elli m'è lecito, io voglio venire a te in Gerusalem, per vedere quello venerabile Jacopo il quale ha soprannome Giusto; il quale raccontano che fu molto simigliante a Cristo Jesù nel volto e ne la vita e nel modo di conservare e conversare, come fosse nato binato d'uno medesimo corpo fratello carnale. Che dicono, che s'io vedrò lui, sì vedrò esso Jesù, secondo tutte le regole del suo corpo". Ovvero ch'è detto Jacopo fratello del Signore, imperò che secondamente che Cristo e san Jacopo discesero da due serocchie, così si credea che fossoro discesi da due fratelli, cioè da Gioseppo e da Cleofa. E non è elli detto fratello del Signore perché fosse figliuolo di Giuseppo, sposo di santa Maria, d'un'altra moglie, come altri vogliono dire; ma che credea figliolo di Maria, figliuola di Cleofa, il quale Cleofa fu fratello di quello Gioseppo, avvegnadio che 'l maestro Giovanni Beleth dica che Alfeo, padre del detto Jacopo, fosse fratello di Gioseppo, sposo di santa Maria. E ciò non si crede che sia vero. Sì che gli giuderi chiamano fratelli coloro che s'appartenevano da l'uno lato e da l'altro del parentado; ovvero ch'è detto fratello del Signore per la prerogativa e per la eccellenzia di santitade, per la quale sopra tutti gli altri apostoli fu ordinato vescovo di Gerusalem. È detto ancora Jacopo minore a differenza di Jacopo Zebedei; avvegna che Jacopo minore nascesse prima di lui, ma pure fu chiamato da Cristo dipoi; onde ancora s'osserva questa usanza in molte contrade che colui che prima entra, maggiore è chiamato, e colui che entra poscia è chiamato minore, avvegna che sia primaio, e per etade che sia maggiore, o per santitade che sia più santo. È detto ancora Jacopo Giusto per lo merito de l'eccellentissima santitade; ché, come dice san Gironimo, di tanta reverenzia e santitade fue nel popolo, che tutti disideravamo di toccare l'orlo del suo vestimento, e di ciò ne combattìeno insieme. Onde de la sua santitade scrive così Egesippo, vicino de li apostoli, sì come si legge ne le Storie Ecclesiastiche, e dice così: "Ricevette il governamento de la Chiesa il fratello del Signore Jacopo, lo quale è sopracchiamato Giusto, e così duròe da quelli temporali del Signore infino a noi. Questi fue santo d'infino ch'elli uscìe del ventre de la madre, vino e cervigia non bevve, carne non mangiò mai, ferro non gli montò mai in capo, d'olio non s'unse, bagni non usòe, di vestimento di lino non si vestìo. Tante volte avea poste le ginocchia in terra ne l'orazione, che pareva che n'avesse così calli ne le ginocchia come ne le calcagna. Per questa incessabile e somma giustizia fu appellato giusto e abba, che è interpretato armamento del popolo e giustizia. Costui solo fra gli apostoli, per la molta santitade di lui, era lasciato entrare in casa santa santorum". Queste cose disse Egesippo. Dicesi ancora che fue il primo de li apostoli che Messa cantasse; ché, per l'eccellenzia de la sua santitade questo onore gli fecero gli apostoli che, dopo l'ascensione del Signore, fue lo primo tra loro che dicesse Messa in Gerusalem, eziandio innanzi che fosse ordinato vescovo; con ciò sia cosa che innanzi che fosse ordinato si legga ne gli Atti de li Apostoli che li discepoli erano perseveranti ne la dottrina de li apostoli e ne la comunicazione del rompimento del pane, la quale cosa s'intende del cantare la Messa; ovvero però si dice che fosse il primo che cantò la Messa, imperò che si dice che prima disse la Messa in ornamento vescovile, sì come san Piero poi la disse prima in Antiochia, e san Marco in Alessandria. Questi stette in perpetuale virginitade sì come testimonia san Geronimo nel libro contra Joviniano. Il venerdì santo, morto il Signore, sì come narra Josefo e san Geronimo ne' libri de' Gentili Uomini, questo sa' Jacopo fece boto di non manicare infino a tanto che vedesse il Signore essere risucitato da morte. E il die di risurresso, non avendo ancora infino a quello die sa' Jacopo assaggiato nulla, il Signore sì li apparve e disse a coloro ch'erano con lui: "Ponete la mensa e 'l pane". Poscia tolse el pane e diedelo a sa' Jacopo giusto, così dicendo: "Leva su, fratello mio Jacopo, mangia, imperò che 'l figliuolo de la Vergine è risucitato da morte". Sì che nel settimo anno del suo vescovado, essendo raunati gli apostoli in Gerusalem, domandavagli san Jacopo com'avessero fatto, ed ellino raccontavano innanzi a tutto il popolo quante cose il Signore avea fatte per loro. Con ciò dunque che sa' Jacopo avesse predicato sette dì nel tempio, con gli altri apostoli, dinanzi a Caifasso e ad alcuni de' Giudei, ed essendo già presso a volere essere battezzati, subitamente entrando uno nel tempio, cominciò a gridare e disse: "O uomini d'Israel, or che fate voi? perché vi lasciaste ingannare da questi magi?" E intanto commosse tutto il popolo ched e' volevano lapidare gli apostoli. Sì che quello uomo salìo in sul grado ove sa' Jacopo predicava e fecelo traboccare di suso, dov'era, in terra; e d'allora innanzi zoppicò molto. In questo settimo anno dopo l'ascensione di Cristo, fu dato questo martirio a sa' Jacopo. Ma nel trentesimo anno del suo vescovado veggendo gli giuderi che non poteano uccidere Paolo, imperciò ch'elli avea appellato a lo 'mperadore, ed era mandato a Roma, la crudelezza de la sua persecuzione si convertiero in sa' Jacopo, cercando di cagione contra lui. E sì come il detto Egisippo, il quale fu nel tempo de gli apostoli, racconta, sì come si truova scritto ne le Storie Ecclesiastiche, li giuderi sì si ragunarono a lui e dissero: "Noi ti preghiamo che tu rechi il popolo a la vera credenza; ched elli erra malamente in Gesù, pensando che sia Cristo. Sì che noi ti preghiamo che tu dica a tutti quelli che si ragunano il dì de la Pasqua, quello che ti pare di Gesù; e noi ti ubbideremo tutti, e noi porteremo testimonianza, altressì il popolo come noi, di te come tu se' giusto; e non ti cale più d'uno che d'un altro". E così il puosero in su la sommità del tempio e a grande boce gridarono e dissero: "O molto più giusto di tutti gli altri uomini, la quale noi dovemo ubbidire, imperò che 'l popolo erra dopo Jesù, il quale è crocifisso, annunziaci quello che a te ne pare". Allora sa' Jacopo con grande boce rispuose: "Di che mi domandate voi del figliuolo de la Vergine, ecco che siede a la diritta parte di Dio in cielo, dal diritto lato de la sovrana virtude, e dee venire a giudicare li vivi e morti". Udendo ciò li cristiani rallegraronsi molto e volontieri l'udirono; ma i farisei e li scribi dissero: "Male abbiamo fatto di dare tale testimonio di Jesù; ma montiamo suso e facciamolo traboccare giù, acciò che gli altri se ne spaventino e non gli ardiscano di credere". E gridarono insieme a grande boce, così dicendo: "Oh! oh! il giusto hae errato!" E così salirono suso e traboccarollo in terra. E quando l'ebbero traboccato, sì 'l copriano di pietre e dicevano: "Lapidiamo Jacopo giusto". Il quale così abbattuto non solamente non potette morire, ma rivolsesi e stava ginocchione così dicendo: "Priegoti, messere, che tu perdoni loro che non sanno che si fare". Allora uno de' preti de' figliuoli di Rahab gridòe: "Io vi priego che voi gli perdoniate; or che fate voi? Per voi adoro questo giusto, lo quale voi allapidate". Allora uno di loro tolse una grande pietra, ovvero pertica, e diedegli uno grande colpo in sul capo, sì che il cervello gli uscì del capo. Insino a qui dice Egisippo. E per cotale martirio n'andòe al Signore e fu sotterrato quiviritto, presso al tempio. E volendo il popolo vendicare la sua morte e prendere i malfattori e punirli, sì si fuggirono. Racconta Giuseppo che per lo peccato di santo Jacopo giusto avvenne la distruzione di Gerusalem e 'l dispargimento di giuderi. Ma non solamente per la morte di sa' Jacopo, ma per la morte di Cristo spezialmente, avvenne questa distruzione, secondo che dice il Signore nel Vangelio: "Non lasceranno in te pietra sopra pietra, però che non conoscesti il tempo della tua visitazione". Ma per ciò che Domenedio non vuole la morte del peccatore e perché non avessero quindi scusa, XL anni gli aspettò a penitenzia, e per li apostoli, massimamente per sa' Jacopo, fratello del Signore, predicante a loro, li richiamava a penitenzia. Ma non potendogli richiamare per ammunizioni, vollegli almeno spaventare per segnali da cielo; però che in questi XL anni che furono dati loro a penitenzia, avvennero molte maraviglie e segni, come narra Gioseppo, che dice che: "Una stella rilucente per tutto, simigliante a spada, parve che stesse sopra la cittade e per tutto l'anno ardea con mortalissime fiamme. In una festa di pani azzimi, entro l'ora nona de la notte, tanto splendore attorneiò l'altare e 'l tempio che tutti pensarono che si facesse chiarito die. Ne la detta festa una vitella, ch'era menata a sacrificare fra le mani de li ministri, subitamente parturìo una agnella. E dopo alquanti dì, tramontato ch'era il sole, furono veduti carri e quadrighe per l'aere per ogne contrada, e schiere d'armati mischiarsi ne le nuvole, e cittadi attorneate da schiere non provvedute. In un'altra festa, che si chiama Pentecoste, li sacerdoti, entrati la notte nel tempio a compiere i loro mestieri, com'era usanza, sentirono alcuni stropicci e movimenti, e udirono voci subitane che dicevano: "Passiamo oltre e leviamoci da queste sedie". Ancora il quarto anno innanzi la battaglia, uno uomo che avea nome Jesù, figliuolo d'Anania, ne la festa de le tende, ripentemente cominciò a gridare, e dicea: "Boce da levante e boce da ponente, boce da quattro venti, boce sopra Gerusalem e sopra il tempio, boce sopra li sposi e le spose, boce sopra tutto il popolo". Sì che il detto uomo fu preso e battuto, ma non potendo dire altro, quanto più era battuto, tanto gridava più forte quelle medesime parole. Sì che il menarono al giudice, ed elli l'afflissero di crudeli tormenti, isquarciaronli le carni intanto che l'ossa si vedevano. Ma elli non mandava fuori lagrima né preghiera, ma con uno cotale urlato per tutto proffereva quasi quelle medesime parole, aggiugnendovi ancora queste: "Guai, guai a Gerusalem!" Così dice Gioseffo. Ma non convertendosi li giuderi per ammonizioni, né spaventandosi per tante maraviglie e così grandi, dopo il quarantesimo anno fece Domenedio venire a Gerusalem Vespasiano e Tito, che la disfeciono infino al fondamento. E questa fu la cagione del loro venire in Gerusalem, come si truova scritto in una storia, avvegna che non sia bene approvata. Veggendo Pilato com'elli avea condannato Jesù sanza colpa, temendosi d'avere offeso Tiberio imperadore, per sua scusa mandò uno messo, che avea nome Albino, a lo 'mperadore. In quello tempo Vespasiano tenea la signoria in Galazia da Tiberio imperadore; sì che il messo di Pilato fu cacciato da venti contrarii insino in Galazia, e fu menato dinanzi a Vespasiano. Or v'era cotale usanza, che chiunque rompesse in mare fosse sottomesso al prencipe de la contrada per avere e per servitudine. E Vespasiano il domandò chi e' fosse o donde venisse o dove n'andasse. Il messo rispuose: "Io sono di Gerusalem, e sono venuto di quelle parti, e andavane infino a Roma". Disse Vespasiano: "Di terra di savi vieni, dei sapere d'arte di medicina; se' medico: de'mi guarire". Però che Vespasiano avea da fanciullezza una generazione di vermini innestata ne le nari, onde da vespe era detto Vespasiano. E quello uomo disse: "Messere, io non m'intendo d'arte di medicina, e però non ti posso guarire". Rispuose Vespasiano: "Se tu non mi guarirai, tu morrai di morte". E quelli disse: "Colui che alluminòe e' ciechi, e cacciò i demoni, e sucitòe e' morti, quelli sa che io non so d'arte di medicare". Disse Vespasiano: "Chi è questi del quale tu di' così grandi fatti?" E l'uomo disse: "Jesù Nazzareno lo quale i giuderi per invidia uccisono, nel quale se tu crederrai, sì potrai avere grazia d'essere sano". Disse Vespasiano: "Io credo che colui il quale sucitòe li morti, sì mi potrà anche liberare da questa infermità". E dicendo lui queste cose, le vespe gli uscirono del naso e incontanente riebbe santade. Allora Vespasiano ripieno di grande allegrezza, sì disse: "Io sono certo che figliuolo di Dio fue, il quale m'ha potuto guarire, sì ch'io domanderò parola a lo imperadore, e anderonne in Gerusalem con grande oste, e tutt'i traditori e ucciditori di costui metterò per terra insino al fondamento". E disse ad Albini messo di Pilato: "Con mia parola torna a casa tua sano ed allegro d'avere e di persona". Venne dunque Vespasiano a Roma ed impetròe la licenzia da Tiberio imperadore di distruggere la Giudea e Gerusalem. Sì che per molti anni ragunò l'oste grande, cioè al tempo di Nerone imperadore, quando i giudei s'erano rubellati a lo 'mperio di Roma. Onde (secondo che dicono le Croniche) non fece ciò per amore di Cristo, ma perché s'erano scostati da la signoria de' Romani. Venne dunque Vespasiano a Gerusalem con grande oste e nel die de la Pasqua assediò Gerusalem intorno intorno con grande potenzia, e rinchiusevi entro innumerabile moltitudine di gente ch'era venuta a la festa. Per alcuno tempo, innanzi che Vespasiano venisse a Gerusalem, i cristiani che v'erano dentro ricevettoro ammonizione da lo Spirito Santo che si partissono quindi e cansarsi in uno castello di là dal fiume Giordano che si chiama Pella, acciò che, rimossi de la città i santi uomini, fosse luogo da fare vendetta sì de la città maladetta come del popolo scellerato. E vennesene, primieramente che tutte, ad una città di Giudea, ch'avea nome Jonapatam, ne la quale era Gioseffo prencipe e duca; ma Gioseffo contrastava francamente co' suoi. A la perfine, veggendo Gioseffo che la città non si potea più tenere, tolse seco XI giuderi ed entrò in una casa sotterra, là ove, essendo afflitti di fame per quattroi Giudei, contra la volontà di Giuseppo, volevano anzi morire iveritto che sottomettersi a la servitudine di Vespasiano; e volendosi anzi uccidere insieme e' offerero il sangue loro a Domenedio per sacrificio. E perché Gioseffo tra loro era più nobile, sì lo volevano prima uccidere, ché per lo spargimento del suo sangue Domenedio fosse più tosto rappagato, ovvero (come si dice ne la Cronica) però si volevano uccidere insieme, per non essere dati ne le mani de' romani. Ma Gioseffo, uomo savio e non vogliente morire, sì si misse giudice del sacrificio e de la morte, e fece mettere le sorti quale dovesse prima uccidere l'uno l'altro tra due e due. Sì che messe le sorti, la sorte dava a morire ora l'uno ora l'altro, tanto che vennero a l'ultimo col quale doveva mettere le sorti a Gioseffo. Allora Gioseffo, uomo valentre e leggiero, sì li tolse di mano il coltello, e dimandollo quale elli eleggeva anzi, o la vita o la morte, e comandandoli che sanza indugio eleggesse. E quegli, temendo, rispuose: "Io non ricuso di vivere se per tua bontade posso conservare la vita". Allora Gioseffo parlò celatamente ad uno famigliare di Vespasiano e anche suo conto, e domandò che li fosse donata la vita; e quello ch'elli domandò sì ebbe. Ed essendo menato Gioseffo dinanzi a Vespasiano, Vespasiano gli disse: "La morte avevi meritato se con queste domandagioni tu non fossi stato diliberato". Rispuose Gioseffo: "Se male è stato fatto per adrieto, sì si puote amendare". Disse Vespasiano: "Che potrà fare quegli ch'è vinto?". Rispuose Gioseffo: "Alcuna cosa potre' fare, se tu inchinerai l'orecchie tue a le mie parole". Disse Vespasiano: "Siati conceduto di parlare, e ciò bene che tu dei dire, sia udito pacificamente". Rispuose Gioseffo: "Lo imperadore di Roma è morto, e' sanatori t'hanno fatto imperadore". Disse Vespasiano: "Se tu se' profeta, perché non hai tu indovinato a questa cittade ch'ella dovea essere sottomessa a la mia signoria?". Disse Gioseffo: "Quaranta dì dinanzi il dissi loro" Infrattanto vegnono i legati de' romani, ch'affermano come Vespasiano è aggrandito a lo 'mperio, e sì ne menano a Roma. E ciò dice Eusebio ne la sua Cronica, cioè che Gioseffo predisse a Vespasiano sì de la morte de lo imperadore, come de lo esaltamento suo. Sì che Vespasiano lasciò Tito, suo figliuolo, a l'assedio di Gerusalem; ma Tito, come si legge in una cotale scrittura non approvata, cioè quella medesima, udendo che 'l padre era fatto imperadore, tanta allegrezza e sì grande letizia empié lui, che, per diventare attratte le nerbora e per frigidezza, si guastò la persona; e da l'altra parte, infrailita la gamba, li venne la parlasia. E udendo Gioseffo che Tito era infermato, cerca diligentemente la cagione de la infermitade e che infermitade era. E 'l tempo quanto il prese e la cagione non si sa, e la infermitade non si sa, ma del tempo trovò che ciò gl'intervenne poi che ebbe udito de la elezione de lo 'mperadore. Ma Gioseffo, uomo prudente e savio, intese in poco assai, e per lo tempo comprese la infermitade e la cagione, sappiendo che per la larghezza e per la letizia soprabbondante era indebolito. E pensando che le cose contrarie si sanano con le contrarie, sappiendo ancora che quello che si domanda con amore spesso si perde con dolore, cominciò a spiare se nessuno fosse tenuto colpevole di nimistà di questo grande principe. E avevasi uno servo che era tanto a noia a Tito, che per neuno modo il potea vedere che fortemente non si turbasse neanche udire il suo nome; sì che disse a Tito: "Se tu vuogli essere sano, fa salvi tutti coloro che vennero in mia compagnia". Disse a lui Tito: "Chiunque verrà in tua compagnia sia avuto salvo e sicuro". Allora Gioseffo comandò che fosse fatto un desinare, e ordinòe la sua tavola a dirimpetto a quella di Tito, e fecesi sedere a lato qui quello servo. Veggendolo Tito fu conturbato per la noia e addolorò e, sì come di prima era infreddato per la letizia, riscaldossi in tal modo per l'accendimento de l'ira, che distese le nerbora e fue guerito. Dopo questo ricevette Tito il servo in sua grazia, e Gioseffo in sua amistade. Assediata dunque Gerusalem per due anni da Tito, infra gli altri mali che strigneva gravemente gli assediati tanta fame venne a tutti, che i padri a' figliuoli, e ' figliuoli a' padri, li mariti a le mogli, e le mogli a' mariti rappavono e rubavano i cibi non solamente di mano, ma di fra ' denti. Ancora li giovani più forti de la persona andavano per le vie come idoli, e cadevano morti di fame; quegli che sotterravano i morti, spesse volte, sopra i detti morti cadevano morti. E non potendo sofferire il puzzo de' corpi morti, sì gli sotterravano a le spese comuni; ma vegnendo meno la spesa, e vincendo la moltitudine de' corpi morti, sì si gittavano i corpi da terra de le mura. E attorneando Tito la cittade, veggendo le valli piene di corpi morti, e tutto il paese corrotto del loro puzzo, levòe le mani suso a cielo, con lagrime dicendo: "O Iddio, tu vedi bene ch'io non fo queste cose". Ancora v'aveva tanta fame, che i calzari e le corregge loro mangiavano. Sopra tutto questo sì v'era una donna nobile di sangue e di ricchezze, che, come si legge ne le Storie Ecclesiastiche, essendole entrati rubatori in casa e spogliatala d'ogni cosa, non essendole rimaso nulla in casa che mangiare, prese uno suo figliuolo che ancora poppava e, tenendolo ne le mani, disse: "Disavventurato figliuolo de la disavventurata madre, in battaglia, in fame, in ruberia, a cui ti serberò io? Vieni dunque testeso, o mio figliuolo, sie cibo a la madre, e sie furore a rubatori, pare favole al mondo". E, dette queste cose, segò la gola al figliuolo e cosselo, e 'l mezzo si mangiò e l'altro nascose. Ed eccoti incontanente rubatori che sentivano l'odore de la carne cotta, iscorrono ne la casa e minaccionla de la morte sed ella non mostra la carne. Allora quella, scoprendo le membra del fanciullo, sì disse: "Ecco che v'abbo riserbato la maggiore parte". Coloro furono sì sbigottiti e spaventati d'orrore, che non poteano parlare. E quella disse: "Egli è il mio figliuolo, e mio è il peccato; mangiate sicuramente, però ch'io n'abbo prima di costui mangiato, lo quale io ingenerai; non diventate più onesti che la madre, o più molli che le femmine, e se la pietà vi vince e avetene orrore, io il mangerò tutto, lo quale abbo già mangiato mezzo". Coloro si partirono tementi e spaventati. A la perfine, nel secondo anno de lo 'mperio di Vespasiano, Tito prese Gerusalem; e, presa che l'ebbe, misse per terra ogne cosa e disfece il tempio infino a fondamento, e come gli giudei aveano comperato da Giuda Cristo XXX danari, così elli vendeo li giudei XXX per uno danaio. E sì come narra Gioseffo LXXXXVII migliaia furono quelli che furono venduti e XI volte centinaia di migliaia ne perirono di fame e di coltello. E leggesi che Tito, entrando in Gerusalem, vidde uno muro molto spesso e fecelo forare e, fatto il foro, sì vi trovarono uno bello massaio, appariscente e canuto, e dimandato chi e' fosse, rispuose ch'era Gioseppo da Arimatea, città di Giudea; e disse che i giudei l'avevano rinchiuso là entro, e murato, perché elli avea soppellito Cristo; ancora disse che da quello tempo, infino allora, era pasciuto di celestiale cibo, e confortato del lume divino. Ma nel Vangelio di Niccodemo è scritto che abbiendolo rinchiuso i giuderi, Cristo risucitando da morte, sì lo ne trasse e rimenollo in Arimatia. Puotesi dire, con ciò sia cosa che 'l detto Gioseffo non rimanesse di predicare Cristo, che fu rinchiuso un'altra volta da' giuderi. Morto Vespasiano imperadore, Tito suo figliuolo gli succedette ne lo 'mperio. Il quale fu uomo pietosissimo e di molta cortesia, e fu di tanta bontade, come dice Eusebio di Cesarea ne la Cronica, e affermalo san Geronimo, che essendosi costui ricordato una sera ovvero che non aveva fatto neente di bene, ovvero che non avea donato nulla, disse: "O amici miei, questo dì abbo perduto". E dopo lungi temporali, volendo alcuni giudei rifare Gerusalem, uscendo fuori la prima mattina, trovarono molte croci di rugiada, e eglino spaventati si fuggirono. E ritornando la seconda mattina, sì come dice Mileto ne la sua Cronica, catuno sì si trovò fatte croci sanguigne a le vestimenta. Ed eglino ispaventati fortemente, sì si missero a fuggire un'altra volta. Ma la terza volta ritornati, furono morti dal fummo del fuoco che usciva di terra.
cap. 64, Invenzione CroceLa invenzione, cioè il trovamento de la santa Croce, è detta perché in cotale die si dice che fu trovata. Che prima innanzi fu trovata da Seth, figlio d'Adamo, nel Paradiso terrestro, sì come si narra più giù ne la Storia; anche fu trovata da Salamone nel Libano, anche da la reina Saba nel tempio di Salamone, anche da li giuderi ne l'acqua de la pescina; ma oggi è trovata da santa Elena nel monte Calvari. La invenzione de la Croce santa si fue il dugentesimo anno de la resurressione di Cristo; ché si legge nel Vangelio di Niccodemo che, essendo Adamo infermo, Set, suo figliuolo, se n'andò infino a le porte del Paradiso terrestro domandando l'olio de la misericordia col quale ugnesse il corpo del padre, e ricevesse santade. Al quale apparendo san Michele angelo, sì li disse: "Non ti affaticare, e non piangere per avere l'olio del legno de la misericordia, imperò che in veruno modo non lo potrai avere se non quando saranno compiuti mille cinquecento anni". Avvegnadio che da Adamo insino a la passione di Cristo si crede che fossero cinque milia e cento trentatré anni. In altro luogo si legge che l'angelo sì gli diede uno ramicello e comandò che fosse piantato nel monte di Libano. Ma in un'altra storia di Greci, avvegna che non sia autentica, sì si legge che l'angelo gli diede di quello legno nel quale Adamo peccòe; e disse così: che quando elli facesse frutto, il padre sarebbe guarito e sano. Ed egli tornando al padre e trovandolo morto, piantò quello ramuscello sopra l'avello del padre e, piantato che fue, crebbe uno grande albore e duròe insino al tempo di Salomone. Se queste cose sono vere, rimangano a la sentenzia di chi le legge. Sì che Salamone considerando che quello era così bello albore, comandò che si tagliasse e mettessesi in luogo boscoso. Ma non si trovava luogo veruno come dice Giovanni Beleth, ov'elli stesse, né dov'elli si potesse acconciamente mettere, ma o v'era troppo grande, o v'era troppo piccolo; e se per acconciarlo in veruno luogo ne mozzassero neente ragionevolemente, sì parea tanto piccolo che non vi ricadea al postutto bene. Laonde gli artifici adirati sì riprovarono e gittarolo in uno luogo perché fosse ponticello a' viandanti. E la reina Saba essendo venuta a udire la sapienzia di salamone, e volendo passare il detto laghetto, dove il legno era posto, vidde per ispirito che 'l Salvatore del mondo dovea essere impiccato in quello legno; e però non volse valicare sopra quello legno, ma sì lo adoròe immantanente. Ma ne le Storie Ecclesiastiche si legge che la reina Saba vidde il detto legno ne la Casa del Salto, ed essendo tornata a casa sua, mandò a dire al re Salamone che in quello legno dovea essere appiccato uno per la cui morte il reame di giudei sì si dovea distruggere. Sì che Salamone fece il detto legno rimuovere, e fecelo sotterrare ne le profondissime interiore de la terra. Poscia fu fatta ivi la probatica pescina, là dove quelli di Natan lavavano i sacrifici; e non solamente per lo discendimento de l'angelo, ma ancora per la vertude di quello legno, si crede che vi intervenìa il commovimento de l'acqua, e la curazione de li infermi. Ma appressimandosi il tempo de la passione di Cristo, sì si dice che quello legno andava a galla ne l'acqua; e abbiendolo veduto i giuderi, sì 'l tolsero e conciaronne la croce di Cristo. E la detta croce di Cristo si dice che fu di quattro maniere di legno, cioè di palma, d'arcipresso, d'ulivo e di cedro. Onde dice un verso: "Ligna crucis palma, cedrus, cypressus, oliva". Ne la croce furono queste quattro differenze di legni, cioè il legno ritto e 'l legno per traverso e la tavola disopra posta e 'l ceppo in ch'ella fu commessa; ovvero, secondo il detto di Gregorio di Tornio, la tavola che stette per traverso, sotto i piedi di Cristo. Catuno di questi poté essere d'alcuno de' detti legni. Questa differenza di legni pare che voglia dimostrare l'apostolo, quando dice: "Acciò che voi possiate comprendere con tutt'i santi, qual sia l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e 'l profondo". Le quali parole sponendo san Gregorio, sì dice: "Che questo è la croce del Signore la cui ampiezza sì si dice nel legno per traverso, nel quale sono distese le mani; la larghezza pone da terra infino a la detta ampiezza, la quale è confitta da le mani giù per tutto il corpo; l'altezza s'intende da l'ampiezza infin suso, a la quale s'appoggia il capo; il profondo si è quello cotanto che stette sotterra". Questo legno prezioso de la Croce stette nascoso sotterra CC anni e più, ma fu ritrovato da santa Elena, madre di Costantino imperadore, in questo modo. In quello tempo sì si raunòe a lato al fiume Danubio una innumerabile gente barberesca, che volevano valicare il fiume e tutte le contrade, infino in Oriente, sottomettere a la loro signoria. La qualcosa avendo spiato Costantino imperadore, mosse il campo e allogossi co' suoi de l'oste sua a rimpetto del detto fiume. E crescendo la moltitudine de' barberi e già valicando il fiume, Costantino sì si mosse da grandissima paura veggendo ch'ellino doveano l'altra die combattere con lui. Sì che la notte vegnente fu isvegliato da l'angelo, e ammaestrato da lui che dovesse ragguardare in su. E quegli ragguardando in cielo, vidde il segno de la santa Croce, fatto di chiarissimo lume; e avea questa soprascritta fatta di lettere d'oro: "In questo segno sarai vincitore". Il quale essendo de la celestiale visione confortato, fece una simiglianza di croce e comandò che si portasse innanzi a l'oste sua; e vegnendo sopra i nemici sì li misse tutti a fuggire e uccisene grandissima moltitudine. Allora Costantino chiamòe tutti i pontefici de l'idole e dimandolli di che Iddio questo segno fosse. Dicendo quelli di non sapere nulla, vennero alcuni cristiani e mostrarolli pienamente il misterio de la santa Croce e la fede de la Trinitade. Il quale credendo allora perfettamente in Cristo, ricevette il battesimo da Eusebio, papa ovvero, secondo alcuni libri, vescovo di Cesarea. Ma in questa Storia si pongono molte cose a le quali contraddice la Storia Tripartita e l'Ecclesiastica, e la Storia di santo Silvestro, e la Gesta di Pontefici romani. Secondo che vogliono dire alcuni, non fue questo Costantino imperadore, quello che fue battezzato da san Salvestro papa, e convertito da lui a la fede, come alcune storie vogliono dare a vedere; ma fue Costantino padre di questo Costantino, sì come si truova in alcune storie. Che quello Costantino venne per altro modo a la fede, sì come si legge ne la leggenda di santo Silvestro; né non si dice che fosse battezzato da Eusebio, ma da Salvestro. Ma morto quello Costantino, l'altro Costantino, ricordandosi de la vittoria che 'l padre aveva avuta per vertù de la santa Croce, sì mandò Elena sua madre in Gerusalem per ritrovare la santa Croce, sì come detto è disotto. Ma la Storia Ecclesiastica pone questa vettoria per altro modo fatta. Ché dice che abbiendo assalito Massenzio imperadore lo 'mperio de' romani, Costantino imperadore venne a combattere con Massenzio appresso il ponte di Albino. Essendo dunque Costantino molto angoscioso, e levando gli occhi spesso al cielo per esserli mandato aiuto, vidde per sonno, a la parte del levante in cielo, il segno de la Croce, isplendiente di splendore di fuoco e angeli che li stavano presenti e dicevano a lui: "O Costantino, in questo segno vincerai". E sì come dice la Storia Tripertita, mentre che Costantino si maravigliava quello che ciò fosse, la notte sopravvegnente gli apparve Cristo col segno che quelli vide nel cielo, e comandò che fosse fatta una figura del segno, la quale apportasse aiutorio a l'entrate de le battaglie. Allora Costantino fatto lieto e già sicuro de la vittoria, sì si disegnòe ne la fronte il segno de la Croce ch'egli avea veduto in cielo, e trasforma il gonfalone da combattere in segnali de la Croce, e porta in mano diritta una croce d'oro. Poscia pregòe Domenedio che nol lasciasse macolare la sua mano diritta, la quale avea armata col segno di salute, col sangue de' romani; ma che, sanza ispargimento di sangue, gli desse vittoria di quello tiranno. Ora avea Massenzio fatto fare la trappola, composte le navi al fiume, e posti e' ponti disotto ad iguagliare. E approssimandosi già Costantino al fiume, Massenzio gli si fece incontro con pochi molto tosto, e comandò che gli altri gli tenessero dietro; e dimenticandosi de l'opera ch'elli avea fatta, saltò in sul ponte con alquanti, e de la trappola con che volle ingannare Costantino, rimase ingannato, e affondòe nel fiume profondo; e Costantino fue ricevuto da tutti concordevolemente. E secondamente che si legge in una Cronica assai autentica, Costantino non credette allora perfettamente, né ricevette allora il santo battesimo, ma, passato piccolo temporale, vidde quella visione di san Piero e di san Paulo, e fu rinato nel santo battesimo per mano di santo Silvestro papa, e fu mondato de la lebbra. Allora da indi innanzi credette perfettamente in Cristo, e così mandò la madre sua in Gerusalem, acciò che cercasse de la Croce di Cristo. Ma santo Ambruosio, ne la Pistola ched elli fece de la morte di Teodogio imperadore, e la Storia Tripertita sì dice che inverso la fine indugiòe il battesimo per potere essere battezzato nel fiume Giordano. E ciò medesimo dice san Geronimo ne la Cronica. Ma certo è che, al tempo di santo Silvestro papa, divenne cristiano; ma s'elli indugiòe il battesimo questo è in dubbio, onde anche di quella leggenda di santo Silvestro si dubita altressì quanto a molte cose. Adunque questa storia del trovamento della santa Croce, la quale si truova ne le Storie Ecclesiastiche, col quale s'accorda la Cronica, pare che sia più autentica che quella che si legge per le chiese. Però che manifesta cosa è che molte cose v'ha entro che non paiono vere, s'altri non volesse già dire, come detto è disopra, che non fue Costantino, ma Costantino suo padre; la qualcosa impertanto non pare molto autentica, avvegna che si truovi in alcune storie oltramarine. Ed essendo venuta Elena in Gerusalem, fecesi raunare tutti i savi di giuderi, che fossero trovati per tutto il paese. E questa Elena, come dice santo Ambrosio, era stata di prima una stalliera; e dice così e afferma che "Costei fu stalliera, ma fue congiunta a Costantino vecchio, il quale acquistò poscia il reame; buona stalliera fu questa, che andò così diligentemente caendo la mangiatoia del Signore! buona stalliera fue, la quale cognobbe quello istalliere, il quale curòe le piaghe di quello piagato da i ladroni! buona stalliera fu, la quale volle maggioremente tutte le cose del mondo estimare letame per potere guadagnare Cristo! E però la levò Cristo di letame a reame". Queste parole sono di santo Ambruosio. Altri sono che dicono altrimenti. E leggesi in alcuna altra Storia, cioè Cronica, che questa Elena fue figliuola di Cloele, re di Brettoni, la quale Costantino vegnendo in Brettagna, con ciò fosse cosa che 'l padre non n'avesse più di lei, sì la tolse per moglie, onde l'isola venne a sua mano dopo la morte di Cloele. E di ciò danno testimonianza i detti Brettoni. Or dice che' giuderi, vedendo così ragunare i savi loro, ebbero grande paura, e dicevano l'uno a l'altro: "Perché pensate voi che la reina si faccia raunare questa gente a sé?" E uno di loro, il quale avea nome Giuda, sì disse: "Io so ch'ella vuole sapere da noi là dove sia il legno de la Croce nel quale fue crocifisso Cristo. Or guardate che neuno non ardisca di confessare, e se non, sappiate certissimamente che la legge nostra verrà al niente, e ' comandamenti de' nostri antichi saranno al tutto distrutti, ché Zacheo mio avolo il prenunziòe a Simone mio padre; e 'l padre mio, vegnendo a morte, sì lo disse a me in questo modo: "Guarda, figliuolo mio, che quando sarà fatto inquisizione de la croce di Cristo, che tu la manifesti innanzi che tu sostegni alcuni tormenti; però che da indi innanzi non regnerà in veruno luogo la gente de' giuderi, ma coloro ch'adoreranno il Crocifisso, imperò ch'esso Cristo è figliuolo di Dio". E io disse a lui: "Or se ' nostri padri conobbero ch'egli era figliuolo di Dio, perché il chiavarono nel tormento de la croce?" E quelli rispuose: "Bene lo sa Dio, ch'io non fui mai nel loro consiglio, ma spesse volte contradissi a loro: ma perch'elli riprendeva li vizii de' farisei, sì lo fecero crucefiggere. E esso risucitòe al terzo die e, veggendolo gli apostoli suoi, trapassòe i cieli. Nel quale credette Stefano tuo fratello, lo quale allapidòe la furia di giuderi. Guardati dunque, figliuolo mio, che tu non sia ardito di bestemmiare né lui né suoi discepoli". Dissero gli giuderi a questo Giuda: "Noi non udimmo giammai cotali cose, ma se la reina dimandasse di ciò, guarda che tu non gliele confessi per veruno modo". Essendo dunque coloro presentati dinanzi a la reina ed ella abbiendoli domandati del luogo dove il Signore fue crocifisso, non vogliendogliele mostrare per neuno modo, comandò che tutti fossono arsi nel fuoco. Coloro avendo paura diederle in sua mano Giuda, così dicendo: "Madonna, costui fu figliuolo d'uno giudeo giusto e profeta, che sa troppo bene la legge, e diratti ciò che tu 'l domanderai". Allora quella gli lasciò tutti e tenne solamente Giuda, e disse a lui: "Or vedi, la morte e la vita t'è posta innanzi; eleggi quale più ti piace, e mostrami il luogo che si dice Golgota, là ove il Segnore fu crocifisso, acciò ch'io possa ritrovare la Croce sua". Rispuose Giuda e disse: "Or come poss'io sapere quello luogo, ché già è più di CC anni passati, e io non nacqui a quello tempo?" Disse la reina: "Io ti prometto per lo Crocifisso di farti morire di fame, se tu non mi dirai la veritade". E comandò che fosse gittato in uno pozzo secco e ivi fosse tormentato di fame. Essendovi dunque stato sei dì sanza cibo, il settimo domandò grazia d'essere tratto fuori, e mostrerebbe la Croce. Essendone tratto, fue venuto al luogo e, fattovi orazione, il luogo si commosse subitamente, e fue sentito fummo di spezie di maraviglioso odore in tal maniera che Giuda si fece grande maraviglia, e levòe ambo le mani al cielo, e disse: "In verità, Cristo, tu se' salvadore del mondo". Or era in quello luogo, come si legge ne le Storie Ecclesiastiche, il tempio de l'idolo Venere, lo quale Adriano imperadore v'avea fatto, acciò che se alcuno di cristiani v'avesse voluto adorare, paresse che adorasse quello idolo; e però per lo spesseggiare poco meno era dimenticato quello luogo, sì che la reina fece disfare quello tempio infino al fondamento e fece tentare il luogo. Poscia venne Giuda e cinsesi e acconciossi per cavare francamente e cavòe venti passi e ebbe trovate tre croci nascoste, le quali apportòe incontanente a la reina. E non sappiendo discernere la croce di Cristo da quelle due de' ladroni, sì le puose nel mezzo de la cittade aspettando ivi la gloria del Signore. Ed eccoti ne l'ora de la terza, portandosi uno morto giovane a sotterrare, Giuda tenne mano al cataletto e puose la prima e la seconda croce sopra il corpo del morto, ma neente risucitòe; puosevi la terza croce: incontanente tornò a vita il morto. Ma ne la Storia Ecclesiastica si legge che, giacendo tra ' morti una grande donna de la città, il vescovo di Gerusalem la puose sopra la prima e la seconda croce, ma non fece prode veruno; puosevi la terza, e la femmina aperse tosto gli occhi e levossi sana e lieta. Ma santo Ambrosio dice che discerné la croce di Cristo da l'altre, per lo titolo che v'avea posto Pilato; lo quale titolo vi trovòe e lesse. E il diavolo gridava per l'aere, e diceva: "O Giuda, perché l'hai fatto? tu hai fatto il contrario che fece il mio Giuda, ché quelli per sodducimento fece il tradimento, e tu, contradicendo me, hai trovata la croce di Jesù. Per colui guadagnai io molte anime, per te pare ch'io le perda, quelle che avea guadagnate; per colui regnava io nel popolo, per te sarò io cacciato fuori del reame. Ma io ti renderò bene il cambio, e suciterò contra di te un altro re, il quale lascerà la fede del crocifisso, e faratti rinnegare con tormenti il Crocifisso". La quale parola s'intende che dicesse di Giuda, che fu fatto vescovo di Gerusalem, e Adriano l'assunse con molti tormenti e fecelo martire di Cristo. Udendo Giuda gridare il diavolo, non temette di nulla, ma con grande costanza maladisse il diavolo, così dicendo: "Condanni te Cristo ne li abissi del fuoco eternale!" Poscia fu battezzato Giuda, e mutòe nome, e fue chiamato Quiriaco, il quale, morto il vescovo in Gerusalem, sì fu fatto vescovo elli quivi in Gerusalem. Ma con ciò fosse cosa che santa Elena non avesse i chiovi del Signore, pregòe il vescovo Quiriaco che andasse al luogo, e cercasse de' chiovi di Cristo. Il quale essendovi venuto, fatto priego a Domenedio, immantanente apparvero i chiovi in terra splendienti come oro; e tolseli di terra e portolli a la reina; e ella, ponendo le ginocchia in terra e chinando il capo, sì li adoròe con molta reverenza. Portòe dunque una parte de la Croce al figliuolo imperadore, e l'altra parte coperse d'ariento, e lasciolla nel luogo. Li chiovi con che il corpo del Signore fue inchiavellato, portòe al figliuolo; de i quali, come narra Eusebio di Cesarea, sì ne compuose i freni ch'elli avea a usare ne la guerra, e de gli altri n'armòe il cappello de lo acciaio suo. Altri sono, come Gregorio di Tornio, che vogliono dire che nel corpo di Cristo furono quattro chiovi, de i quali santa Elena puose due nel freno de lo 'mperadore, e 'l terzo ne la imagine di Costantino puose, la quale a Roma sta sopra la cittade, e 'l quarto gittò nel mare Adriatico, lo quale infino allora era stato divoramento di navicanti; e comandò che questa festa del ritrovamento de la Croce si guardasse solennemente e ogni anno. Santo Ambrogio dice così: "Andò caendo santa Elena i chiovi del Signore e trovogli; e de l'uno fece fare freno, de l'altro adornòe la corona; dirittamente il chiovo nel capo a la corona in testa, redine in mano, acciò che 'l senso sovrastea, la fede risplenda e la potenzia reggia". E Giuliano apostata fece poscia uccidere santo Quiriaco vescovo, per ciò ched e' fue quegli che trovòe la santa Croce, con ciò fosse cosa che il detto Giuliano si sforzasse di spegnere in ogne parte il segno de la Croce. Ché andando elli contra quelli di Persia, cominciò ad invitare san Quiriaco a sacrificare a l'idole, ed esso contraddicendo gli fece Giuliano mozzare la mano ritta, così dicendo: "Questa mano ha scritte già molte pistole, per le quali ha retratti molti da adorare e da sacrificare a l'idoli". Al quale disse santo Quiriaco: "Molto prode m'hai fatto tue, cane sanza senno; però che, prima ch'io credessi in Cristo, spesse volte scrivea pistole e mandavale a le sinagoghe di giudei confortandoli che niuno dovesse credere in Cristo, ed ecco che tu m'hai ora tagliato lo scandolezzo del mio corpo". Allora Giuliano fece colare piombo e metteregliele fece in bocca; poscia fece venire uno letto di ferro fatto come una graticola e fecevi stendere suso santo Quiriaco e spargervi sotto carboni con sale e con sugna. Ma con ciò fosse cosa che san Quiriaco stesse pur fermo, disse a lui Giuliano: "Se tu non vuogli fare sacrificio a l'idole, almeno di' che tu non sii cristiano". E quegli ricusando ciò con grande abbominazione, comandò Giuliano che fosse fatta un'altra fossa e porvi entro serpenti e gittarvi dentro san Quiriaco; ma i serpenti morirono immantanente. Allora comandò Giuliano che fosse messo in una caldaia piena d'olio boglientissimo; e quegli, segnandosi, andossi per volervi entrare di sua spontana volontà. E pregando il Signore che 'l lavasse un'altra volta nel santo battesimo del martirio, Giuliano crucciato, comandò che gli fosse fitto uno cultello per lo cuore. E in questo modo meritòe d'essere confermato in Domenedio. E questa quanta sia la vertù de la Croce, sì si manifesta in quello fedele notaio; lo quale uno ch'era incantatore ingannò e menollo ad uno luogo là dove avea chiamate le demonia, impromettendoli di farlo abbondare di molte ricchezze. Ecco che vidde uno grande saracino nero sedere in un'alta sedia, e d'intorno a sé altri saracini stare ritti con lance e con mazze. Allora quegli domandòe quello incantatore e disse: "Chi è questo fancelletto?" E quelli disse: "Messere, egli è nostro servidore". E 'l dimonio disse a colui: "Se tu mi vuogli adorare ed essere mio servo e rinnegare il Cristo tuo, io ti farò sedere da la mia parte diritta". Ma quegli si fece incontanente il segno de la Croce, e gridòe liberamente come elli era servo di Cristo Salvatore. Sì tosto come s'ebbe fatto il segno de la Croce, tutta quella moltitudine di demoni isparvono. Dopo queste cose entrando una volta il detto notaio nel tempio di santa Sofia con esso il suo segnore, e stando abendue dinanzi a la imagine del Salvatore, vidde il signore suo che la detta imagine avea volti gli occhi sopra il notaio e tenevali molto fissi addosso a colui e molto attentamente il ragguardava. Veggendo ciò il detto signore e maravigliandosene, fece stare il giovane da la parte diritta, e vidde che la imagine avea volti gli occhi anche in quel lato e tene'gli fissi addosso al notaio. Ancora il fece ritornare dal lato manco, ed ecco anche che la imagine rivolse gli occhi, e guatava il notaio come di prima. Allora il Signore lo scongiuròe, e disse a quello notaio che li dovesse dire quello ch'elli li pareva avere meritato appo Dio, laonde la imagine il guatava così; e quelli disse che di neuno bene gli pareva avere coscienzia altro ched elli non avea voluto rinnegare dinanzi al diavolo colui di cui la imagine era.
cap. 65, S. Giovanni a Porta LatinaGiovanni apostolo e vangelista, predicando in Efeso, fu preso dal proconsolo, e invitato di fare sacrificio a l'Iddei. E quelli contradicendo, fu messo in prigione; e fu mandato una pistola a Domiziano imperadore, ne la quale san Giovanni fu nominato mago e incantatore e spregiatore de li dei, e coltivatore del Crocefisso. Sì che, per comandamento di Domiziano, fu menato preso a Roma; e, menato che vi fue, tutti i capelli suoi gli furono rasi del capo per ischernire. Poscia fu comandato che fosse messo in una caldaia d'olio bogliente col fuoco disotto acceso, e ciò fu fatto dinanzi a la porta di Roma, la quale è chiamata Porta Latina. Ma nessuno dolore o pena sentìo dentro san Giovanni in quello olio, anzi n'uscì fuori sanza male veruno. Sì che in quello luogo fu fatta una chiesa da' cristiani, e in quello dìe si fae solennitade da li cristiani, sì come die del suo martirio. Non rimanendosi dunque così da la predicazione di Cristo, per comandamento di Domiziano fu mandato a' confini ne l'isola di Patmos. Né non perseguitavano i romani imperadori gli apostoli perch'ellino predicassero Cristo, ma perch'eglino dicevano ch'egli era Iddio, e ciò era sanza l'autoritade del sanato di Roma, la qualcosa esso dinegava che da neuno fosse fatto. Onde si legge ne la Storia Ecclesiastica che, abbiendo una volta Pilato mandato a Tiberio imperadore lettere di Cristo, e esso Tiberio consentendo che la sua fede fosse da essere ricevuta da' Romani, il senato del tutto il contradisse per ciò che non fu per loro autorità chiamato Dio. L'altra ragione secondo il maestro Giovanni Beleth perché gl'imperadori e 'l sanato di Roma perseguitavano Cristo e gli apostoli, sì e' era perché pare' loro che fosse uno Domenedio troppo superbo e invidioso in ciò che si disdegnava d'avere compagnia. Altra cagione ci ebbe, la quale racconta Orosio; e dice che il senato ebbe troppo per male che Pilato mandò le lettere a Tiberio di miracoli di Cristo, e non l'avea mandate al senato e, secondo la congregazione del sanato, non volse essere messo tra li dei, onde Tiberio adirato fece uccidere molti de' più vecchi, e alcuni ne misse in bando. E la madre di san Giovanni udendo dire che 'l figliuolo n'era menato preso a Roma, da maternale compassione mossa, andòe a Roma per visitarlo; ma essendo giunta a Roma, ed abbiendo inteso com'elli era mandato a confini e, ritornandosi a casa, passò di questa vita quando era in Campania, ne la città Vetulana e andòe a Cristo. Il cui corpo stette uno gran tempo celato sotterra in una spelonca soppellito, ma poi fu rivelato al suo figliuolo Jacopo; il quale corpo, pieno di molto odore e splendiente di molti miracoli, fu traslatato a la detta cittade, con molto onore.
cap. 66, Litanie maggioriLe letane si fanno due volte l'anno, cioè per la festa di san Marco, le quali sono dette letanie maggiori; l'altra volta si fanno tre dì anzi l'Ascensione e sono letanie minori; e tanto è a dire letanie in nostra lingua come priego. Sì che la prima letania è chiamata letania maggiore, secondariamente è detta processione di sette forme, nel terzo luogo è detta croce nere. Letanie maggiore è detta per tre cagioni, cioè per ragione di colui dal quale fue ordinata, ciò fue il grande Gregorio papa di Roma; anche per ragione del luogo dov'ella fue ordinata, cioè a Roma, la quale è donna e capo del mondo in ciò ch'ella si è il corpo del prencipe de li apostoli e la sedia di messere lo Papa; anche per ragione del fatto per lo quale fu ordinata, per ciò che fue per una grande e gravissima infermitade. Però che li romani, essendo vissuti la quaresima in astinenzia, quando venne la Pasqua aveano ricevuto il corpo di Cristo; poscia s'erano dati sanza freno a grandi mangiari e a' trastulli e a la lussuria; laonde il Signore Dio provocato a cruccio, mandò sopra loro una grandissima pestilenzia, la quale chiamano l'anguinaia, quasi come apostema, ovvero enfiatura ne l'anguinaia. E fu tanto crudele quella pistilenzia che li uomini si morivano subitamente ne la via, ne la mensa, giucando e favellando, sì che quando alcuno starnutiva, come si dice, spesse volte innanzi a lo starnuto mandava fuori lo spirito suo. Onde quando altri udiva neuno starnutire, tosto soccorrea con: "Dio t'aiuti!", e così gridava, cioè: "Dio t'aiuti!". E da indi innanzi, dicono che perdura questa usanza che, quando veruno ode starnutire,diciamo: "Dio t'aiuti!". Anche raccontano che quando altri sbadigliava, spesse volte incontanente e di subito mandava fuori lo spirito. Onde quando alcuno si sentiva di volere isbadigliare, immantanente sì si facea il segno de la santa Croce in fretta, e ancora infino al dì d'oggi si tiene questa usanza. E questa pistilenzia in che modo avesse cominciamento, sì si truova ne la vita di san Gregorio. Secondariamente è detta processione di sette forme in ciò che 'l beato Gregorio le processioni, le quali allora faceva, acconciava per sette ordini: ché nel primo ordine era tutto il chericato, nel secondo erano tutti i monaci e religiosi, nel terzo tutte le monache, nel quarto tutti li fanciulli, nel quinto tutti i ladici, nel sesto tutte le vedove e le caste, nel settimo tutte le maritate. Ma quello che noi non possiamo fare nel numero de le persone, sì compiamo nel numero de le letane, imperò che sette volte si debbano dire, innanzi che si pongano giù le 'nsegne. Nel terzo luogo è detta croce nere, per ciò che in segno di pianto di tanta mortalità d'uomini e in segno di penitenzia sì si vestivano gli uomini di vestimenti neri e forse, per la ventura, per quella medesima cagione, coprivano le croci e gli altari di cilici. E così gli debbono prendere gli uomini fedeli vestimenti di penitenzia. L'altra si è detta, letanie minore che si fanno tre dì innanzi l'Ascensione, le quali letanie ordinò santo Mamerto vescovo di Vienna prima che l'altre tre. Ma è detto che sono minori a differenza de la primaia, cioè perché fu ordinata da minore vescovo e minore luogo e per minore piaga. La cagione perché questa fu ordinata, sì fu questa: che a quello tempo venìano a Vienna spessi terremuoti e grandissimi, che metteano per terra le case e molte chiese e s'udivano spesso e' suoni di notte e grida. Avvenne anche un'altra volta terribile cosa allora che 'l dì de la Pasqua venne fuoco da cielo e arse il palazzo del re. Sopra tutto questo si era una più grande maraviglia, ché come i demoni entravano ne li porci, così, per permissione di Dio, entravano ne i lupi e ne l'altre fiere salvatiche per li peccati de gli uomini, e non temendo persona le dette bestie, non solamente per le vie, ma per la cittade andavano palesemente discorrendo, e tratto tratto divoravano i fanciulli e' vecchi uomini e femmine. Sì che avvegnendo così dolorosi avvenimenti tutto die, il detto vescovo impuose digiuno di tre dì e ordinò le letanie, e così rimosse d'essere la detta tribulazione. Poscia fu ordinato per la chiesa e fermato che questa letania s'osservi universalemente. E chiamasi rogazioni, imperò che allora domandiamo l'aiuto di tutt'i santi, e ragionevolemente s'osserva questo modo in questi dì, e soprastiamo a pregare i santi e a digiunare per molte ragioni. L'una si è acciò che Dio pacifici le battaglie, ché più spesse volte s'accendono ne la primavera; la seconda si è che Iddio, conservando, moltiplichi e' frutti e' beni de la terra, che sono ancora teneri; la terza, acciò che i movimenti de la carne, i quali in questo tempo maggioremente bollono, ciascuno mortifichi maggiormente in sé (per ciò che ne la primavera più bolle il sangue e gli inliciti movimenti maggiormente rampollano); la quarta, acciò che ciascuno s'apparecchi meglio a ricevere lo Spirito Santo, però che per lo digiuno se n'acconcia altri meglio, per lo pregare e' santi ne diviene più degno. Due altre ragioni assegna il maestro Guglielmo Altissiodorense: la prima si è, acciò che montando Cristo in cielo e dicendo: "Domandate e avrete", con più fidanza domandi la Chiesa; la seconda si è perché la Chiesa digiuna e òra acciò che abbia poco di diletti de la carne, acciò che, per la macerazione de la carne, acquisti a sé ale per operazione de l'orazione; per ciò che l'operazione de l'orazione è ala de l'anima con la quale vola in cielo, acciò che possa così liberamente seguitare Cristo sagliente, il quale, sagliente e mostrante a noi la via, volòe sopra le penne de' venti. L'uccello che hae assai carne e poche penne, non può bene volare; e ciò si manifesta ne lo struzzolo. Chiamasi anche queste letanie processione, per ciò che la Chiesa fa allora generale processione. In queste letanie si porta la Croce e suonano le campane e portasi il gonfalone, e in alcune chiese si porta un drago con una gran coda, e di tutti i santi singularmente s'adomanda l'aiuto. Però portiamo làe la Croce e soniamo le campane, acciò che i demoni, spaventati, fuggano. Che come il re terreno nel suo oste hae le 'nsegne reali, cioè le trombe e 'l gonfalone, così Cristo eternale ne la sua Chiesa militante hae le campane per le trombe e le croci per gli gonfaloni. E come alcuno tiranno temerebbe molto quando elli udisse in sua terra le trombe e vedesse i gonfaloni d'alcuno re potente o suo nemico; così le demonia, che stanno in questo aere caliginoso, temono fortemente quando sentono sonare le trombe di Cristo, ciò sono le campane, e quando veggono i gonfaloni, ciò sono le croci. E questa è detta la ragione perché la Chiesa costuma di sonare le campane se alcuna volta vede sommuovere alcuna tempestade, acciò che le demonia che fanno ciò, odano le trombe de lo re eternale e così spaventati fuggano e rimangansi da commuovere la tempestade. Avvegna che l'altra ragione sia perché allora le campane ammoniscono i fedeli, ed invitano che stieno in orazione per lo pericolo sopravvegnente. Ancora l'altro gonfalone de lo eternale re è essa Croce, secondo che canta la Chiesa: I gonfaloni del re sono tratti fuori. Il misterio de la Croce splendiente. Lo quale gonfalone, i demoni temono molto, secondo che dice Grisostomo: "Dovunque i dimoni veggiono il segno del Signore, sì fuggiono, perché temono il bastone col quale furono impiagati." E questa è la ragione perché in alcune chiese a tempo di tempestade si trae la Croce fuori de la Chiesa, e ponsi appetto a la tempestade, cioè perché i demoni veggiano i gonfaloni del sommo re e spaventati fuggano. Sì che però si porta la Croce a processione e suonano le campane, acciò che ' dimoni, che sono in quello aere, ispaventati fuggano e cessino da fare molestia. E 'l gonfalone però vi si porta per rappresentare la vettoria de la resurressione e la vettoria de l'ascensione di Cristo, il quale con grande preda montò e salìo in cielo. Onde il gonfalone che va per l'aere è Cristo che monta in cielo. E secondamente che la moltitudine de' fedeli seguita il gonfalone che si porta a processione, così grande raunanza di santi accompagna Cristo saliente. E 'l cantare che vi si fa, significa il canto e le lode de gli angeli, che si feciono incontro a Cristo e menarollo in sua compagnia infino al cielo con molte lode. E in alcune chiese di Francia è usanza di portare, dopo la Croce, uno drago con lunga coda enfiata, cioè piena di paglia o di cotale altra cosa, i due dì primai, innanzi a la Croce, e 'l terzo dì, con la coda vota, dopo la Croce, per significare che il primo dì e anzi che fosse data la legge, e 'l secondo, che fu sotto la legge, il diavolo regnòe in questo mondo; ma nel terzo dì de la grazia per li meriti de la passione di Cristo, fu scacciato del suo regname. Ancora in essa processione domandiamo l'aiuto singularemente di tutti i santi. La ragione perché noi preghiamo i santi, molte ragioni ne sono assegnate disopra. Sonne altre ragioni generali per le quali il Signore hae ordinato che noi preghiamo li santi, cioè per la nostra povertade e per la gloria de' santi e per la reverenza di Dio. Però che i santi possono sapere i desideri di coloro che già priegano, per ciò che in quello specchio eternale intendono quanto s'appartiene a loro allegrezza, ovvero a nostro aiuto. Adunque è la prima cagione per la nostra povertade che noi abbiamo in meritare, sì che colà dove non possono i nostri meriti, possano valere gli altrui; ovvero per la nostra povertade che noi abbiamo in contemplare; ché noi, i quali non possiamo ragguardare la somma luce in sé, almeno ne i santi, la possiamo ragguardare; ovvero per la nostra povertade che noi abbiamo in amare, imperciò che molte volte l'uomo imperfetto si sente avere più affetto inverso uno santo che inverso Iddio. La seconda ragione si è per la gloria de' santi, però che Domenedio vuole che noi chiamiamo i santi, acciò che abbiendo per loro aiuto quello che noi domandiamo, sì ne diamo a loro gloria e laude più magnificamente. La terza ragione si è per la riverenzia di Dio, acciò che 'l peccatore il quale offende Domenedio, non sia quasi ardito d'udire lui in propia persona, ma possa domandare l'aiuto da gli amici. In queste cotale letanie sarebbe da dire spesse volte quello canto angelico che dice: "Sancte Deus, sancte, fortis, sancte et immortalis, miserere nobis". Racconta san Giovanni Damasceno nel terzo libro che, faccendosi le letanie a Gostantinopoli per alcuna tribulazione, uno fanciullo, stando nel mezzo del popolo, fu rapito in cielo, e questo cantico che detto è, gli fue insegnato là suso. E tornando poi al popolo cantòe quello canto angelico dinanzi a tutto il popolo, e inmantanente cessòe la tribulazione. E fue approvato questo cantico dal chericato di Calcedonia. E conchiude così Damasceno: "E noi diciamo così, perché almeno le dimonia si ristringano: "Sancte Deus, santo Dio, santo, forte, santo e immortale, abbi misericordia di noi". Sì che la loda e la vettoria di questo verso si raccoglie di quattro cose. Prima perché l'angelo lo insegnòe, la seconda perché a la sua profferenza al popolo la tribolazione cessò, e la terza perché il chericato di Calcedonia sì l'approvòe, la quarta però che i demoni n'hanno molto grande paura.
cap. 67, AscensioneL'ascensione del Signore fue fatta il quarantesimo die dopo la resurressione; intorno a la quale ascensione sette cose, per ordine, sono da considerare. La prima donde salìo, la seconda perché non salìo di subito dopo la resurressione ma aspettossi cotanti dì, la terza in che modo salìo, la quarta con cui salìo, la quinta con che merito salìo, la sesta dove salìo, la settima perché salìo. Intorno al primo è da sapere che del monte Oliveto di verso Betania montòe in cielo, il quale monte secondo un'altra traslazione è detto monte di Tre Lumi, però che di notte, da la parte occidentale, era alluminato dal fuoco del tempio, però che continuamente ardea il fuoco dinanzi a l'altare; la mattina era alluminato da la parte orientale, però che quindi ricevea prima i razzi del sole innanzi che alluminasse la cittade. Anche si avea abbondanza d'olio, il quale è nutrimento di lume, e perciò è detto monte di Tre Lumi. Sì che a questo monte comandò il Signore che andassero i discepoli, però che in quello medesimo die ched elli montòe in cielo, sì apparve due volte: l'una volta a li undici apostoli che mangiavano nel cenacolo. Che tutti quanti, sì gli apostoli come i discepoli e l'altre femmine sante, abitavano in quel lato di Gerusalem che si chiamava Mello, cioè nel monte Sion, là ove David s'avea fatto fare il palazzo; e avevavi uno cenacolo grande e spazioso nel quale il Signore comandò che si apparecchiasse la Pasqua de l'agnello, e in quello cenacolo abitavano allora gli undici apostoli, e gli altri discepoli e le femmine abitavano qua e là per diversi alberghi. Sì che mentre che mangiavano in quello cenacolo, apparve a loro il Segnore, e rimproverò loro la miscredenza loro e, abbiendo mangiato con loro e comandato che andassero nel monte Uliveto di verso Betania, apparve loro iviritto un'altra volta e rispuose loro, i quali addomandavano non discretamente, e sì li benedisse, e di quello luogo dinanzi a loro montòe in cielo. Di quello luogo là onde montòe, dice Simplicio vescovo di Gerusalem, e come si truova ne la Chiosa, che essendovi poi edificata la chiesa, quel luogo dove stettero l'orme di Cristo montando in cielo non si poténo mai abbattere, né disfare con ismalto, anzi risalivano i marmi ne le bocche di coloro che gli allogavano. E anche de la polvere scalpitata del Signore, dice che n'è questo insegnamento che l'orme impresse si veggiono, e guarda ancora la terra quella medesima spezie, sì come de l'orme impresse. Intorno a la seconda cosa si dimanda perché sì tosto com'elli risurresse non montòe in cielo, ma volle aspettare XL dì; dovemo sapere ch'elli il fece per tre ragioni. La prima si è per certificare la risurressione, però che più era malagevole a provare la verità de la resurressione che de la passione; però che dal primo die infino al terzo veramente potea essere provata la passione, ma a provare la vera risurressione sì si richiedeva più die, e per ciò più tempo si richiedeva tra la resurressione e l'ascensione che tra la passione e la resurressione. Di questa dice così Leon papa nel sermone ch'elli fa de l'Ascensione: "Compiuto è oggi il numero de' XL dì con sacratissima ordinazione provveduto, e a utilitade di nostro ammaestramento dato, acciò che in questo spazio di tempo, mentre che la dimoranza de la presenzia corporale si difende, la fede de la Resurressione fosse fornita dal Signore de' necessarii ammaestramenti. Grazie ne facciamo a la dispensazione di Dio e a la necessaria tardanza de' santi Padri. Dubitato fue da loro, acciò che non fosse dubitato da noi". La seconda ragione fu per consolamento de li apostoli; ché però che le consolazioni di Dio soprabbondano a le tribulazioni, e 'l tempo de la passione fue tempo di loro tribulazione, cioè de li apostoli, ma il tempo de la resurressione fu tempo di loro consolazione, però che debbono essere più questi dì che quelli. La terza ragione fu per significanza de la figura, per dare a 'ntendere che le consolazioni di Dio sono, in comparazione a le tribulazioni, come il die a l'ora e l'anno al die. E ch'elle siano in comparazione come l'anno al die, manifestasi per quello che si legge in Isaia nel quarantaunesimo capitolo: "A predicare l'anno aumilievole al Signore e 'l die di vendetta a lo Iddio nostro". Ecco che per lo die de la tribulazione rende l'anno de la consolazione. E ch'elle sieno in comparazioni come il die a l'ora, manifestasi per quello che 'l Signore XL ore giacque morto nel sepolcro, lo quale fue tempo di tribulazione, e risucitato apparve a gli apostoli per ispazio di XL dì, lo quale fu tempo di consolazione. Onde dice la Chiosa: "XL ore era stato morto, per questo confermava per XL dì che esso viveva". Intorno a la terza cosa, cioè come salì, è da sapere che salìo per sua propia vertude potentemente, come dice Isaia ne lo XLIII capitolo: "Chi è questi che viene d'Edom, che va ne la moltitudine de la virtude sua?" Anche dice santo Giovanni nel terzo capitolo: "Neuno sale in cielo, cioè per propia vertude, se non quelli che discese di cielo il figliuolo de la Vergine il quale è in cielo". E avvegna che salisse quasi in uno gomicello di nuvola, impertanto non lo fece perché avesse bisogno di servigio di nuvola, ma per dare a divedere che ogne creatura è apparecchiata a fare servigio al suo creatore. Ché elli salette con la potenzia de la divinitade sua, e in ciò si vede la differenza secondo che si dice ne le Storie Scolastiche; ché Enoch fu traslatato, Elia fue portato; ma Jesù salette per propia virtude. "Il primaio, secondo che dice san Gregorio, fu ingenerato per congiugnimento di carne, il secondo fue ingenerato, ma none ingeneròe, il terzo né non fue ingenerato, né ingeneròe". Secondariamente salette manifestamente, però che 'l videro gli discepoli, onde dice santo Luca che "Veggendolo i discepoli, fu levato". Anche dice san Giovanni, capitolo XVI che "Cristo disse a' discepoli: Io vado a colui che m'ha mandato, e niuno di voi mi domanda dove vai". Dice qui la Chiosa: "Sì palesemente me ne vo, che neuno domanda di quello che vede fare con vedimento corporale". E per ciò volse salire a loro veggente, acciò ched elli fossero testimoni del salimento e fossero allegri di vedere l'umana natura essere portata in cielo e disiderassono di seguitarlo. Nel terzo luogo e modo, salette lietamente, però che allora giubilarono i santi angeli, onde dice il Salmo: "Salette il Signore in giubilazione". Dice santo Agostino: "Montando Cristo, impaurisce ogne cielo, maravigliansi le stelle, fanno loda le schiere de li angeli, suona la tromba e a' lieti si mischiano i piacevoli canti del coro celestiale". Nel quarto modo salette tostamente, come dice il Salmista: "Rallegransi come gigante, a correre la via". Molto tostamente salette quando elli scorse tanto spazio di luogo quasi in uno punto. Racconta Rabbi Moises, grandissimo filosafo, che: "Catuno cerchio di ciascheduno pianeto hae in ispessitudine viaggio di cinquecento anni, cioè tanto ispazio quanto altri potesse andare di via piana in cinquecento anni, e la distanza tra cielo e cielo, cioè tra cerchio e cerchio, dice altressì ch'è viaggio di cinquecento anni; e però, essendo sette cerchi sarà, secondo lui, dal centro de la terra infino a la concavità del cielo del Saturno, che è cielo di sette milia anni, e infino a la concavità de lo ottavo cielo di sette milia settecento anni, cioè tanto ispazio quanto altri potesse andare di via piana in sette milia settecento anni, se tanto vivesse. In tal maniera dico che l'anno si componesse di CCCLXV dì, e 'l viaggio di ciascuno die sia XL miglia, e catuno miglio sia du' milia passi, ovvero cubiti". Questo dice Rabbo Moises. Se ciò è vero, Dio il sa. Questa misura sa colui che fece tutte le cose a numero e a peso e a misura. Adunque fu questo grande salto che Cristo fece, cioè di terra in cielo, e di questo salto e d'alcuni salti altri di Cristo dice così santo Ambruosio: "A uno salto venne Cristo in questo mondo, era appo 'l Padre, venne ne la Vergine, de la Vergine saltò ne la mangiatoia, discese nel fiume Giordano, salette ne la Croce, discese nel sepolcro e siede a la diritta parte del Padre". Intorno a la quarta cosa, cioè con cui salette, è da sapere che salette con grande preda d'uomini e con grande moltitudine d'angeli. E ch'elli montasse con grande preda d'uomini, sì si manifesta per quello che dice il Salmo: "Salisti in alti, prendesti teco la pregionaglia". E che elli montasse com moltitudine d'angeli manifestasi per quelle domandagioni che i minori angeli fecero a i maggiori montando Cristo, com'è scritto ne l'Isaia nel LXIII capitolo: "Chi è questi che viene d'Edom, con le vestimenta tinte che viene di Bosra?" Nel quale luogo dice la Chiosa che alcuni angeli, i quali non cognoscevano pienamente il misterio de la incarnazione e de la passione e de la resurressione, veggendo il Signore montare in cielo con moltitudine d'angeli e di santi uomini con la propia vertude, sì si maravigliano d'esso misterio de la incarnazione e de la passione, e a li angioli che l'accompagnano dicono: "Chi e questi che viene d'Edom?" e nel Salmo dice simigliantemente: "Chi è questi re di gloria?" Ma san Dionisio, nel libro che fece de la Angelica Gerarchia capitolo settimo, vuole dire che, salendo Cristo in cielo, tre questioni furono fatte de li angeli. La prima sì si fecero i maggiori angeli tra loro insieme, la seconda fecero essi maggiori a Cristo sagliente, la terza fecero li minori a' maggiori. Adomandano dunque i maggiori tra loro e dicono: "Chi è questi che viene d'Edom con le vestimenta tinte e viene di Bosra? Edom è tanto a dire in nostra lingua come sanguigna; Bosra è tanto a dire come armata, quasi dica: "Chi è questi che viene del mondo sanguinoso per lo peccato e armato per la malizia contra Dio, ovvero il quale viene del mondo sanguinoso e de lo inferno armato?" Rispuose il Signore: "Io sono colui che favello giustizia, e sono combattitore a salvare". San Dionigio pone cotal lettera: "Io, ciò dice elli, disputo di giustizia e di giudicio di salute". Nel ricomperamento de l'umana generazione fue giustizia, ciò fue in quanto il Creatore ridusse la creatura sua di signoria altrui; e fue giudicio in quanto trasse potentemente il diavolo, che avea presa l'altrui ragione, da l'uomo lo quale possedea. Ma secondo ciò fa qui san Dionigio una quistione, e dice così: "Con ciò sia cosa che gli angeli disopra sieno pressimani a Dio, e sanza neuno mezzo sieno alluminati da Dio, perché si domandano insieme, quasi come vogliano imprendere e sapere l'uno da l'altro?" Ma sì come esso solve la quistione e 'l chiosatore la spone, in ciò che domandano mostrano d'appetire scienza. Ma in ciò che prima disputano tra loro di scienzia, mostrano che non ardiscono di mettersi innanzi tra loro medesimi il procedimento di Dio. Sì che appo loro medesimi diliberano di domandare prima, acciò che per la ventura non mettano innanzi con troppo avacciata domandagione l'alluminamento che è fatto a loro da Dio. Adunque non è questa quistione cercamento di dottrina, ma è confessamento d'ignoranza. La seconda quistione che fecero i sovrani angeli a Cristo, si è che dissero: "Perché dunque è rosso il vestimento tuo, e le vestimenta tue sono come quelle di quelli che pigiano ne' canali?" Il Signore è detto ch'ebbe il vestimento suo, cioè il corpo suo, rosso, cioè sanguinato del sangue, in ciò che ancora sagliendo elli avea le margini de le piaghe nel corpo suo. Però che si volle riservare le margini nel corpo suo, secondo che dice santo Beda, per cinque cagioni; e dice così: Le margini si riservò Cristo e dee riservare insino nel giudicio, per affermare la fede de la resurressione, e acciò che le rappresenti al padre, pregandolo per tutti, acciò che i buoni veggiano come misericordiosamente sono ricomperati, e i rei cognoscano come sono dannati giustamente, e per rapportare trionfo de la perpetuale vettoria". A questa quistione risponde così il Signore: "Il canale abbo pigiato io solo, e de le genti non è uomo meco". E può essere chiamato canale la Croce, ne la quale come in battaglia fu sì premuto, che 'l sangue n'uscìo fuori. Ovvero che chiamò il diavolo canale, lo quale inviluppòe sì l'umana generazione con funi di peccati, e strinse sì che ciò che dentro era spirituale, ne premette fuori, sì che solamente vinaccia rimase. Ma il nostro combattitore ristrinse il canale e isciolse i legami de' peccati e, salendo in cielo, aperse poi la taverna del cielo e 'l vino de lo Spirito Santo versòe sopra coloro che erano raunati insieme in uno volere. La terza quistione è che fecero li minori angeli a' maggiori, così dicendo: "Chi è questo re di gloria?" A i quali elli rispuosero: "Il Signore de le virtudi, esso è re di gloria". Di questa quistione de li angeli, e de la convenevole risponsione de li altri, dice così santo Agostino: "È santificato per l'accompagnamento di Dio lo spazioso aere, e tutta quella gente di demoni volando per l'aere si fuggirono, saliendo Cristo". Al quale si fecero incontro gli angeli dimandandolo chi e' fosse e dicendo: "Chi è questo re di gloria?" A i quali gli altri dissero: "Questi è quello candido e vermiglio, questi è quelli che non ebbe bellezza, infermo in sul legno, forte ne lo spogliante, vile nel corpicello, armato nel combattere, sozzo ne la morte, bello ne la resurressione, candido de la vergine, vermiglio ne la croce, intenebrato nel vituperio, chiarito nel cielo". Intorno a la quinta cosa, cioè per quale merito salìo, dovemo sapere per tre meriti, de' quali dice così san Geronimo: "Per la veritade, imperciò che quelle cose le quali avevi promesso per li profeti, adempiesti; e per la mansuetudine, imperò che come pecora se' sacrificato per la vita del popolo; e per la giustizia, quando non con potenzia, ma con giustizia liberasti l'uomo, e meneratti maravigliosamente la tua mano diritta: la potenzia, ovvero la virtude, ti menerà, cioè, in cielo". Intorno a la sesta cosa, cioè salìo, dovemo sapere che sopra tutti i cieli salette, secondo che dice san Paolo ad Efesios, quarto capitolo: "Quegli che discese è quello medesimo che salette sopra tutti i cieli, acciò che adempiesse tutte le cose". Sopra tutt'i cieli" dice, però che più sono i cieli sopra i quali esso salette. Egli è cielo materiale, razionale, intellettuale e soprasustanziale. Il cielo materiale è in molti modi, cioè cielo di questo aere quaggiù presso a noi e cielo de l'aere disopra e cielo chiaro e cielo del fuoco e lo stellato e 'l cristallino e l'empirio. Il cielo ragionevole è l'uomo dentro, il quale è detto cielo per ragione che Dio v'abita, però che come il cielo è sedia e abitazione di Dio, secondo che dice Isaia parlando in persona di Dio: "Il cielo è sedia a me"; così è l'anima del giusto uomo, secondo che dice nel libro de la Sapienza: "L'anima de l'uomo giusto è sedia di sapienza". Per ragione de la conversazione santa, però che i santi per la conversazione e per desiderio sempre abitano in cielo, sì come diceva l'Apostolo: "La nostra conversazione sì è in cielo". Anche per ragione de l'operare continovo, però che i cieli continovamente si muovono, e così i santi per le buone opere continovamente si muovono. Il cielo intellettuale è l'angelo. Li angioli sono detti cielo, però che sono altissimi per ragione de la dignità e de l'eccellenzia loro. Dice san Dionisio nel libro de' Nomi di Dio, capitolo quarto: "Le divine menti sono sopra l'altre cose esistenti e vivono sopra l'altre cose viventi e intendono e conoscono sopra sentimento e ragione; e più che tutte le cose che hanno essere, e' disiderano il bello e 'l buono e participano di quello". Ne la seconda cosa, cioè parte, sono gli angeli bellissimi per ragione de la natura e de la gloria. De la bellezza de' quali dice san Dionisio in quello medesimo libro: "L'angelo si è manifestamento de lo occulto lume, specchio puro, chiarissimo, non contaminato, non sozzato, ricevente, se licito è di dire, la bellezza de la edificazione d'una forma di Dio". Ne la terza parte sono fortissimi per ragione de la virtude e de la potenzia. De la fortezza de' quali dice santo Joanni Damasceno, nel libro secondo, capitolo trio: "Forti sono e apparecchiati a compiere la volontà di Dio, e in ogne luogo si trovano immantanente, dovunque comanda la volontà di Dio". Il cielo soprasustanziale è le qualitadi de l'eccellenzia di Dio, de la quale Cristo venne, e poi salette infino a quello. Del quale cielo si dice nel Salmo: "Dal sovrano cielo fue l'uscita sua, e lo scontramento suo, infino a la sommità di quello". Sì che sopra tutti questi cieli, cioè infino a quello cielo soprasustanziale, salìo Cristo. E che elli montasse sopra tutt'i cieli materiali, manifestasi per quello ché scritto nel Salmo: "Innalzata è la grandezza tua sopra ' cieli". E Iddio sopra tutti i cieli materiali, infino ad esso cielo empireo, salette non come Elia, che salette in carro di fuoco a la regione de l'altezza, né non la travalicò, ma fu trasportato nel Paradiso terrestro, il quale è sì alto che aggiugne a la parte disopra de l'aere, né non la travalica. Adunque in questo cielo empirio risiede Cristo ed è sua propia e speziale mansione e de gli angeli e de gli altri santi; e bene gli si confà questo abituro a li abitatori. Però che quello cielo avanza tutti gli altri in dignitade e in antichitade e in luogo e in abito, e però è convonevole abituro di Cristo, il quale trapassa tutti i cieli ragionevoli e intellettuali in dignitade e in eternitade, in sito, sanza mutamento, e in attorniamento di podestate. Simigliantemente è convonevole abituro di santi, però che quello cielo è d'una forma e non si muove ed è perfettamente luminoso e di smisurata capacitade e dirittamente si confà a gli angeli e a' santi, che furono d'una forma in comparazione, stabili ne l'amore, luminosi ne la fede, ovvero nel conoscimento, capaci a ricevere lo Spirito Santo. E che elli montasse sopra tutti i cieli razionali, cioè sopra tutt'i cieli, manifestasi per quello ch'è scritto ne la Cantica seconda: "Ecco costui viene saltanto i monti e valicando i colli". E sono chiamati monti gli angeli e colli gli uomini santi. E che elli salisse sopra i cieli intellettuali, cioè gli angeli, manifestasi per quello che dice il Salmo: "Che vai sopra le penne de' venti". E che elli salisse insino al cielo soprasustanziale, cioè a la qualità di Dio, manifestasi per quello che dice san Marco nell'ultimo capitolo: "E 'l Signore Gesù, poi ch'ebbe parlato a loro, fu assunto in cielo, e siede a la diritta mano di Dio". La diritta mano di Dio è la qualitade di Dio. Dice san Bernardo: "Al Signore mio singularmente è detto e dato da Dio siedere da la diritta parte de la gloria sua, sì come in gloria insieme iguale, in essenzia d'una insieme sustanzia, per generazione insieme simile, per magestade non disguale, per eternitade non più diretana". Ovvero così può dire che Cristo nel salire fu alto di quattro altezze, cioè d'altezza di luogo, di guiderdonamento, di conoscimento e di vertudi. De la prima parla san Paolo ad Efesios, quarto capitolo: "Quegli che discese esso è quello che salette sopra tutt'i cieli". De la seconda parla quello medesimo nel secondo capitolo: "Cristo è stato ubbidiente infino a la morte, per la qualcosa Dio l'ha esaltato". Sopra la quale parola dice santo Agostino: "L'umilitade è merito di chiaritade, la chiaritade è guiderdone de l'umiltade". De la terza dice il Salmo: "Salette sopra Cherubin, cioè sopra ogne pienitudine di scienzia". De la quarta si manifesta che ancora salette sopra Serafini, come dice san Paulo ad Colossenses quarto capitolo: "Sapere ancora la soprastante caritade de la scienza di Cristo". D'intorno a la settima cosa, cioè perché salette, dovemo sapere che del salire suo nacquero nove frutti, ovvero utilitadi. La prima utilitade sì è l'umiliamento del divino amore, come dice san Giovanni nel sestodecimo capitolo: "Se io non mi partirò, il consolatore non verrà a voi". Sopra la quale parola dice santo Agostino: "Se carnalmente v'accosterete a me, non capiràe lo Spirito Santo in voi". La seconda utilità sì è maggiore conoscimento di Dio, come dice san Giovanni nel quartodecimo capitolo: "Se voi m'amaste, voi mi rallegreresti, perch'io vo al Padre". Sopra la quale parola dice santo Agostino: "Però sottrai tu questa forma di servo, nel quale il Padre è maggiore di me, acciò che spiritualmente possiate vedere Iddio". La terza utilità è il merito de la fede. Di questa parla Leone papa nel sermone ch'elli fa de la Ascensione: "Allora per viaggio mentale cominciò andare la più ammaestrata fede al Figliuolo iguali al Padre; e del toccamento della corporale sustanzia in Cristo, per la quale è minore del padre, cominciò a non essere bisognosa. Però che maggiore è 'l vigore de le grandi menti a credere sanza dimoro quelle cose che non si veggiono per vedere corporale, e là ficcare il desiderio, dove tu non puoi mettere il tuo sguardo". Dice santo Agostino nel libro de la Confessione: "Rallegrossi come gigante a correre la via. Ché non si indugiò, ma corse gridando con detti, con fatti, con la morte, con la vita, col discendere, col salire, gridando che noi torniamo a lui; e sceverossi da gli occhi, acciò che torniamo al cuore e troviamo lui". La quarta utilità sì è la sicurtà nostra. Ché però salette acciò che fosse nostro avvocato appo 'l padre. E molto ci possiamo rendere sicuri quando noi consideriamo d'avere un cotale avvogado appo il padre, come dice san Giovanni ne la Pistola, capitolo secondo: "Avemo per avvogado Gesù Cristo appo 'l padre, e elli è tramezzatore per li peccati nostri". Di questa sicurtà, dice san Bernardo: "O uomo, sicuro andare hai a Domenedio, là ove la madre è appo il figliuolo, e 'l figliuolo dinanzi al padre; la madre mostra al figliuolo, il petto e le mammelle, il figliuolo mostra al padre il lato e le piaghe; non potrà dunque essere commiato veruno colà dove sono cotanti segnali d'amore". La quinta utilitade sì è la dignitade nostra, quando la nostra natura è essaltata infino a la diritta mano di Dio; onde gli angeli, considerando questa dignitade ne li uomini, da quindi innanzi non si lasciarono adorare a gli uomini, come dice l'Apocalipsa nel XIX capitolo: "Io caddi, ciò dice, dinanzi a' piedi de l'angelo per adorarlo, e quelli mi disse: Guarda, non fare, io sono conservo tuo e de' frati tuoi abbienti il testimonio di Gesù". Là ove dice la Chiosa: "Ne la vecchia legge non vietò l'angelo d'essere adorato, ma dopo l'Ascensione di Cristo, veggendo levato l'uomo sopra sé, temette d'essere adorato da l'uomo". Dice Leone papa nel sermone che fa de l'Ascensione: "Oggi la natura de la nostra umilità, è trasportata oltra l'altezza di tutte le podestadi, al consentimento di Dio padre, acciò che più maravigliosa divenisse la grazia di Dio quando, a le cose rimosse da li sguardi de li uomini, le quali meritevolemente sentiamo la riverenzia di sé, la fede non si sfidasse di credere e la speranza non tempestasse e la caritade non intipidisse". La sesta utilità si è la fermezza de la nostra speranza, come dice san Paulo a li Ebrei, quarto capitolo: "Avendo noi dunque il Pontefice grande, il quale trapassòe i cieli, tegnamo la confessione de la nostra speranza". Anche dice a li Ebrei VI capitolo: "I quali insieme fuggiamo a tenere la proposta speranza, la quale sì come l'ancora abbiamo a l'animo, e abbiàlla sicura e ferma e andante insino a le 'nteriora del coprimento, dove il precursore Jesù entròe per noi". Di questa dice anche Leone papa: "Lo salimento di Cristo è nostro trapassamento, ovvero traportamento, e colàe dov'è andata innanzi la gloria del capo, là vae la speranza del corpo". La settima utilità sì è il mostramento de la via. Di questo parla Michea profeta, e dice: "Salga aprendo la via dinanzi a noi". Dice santo Agostino: "Esso salvatore è fatto a te via; leva su e va, tu hai dove, non volere impigrire". L'ottava utilità fue l'aprimento de la porta del cielo, ché sì come il primo Adamo aperse la porta de lo 'nferno, così il secondo aperse la porta del Paradiso. Onde la Chiesa canta: "Tu, abbiendo vinto la morte, apristi a' credenti i regni del cielo". La nonesima utilitade sì è l'apparecchiamento del luogo, come dice santo Joanni nel XIV capitolo: "Io vi voe ad apparecchiare il luogo". Dice santo Agostino: "Signore, apparecchia, però che tu apparecchi, noi a te, e te apparecchi a noi; quando apparecchi il luogo,apparecchi tu a te in noi e te in noi".
cap. 68, PentecosteLo Spirito Santo in questo dì d'oggi, sì come testimonia la santa storia de gli Atti de li Apostoli, fu mandato sopra essi in lingue di fuoco. Intorno al quale mandamento, ovvero avvenimento, sono da considerare otto cose. La prima si è da cui fu mandato; la seconda in quanti modi è mandato, ovvero si manda; la terza in qual modo fu mandato; la quarta quante volte fu mandato; la quinta in che modo fu mandato; la sesta cosa in cui fu mandato; la settima perché fu mandato; l'ottava in che forma fu mandato. Intorno a la prima è da sapere che esso Spirito Santo fu mandato dal Padre e dal Figliuolo; e ancora esso Spirito Santo diede se medesimo e mandò. Del primo dice san Giovanni nel XIV capitolo: "Lo Spirito Santo che 'l Padre manderà nel nome mio, sì vi insegnerà tutte le cose". Del secondo dice santo Joanni nel XVI capitolo: "Ma se io mi partirò, sì lo vi manderò". Il mandamento in queste cose quaggiù hae comparazione al suo mandante sotto tre abitudini, cioè come a colui che dà l'essere, e così è mandato il raggio dal sole; come a colui che dàe vertude, ovvero forza, e così è mandato il dardo da colui che 'l getta; anche come a colui che dà giurisdizione, ovvero autoritade, e così è mandato il messo dal comandatore. Secondo questi tre modi il mandare si può convenire a lo Spirito Santo. Però ch'è mandato dal Padre e dal Figliuolo, sì come abbiente da loro essere e vertude e autoritade in operare; e niente di meno esso Spirito Santo se medesimo diede e mandò, la quale cosa pare che dimostri san Giovanni nel XVI capitolo quando dice: "Ma quando verrà quello Spirito di veritade.". Ché come dice san Leon papa nel sermone che elli fa de la Pentecoste: "De la beata Trinitade, e non con mutevole deitade, una è la sustanzia, non divisa in operare, parzonevole ne la volontade, pare in potenzia, iguale in Gloria. Ma divisesi l'opera del nostro ricomperamento la misericordia de la Trinitade, cioè che 'l Padre fosse pregato, e 'l Figliuolo pregasse, e lo Spirito Santo infiammasse". E imperciò che lo Spirito Santo è Dio, per ciò dirittamente è detto di dare se medesimo. E ciò, che lo Spirito Santo sia Dio, mostra santo Ambrosio nel libro che fa de lo Spirito Santo, e dice così: "Per queste quattro cose si pruova manifestamente la gloria de la sua divinitade. Però che si conosce ch'egli è Iddio, ovvero perch'egli è senza peccato, ovvero perché perdona i peccati, ovvero perché non è creatura, ma è creatore, ovvero perché non adora ma sì è adorato". E in ciò si mostra come la beata Trinitade sì si diede in tutto a noi, però che come dice santo Agostino: "Esso mandò a noi il figliuolo suo in prezzo del nostro ricomperamento, mandò lo Spirito Santo in privilegio de la nostra adozione e se medesimo riserba in retaggio a quegli ch'egli hae adottati". Simigliantemente il Figliuolo si diede in tutto a noi, però che come dice san Bernardo: "Egli è il pastore, egli è la pastura, esso ricomperatore; diede a noi l'anima in prezzo e 'l sangue in beveraggio e la carne in cibo e la deità in premio". Simigliantemente lo Spirito Santo in tutto diede a noi tutt' i suoi doni e dà, però che, come dice san Paulo a' Corinti, ne la prima Pistola, nel XII capitolo: "Ad altri è dato per lo Spirito Santo la parola de la sapienza; ad altri per lo Spirito la parola de la scienzia, secondo quello medesimo Spirito; ad altri la fede in quello medesimo Spirito". Dice san Leon papa: "Lo Spirito Santo è ispiratore de la fede, ammaestratore de la scienza, fontana d'amore, segnacchio di castitade e cagione di tutta salute". Intorno a la seconda cosa, cioè in quanti modi si manda o è mandato, è da sapere che lo Spirito Santo in due modi si manda, cioè visibilmente e invisibilemente. Invisibilemente quando entra ne le menti caste; visibilemente quando si mostra per alcuno segnale visibile. Del mandamento invisibile dice santo Joanni nel terzo capitolo: "Lo Spirito dove vuole spira; e odi la voce sua, ma non sai donde viene, né dove vada". E non è maraviglia, però che come dice san Bernardo de la parola invisibile: "Per gli occhi non entròe, però che non è colorita; né per gli orecchi, però che non fece suono; né per lo naso, però che non si mischia a l'aere, ma a la mente; né non sozza l'aere, ma fecela; né non entròe per la bocca, però che non è mangiata o bevuta; né per toccamento neuno corporale, però che non si può toccare. Adomandi tu dunque com'essendo così le sue vie investigabili, onde io sappia esservi presente? Certo per lo movimento del cuore intesi la presenzia di lui, e per lo fuggire de' vizii m'accorsi de la potenzia de la vertù sua, e per lo disaminamento, ovvero riprendimento de li occulti modi, mi sono maravigliato de la profonditade de la sapienzia sua, e per chentunque amendamento de' costumi miei ho provata la bontade de la mansuetudine sua, e per lo riformamento, ovvero rinnovellamento, de lo spirito della mente mia hoe ricevuto da ogne parte la figura de la bellezza sua, e per riguardamento di tutti questi beni insieme mi sono ispaventato de la moltitudine de la sua grandezza". Queste sono parole di san Bernardo. Il mandare visibile si è quando si mostra in alcuno segno visibile. E dovemo sapere che in cinque maniere visibile s'è mostrato lo Spirito Santo. Primieramente in ispezia di colomba sopra Cristo battezzato, come dice santo Luca III: "Discese lo Spirito Santo in corporale spezie, come colomba in lui". Secondariamente in ispezie di nuvola lucente sopra Cristo trasfigurato, come dice san Matteo nel XVII capitolo: "Parlando ancora Cristo, eccoti una nuvola lucente, e adombrò coloro ch'erano con lui". Sopra la quale parola dice la Chiosa: "Sì come nel Signore battezzato, così nel glorificato, sì mostra il misterio de la santa Trinitade: lo Spirito Santo colà è in colomba, qui in nuvola lucente". La terza maniera in ispezie di fiato, come dice san Giovanni nel XX capitolo: "Soffiò Cristo in loro, e disse loro: Prendete lo Spirito Santo". La quarta maniera in ispezie di fuoco. La quinta in spezie di lingua; e in queste due spezie apparve il dì d'oggi. E però fu mostrato in queste cinque maniere di cose per dare ad intendere ch'elli adopra la propietà di queste cose nei cuori, ne i quali entra. La colomba sì ha pianto per canto, non ha fiele, stassi ne li colombai de le pietre. E così lo Spirito Santo coloro i quali riempie, fa piagner per li loro peccati. Dice Isaia nel LXIX capitolo: "Noi mugghieremo tutti come l'orse, e come colombe pensanti piangeremo". Dice san Paulo a' Romani, ottavo capitolo: "Esso Spirito adomanda per noi con pianti da non potere narrare", cioè a dire, che ci fae adomandanti e piangenti. Nel secondo luogo è sanza fiele d'amarezza, come dice il libro de la Sapienzia nel XII capitolo: "O come è buono e soave, Messere, lo Spirito tuo in noi!" Anche dice quello medesimo nel settimo capitolo: "È chiamato soave, benigno, umano, in ciò che ne fa soavi nel parlare, benigni nel cuore, umani ne l'opera". Nel terzo luogo si ne fa abitare ne' colombai de la pietra, cioè ne le piaghe di Cristo, come dice la Cantica nel secondo libro: "Leva su, amica mia, sposa mia, e vieni, colomba mia". Dice la Chiosa: "A nutricare i pippioni miei; "Ne' forami de la pietra"; la Chiosa: "Cioè ne le piaghe di Cristo per lo spargimento de lo Spirito Santo". Come dice Geremia ne' Lamenti, ne l'ultimo capitolo: "Lo spirito de la bocca nostra, Cristo Segnore, è preso ne li peccati nostri". Al quale dicemmo: "Ne l'ombra tua viveremo tra le genti". Quasi dica: "Lo Spirito Santo che è de la bocca nostra, la quale bocca nostra è il Signore Cristo, però che è nostra bocca e nostra carne e ci fa dicere a Cristo: "Ne l'ombra tua e ne la passione tua, ne la quale Cristo fu tenebroso e despetto, viveremo per continova memoria". Secondariamente fu mostrato in ispezie di nuvola. La nuvola quando è levata da terra, sì dàe rifrigerio ed ingenera piova; e così lo Spirito Santo coloro i quali riempie di sé, sì li lieva da terra per disprezzamento de le cose terrene. Dice Ezecchiel ne lo ottavo capitolo: "Levommi lo Spirito tra 'l cielo e la terra, e menommi in Gerusalem in visione di Dio". Anche dice nel primo capitolo: "Dovunque andava lo Spirito, andando là lo Spirito insieme, sì levavano le ruote seguenti lui, però che lo Spirito de la vita era ne le ruote". Anche dice san Grigorio: "Assaggiato lo Spirito, non sa di nulla ogne carne". Secondariamente dàe rifrigerio contra gl'incendii de' peccati; onde a la vergine Maria fu detto: "Sopravverrà lo Spirito Santo in te, e la vertù de l'Altissimo sì ti farà ombrazione", ché ti rifrigerà da ogne ardore di peccati. Onde lo Spirito Santo è chiamato acqua, la quale ha vertù di rifrigerare, come dice san Giovanni nel settimo capitolo: "Fiumi uscirono del ventre suo d' acque vive". E questo disse de lo Spirito Santo, che dovìano ricevere quelli che doveano credere in lui. Nel terzo luogo ingenera piova, cioè di lacrime, come dice il Salmo: "Soffiòe lo Spirito suo e scorreranno l'acque, cioè di lagrime". Ne la terza maniera sì si mostra in ispezie di fiato. Il fiato si è leno ed è caldo; leno è ad ammorbidare, ed è necessario a rispirare; così lo Spirito Santo è lieve, cioè veloce a sé spargere, però ch'egli è più movebole che tutte le cose moveboli. Dice la Chiosa sopra quella parola: "Fatto è ripetentemente suon da cielo, di sopragiugnente vento veemente": non sa la grazia de lo Spirito Santo indugevoli isforzamenti. Secondariamente è caldo a infiammare, come dice santo Luca nel XII capitolo: "Io sono venuto a mettere fuoco in terra, e che voglio io se non ch'elli arda?" Onde è assomigliato al vento rovaio ch'è caldo, come dice la Cantica, capitolo quarto: "Levati, aquilone, e vieni, vento rovaio, e ventola l'orto mio, e usciranno fuori le spezie sue". Nel terzo luogo è leno ad ammorbidare; onde a dimostrare la sua morbidezza chiamato è per nome d'ugnimento, come dice san Giovanni nel secondo capitolo de la prima Pistola: "L'unzione sua ammaestra voi di tutte cose". Per nome di rugiada; onde canta la Chiesa de lo Spirito Santo e dice: "E facciane lo Spirito tuo Santo, Segnore, abbondevoli de lo spargimento dentro de la sua rugiada". E anche è chiamato per nome di vento sottile, come dice il terzo libro de' Re, XIX capitolo: "E dopo il fuoco, venne il sufolo del vento sottile" e ivi era il Segnore. Nel quarto luogo è necessario a respirare, ed è tanto necessario che se pure un'ora si sottraesse, sì morrebbe l'uomo incontanente. E così è da intendere de lo Spirito Santo, secondamente che dice il Salmo: "Torrai lo Spirito loro e verranno meno, e ritorneranno ne la polvere loro. Manda fuori lo Spirito tuo e saranno criati, e rinnovellerai la faccia de la terra". E dice san Giovanni nel sesto capitolo: "Lo Spirito è quello che fa vivo". Nel quarto luogo è dimostrato in ispezie di fuoco. Nel quinto in ispezie di lingua. La cagione perché apparve in questa doppia spezie, sarà detto più innanzi. Intorno a la terza cosa, cioè in quale tempo fu mandato, è da notare che fu mandato il cinquantesimo dì dopo la Pasqua. E però fu mandato nel cinquantesimo, acciò che fosse dato ad intendere che da lo Spirito Santo è la perfezione de la legge, e l'eternale rimunerazione e la remissione de' peccati. Imprima dico la perfezione de la legge, però che, come dice la Chiosa, dal die de l'agnello sacrificato il cinquantesimo die fue data la legge in fuoco. Anche nel Nuovo Testamento il cinquantesimo die de la Pasqua di Cristo discese lo Spirito Santo in fuoco. La legge è nel monte Sinai, lo Spirito Santo nel monte Sion; la legge ne l'alto luogo del monte, lo Spirito Santo fu dato nel cenacolo; onde per questo si mostra che esso Spirito Santo è perfezione di tutta la legge, però che adempimento de la legge si è l'amore. Secondariamente dico l'eternale guiderdonamento, onde dice la Chiosa: "Sì come in quaranta dì che Cristo conversòe con li discepoli dopo la resurressione significa la presente Ecclesia, così il cinquantesimo die, nel quale fu dato lo Spirito Santo, dimostra il danaio de l'eternale guiderdonamento". Nel terzo luogo dico la rimissione de' peccati, onde dice la Chiosa: "Quivi però venne nel cinquantesimo, perché il dono si facea nel giubileo; e per lo Spirito Santo sono perdonati i peccati". E seguita poscia ne la Chiosa: "Ne lo spirituale giubileo li debitori de la morte sono sciolti, li debiti sono lasciati, li sbanditi sono ribanditi nel loro paese, l'ereditade perduta è renduta, li servi, cioè gli uomini venduti al peccato, sono liberati dal giogo de la servitudine". Infino qui dice la Chiosa. Li debitori de la morte sono sciolti e liberati, onde dice san Paulo a' Romani ne l'VIII capitolo: "La legge de lo Spirito de la vita in Cristo sì m'ha liberato da la legge del peccato e da la morte". Li debiti de' peccati sono lasciati, onde la carità cuopre la moltitudine de' peccati. Li sbanditi sono ribanditi nel loro paese, onde dice il Salmo: "Lo spirito tuo sì mi menerà ne la terra diritta". L'eredità perduta è renduta, onde dice san Paulo a' Romani ne l'ottavo capitolo: "Esso spirito rende testimonianza a lo spirito, cioè al nostro, che noi siamo figliuoli di Dio e siamo erede". Li servi sono liberati dal peccato, onde dice Paulo a Corinti, ne la seconda Epistola, nel quarto capitolo: "Là dove è lo Spirito del Signore, là sì è libertade". Intorno a la quarta cosa, cioè quante volte fu mandato a gli apostoli, dovemo sapere che secondo la Chiosa tre volte fu mandato loro, cioè anzi la passione e dopo la resurressione e dopo l'ascensione. La prima volta fu dato a fare miracoli; la seconda a perdonare i peccati; la terza a confermare i cuori. La prima volta quando gli mandò a predicare, e diede loro podestade sopra tutte le demonia, e che sanassono le infermitadi. Però che questi miracoli si fanno per lo Spirito Santo, secondo che dice san Matteo nel XII capitolo: "E se io ne lo spirito di Dio caccio le dimonia, i vostri figliuoli in che cosa li cacciano?" Ma non seguita, però che chiunque hae lo Spirito Santo faccia miracoli, però che come dice san Gregorio: "Li miracoli non fanno l'uomo santo, ma mostrano l'uomo santo". Né chiunque fa miracoli hae lo Spirito Santo, ché anche i mali uomini affermano che hanno fatti miracoli, così dicendo a Cristo Segnore: "Segnore, or non profetammo noi nel nome tuo e facemmo miracoli?" Domenedio fa miracoli per propria autorità; gli angeli per disposizione de la materia; le dimonia per le virtù naturali innestate ne le cose; l'incantatori per occulti contratti che hanno con le demonia; i buoni cristiani per la pubblica iustizia; i mali cristiani per li segnali de la pubblica iustizia. La seconda volta diede loro lo Spirito Santo quando soffiò in loro dicendo: Ricevete lo Spirito Santo; coloro a cui voi perdonerete i peccati saranno perdonati". Ma non puote veruno perdonare i peccati quanto a la macchia, la quale è ne l'anima, o quanto a l'obligazione a la pena eternale, ovvero quanto a l'offesa di Dio, le quali cose si perdonano solamente per infusione de la grazia e per la vertù de la contrizione. Ma il prete è detto che assolve, sì perché mostra la persona assoluta de la colpa, sì perché muta la pena del purgatorio in pena temporale, sì perché di quella pena temporale ne lascia parte. Avvegna che solo Dio perdoni il peccato per propia autoritade, neente di meno trovati sono da' santi molti modi per li quali si dice che sono perdonati; ché Origine ne pone sette, e dice così: "Perdonansi i peccati per lo battesimo, per martirio, per la limosina, per perdonare l'offesa de' prossimi, per la penitenzia, per convertire i peccatori, per la caritade". Ma santo Ambrosio pone altri modi e dice: "La parola di Dio monda, la confessione nostra monda il buono pensiero e lo vostro operare e l'uso de la buona usanza". Nel terzo luogo diede loro in questo dì d'oggi podestade quando i loro cuori furono sì confermati che non temevano veruni tormenti, come dice il Salmo: "Per lo spirito de la bocca sua era ogne loro vertude". Dice santo Agostino: "Tale è la grazia de lo Spirito Santo che se truova ne l'anima tristizia sì la strugge, se vi truova mal disiderio sì lo consuma, se vi truova paura sì la caccia via". Dice santo Leone papa: "Era aspettato lo Spirito Santo da li apostoli non perché allora cominciasse di prima ad essere abitatore de' santi, ma perché accendesse a loro i santi petti più ferventemente e purgasseli più copiosamente; e crescendo i suoi doni, non incominciando, né essendo però novello d'operazione, perché fosse più ricco di cortesia". Intorno a la quinta cosa, cioè in che modo fu mandato, è da sapere che fu mandato con suono in lingue di fuoco, e quelle lingue apparvero sedendo, e 'l suono fue ripente e fue celestiale e fu forte e fue riempiente. Ripente fue, imperò che lo Spirito Santo non sa fare indugevoli isforzamenti; celestiale fue, imperò che fa celestiali; forte fue, imperò che induce timore di figliuolo. E fue riempiente, però che lo Spirito Santo gli riempiette tutti, onde tutti furono riempiuti di Spirito Santo. E tre furono i segnali del riempimento de li apostoli. Il primo si è non risonare; e ciò si mostra ne la caldaia quando è piena che non risuona, onde Job nel settimo capitolo: "Or mugghierà il bue quando starà innanzi ad una mangiatoia piena, quasi dica: Quando la mangiatoia del cuore hae riempimento di grazia, non è luogo il mugghiare de la impazienza. Questo segnale ebbero gli apostoli, però che ne le tribulazioni non risonavano per impazienza, anzi andavano gaudenti ed allegri dinanzi dal cospetto del concilio; però che degni erano trovati di patire vergogna e danno per lo nome di Jesù". Il secondo segno è non ricevere più, ovvero avere sazietade. Ché quando il vasello è pieno d'alcuno liquore non può ricevere altro, così l'uomo satollo non appetisce più. E così i santi che hanno riempimento de la grazia, non possono ricevere altro liquore di dilettamento terreno, come dice Isaia nel primo capitolo: "Io sono pieno, e però non volli i sacrificii de' montoni e 'l grasso de gli animali grassi e 'l sangue di vitelli e de gli agnelli e de' beccherelli". Simigliantemente perché hanno assaggiato la celestiale suavezza, però che non assetiscono la terrena volontade. Dice santo Agostino: "Chi berrà del fiume di paradiso, del quale pure una gocciola è più che 'l mare maggiore, resta che questa cotale sete sia tratta in lui". Questo segno ebbero gli apostoli che nulla cosa vollero avere propia, ma ogne cosa dividere insieme tra loro per comune. Il terzo segno si è traboccare, come si mostra nel fiume ondeggiante, come dice l'Ecclesiastico nel XXIV capitolo: "Il quale empie come Fison la sapienzia". Propietà di quello fiume si è traboccare e di bagnare le luogora che li sono accostate, secondo la lettera di ciò. E così gli apostoli cominciarono a traboccare, però che cominciarono a parlare diverse lingue; là ove dice la Chiosa: "Ecco il segno del loro riempimento; il pieno vasello trabocca, il fuoco nel seno suo non si può nascondere". Cominciaro ancora ad annaffiare le luogora d'intorno. Onde tanto tosto cominciò san Piero a predicare e convertìo tremilia uomini. Secondariamente fu mandato lo Spirito Santo in lingue di fuoco, ed intorno a ciò sono da vedere tre cose. La prima perché congiuntamente venne in lingue di fuoco; la seconda perché anzi in fuoco che in altro elemento; la terza perché innanzi in lingua che in altro membro. De la prima è da sapere che per tre ragioni apparve in lingue di fuoco. L'una si è acciò che parlassero parole focose; la seconda acciò che predicassero la legge focosa, cioè la legge de l'amore. Di queste due parla così san Bernardo: "Venne lo Spirito Santo in lingue di fuoco, acciò che con le lingue di tutte le genti parlassero parole di fuoco, e acciò che le lingue del fuoco predicassero la legge focosa. La terza acciò che conoscessero che lo Spirito Santo, il quale è fuoco, parlava per loro bocche, e questo acciò che non si sconfidassero e non attribuissono a loro medesimi il convertire gli altri, e tutti udissono le loro parole, come parole di Domenedio. De la seconda cosa è da sapere che fu mandato in ispezie di fuoco, per molte ragioni. La prima si comprende per li sette doni suoi, però che lo Spirito, a modo del fuoco, abbassa le cose alte per lo dono del timore, ammollisce le cose dure per lo dono de la puritade, allumina le cose oscure per la scienzia, restrigne le cose scorrevole per lo consiglio, raffrena le cose molli per fortezza, rischiara e monda li metalli, togliendo via ogne ruggine per lo dono de lo intelletto, va in su per lo dono de la sapienza. La seconda ragione si prende appresso la sua dignitade ed eccellenzia, però che il fuoco avanza tutti gli elementi in ispezie e in ordine e in vertude. In ispezie, per ragione de la bellezza ch'egli hae ne la luce; in ordine, per ragione de l'altezza nel luogo; ne la vertude, per ragione de la vigorosanza ne l'operazione. E così lo Spirito Santo in queste cose avanza tutte le cose. Per la prima è detto lo Spirito Santo non sozzo; per la seconda è detto lo Spirito Santo non comprensibile, il quale comprende tutti li spiriti intellettuali; per la terza è detto lo Spirito Santo non vincibile, il quale ha ogne vertù di sapienzia. La terza ragione si prende appresso la sua moltiplicata efficacia, ovvero effetto. Questa ragione assegna Rabano e dice così: "Il fuoco ha quattro nature: arde, purga, iscalda ed allumina. Simigliantemente lo Spirito Santo arde i peccati, purga i cuori, caccia la tepidezza, allumina le ignoranze". Infino qui dice Rabano. Arde i peccati, onde dice Zaccheria XIII: "Per fuoco gli arderò, sì come s'arde l'ariento". Di questo fuoco desiderava essere arso il profeta, dicendo a Domenedio: "Ardi le rene mie e 'l cuor mio". Ancora purga i cuori, come dice Isaia, nel quarto capitolo: "Se Gerusalem laverà il sangue del miluogo di sé in ispirito di giudicio e in ispirito d'ardore". Caccia via la tepidezza, onde si dice di coloro i quali lo Spirito Santo riempie, ne la Pistola di santo Paulo a' Romani, nel XII capitolo: "Siate ferventi ne lo spirito". Adunque in fuoco apparve lo Spirito Santo, però che da ogne cuore ch'elli riempie, sì ne caccia la tiepidezza e 'l freddo, e accendelo nel desiderio de la sua eternitade. Allumina le ignoranze, come dice la Sapienzia nel IX capitolo: "Il senno tuo chi saprà, se tu non darai la sapienza e non manderai lo Spirito Santo tuo?". La quarta ragione si prende appresso la natura d'esso amore; però che l'amore hae ad essere significato per lo fuoco per tre ragioni. La prima, perché il fuoco è sempre in movimento, e così l'amore de lo Spirito Santo sempre fa essere in movimento di buona operazione; onde dice san Gregorio: "Non è mai l'amore di Dio ozioso. Ch'elli adopera grandi cose, là ove elli è; ma se anneghittisce d'operare non è amore". La seconda perché il fuoco tra gli altri elementi è massimamente formale e ha poco di materia e molto di forma. Così l'amore de lo Spirito Santo coloro i quali e' n'empie, sì fa avere poco de l'amore de le cose terrene e più de le cose celestiali e spirituali; sì che non ama carnalmente le cose carnali, ma amale ispiritualmente. San Bernardo sì distingue quattro modi d'amare, cioè amare la carne carnalmente e lo spirito carnalmente e la carne spiritualmente e lo spirito spiritualmente. La terza cosa che 'l fuoco hae ad inchinare le cose alte e in suso andare e le cose scorrevoli a unire e ragunare; e per queste tre cose s'intendono tre forze d'amore. Però che lo amore, sì come si piglia de le parole di san Dionisio nel libro di Divini Nomi: "Sì ha tre virtudi, cioè vertude inchinativa, elevativa in alto, e ordinativa in alto e ordinativa insieme. Vertude inchinativa, però che inchina le cose disopra a quelle disotto; vertude levativa, però che leva le cose disotto a quelle disopra; vertude insieme ordinativa, però che ordina insieme le cose iguali con le cose insieme iguali". Insino qui dice santo Dionisio. Queste tre forze de l'amore fa lo Spirito Santo in coloro i quali elli riempie, però che gl'inchina per l'umiltade e per disprezzamento di coloro; anche gli lieva nel disiderio de le cose disopra, e ordinale insieme per simiglianza di costumi. De la terza cosa è da sapere che apparve maggiormente in lingua che in altro membro per tre ragioni. Però che la lingua è uno membro infiammato del fuoco de lo 'nferno, ed è malagevole a governarlo, ed è molto utile da poi che bene è governato. Adunque perché la lingua era infiammata del fuoco infernale, però avea bisogno del fuoco de lo Spirito Santo, come dice sa' Jacopo, nel terzo capitolo: "La lingua nostra si è fuoco". E perché malagevolemente è governata, però sopra tutti gli altri membri avea bisogno de la grazia de lo Spirito Santo, onde dice sa' Jacopo nel terzo capitolo: "Ogne natura di bestie e d'uccelli e di serpenti e de l'altre cose si doma, e domate sono da la natura de l'uomo, ma la lingua neuno de li uomini può domare". E perch'ella è molto utile, essendo bene governata, però fu bisogno che avesse lo Spirito Santo per suo governatore. Apparve ancora in lingua a significare che molto fu necessario a coloro che predicavano; a' predicatori è molto necessario però che li fa parlare ferventemente sanza paura, e però fu mandato in ispezie di fuoco. Dice san Bernardo: "Venne lo Spirito Santo sopr' a' discepoli in lingua di fuoco, acciò che parlassero parole focose, e acciò che le lingue del fuoco predicassono". Con grande fidanza sanza neuna pochezza d'animo, com'è scritto ne gli Atti de li Apostoli, quarto capitolo: "Riempiuti sono tutti di Spirito Santo, e cominciarono a parlare con fidanza la parola di Dio". In molte maniere per la capacitade de li uditori, ch'era molto divisata; e però è scritto nel detto libro, secondo capitolo, che: "Cominciarono a parlare disvariate lingue". Utilemente a loro edificazione e utilitade, come dice Isaia nel XLII capitolo: "Lo Spirito del Signore è sopra me in ciò che m'ha unto". Nel terzo luogo esse lingue apparvero seggendo, a significare che lo Spirito Santo era necessario a coloro che seggiono per alcuna signoria. A li signoreggianti e a' giudici è necessario, però che dàe autoritade a perdonare il peccato, come dice san Giovanni nel XX capitolo: "Ricevete lo Spirito Santo; a cui voi perdonerete i peccati, saranno perdonati". Anche dàe sapienzia a giudicare, come dice Isaia nel XIII capitolo: "Io porròe lo spirito mio sopra lui, e pronunzierà il giudicamento tra le genti". Anche dice mansuetudine a comportare, com'è scritto nel libro de' Numeri, undecimo capitolo: "Io darò loro de lo spirito, che è in te, acciò che comportino il carico del popolo con teco". Lo spirito di Moisé era spirito di mansuetudine, come dice nel detto libro, XII capitolo: "Era Moisé mansuetissimo". Anche dona ornamento di santitade ad informare, come dice Job nel XXVI capitolo: "Lo spirito del Signore hae ornati li cieli". Intorno a la sesta cosa, in cui fu mandato lo Spirito Santo, è da sapere che fu mandato lo Spirito Santo ne li discepoli, i quali furono luoghi da ricevere, netti ed acconci a ricevere lo Spirito Santo per sette cose che furono in loro. Ched e' furono primieramente riposati ne l'animo, e ciò si mostra in ciò che dice: "Comprendonsi i dì de la Pentecoste", cioè il dì del riposo; però che quella festa era diputata a riposo; onde dice Isaia nel LXVI capitolo: "Sopra cui si riposerà lo spirito mio, se non sopra l'umile e riposato e c'ha paura de le mie parole?". Nel secondo luogo furono uniti in amore, e ciò si mostra in ciò che dice: "Erano tutti igualmente". Però ch'elli aveano un cuore e un animo; ché sì come lo spirito de l'uomo non fa vivi i membri del corpo se non sono insieme uniti; così addiviene de lo Spirito Santo a' membri spirituali: E sì come il fuoco si spegne per lo spartire de la legna, così fa lo Spirito Santo ne li uomini per la discordia. E però si canta de li apostoli: "Come lo Spirito Santo gli trovò concordevoli ne la carità e alluminogli la traboccante carità de la divinità de la deitade". Nel terzo luogo furono segreti, e ciò si mostra in ciò che dice "In uno medesimo luogo", cioè nel cenacolo; onde dice Osea profeta: "Io la menerò in solitudine e parlerò al cuore suo". Nel quarto luogo furono continui in orazione, onde dice più innanzi: "Erano d'uno animo perseveranti in orazione". Onde noi cantiamo di loro: "Orando gli apostoli, annunzia ch'egli è venuto Dio". E che l'orazione sia necessaria a ricevere lo Spirito Santo mostrasi nel libro de la Sapienza, VII capitolo: "Io chiamai e venne in me lo spirito de la sapienza". Anche dice san Giovanni nel XIV capitolo: "Io pregherò il Padre e darammi un altro consolatore". Nel quinto luogo furono ornati d'umilitade; e questo si mostra in ciò che dice seggenti, come dice il Salmo: "Il quale manda fuori le fontane ne le valli", cioè la grazia de lo Spirito Santo dona a li umili. E Isaia dice nel sessantesimo capitolo: "Sopra cui si riposa lo spirito mio, se non sopra l'umile e riposato?". Nel sesto luogo furono congiunti ne la pace; e questo si mostra in ciò che dice ch'erano in Gerusalem, la quale vale tanto a dire come visione di pace. E che la pace sia necessaria a ricevere lo Spirito Santo, mostralo il Signore nel Vangelio di san Giovanni, XX capitolo, là ove prima offerse la pace dicendo: "Pace a voi". Poscia incontanente soffiò inverso loro e disse: "Ricevete lo Spirito Santo". Nel settimo luogo furo levati per contemplazione; e questo si mostra in ciò che nel cenacolo disopra ricevettono lo Spirito Santo; onde dice la Chiosa in quello luogo: "Colui che desidera lo Spirito Santo stropiccia l'abitazione de la carne, trapassando per contemplazione de la mente". Intorno a la settima cosa, cioè per che fare fu mandato, è da sapere che fu mandato per sei cagioni, le quali sono notate in questa autoritade: "Il consolatore Spirito Santo, lo quale manderà il Padre nel nome mio, elli v'ammaesterrà di tutte le cose". Primieramente fu mandato a consolare i tristi; e ciò si mostra quando dice: "Il Paraclito" che tanto è a dire come consolatore, come dice Isaia nel LXV capitolo: "Lo spirito del Signore sopra me" e poscia seguita un poco oltre: "E a ponere consolazione a coloro che piangono in Sion". Dice san Gregorio: "Consolatore è detto lo spirito, il quale, mentre che apparecchia la speranza del perdonamento a coloro che piangono del peccato c'hanno commesso, sì leva la mente de l'afflizione de la tristizia". Secondariamente fu mandato a fare de' morti vivi; e questo si mostra in ciò che dice: "Spirito" però che lo spirito è quello che vivifica, come dice Ezechiel nel XXXVII capitolo: "Ossa secche, udite la parola del Signore, ecco che io manderò lo spirito in voi e viverete". Nel terzo luogo fu mandato a santificare i non puri; e ciò si mostra quando dice: "Santo" che sì come è detto spirito che fa vivo, così Santo perché santifica e monda. Onde tanto è a dire come mondo. Dice il Salmo: "L'impeto del fiume", cioè la traboccante e abbondante grazia de lo Spirito Santo rallegra la città di Dio, cioè la Chiesa di Dio, e per quello fiume santificòe l'Altissimo il Tabernacolo suo. Nel quarto luogo fu mandato a confermare l'amore tra ' discordevoli e li odiosi; e ciò si mostra in questo che dice il Padre: "Padre è detto in ciò che naturalmente ama noi, come dice san Joanni nel XIII capitolo: "Esso Padre ama voi". S'egli è Padre e noi suoi figliuoli, e fratelli insieme, e tra fratelli suole essere amistade. Nel quinto luogo fu mandato a salvare gli giusti; e questo si mostra in ciò che dice: "Nel nome mio, il quale è Gesù, ed è interpretato salute". Nel nome dunque di Gesù, cioè Salvatore il Padre mandò il Figliuolo per mostrare ch'elli era venuto a salvare le genti. Nel sesto luogo fu mandato ad ammaestrare i non sapienti; e questo si mostra in ciò che dice: "Elli v'ammaesterrà di tutte le cose". Intorno a l'ottava cosa è da sapere che fu dato ovvero mandato ne la primitiva Chiesa; primo per l'orazione, onde venne quando gli apostoli oravano e santo Luca dice nel III capitolo: "Orando Gesù, discese lo Spirito Santo". Secondariamente venne per lo devoto e attento udire de la parola di Dio, come è scritto ne li Atti de gli Apostoli decimo capitolo: "Parlando ancora san Piero cadde lo Spirito Santo sopra coloro che udìano la parola". Nel terzo luogo per continua orazione, e ciò si mostra ne lo imporre de le mani, come è scritto ne li Atti de li Apostoli, ne l'VIII capitolo: "Allor ponevano le mani sopra loro e riceveano lo Spirito Santo". Ovvero che lo imporre de le mani significa l'assoluzione che si fae ne la confessione.
cap. 69, S. GordianoGordano, vicario di Giuliano imperadore, costrignendo uno cristiano, il quale avea nome Januario a sacrificare a l'idole, convertissi elli e la moglie di nome Mariria e LIII uomini a la fede, per la predicazione del detto Januario,. Udendo ciò Giuliano, comandò che Januario fosse messo in bando e Gordano, se non volesse fare sacrificio, perdesse la testa. Fue dunque tagliato il capo a Gordano, e gittato il corpo suo a' cani per VIII dì. Ma essendo rimaso al postutto sanza essere toccato, a la perfine il tolse la famiglia sua e sotterrarolo con santo Epimaco, lo quale avea il detto Giuliano per adrieto fatto uccidere. E furono riposti non molto di lungi da Roma, forse uno migliaio, intorno a gli anni Domini CCCLX.
cap. 70, SS. Nereo e AchilleoLa passione di costoro scrissero Eutices e Vittorino e Macrone, servi di Cristo. Nereo ed Achilleo furono servi e camerieri de la donzella Domicilla, nepote di Domiziano imperadore, i quali san Piero apostolo battezzòe. Essendo la detta donzella maritata ad Aureliano, figliuolo del consolo, e coprendosi di gemme e di vestiri di porpore, Nereo e Achilleo predicarono la fede e raccomandarono moltiplicatamente la verginità, mostrando che molto la verginità è prossimana a Dio, suora de gli Angeli, unita a li uomini. La moglie è sottoposta al marito, battuta di pugni e di calci, e spesse volte avvegnono di sozzi partorimenti; ancora quella che potea patire appena i dolci ammonimenti de la madre, sì le conviene patire le grandi garriti del marito. E quella intra l'altre cose disse queste: "Io so che 'l padre mio fu geloso, e la madre patìo molte vergogne da lui, or sarebbe cotale il marito mio?" E quelli dissero: "Mentre che sono sposi paiono molto benigni; ma quando sono fatti mariti signoreggiano crudelmente, e talora mettono le fancelle sopra a le donne. Ogne santità perduta si puote raccattare per la penitenzia; sola la verginitade non può essere recata a lo stato suo (il peccato si puote cacciare via per la penitenzia, ma la verginitade non si puote raccattare), in modo ch'ella aggiunga a lo stato della santità di prima". Allora la donzella, ch'avea nome Flavia Domicilla, credette e fece voto di virginitade e fue velata da san Clemente. La qualcosa udendo lo sposo, accattato che ebbe la grazia da Domiziano imperadore, mandòe la detta vergine con i detti santi Nereo e Achilleo ne l'isola di Ponto, credendosi per questo modo potere mutare il proposito e 'l proponimento de la vergine. E dopo alquanto tempo essendo elli andato a la detta isola, e inducendo con molti doni i santi che confortassero la vergine al suo consentimento, egli rifiutando al tutto i doni, ma maggiormente la confortavano in Gesù Cristo. Per la quale cosa essendo costretti a sacrificare, dicendosi battezzati da san Piero apostolo e che per niuno modo potrebbono fare sacrificio a l'idole, furono a loro tagliate le teste, e li corpi loro furono posti a lato a quello di santa Petronella. E gli altri santi, cioè Vettorino, Euticene e Macrone a i quali la donzella s'accostava, sì li facea lavorare ne' campi suoi tutto dì, come s'elli fossero suoi fedeli, e la sera entro 'l vespro, dava loro a manicare pane di crusca. A la perfine tanto fece battere Euticen, che mandò lo spirito fuori; e Vettorino fece affogare in acque putenti, e Macrone fece sopprimere d'una grande pietra. E abbiendoli gittato addosso una grandissima lapida, tale che LXX uomini appena non la poteano muovere, esso santo prese la detta lapida e portolla in collo, come lieve paglia, da ivi a due miglia; e abbiendo per questo creduto molti in Cristo, il consulare il fece uccidere. Poscia fece Aureliano rimenare la donzella da' confini e mandolle due vergini di sua etade, notricate insieme con lei, Eufrosina e Teodora, che la confortassono di consentirli; ma la donzella le convertìo a la fede. Allora venne Aureliano con li sposi di quelle due donzelle e con tre trastullatori a la donzella, per fare le nozze sue e per oppriemerla almeno isforzatamente. Ma abbiendo la donzella convertiti e' detti giovani, Aureliano misse la donzella in camera e fecevi cantare ivi e gli altri fece ballare con seco, volendola poscia corrompere. Ma vegnendo meno gl'inni a cantare e gli altri a ballare, esso per due dì non cessò di ballare, infino a tanto che vegnendo meno saltando, mandò via il fiato. E Lussurio suo fratello, accattata che ebbe la licenzia, uccise tutti coloro che aveano creduto, e misse fuoco in quella camera dove le dette vergini dimoravano; e quelle, stando in orazione, renderono lo spirito a Domenedio. E le corpora loro san Cesario ritrovò la mattina e non danneggiate missele in sepoltura.
cap. 71, S. PancrazioPancrazio, nato di gentilissimi padre e madre, essendo rimaso sanza padre e sanza madre ne la provincia di Frigia, fu lasciato sotto cura di Dionisio suo zio. Sì che ambedue tornarono a Roma, là dove aveano uno largo patrimonio; e ne la loro contrada stavano a lato san Cornelio papa con gli altri cristiani. Del quale Cornelio abbiendo i detti Dionisio e Pancrazio ricevuto la fede di Cristo, a la perfine Dionisio morìo in pace e Pancrazio fu preso e menato dinanzi a lo 'mperadore. E era Pancrazio giovane quasi di XIV anni, al quale disse lo 'mperadore: "Fanciullo, io ti conforto che non ti lasci morire di mala morte, imperò che, con ciò sia cosa che tu sia fanciullo, agevolemente ti lasci ingannare; e perché tu mostri d'essere gentile persona e fosti figliuolo d'un carissimo mio amico, priegoti che tu ti parti da questa mattezza, sì ch'io ti tenga come per mio figliuolo". Disse Pancrazio: "Se io sono fanciullo del corpo, impertanto sì abbo cuore di vecchio, e per vertude del nostro Signore Gesù Cristo la vostra minaccia è tanto appo noi quanto quella dipintura che noi veggiamo; ma gl'idoli tuoi, che tu mi conforti ch'io adori, furono ingannatori e de le loro serocchie corrompitori, a' quali non perdonarono anche a le loro madri e a i loro padri. Che se tu sapessi oggi tal cosa de' tuoi servi, immantanente gli faresti uccidere. Che tali dei mi maraviglio che tu non ti vergogni d'adorare". Lo imperadore riputandosi vinto da uno fanciullo, comandò che fosse dicollato ne la via Aureliana; il cui corpo, Ottovilla senatrice, seppellìo diligentemente. Di costui dice Gregorio di Torno che chiunque volesse al suo sepolcro fare un falso sacramento, anzi che venga al cancello del coro od egli è preso dal demonio, od elli cade in terra e muore immantanente. Una grande briga era nata tra due, e 'l giudice non sapea chi avesse la colpa. Sì che il giudice, essendo geloso de la giustizia, menogli ambedue a l'altare di san Piero, e iviritto constrinse il colpevole che giurasse la verità di quello che diceva, che non ne aveva colpa; e pregòe l'apostolo che 'l mostrasse per alcuno giudicio. Abbiendo quelli giurato e non avuto male veruno, il giudice, abbiendo coscienzia de la sua malizia, acceso di zelo di giustizia cominciò a gridare e a dire: "Questo vecchio san Piero od elli è troppo pietoso, od elli fa onore al più giovane! Andiamo a san Pancrazio giovane, e da lui richeggiamo il vero". Essendo dunque venuti, e 'l colpevole essendo ardito di giurare la falsità sopra l'avello di colui, non poté ritrarre la mano a sé, e poco stante morì iviritto. Onde infino al dì d'oggi si tiene che sopra le reliquie di san Pancrazio si fa giuramento per gravi cose che accagiono. Poi ch'è detto è de le feste che vegnono fra 'l tempo de la riconciliazione, lo quale tempo rappresenta la Chiesa da la Pasqua infino a l'ottava di Pentecoste, viene ora a vedere de le feste che vegnono fra 'l tempo de la pellegrinazione, lo quale tempo rappresenta la Chiesa da l'ottava di Pentecosta infino a l'Avvento. E 'l principio di questo tempo non comincia tuttavia, ma variasi come il termine de la Pasqua.
cap. 72, S. UrbanoUrbano fu papa dopo Calisto; al cui tempo essendo la grande persecuzione sopra i cristiani, a la perfine prese lo 'mperio Alessandro, la cui madre Ammea era cristiana, che l'avea convertita Origene. Ella con prieghi materni indusse il figliuolo che si rimanesse di perseguitare i cristiani; ma pertanto Almachio, perfetto di Roma, il quale avea fatto dicollare santa Cecilia, incrudelìa fortemente sopra i cristiani, sì che fece diligentemente cercare per santo Urbano, e trovato che fu in una spelonca con tre preti e tre diaconi, comandò che fosse messo in carcere. Poscia lo si fece venire innanzi, e appuoseli che con la scomunicata Cecilia avea ingannato cinque milia uomini e con Tiburtino e Valeriano gentili uomini, e raddomandòe li tesauri di santa Cecilia. Al quale disse santo Urbano: "E mi pare vedere che più t'induce a incrudelire contra i cristiani la cupidezza de l'avere, che non fa l'onore de li dei; il tesoro di Cecilia è salito in cielo per mano di poveri". Battendo dunque santo Urbano e' compagni con verghe di piombo, e elli chiamando il nome di Dio Elion, sorridendo il prefetto disse: "Savio vuole parere questo vecchio, e però parla cose non sapute ora". Sì che non potendo essere soperchiati, furono rinchiusi un'altra volta in carcere; nel quale luogo vegnendo a lui tre conostaboli, santo Urbano gli battezzò, con esso il guardiano de la carcere, che avea nome Anolino. Udendosi che Anolino era fatto cristiano, fu presentato al prefetto, e non vogliendo sacrificare fu dicollato, e santo Urbano con gli compagni fu menato a l'idolo e fu costretto che ponesse lo 'ncenso. Allora orando santo Urbano lo idolo cadde, e morironvi XXII preti che ministravano il fuoco del sacrificio. Allora i santi furono isquarciati gravissimamente e poscia furono menati a sacrificare; i quali, isputando in quello idolo, armarono le loro fronti con la Croce, e datosi insieme bascio di pace, ricevettero sentenzia de la testa, intorno a gli anni Domini CCXX. Ma Carpasio fu immantanente preso dal demonio; e allora, biastemmiando li suoi idei e magnificando i cristiani, mal volentieri fu affogato dal demonio. Veggendo ciò la moglie sua Armenia con la figliuola sua Lucina e con tutta la famiglia, ricevette il battesimo di san Fortunato prete, e dopo queste cose seppellìo onorevolemente i corpi de' santi.
cap. 73, S. PetronellaPetronella, la cui vita scrisse san Marcello, sì fu figliuola di san Piero apostolo; la quale essendo molto bella e per volontà del padre essendo affaticata di febbre, mangiando a casa sua i discepoli, disse a lui Tito: "Con ciò sia cosa che tutti gl'infermi siano guariti da te, perché lasci tu Petronella giacere inferma?" Al quale rispose san Piero: "Perché così le fa bisogno; ma acciò che non si creda ch'ella non possa essere guarita per le mie parole, io dico a lei: Leva su, Petronella, tosto e servi qui a noi". Quella, incontanente guarita, si levò ritta e serviva loro. Compiuto ch'ella ebbe di servire, disse a lei san Piero: "Petronella, riedi e torna al luogo tuo". Quella vi ritornò incontanente e riebbe la febbre, come s'aveva prima; e poi ch'ella cominciò ad essere perfetta nel timore di Dio, sì la sanòe perfettamente. Sì che il conte Flacco venne a lei, acciò che per la bellezza di lei la togliesse per moglie. Al quale ella rispuose: "Se tu mi desideri d'avere per moglie, fammi venire le vergini che mi debbiano accompagnare insino a casa tua". E quegli apparecchiandole, Petronella cominciò a soprastare in digiuni e in orazione, e ricevendo il corpo del Signore e inchinandosi a giacere nel letto dopo tre dì passòe al Signore. E 'l conte Flacco vedendosi beffato rivolsesi a Felicula, ch'era compagna di Petronella, e comandò che od ella il prendesse per marito, od ella sacrificasse a li dei. E quella non vogliendo fare né l'una cosa, né l'altra, il prefetto la fece stare in pregione VII dì sanza manicare e sanza bere, e poscia la fece tormentare tanto a la colla che l'uccise, e 'l corpo suo gittòe nel luogo di fastidio; ma santo Niccodemo il levò quindi, e misselo in sepoltura onorevolemente. Onde Niccodemo fu richiesto dal conte Flacco e non volendo sacrificare, fu battuto con piombati, e gittato il corpo suo nel Tevere; ma poi ne fu tratto da Giusto suo cherico, e fu soppellito onorevolemente e posossi in santità con Cristo. Poi che avemo detto de le feste del mese di Maggio, diremo ora quelle del mese di Giugno.
cap. 74, S. Pietro esorcistaPiero esercisto essendo sostenuto in carcere da Archemio, e sendo la figliuola del detto Archemio tormentata dal demonio, il padre per questo la piagneva spesse volte, e san Piero le disse che se credesse in Cristo che la figliuola sua sarebbe immantinente liberata. Al quale disse Archemio: "Io mi fo maraviglia per quale ragione lo tuo Iddio potrà liberare la mia figliuola, che non puote liberare te, che patisci cotanto per lui!" Al quale disse san Piero: "Egli è bene potente il mio Iddio di liberarmi, ma vuole che per la passione passatoia pervegnamo a la gloria sempiternale". Al quale disse Artemio: "Se raddoppiando me le catene sopra te, lo tuo Iddio ti libera e la mia figliuola sanica, immantanente ti crederrò". Ed essendo ciò fatto, san Piero, vestito di vestimenti bianchi e tenendo la croce in mano, apparve a lui, e quelli sì gli si voltò a' piedi, e la sua figliuola fu sanata; e elli con tutta la casa sua ricevette il battesimo, e lasciò andare sani e sicuri gli altri incarcerati chiunque si volesse fare cristiano; e credendo, molti altri furono battezzati da san Marcellino prete. Udendo ciò il prefetto, tutti gl'incarcerati fece menare a sé; li quali Archemio chiamò e, basciando le mani loro, disse che se alcuno volesse venire al martirio, venisse senza paura, e chi non volesse, andasse via sanza danno. E trovando il giudice che san Marcellino e Piero gli avea battezzati, sì li chiamò a sé e rinchiuselli in prigione ispartiti insieme. Marcellino fu gittato per terra ignudo su per lo vetro minuzzato, e fugli tolto il lume ne la prigione e l'acqua; e Piero fu messo ne l'altra prigione, e costretto in uno strettissimo ceppo. Ma l'angelo di Dio, vedendo Marcellino e sciogliendolo, sì lo rimisse in casa d'Archemio con esso Piero, e comandò loro che per VII confessassero lo popolo, e poscia si presentassero al giudice. Con ciò dunque fosse cosa che 'l prefetto non gli avesse trovati ne la carcere, fecesi venire innanzi Archemio; e veggendo che non volea sacrificare a li dei, comandò che fosse rovinato egli e la moglie entro la terra. Udendo ciò Marcellino e Pietro vennero a quel luogo, e in quella volta san Marcellino disse la Messa difendendo sì li cristiani. E dissero i santi a coloro che non credeano: "Ecco che noi avremo potuto campare Archemio e nascondere noi medesimi; né l'uno, né l'altro abbiamo voluto fare". Allora adirati i pagani uccisero Archemio col coltello, e la madre con la figliuola uccisero con le pietre, e menarono san Marcellino e Piero a la selva nera, la quale per loro martirio è chiamata selva candida, e quivi sì li decollarono. Le cui anime il giustiziere, che avea nome Doroteo, vidde portare in cielo, vestite di vestimenti bianchi e di gemme, per mano d'angeli, ond'elli diventò cristiano e poi morìo in santa pace.
cap. 75, Ss. Primo e FelicianoPrimo e Feliciano furono accusati a Diocliziano e a Massimiano imperadori da' Pontifici de' tempii in questa maniera; che se non li faranno sagrificio a li dei, non potranno ricevere neuni beneficii da loro. Sì che per comandamento de l'imperadori furono rinchiusi in pregione; ma, essendo isciolti e liberati da l'angelo, furono un'altra volta poscia appresentati a lo 'mperadore. I quali stando fermi ne la fede, furono crudelmente squarciati e spartito l'uno da l'altro. Disse il preside a Feliciano che desse consiglio a la vecchiezza sua, e sacrificasse a li dei. Al quale disse Feliciano: "Ecco ch'io abbo già LXXX anni, e XXX anni sono ch'io conobbi la verità e elessi di servire a Dio, il quale mi puote liberare da le tue mani". Allora comandò il preside che fosse legato e attaccato con sottili chiovi ne le mani e ne' piedi e disse a lui: "Tanto starai così che tu ci consentirai". E stando così con la allegra faccia, comandò il preside che in quello luogo fosse tormentato, e al postutto non li fosse dato nulla da mangiare. E poscia si fece menare san Primo, e sì li disse: "Ecco che 'l fratello tuo ha consentito a' comandamenti de lo 'mperadore, e per questo gli è fatto grandissimo onore ne la corte; or fa tu così altressì". Al quale quelli disse: "Avvegnadio che tu sii figliuolo del diavolo, ma pure in parte hai detto il vero, ché 'l fratello mio hae acconsentito a i comandamenti de lo 'mperadore celestiale". Allora il preside adirato comandò che i costati gli fossero incesi con le faccelline, e 'l piombo bogliente messogli per bocca, veggendo ciò Feliciano, acciò che più si spaventasse; ma elli sì bevette il piombo soavemente come fosse acqua fredda. Allora il preside adirato comandò che due leoni fossero loro messi addosso; i quali leoni si gittarono immantanente a' piedi loro e, come agnelli mansueti, stettero dinanzi a loro. Anche misse loro addosso crudeli orsi, e come i leoni diventarono mansueti. Erano a questo sguardamento più di XII migliaia d'uomini, de' quali ne credettero cinque cento in Gesù Cristo. E 'l preside fece dicollare i santi e le loro corpora gittare a i cani e a gli uccelli; ma non essendo neente tocchi da loro, furono spogliati e seppelliti da' cristiani e onorevolemente. E' furono martirizzati intorno a gli anni Domini CCLXXXVII.
cap. 76, S. BarnabaFue avvegnente, consolante, profetante e conchiudente. Avvegnente fu discorrendo e predicando per lo mondo, e ciò si mostra in ciò che fu compagno di san Paolo; consolante fu consolando i poveri e li sconsolati: i poveri a' quali portò la limosina, gli sconsolati a i quali mandò le Pistole da parte de li Apostoli; profetante fu, imperciò ch'ebbe ispirito di profezia; conchiudente fu imperciò che grande moltitudine conchiuse ne la fede e raunòe, e ciò manifesta quando elli andò in Antiochia mandatovi da l'Apostolo. Di queste quattro cose è scritto ne li Atti de li Apostoli, ne lo XI capitolo: "Era un uomo, cioè uno franco uomo quanto al primo; buono quanto al secondo; pieno di Spirito Santo quanto al terzo e pieno di fede quanto al quarto". La sua passione compose Joanni, il quale fue anche chiamato Marco suo consobrino, e massimamente de la visione del detto Giovanni infin presso ch'a la fine, la quale si crede che Beda traslatasse di greco in latino. Barnabas Levites fue natìo di Cipri, il quale fue uno di LXXII discepoli di Cristo. Ne la storia de li Atti de li Apostoli in molte cose è aggrandito e lodato, imperò che fue troppo bene informato e ordinato e quanto a sé e quanto a Dio e quanto al prossimo. Quanto a sé fu ordinato secondo tre potenzie, cioè la razionale e la concupiscibile e la rascibile. Però ch'elli ebbe la razionabile alluminata di lume di conoscimento, onde dicono gli Atti de li Apostoli, nel XIII capitolo: "Erano ne la chiesa, la quale è ad Antiochia, presenti e' dottori co' quali era Barnaba e Simone". Secondariamente ebbe la concupiscibile, purgata da la polvere de la mondana affezione; onde è scritto ne li Atti de li Apostoli, quarto capitolo che Josep, il quale avea il soprannome Barnaba, avendo uno campo sì lo vendé e recò il prezzo e puoselo a' piedi de li Apostoli. Laonde la Chiosa: "Prova d'abbandonare quel che vieta di toccare e ammaestra ch'è da calcare l'oro che sottopone a' piedi de li Apostoli". Nel terzo luogo ebbe l'irascibile, fortificata de la grandezza de la probità; e queste cose ebbe ovvero prendendo a fare le cose malagevoli, ovvero con perseveranza sostenendo le cose contrarie. Imprima dico prendendo a fare le cose malagevoli, come si manifesta in ciò che prese a convertire quella grandissima cittade Antiochia, sì come si mostra ne li Atti de li Apostoli nel nono capitolo che, vegnendo Paulo in Gerusalem dopo il suo convertimento, e volendosi congiungere co' discepoli, e ellino fuggendolo come gli agnelli il lupo, Barnabas sì 'l prese arditamente e menollo a gli Apostoli. Con perseveranza operando le cose forti, per ciò che maceròe il corpo suo con digiuni e afflisse; ond'è iscritto di Barnaba e d'alquanti altri nel XIII capitolo de li Atti de gli Apostoli: "Mentre che serviano a Domenedio e digiunavano ecc.". Anche fue grande in prodezza con grande costanzia sostenendo le cose avverse, sì come gli apostoli gli danno testimonianza quando dicevano: "Con i carissimi nostri Barnaba e Paulo uomini i quali hanno dato l'anime loro per lo nome di messere Gesù Cristo". Secondariamente fu ordinato quanto a Dio, rendendo onore a l'autoritade e a la maestade e a la bontà di Dio. A l'autoritade, e ciò si manifesta in ciò che non prese elli l'officio del predicare, ma per autorità di Dio, come è scritto ne li Atti de li Apostoli XIII capitolo: "Disse lo Spirito Santo: sceveratemi Barnaba e Paulo ne l'operazione a la quale io gli ho presi". Anche a la maestà di Dio, però che, come è scritto ne li Atti, XIII capitolo, volendo alcuni attribuire a lui la maiestà divina, e a lui, come Domenedio, fare sacrificii chiamando lui Giove sì come primiero, e Paulo Mercurio sì come savissimo e bello parladore, immantanente Barnaba e Paulo si stracciarono i panni di dosso e cominciarono a gridare: "Uomini che fate voi? Or noi siamo uomini mortali somiglianti a voi, che vi predichiamo che voi vi dobbiate convertire da queste cose vane a Dio vivo?" Anche rende onore a la bontà di Dio, però che, come è scritto ne gli Atti de li Apostoli, XV capitolo, volendo alcuni de' giudei convertiti a la fede strignere e menovare la bontà de la Grazia di Dio, per la quale, di grazia e non per la legge siamo salvati, dicendo coloro che sanza la circuncisione queste cose non bastavano, allora Paulo e Barnaba contradissero loro vigorosamente, e mostrarono che sola la bontà de la grazia di Dio bastava sanza la legge. Sopra tutto questo si recaro questioni a gli apostoli, e contro a loro errore impetrarono lettere da gli apostoli. Nel terzo luogo fue troppo bene ordinato quanto al prossimo, imperciò che pascette la grazia di Dio di parole, d'essempli e di beneficio. Di parole, imperò che sollicitamente predicòe la parola di Dio; onde si dice ne li Atti, XV capitolo: "Paulo e Barnaba dimoravano ad Antiochia ammaestrando e predicando con molti altri la parola di Dio". E ciò si manifesta ancora per quella grandissima moltitudine, la quale convertìo ad Antiochia, intanto che prima furono chiamati quivi i discepoli cristiani. Nel secondo luogo per essemplo, imperò che la vita sua fue a tutti specchio di santitade ed essemplo di religione. Ched e' fue in ogni sua opera vigoroso e stante, isplendiente di tutta bontà di costumi, pieno d'ogni grazia di Spirito Santo e chiarito in ogni virtude e ne la fede. Di queste quattro cose si tocca ne li Atti, XV capitolo: "Mandarono Barnaba in Antiochia", e poi dice più innanzi: "Confortavali tutti in proponimento del cuore permanere in Domenedio, imperciò ch'era uomo buono, pieno di Spirito Santo e di fede". Nel terzo luogo per beneficio; e questo in due maniere, però ch'egli è beneficio di due maniere, ovvero limosina, cioè temporale, la quale istà in sovvenire ne le necessitadi, e la spirituale, la quale sta in perdonare l'offesa. La prima ebbe santo Barnaba quando portòe la limosina a i frati ch'erano in Gerusalem, come si dice ne li Atti, XI capitolo: "Essendo venuta la grande fame al tempo di Claudio, secondo c'avea profetato Agabo, i discepoli ciò ch'avieno propuosono di mandare in apparecchiamento a' frati ch'abitavano in Giudea; e ciò fecero mandando a' più vecchi per mano di Barnaba e di Paulo". La seconda quando a Giovanni, il quale avea soprannome Marco, perdonòe l'offesa; con ciò fosse cosa che 'l detto discepolo avesse abbandonato Barnaba e Paulo, ritornando elli e pentendosi, Barnaba gli perdonòe e ricevettelo anche per discepolo; ma Paulo nol volle ricevere per discepolo; e però venne lo spartimento tra loro. E ciascuno lo fece per santa cagione e buona intenzione; in ciò che Barnaba lo ricevette, ciò fece elli per dolcezza di misericordia; e che san Paulo non lo volse ricevere, ciò fece elli per dirittura di fervore. Però che, sì come dice la Chiosa in quello luogo nel XV capitolo de li Atti: "Imperò che ordinandosi ne la fronte de la faccia era stato troppo tiepidamente, a grande ragione il cacciò via san Paulo, acciò per lo suo male essemplo non si corrompessono le forze de gli altri". E quello spartimento non si fu fatto da commozione di vizio, ma fu ordinamento de lo Spirito Santo, acciò che si sceverassono insieme e predicassero a più persone, sì come poi addivenne. Ché essendo Barnaba ne la città d'Iconia al detto Giovanni, suo consubrino, apparve in visione un uomo splendiente, e sì li disse: "Giovanni oggimai sie tu costante e fermo, ché tu non sarai chiamato Giovanni, ma eccelso". La qual cosa abbiendo quelli raccontato a san Barnaba, egli gli rispuose: "Or guarda diligentemente che tu non lo palesi quello che tu hai veduto, imperò che a me simigliantemente apparve stanotte e disse: "Sie costante Barnaba, imperò che tu riceverai gli eternali doni in ciò che tu hai abbandonata la gente tua e l'anima tua per lo nome mio". Abbiendo dunque Paulo e Barnaba predicato lungo tempo in Antiochia, l'angelo di Dio apparve a san Paulo, e disse: "Studiati di venire in Gerusalem, però che alcuni frati v'aspettano la venuta tua". Sì che volendo Barnaba andare in Cipri a rivedersi co' parenti suoi, e Paulo in Gerusalem per inizzamento de lo Spirito Santo, si spartirono insieme. Ma abbiendo san Paulo manifestato a san Barnaba ciò che l'angelo gli avea detto, rispuose Barnaba: "Sia fatta la volontà di Dio, ché ora me ne vado in Cipri, e là compierabbo i dì miei e non ti vedrò più". E così piangendo, si gettò umilemente a' piedi di san Paulo. E lui sì gli disse: "Non piangere per ciò, ché così è il volere di Dio; ché istanotte apparve il Signore a me e disse: "Non vietare a Barnaba che vada in Cipri, imperò che v'alluminerà molta gente e compierà il martirio". Sì che giugnendo Barnaba in Cipri con Giovanni, portò seco il Vangelo di san Marco, e ponendo le mani sopra l'infermi, molti ne sanòe con la virtù di Dio. Ed essendo usciti di Cipri trovarono Elima mago, al quale san Paulo avea privato a tempo del lume de li occhi; il quale mago contrastette loro e vietò loro d'entrare in Pafo. Sì che un die vidde san Barnaba uomini e femmine correre ignude e fare loro feste, ond'elli conturbato di ciò, maladisse quello tempio, e subitamente ne rovinò una parte e abbattenne molti di loro. A la perfine capitòe a Salamina e in quel luogo il detto mago commosse grande romore di popolo contra lui, sì che presero li giuderi san Barnaba; e poi che l'ebbero molto ingiuriato sì 'l traevano e studiavansi di darlo a punire al giudice de la città. Sì che spiato che ebbero ch'Eusebio, grande uomo e potente del legnaggio di Nerone, era venuto là, ebbero paura e' giuderi ched elli non lo togliesse loro di mano, e lasciasselo così andare liberamente; legandoli dunque una fune al collo fuori de la porta lo trascinaro ed iviritto l'arsono incontanente. A la perfine non essendo così sazii ancora li giuderi ispietosi, rinchiusero l'ossa sua in uno vasello di piombo, volendole traboccare nel mare; ma Giovanni, suo discepolo, levandosi di notte con due altri, sì 'l tolse quindi, e soppellille in una volta sotterra celatamente. E stettero così celate in quello luogo, sì come dice Sigberto, infino al tempo di Zeno imperadore e di Gelasio Papa, cioè infino a gli anni Domini D; ma allora furono trovate per revelazione del santo. Ma santo Doroteo dice così: "Barnaba predicò di prima Cristo a Roma, fatto vescovo di Melano".
cap. 77, Ss. Vito e ModestoVito, fanciullo nobile e fedele, in XII anni sostenette martirio in Cicilia. Costui era spesse volte battuto dal padre per ciò che spregiava gl'idoli, né non li voleva adorare. Udendo ciò Valeriano prefetto fecesi venire innanzi il fanciullo, e non volendo sacrificare, con bastoni il fece battere; ma le braccia di coloro che battieno e la mano del prefetto incontanente si seccarono. E gridòe il prefetto e disse: "Oimè che io abbo perduta le mano!" Disseli santo Vito: "Vegnano gli dei tuoi e guariscanti, se possono!" E quelli disse: "Or tu puo'lo fare?" Disse Vito: "Nel nome di Dio sì posso". E incontanente pregò per lui e impetrolli che li fosse renduto santade. E disse il prefetto al padre: "Gastiga il fanciullo tuo, acciò che non perisca in mal modo". Allora quegli il mise in casa, e sforzavasi di mutare l'animo del fanciullo con diverse maniere di stormenti e giuochi di fanciulle e con altre maniere di diletti. E abbiendolo rinchiuso in camera, un maraviglioso odore n'uscìo fuori, lo quale riempiette il padre e tutta la famiglia. E ponendo mente il padre per l'uscio, vidde sette angeli che stavano intorno al fanciullo e disse: "Gli dei son venuti in casa", e immantanente acciecò. Al grido suo tutta la città di Lucca si commosse, sì che Valeriano v'accorse, e domandava quel che gli era intervenuto. E quelli disse: "Io viddi gl'iddei del fuoco e non pote' patire il volto loro". Sì che e' fu menato al tempio di Giove, e per ricoverare il lume de gli occhi promisse il toro con corna d'oro; ma non giovando nulla pregò il figliuolo che 'l guerisse, e ricoverò il lume per li suoi prieghi. Ma non credendo per questo modo, ma pure pensando uccidere il fanciullo l'angelo di Dio apparve a Modesto, suo maestro, e comandogli che entrasse in una nave, e menasse il fanciullo ad un'altra terra. Abbiendo ciò fatto, l'aguglia recava làe il cibo a loro e molti miracoli vi faceva. Infrattanto il fanciullo di Diocliziano imperadore fu preso dal demonio, e confessa che se Vito lucchese non vi viene, non uscirà mai. Cercarono per Vito e, trovato che l'ebbero, fu menato a lo 'mperadore. Al quale disse Diocliziano: "O fanciullo, puoi tu guarire il mio fanciullo?" E quelli disse: "Non io, ma il Signore". E tanto tosto puose le mani sopra colui, e 'l dimonio fuggìe tosto da lui. Disse Diocliziano: "Fanciullo, prendi consiglio: sacrifica a gli dei, sì che tu non muoia di mala morte". E quelli ricusando ciò, fu messo in pregione con Modesto, e subitamente la gravezza de' ferri, ch'era posta loro addosso, cadde loro, e la carcere fu tutta splendiente di chiaro lume. La quale cosa essendo detta a lo 'mperadore, funne tratto fuori e messo in ardente forno, ma elli n'uscì fuori sanza nessuno male. Allora fu ammesso a lui divorare uno terribile leone; ma e' fu aumiliato da lui con la virtù de la fede. A la perfine egli con Modesto e con Crescenzia, sua balia, la quale sempre l'avea seguitato, furono fatti mettere a la colla; ma subitamente si turbò l'aere e tremòe la terra e vennero i tuoni e li templi de l'idoli caddero e molta gente uccise. Lo 'mperadore impaurito, si misse a fuggire, e fuggendo si dava de le pugna nel petto, e diceva: "Oimè dolente, che io sono vinto da uno fanciullo!" E quegli, sciolti incontanente da l'angelo, sì si trovarono lunghesso un fiume, e posandosi iviritto e stando in orazione, renderono l'anime a messere Domenedio. E le loro corpora guardate dall'aguglie trovò una gentile donna, ch'avea nome Florenza, come santo Vito gliele rivelòe. E togliendole di quello luogo sì li soppellìe onorevolemente; e furono martirizzati a gli anni Domini CCLXXXVII.
cap. 78, Ss. Quirico e GiulittaChirico fue figliuolo di Giulitta, gentilissima donna di Iconia; la quale, volendo cansare la persecuzione, andossene in Tarso di Cecilia col fanciullo suo Chirico che avea tre anni. Ma fue menata innanzi ad Alessandro preside, col fanciullo suo in braccio; e veggendo ciò due sue fancelle, incontanente fuggirono e sì l'abbandonarono. Sì che il preside tolse il fanciullo ne le braccia sue e la madre, non vogliente sacrificare, fece battere con crudeli nerbi. E 'l fanciullo veggendo battere la madre piagneva amarissimamente e dava boci di lamento. E 'l preside, ponendosi il fanciullo ne le braccia e in su le ginocchia, sì 'l trastullava con basci e con altre lusinghe; ma il fanciullo, pognendo mente a la madre, sì rifiutava i basci del preside e, rimovendo il capo a lui, sì li graffiava il viso suo con l'unghie, e a la madre dava concordevoli boci, quasi dicesse: "E io sono cristiano". A la perfine, combattendo molto, morse il preside in su la spalla. Allora il preside, adirato e tormentato del dolore, gittò da alto il fanciullo giù per le gradora, sì che il tenerello cervello s'appiccòe a la sedia; e Giulitta, veggendo che 'l fanciullo suo l'era entrato innanzi a Paradiso, lieta di ciò rendette grazie a Domenedio. Allora fu mandato che Giulitta fosse scorticata e gittatole la pece bogliente addosso e a la perfine le fosse mozzo il capo. Ma in una leggenda si truova che Chirico, schifando il tiranno lusingante igualmente come minacciante, confessava sì de l'essere cristiano; secondo il tempo il fanciullo non potea parlare, ma lo Spirito Santo parlava in lui. E domandandolo il preside chi gli avesse insegnato, elli disse: "De la tua mattezza mi maraviglio, o preside, ché veggendomi in cosìe piccolina etade, che non mi vedi avere ancora tre anni, e dimandimi chi m'ha insegnato la divina sapienza?" Il quale essendo battuto gridava: "Cristiano sono"; e per quante volte gridava, questo tanto ricevea più vertude e forza tra i tormenti. E 'l preside fece isvembrare la madre col fanciullo, e le loro membra, perché non fossero seppellite da' cristiani, fece spargere in diverse luogora. Ma elle furono ricolte da l'angelo e seppellite di notte da' cristiani. Le corpora di costoro al tempo del grande Costantino, essendo renduta la pace a la chiesa, furono revelate da una de le ancelle che sopravviveva ancora, e sono avute in grande divozione da tutto il popolo. E furono martirizzati intorno a gli anni Domini CCCXXX sotto Alessandro. La passione de' santi martiri san Marco e Marcelliano sì si contiene fra la leggenda di san Bastiano.
cap. 79, S. MarinaMarina vergine era una sola figliuola al padre suo. Essendo il padre entrato in uno monasterio mutò l'abito a la figliuola sua, ché non paresse femmina ma maschio, e pregò l'abate e ' frati che ricevessono uno suo solo figliuolo. I quali assentendo a' suoi prieghi, fue ricevuto per monaco, e chiamavallo tutti frate Marino. Or cominciò a vivere molto religiosamente ed essere molto ubbidiente. Il quale essendo venuto a XXVII anni e sentendo il padre sé appressimare a la morte, chiamòe la figliuola sua e, confortandola nel buono proponimento, e sì le comandò che mai non manifestasse ad alcuno ched e' fosse femmina. Sì ch'elli andava spesse volte col carro e co' buoi a recare legne al monasterio; ed era sua usanza d'albergare in casa d'uno uomo la cui figliuola, essendo ingravidata d'un cavaliere e domandata de la sua gravidezza, appuoselo la colpa a Marino monaco. Domandatone Marino perché tanto peccato avesse commesso, disse che avea peccato; e chiesene perdonanza. E cacciato incontanente fuori del monasterio, stettesi a la porta del monasterio e, stando iviritta tre anni, d'una fetta di pane il die si sostentava. Poscia fu mandato a l'abate il fanciullo di quella femmina levato da latte e fu dato a Marino a nutricare, e stette con lui anche due anni in quello luogo. E ogne cosa sì ricevea in grande pazienza e in tutte cose rendea grazie a Dio. A la perfine, avendo i frati misericordia de la sua umilitade e pazienzia, sì lo ricevettero nel monisterio e impuoseli a fare tutti i più vili uffici de la casa; ed elli li ricevea tutti allegramente e faceva tutte le cose egualmente e divotamente. A la perfine, menando la sua vita in buone operazioni, andonne a vita eterna. E lavando i frati il corpo suo e ordinando di riponerlo in cattivo luogo, puosero mente e videro ch'egli era femmina. Sì che stupediti tutti e spaventati di paura confessarono d'avere troppo fallato verso la servigiale di Dio. Sì che corre tutta gente a vedere così grande maraviglia, e domandano perdonanza del non sapere e de l'offesa. Sì che puosero il corpo suo onorevolemente ne la chiesa, e quella femmina che avea infamato la servigiale di Dio fu imperversata dal demonio e confessando il peccato suo venne al sepolcro de la vergine Marina e fue liberata. Al cui sepolcro corre tutta gente da ogne parte, e fannovisi molti miracoli. E morìo XIV fra Giugno.
cap. 80, S.s. Gervasio e ProtasioLa passione di costoro trovòe santo Ambrosio scritta in uno libricciuolo posto a le capita loro. Gervasio e Protasio sì furono fratelli binati, figliuoli di San Vitale e di Santa Valeria; i quali dando tutto il loro a' poveri stavansi con santo Nazario, il quale faceva uno oratorio a Ebreduno, e uno fanciullo che avea nome Celso li porgeva le pietre. In ciò che dice che Nazario aveva auto Celso, prendesi forse per innanzi prendere, con ciò fosse cosa che lungo tempo poi si comprenda che Celso gli fosse stato offerto, per la storia di san Nazario. Essendo tutti menati a lo 'mperadore, tenea loro dietro il fanciullo Celso piagnendo fortemente. E dandoli uno de' cavalieri una gotata, e riprendendolo san Nazario perché l'avea battuto, li cavalieri crucciati sì missero san Nazario tra i calci, e lui con esso gli altri rinchiusero a la prigione, e poscia il gittarono nel mare; e Gervasio e Protasio si menarono a Melano. A quello tempo sopravvegnente il conte Astasio, il quale andava a la battaglia contra Marcomanni, i coltivatori de li dei gli si fecero incontro e diceano che li dei non volevano loro dare risposta, se prima Gervasio e Protasio non sacrificassero. Sì che e' furono incontanente rattenuti e furono invitati a sacrificare. Dicendo san Gervasio che l'idole erano tutte sorde e mutole, e ammaestrandoli come doveano richedere da Dio onnipotente la vittoria, adirato quelli tanto fece battere con piombati ched elli mandasse via il fiato. Poscia fece chiamare Protasio e dissegli: "Misero, o tu almeno ti briga di vivere e non volere col fratel tuo morire di mala morte". Al quale disse Protasio: "Chi è misero, o io che non ti temo, o tu mostri di temere me?" Disse Astasio: "Io te, misero uomo, come ti temo?" A quale disse Protasio: "In ciò mi temi tu che tu ti mostri d'essere offeso da me, s'io non fo sacrificio a li dei tuoi. Che se tu non temessi d'essere offeso da me, neente mi strigneresti mai a dare sacrificio a l'idole". Allora il conte il fece appiccare a la colla. Al quale disse Protasio: "Non mai dirò contra te, però ch'io ti veggio cieco de gli occhi de la mente, anzi maggiormente m'incresce di te che non sai che ti fare. Fa' dunque come tu hai cominciato, acciò che a me, col fratello mio, possa venire incontro la benignità del Salvatore!" Allora il conte comandò che fosse dicollato. E Filippo servo di Cristo col figliuolo suo tolse i corpi loro e celatamente li seppellìo entro in casa sua in un'arca di pietra, e al capo puose uno libricciuolo dove si contenea il loro nascimento e la vita e la fine. E furono passionati intorno agli Domini LVII. I corpi di costoro stettero celati grande tempo, ma al tempo di santo Ambruosio furono ritrovati in questo modo: che stando in orazione santo Ambruosio ne la chiesa di santo Nabore e Felice, sì che né bene vegghiava né bene dormiva, sì gli apparvero due bellissimi giovani, vestiti di vestimenta bianchissime, cioè di diaspro i mantelli e calzati di calze, e oravano insieme con le mani stese. Sì che santo Ambruosio pregò Domenedio che se fosse inganno del diavolo non gli apparisse più; ma se fosse verità, sì li fosse rivelato un'altra volta. Sì che in simigliante modo quando il gallo cantava, apparvero i giovani oranti insieme con lui; la terza notte, macerato il corpo di digiuni, non dormendo ma vegghiando, sì li apparve la terza persona che parea simigliante a san Paulo apostolo, secondo che l'avea veduto dipinto. E tacendo coloro, disse a lui l'apostolo: "Questi sono che, non disiderando alcuna cosa terrena, seguitarono li miei ammonimenti, i corpi de' quali ritroverrai in quello luogo dove tu stai in altezza XII piedi sotterra, e troverrai una arca coperchiata, e a capo loro troverrai uno libricciuolo dov'è scritto il loro nascimento e la fine". Sì che fatti venire i vescovi de le vicinanze, esso fu il primo che andòe a cavare la terra, e trovò tutto per ordine come san Paulo gli avea detto; e avvegna di che da CCC anni fossero scorsi e più, impertanto le loro corpora furono trovate né più né meno, come se in quella medesima ora vi fossono state poste. Allora sì n'usciva una maravigliosa soavità d'odore; e uno cieco toccando il cataletto fu alluminato, e molti altri infermi per li meriti di questi santi furono sanati. Racconta santo Agostino nel libro [XX] de la Città di Dio che in sua presenzia e de lo imperadore e di molta gente uno cieco riebbe il vedere al sepolcro de' santi martiri Gervasio e Protasio. Ma se sì fosse il cieco detto o un altro, non si sa. Anche dice egli medesimo che in una villa che si chiama Vittoriana, ch'è di lunge da Iporegia XXX miglia, uno giovane lavava un cavallo in uno fiume sì che il cavallo lo 'mperversòe, e gittollo nel fiume come per morto. E cantandosi il vespro ne la chiesa di san Gervasio e Protasio, quelli, quasi come percosso di quelli boci, con grande fracasso entròe ne la chiesa, e tenea l'altare non potendosene ismuovere come se vi fosse legato. Essendo scongiurato il demonio che n'uscisse quindi, sì minacciava quando n'uscisse di schiantare le membra di colui. Sì che pure uscendone molto adirato, l'occhio di colui sparto ne la mascella con una sottilissima vena pendeva del luogo suo, ma elli il rimisero nel luogo suo come poterono. Ed eccoti da ivi a pochi dì guarito costui per li meriti di san Gervasio e Protasio pienamente. Santo Ambruosio nel profazio dice così: "Questi sono quelli i quali, segnati del gonfalone celestiale, presero le vincitrici arme de l'apostolo, e sciolti da' mondani legamenti abbattendo la schiera de' vincitori del malvagio nemico, liberi e ispediti seguitarono Cristo Signore. O com'è beato fratellatico, il quale accostandosi a i santi parlari non poté essere mischiato d'alcuno rio appiccicamento! O com'è gloriosa cagione di battaglia,dove sono incoronati insieme coloro i quali d'uno medesimo corpo di madre uscirono insieme!" Ne la festa di costoro si riformòe la pace tra Longobardi e lo 'mperio de' romani, e però ordinò san Gregorio papa che a lo Introito de la Messa si dovesse cantare in quello die: "Loquetur Dominus pacem [in plebem suam]", cioè a dire: "parlerà il Segnore pace nel popolo suo". Onde gli officii de la Messa parte si convegnono a' santi, e parte a le cose che intervegnono in quelli dì.
cap. 81, Nativ. Giovanni BattistaIl nascimento di Joanni Batista in questo modo modo fue annunziato da Gabriello Arcangelo: David re, come si legge ne le Storie Scolastiche, volendo isciampiare il coltivamento di Dio, ordinò che fossero XXIV sommi sacerdoti, tra ' quali n'era uno il quale era chiamato il prencipe de' sacerdoti. E di questi n'ordinò XV uomini de la schiatta d'Eleazar, e [VIII] de la schiatta di Itamar e, secondo le sorti, diede a catuno a fare la sua settimana. Sì che l'uno di loro, ciò fu Abias, ebbe a fare l'ottava settimana, de la cui schiatta fue Zaccheria. Or erano elli e la sua moglie Elisabetta vecchi e sanza figliuoli. Essendo dunque entrato Zaccheria nel tempio di Dio per porre lo 'ncenso, e aspettando di fuori la moltitudine del popolo, apparve a lui l'angelo Gabriello; e temendo Zaccheria nel vedere di colui, disse l'angelo: "Non temere Zaccheria, imperò che Iddio ha esaudita la tua orazione". Proprietà è de' buoni angeli, secondo che dice la Chiosa, che coloro che si spaventano per loro vedere, di consolarsi immantanente con benigno conforto; e 'l contrario fanno i mali angioli che, trasformandosi in angeli buoni, se veggiono alcuni spaventati per la loro presenzia, sì li commuovono di maggiore errore. Annunzia adunque Gabriello a Zaccheria ch'elli dee avere figliuolo, il cui nome fosse Giovanni, che non berrà vino né siccera e andrà innanzi al Signore in ispirito e in vertute d'Elia. Sì che Joanni è chiamato Elia, e per ragione del luogo, però che abendue stettero nel deserto; e per ragione del vivere, però che abendue furono temperati; e e per ragione del coltivamento, però che abendue furo non coltivati; e per ragione de l'offizio, però che abendue furo precursori; ma quelli è precursore del giudice, questi è del Salvatore. Anche per ragione del zelo, però che la parola di ciascuno ardeva come faccellina. Zaccheria considerando la sua vecchiezza e la sterelità de la moglie, cominciò a dubitare, e al modo de' giudei domandò segnale da l'angelo. E l'angelo, perché quelli non credette a le sue parole, sì 'l percosse de la piaga de la mutolaggine. Da notare è qui che la dubitazione suole avvenire ed è scusata talora per la grandezza de le impromesse, come si legge da Abraam; che, abbiendoli Dio promesso che il seme suo possederebbe la terra di Canaan, disse a lui Abraam: "Signore Dio, onde posso io sapere che io debbia possedere?" E 'l Signore rispuose, e disse: "Tolli una vacca che abbi tre anni e fa così e così". Talora addiviene per considerazione de la propria fragilità, come si mostra in Gedeon, che disse: "Dimmi, Signore mio, in che libererò io il popolo d'Israel ? Ecco la famiglia mia inferma in Manasse, e io sono il minimo ne la casa del padre mio". E per questo segnale domandòe ed ebbe. Talora addivene per impossevolezza de la natura, come si mostra in Sara, che avendo detto il Signore: "Io renderò e verrò a te e avrà Sara figliuolo", quella rise dopo l'uscio, e disse: "Da ch'io sono invecchiata e 'l marito è vecchio?" Che è ciò dunque che Zaccheria solo in ciò che dubitò ebbe la piaga, con ciò fosse cosa che quivi fosse grandezza d'impromessa e impossevolezza naturale ? Questo si crede che fosse per molte cagioni. Imprima, secondo Beda, imperò ch'elli parlòe discredendo, però che fu punito di mutolaggine, acciò che tacendo appari a credere; nel secondo luogo però divenne mutolo, acciò che apparisse maggiore miracolo nel nascimento del figliuolo. Ché essendoli renduto il parlare, miracolo fu accresciuto a miracolo; nel terzo luogo fu convonevole che perdesse la boce, quando boce nasceva e poneasi silenzio a la legge; nel quarto luogo imperò ched elli domandò segnale da Dio ed ebbe quella mutolaggine per segnale da Dio. Ed essendo Zaccheria uscito fuori al popolo e vedendo che elli era fatto mutolo, seppero per cenno da lui ch'elli avea veduto visione nel tempio. Sì che, compiuta la settimana de lo officio suo, se n'andò in casa sua e ingravidòe Elisabetta e tennelo celato cinque mesi, però che, come dice qui santo Ambruosio, ella si vergognava di partorire in quella etade, acciò che non paresse che in sua vecchiezza fosse intesa ad opera carnale; e per tanto s'allegrava che l'era tolto il vituperio d'essere isterile, imperò che disonore è a la femmina non avere il frutto del matrimonio per lo quale si fanno i mogliazzi, e 'l congiugnimento carnale e scusato. Sì che il sesto mese la Vergine, che avea conceputo Cristo segnore, rallegrandosi de la sterilitade tolta da colei e avendo compassione de la sua vecchiezza, venne a Elisabetta. E avendola salutata, San Giovanni, pieno già di Spirito Santo, sentìo il figliuolo di Dio venire a sé, e per la letizia entro il ventre de la madre ballòe, e col muovere salutò colui col quale con voce non poté salutare. Rallegrossi quasi come disiderante di salutare e di fare onore al suo segnore. E stette la beata Vergine Maria tre mesi con la parente sua, servendo a lei. E nato il fanciullo, la beata Vergine sì lo levò di terra con le sue mani santissime, e compiette l'officio come di servigialissima balia. Questo precursore di Cristo, San Giovanni, risplendiente è da nove privilegii singularmente e spezialmente; però che quello medesimo angelo ch'annunziò Cristo, sì annunziò costui, nel ventre de la madre si rallegrò, la madre di Dio il ricolse di terra, aperse la lingua del padre, ordinò prima il battesimo, mostrò Cristo a dito, battezzollo con le sue mani e lodollo Gesù Cristo sopra tutti, stando nel limbo annunziò che Cristo dovea venire a loro. Per questi nove privilegi è chiamato dal Signore profeta e più che profeta. E perché sia detto più che profeta, san Grisostomo ne dice così: Ora appartiensi a profeta di dare al Segnore il beneficio del battesimo? Al profeta sì si fa di profetare del Signore e non che Dio profeti di lui. Tutt'i profeti profetarono di Cristo, ma di loro non fu profetato; questi non solamente profetòe di Cristo, ma gli altri profeti profetarono di lui. Tutti furono portatori di parole; ma costui fu essa voce. Ma quando essa voce fosse prossimana a la parola, non pertanto fue parola; Joanni fue più prossimano a Cristo, ma non fue Cristo". Secondo il detto di santo Ambruosio la loda di san Giovanni si comprende da cinque cose: cioè da' parenti, da' miracoli, da' costumi, da dono, da predicazione. La loda di parenti si manifesta di cinque cose, come dice santo Ambruosio; e dice così: "Piena la loda è quella la quale comprende la generazione ne i costumi e i costumi in dirittura e l'officio del pretatico e l'opera ne' comandamenti e 'l giudicio ne' giustificati". Nel secondo luogo da li miracoli, de' quali alcuni avvennero innanzi che fosse conceputo nel ventre de la madre, ciò fue l'annunziamento de l'angelo, la postura del nome e 'l perdimento del favellare del padre. Alcuni miracoli furono quanto al suo concevimento nel ventre, ciò fue supernale concevimento, nel ventre santificamento e di dono profetale riempimento. Alcuni miracoli furono quanto al suo nascimento del ventre de la madre, ciò fue acquistamento di spirito di profezia del padre e de la madre sua, imperò che la madre seppe il nome e 'l padre compuose il cantico: "Il rendimento de la favella al padre, e 'l riempimento di Spirito Santo, onde Zaccheria suo padre fue ripieno di Spirito Santo". Dice san Ambruosio: "Ragguarda san Giovanni; quante cose comandò il suo nome, il cui nominamento rende al mutolo la voce, al padre pietade, al popolo il Sacerdote. Però che prima era tacente ne la lingua, sterile di figliuolo, privato de l'officio, ma da che Joanni nasce, subitamente il padre è fatto profeta, ricevette l'uso del parlare, ricevette figliuolo da lo Spirito Santo, l'officio riconobbe il Sacerdote". Nel terzo luogo si manifesta la sua loda da' costumi, però che di santissima vita fue. De la cui santitade dice Grisostomo: "La conversazione di Giovanni facea parere la vita di tutti piena di colpe. Come si vedesse uno vestire bianco, direbbe che assai fosse bianco; ma se lo ponesse a lato a la neve, sì comincerebbe a mostrare sozzo, pognamo ch'al vero non fosse sozzo. E così quanto a comparazione di Joanni ogni uomo pareva sozzo". La santità del quale ebbe tre testimonianze. Imprima da le cose disopra al cielo, cioè da la Trinitade, e prima dal padre che 'l chiama angelo, come dice la profezia di Malachiel, secondo capitolo: "Ecco ch'io mando l'angelo mio, il quale apparecchiarà la via dinanzi a la faccia tua". Angelo si è nome d'officio e non di natura; e però è detto angelo per ragione de l'officio, in ciò che pare che facesse l'officio di tutti gli angeli. Egli ebbe l'officio de' Serafini. (Serafini è interpretato ardente, imperò che ci fanno ardenti e ellino ardono più nell'amore di Dio). E di Giovanni è scritto ne l'Ecclesiastico, nel capitolo CLVIII: "Levossi su Elia come fuoco e la parola sua ardeva come faccellina". E Elli venne in ispirito e in vertù d'Elia. Nel secondo luogo ebbe l'officio de Cherubin, (Cherubin è interpretato plenitudine di scienzia), e Giovanni è detto stella Diana, come dice Job nel trentotto capitolo: "Or trai tu fuori la stella Diana nel tempo suo" in ciò che fue termine de la notte de la ignoranzia e cominciamento de la luce de la grazia. Nel terzo luogo ebbe l'officio de' Troni, l'officio de' quali si è di giudicare. E di Joanni è scritto ched elli riprendeva Erode dicendoli: "Non te' licito d'avere la moglie del fratello tuo". Nel quarto luogo ebbe l'officio de le Dominazioni, li quali ci ammaestrano come noi ci dobbiamo portare inverso i sudditi. E Giovanni era tenuto inverso i sudditi in grande amore e inverso i segnori in paura. Nel quinto luogo ebbe l'officio de' Principati, che ci insegnano avere in reverenza i nostri maggiori; e Giovanni diceva di se medesimo: "Chi di terra è, di terra parla; ma Cristo che venne dal cielo si è sopra a tutti". Anche dicea: "Io non sono degno di scioglierli la correggia del calzamento suo". Nel sesto luogo ebbe l'officio de le Podestadi, per le quali Podestadi erano costrette le contrarie; le quali non lo poteano nuocere essendo santificato già. E da noi le costrignea quando elli ci acconciava al battesimo de la penitenza. Nel settimo luogo ebbe l'officio de le Virtudi, per le quali son fatte i miracoli, ché 'l beato Giovanni mostrò in sé molti miracoli. Grandi miracoli sono mangiare le mele salvatiche e ' grilli, e vestirsi di pelli di cammelli e cotali altre cose. Ne l'ottavo luogo ebbe l'officio de li Arcangeli quando rivelava le cose più alte, sì come quelle che si pertegnono al nostro ricomperamento, quando dicea "Ecco l'agnello di Dio". Nel novesimo luogo ebbe l'officio de li angeli quando annunziava le cose minori, sì come quelle cose che si pertegnano a' costumi, come quand'elli dicea: "Fate penitenza"; e quando diceva: "Non fate turbazione a neuna persona". Secondariamente ebbe testimonianza dal figliuolo, com'è scritto nel Vangelio di San Matteo, XI capitolo, dove Cristo il loda in molti modi maravigliosamente, dicendo infra l'altre parole: "Tra ' figliuoli de le femmine non si levò maggiore che Giovanni Battista". Piero Damiani dice: "Da quella parola di Giovanni sono manifestate le lode per cui fu fondata la terra, e sono mosse le stelle, e fatti gli elementi". Nel terzo luogo ebbe testimonianza da lo Spirito Santo, quando egli disse per bocca di Zaccheria, padre di lui: "Tu, fanciullo, sarai chiamato profeta de l'altissimo". Secondariamente ebbe testimonianza da le cose celestiali, sì come da gli angeli; e ciò si mostra nel Vangelio di santo Luca nel primo capitolo, dove l'angelo il loda in molte guise mostrando di quanta dignità sia quanto a Dio, quando dice: "Elli sarà grande innanzi al Signore". Mostra ancora di quanta santità appo se medesimo quando dice poi: "Vino e siccera non berrà e sarà ripieno di Spirito Santo istando in corpo de la madre sua". Mostra ancora di quanta utilità fosse al prossimo quando dice: "E molti de' figliuoli d'Israel convertirà al Domenedio loro". Nel terzo luogo si comprende la loda sua da le cose disotto al cielo, cioè da li uomini sì come dal padre suo e da i vicini, quando dicevano: "Or che fanciullo credete che sia questi?" Nel quarto luogo si comprende la loda di San Giovanni dal dono; però ch'elli ebbe dono stando nel ventre e ne l'uscire del ventre e ne lo stallo nel mondo e ne l'uscire del mondo. Nel ventre ebbe tre maravigliosi doni di grazia. Primieramente la grazia con la quale fue santificato nel ventre, onde fue prima santo che nato, come dice Jeremia nel primo capitolo: "Prima ch'io ti formasse nel ventre t'ho conosciuto, e innanzi che tu uscissi del ventre sì t'ho santificato". Secondariamente ebbe la grazia, per la quale meritòe di profetare, sì come detto è innanzi, ché, rallegrandosi nel ventre de la madre, conobbe che Iddio era presente. Onde Grisostomo, volendo mostrare come fosse più che profeta, dice così: "Di profeta è ricevere la profezia per lo merito de la buona conversazione e de la fede; or fue di profeta che prima fosse fatto profeta che uomo?" E perché egli era usanza che ' profeti s'ugnessero, allora che la beata Vergine salutò la beata Elisabetta, Cristo unse Joanni in profeta, secondo che dice Grisostomo in queste parole: "Però fece Cristo che Maria salutasse Elisabetta, acciò che uscendo la parola del ventre de la madre, là dove abita Cristo, ed entrando per le orecchie d'Elisabetta scendesse a Joanni, acciò che quivi l'ugnesse in profeta". Nel terzo luogo ebbe la grazia, con la quale per li suoi meriti diede a la madre ispirito di profezia. Onde Grisostomo, vogliendo mostrare come fosse più che profeta, dice così: "Quale de' profeti, stando profeta, poté anche fare profeta?" Elia unse bene Eliseo in profeta, ma non li donòe la grazia del profetare. Ma costui, saltando entro el ventre de la madre, donòe a la madre conoscimento che Dio entrava, e apersele la bocca ne la parola de la confessione, sì che conobbe la dignità di quella persona la quale non vedea, dicendo::"Onde abbio questo che la madre del Signore mio vegna a me?" Ne l'uscire del ventre ebbe tre doni, però che 'l suo nascimento fue miracoloso e santo e giocondo. Per ciò che fue miracoloso è cacciato via il diserto de la impotenzia; per ciò che fue santo è cacciato via il diserto de la colpa; per ciò che fue giocondo è cacciato via il diserto de la miseria. Guardasi il suo nascimento, ovvero natività, secondo il maestro Guglielmo Altessiodorense, per tre ragioni: la prima per lo santificamento nel ventre; la seconda per la dignitade ne l'officio, imperò ch'elli venne come stella Diana ad annunziare prima l'eternale allegrezza; la terza ragione per la giocondità nel nascimento suo. Però che l'angelo suo disse: "E molti si rallegrarono nel nascimento suo". E però è degna cosa che noi nel suo nascimento ci rallegriamo. Ne lo stallo del mondo ebbe simigliantemente molti doni; in ciò si manifestano li suoi eccellentissimi e divisati doni di grazia, ched elli ebbe la perfezione di tutti i santi, ché fue profeta quando disse " Dopo me dee venire colui che fu fatto innanzi a me". Più che profeta fue, però ch'elli il mostrò a dito; apostolo fue perché mandato da Dio; apostolo è tanto dire quanto messo. Onde dice il Vangelio: "Fue uomo messo da Dio, il quale avea nome Joanni; martire fue, imperò che per la giustizia sostenne la morte; confessore fue, imperò che confessò e non negòe; vergine fue, onde per la sua puritade è chiamato angelo". Onde dice Malachiel profeta nel secondo capitolo: "Ecco ch'io mando l'angelo mio". Ne l'uscire del modo ebbe tre doni, però che divenne martire non vinto: ché allora acquistòe la vittoria del martirio. È mandato come messaggio prezioso, però che allora a coloro ch'erano al limbo portòe preziosa ambasciata, cioè de l'avvenimento di Cristo e de lo ricomperamento loro. E guardasi la sua uscita gloriosa, però che la sua uscita da tutti quelli che discesero al limbo è spezialmente solennizzata e gloriosamente ricordata. Nel quinto luogo è lodato da la predicazione. Intorno a la cui predicazione l'angelo pone quattro cose quando dice: "E molti de' figliuoli d'Israel convertirà a Domenedio loro, e elli andrà innanzi in spirito e in virtù d'Elia". Le quali quattro cose sono queste: il frutto, l'ordine, la vertude e 'l fine, come si mostra ne la lettera. E dovemo sapere che 'l predicare di Joanni fue in tre maniere, cioè che elli predicòe ferventemente e efficacemente e saviamente. Ferventemente, quando diceva: "Schiatta di vipere, chi vi mosterrà che voi fuggiate da l'ira che dee venire?" Lo quale fervore fu infiammato di caritade, però ch'elli era lucerna ardente. Ond'elli dice in persona di Geremia: "Dio puose la bocca mia come coltello arrotato". Fue anche il fervore suo informato de la veritade, imperciò ch'egli era lucerna rilucente; onde è scritto nel Vangelio di san Giovanni, nel quinto capitolo: "Adimandasti a Giovanni ed elli diede testimonianza a la veritade". Fue anche il fervore suo dirizzato da la discrezione ovvero scienzia; onde a le turbe e a' pubblicani e a' soldati diede legge propia secondamente che si richiedea a ciascheduno stato. Fu anche fermo in costanzia, ond'elli predicòcostantemente che ne perdette la vita. Queste VI cose dee avere il fervore, come dice san Bernardo: "Il fervore tuo infiammi la caritade, informi la veritade, governi la scienzia e fermi la costanzia". Nel secondo luogo predicò efficacemente, imperò che a la sua predicazione molti si convertiro. Elli predicò con parola per continuamento di dottrina e con esemplo per santità di vita. Nel terzo luogo predicò saviamente, la cui saviezza di predicare fue in tre cose: prima in ciò ch'elli usòe minacce per ispaventare li rei, dicendo così: "Già è posta la scure a la radice de l'albore". Secondariamente usòe promesse per allettare i buoni, dicendo: "Fate penitenzia ché 'l regno del cielo approssimerà". Nel terzo luogo usòe parole temperate, acciò che a poco a poco traesse gli uomini comunali a perfezione. Onde a le turbe e a' pubblicani e a'soldanieri imponea lieve cose per trarrerli poscia a le maggiori. A le turbe imponeva che intendessero ad opere di misericordia; a' pubblicani che s'astenessono dal desiderio de li altri; a' soldati cavalieri che non conturbassero neuno, né facessero ingiuria, e che stessero contenti del soldo loro. Ed è da notare che Giovanni Evangelista in questo dì passòe di questa vita, ma la Chiesa fa festa del Vangelista il secondo dì dopo natale di Cristo, però che la Chiesa sua sì fue consegrata in quello dì, e la solennità del nascimento di Joanni Batista rimase nel suo dì. E non è maraviglia in ciò, imperò che questo dì fu annunziato da l'angelo per l'allegrezza del nascimento del precursore. Ma non è da predicare, ovvero disputare, che l'Evangelista desse luogo al Batista, come minore a maggiore, ché non si conviene di disputare quale sia maggiore. E ciò fu mostrato da Dio in un cotale essemplo. Erano due maestri in teologia i quali l'uno ponea maggiore il Batista e l'altro il vangelista; a la perfine, abbiendo ordinato di fare sopra ciò una solenne disputazione, catuno era molto sollicito di trovare autoritadi ed efficaci ragioni per le quali catuno potesse soprapporre il suo Giovanni. Venuto il dì che si doveva disputare catuno di questi santi, apparve al suo devoto e sì li disse: "Noi siam bene in concordia in cielo, non diputate di noi in terra". Allora quelli maestri si manifestarono insieme la visione ch'elli aveano veduta, e palesarolla a tutto il popolo, e benedissero Domenedio. Paulo, raccontatore di storie, diacono de la chiesa Romana e monaco di Montecassino, dovendo una volta consagrare un cero, le gole sue diventarono roche, con ciò fosse cosa che prima avesse la voce. Sì che perché li fosse renduta la voce compuose quello inno che comincia: "Ut queant laxis resonare fibris mira gestorum famuli tuorum ecc." ad onore di san Giovanni Batista; e nel principio di quello adimanda che la voce gli sia renduta, come fu renduta a Zaccheria. Secondo che dice Giovanni Beleth, l'ossa de li animali morti, d'ogne parte raccolte, in questo die da alcune persone s'ardono; e ciò si fa per due cagioni, l'una è per antica osservazione d'ordinamento, però che si trovarono alcuni animali c'hanno nome dragoni, i quali volano per aere e nuotano in acqua e vanno per terra; e talora quando vanno per l'aere sì s'accendono a lussuria, e allora gittano il seme ne le pozzora, ne l'acque di fiumi, e quindi venìa l'anno mortale. Sì che contra questo fu trovato rimedio che de l'ossa si facesse fuoco, e per questo modo cacciava il fummo via cotali animali; e perché questo avvenìa massimamente in questo tempo, però si tiene ancora questo uso da alcuni. L'altra cagione si è a ripresentare che l'ossa di san Giovanni ne la città di Sebaste furono arse da' pagani. Portavansi anche le faccelline accese, perché san Giovanni fue lucerna ardente e rilucente; e la ruota del sole sì volge però che 'l sole scende allora nel cerchio a significare la nominanza di san Giovanni, il quale era creduto che fosse Cristo, secondo ched elli medesimo ne diede testimonianza quando dice: "Me conviene menomare e lui crescere". Questo fue significato, secondo che dice santo Agostino, ne li loro nascimenti e ne le loro morti. Ne li loro nascimenti, però che intorno a la nativitade di santo Joanni cominciano i dì a minimare; intorno a la nativitade di Cristo cominciano a crescere, secondo che dice uno verso: "Solstitium decimo Chistum praeit atque Johannem". Anche ne le loro morte, però che 'l corpo di Cristo fu levato in alto, e 'l corpo di Giovanni fu menimato il capo. Racconta Paulo ne le Storie de' Longobardi, che Rocarith, re de' Longobardi, appresso a la chiesa di san Giovanni fu sepolto con grande adorno, sì che uno tentato d'avarizia, aprendo la notte il sepolcro, portò via ogne cosa. E san Giovanni apparendo a lui, sì li disse: "Perché se' tu tanto ardito di toccare quello che m'era accomandato? Ne la chiesa mia non potrai tu entrare da quinci innanzi". La qualcosa per certo così addivenne: che qualunque ora e' voleva entrare ne la detta chiesa, quasi come da fortissimo campione era percossa la gola sua, e subitamente cadeva adrieto.
cap. 82, Ss. Giovanni e PaoloGiovanni e Paulo furono primieri e proposti di Costanzia, figliuola di Costantino imperatore. In quel tempo occupando la gente di Scizia le provincie di Dacia e di Tracia, e Gallicano, guidatore de l'oste de' Romani, dovendo essere mandato contro la detta gente, per merito de la sua fatica domandava che li fosse data per moglie Costanzia, figliuola di Costantino; e ciò adimandavano molto sollicitamente i principi romani e dissero ch'elli l'avesse. Ma il padre della fanciulla se ne contristava molto sappiendo che la figliuola sua, da poi ch'era sanata da la beata Agnesa ed essendo in proponimento di verginitade, più tosto potrebbe essere uccisa che inchinata a consentire. Ma la vergine, confidandosi di Dominedio, diede consiglio al padre ch'ella gli prometta quando sarà tornato vincitore; ma che due sue figliuole, ch'elli aveva avute de la moglie già morta, il detto Gallicano lasciasse stare con lei, acciò che per quelle potesse e sapesse i costumi e 'l volere del padre loro; e ella concederebbe a lui due suoi proposti Giovanni e Paulo per speranza quasi di maggiore fermezza, pregando Dio che lui e le figliuole convertisse a Cristo. La quale cosa piacque a tutti, e Gallicano prendendo seco Joanni e Paulo e la copiosa oste, sì misse ad andare; ma l'oste sua fu rotta da la gente scitica e in una città di Tracia, la quale ha nome Filopoli, lui fu assediato da' nemici. Allora se n'andarono Giovanni e Paulo a lui, e sì li dissero: "Fa professione a Dio del Cielo e sarai vincitore meglio che tu non se' stato". E quelli avendo ciò fatto, incontanente gli apparve uno giovane che portava una croce in su la spalla, e disse a lui: "Prendi la spada tua e vienmi dietro". E quelli la tolse, e andò per lo miluogo del campo, e vennesene infino al re, e lo uccise; e non ne uccise persona, sì che con sola la paura sottomisse tutta l'oste a' romani e feceli trebutari. E due cavalieri armati apparendo a lui, sì lo confermavano l'uno di qua l'altro di là. Sì che fatto cristiano tornò a Roma, e con molto onore fu ricevuto e pregò lo 'mperadore che li perdonasse se non disposasse la figliuola sua, imperciò ch'egli si sponea di servire a Cristo da indi innanzi in castitade. La quale cosa essendo molto piaciuta a lo 'mperadore, e le due figliuole di Gallicano essendo convertite da Costanzia vergine a Cristo, esso Gallicano diede luogo a l'officio del ducato e, dando ciò che avea a' poveri, con gli altri servi di Dio servette a Cristo in povertade. E molti miracoli facea, sì che con solo comandamento cacciava le demonia de le corpora imgombrate. La fama de la santa openione di costui si sparse tanto per tutto il mondo, che da l'oriente a l'occidente veniano a vedere l'uomo che di patricio e di consolo di Roma era fatto lavoratore e lavatore de' piedi de' poveri, ponitore de la mensa, datore de l'acqua a lavare de le mani, servidore sollicito de li infermi e facitore di tutti altri offici di servitudine santa. Sì che morto Costantino, Costanzio figliuolo del grande Costantino, compreso de l'eresia d'Ario tenne lo 'mperio; ma con ciò fosse cosa che Costanzio, fratello di Costantino, avesse lasciato due figliuoli, cioè Gallo e Giuliano, Costanzio imperadore fece il detto Gallo imperadore e mandollo contra la provincia di Giudea che rubellava e poi l'uccise. Ma Giuliano, temendo per lo essemplo del fratello d'essere morto da Costanzio, fecesi monaco e, infignendosi là entro molta santitade, fu ordinato a lettore; il quale dimandò consiglio per malìa al demonio, e ricevette risponsione che sarebbe levato in su lo 'mperio. Dopo alcuno tempo Costanzio fece imperadore Giuliano per certe faccende che 'l distrigneano, e sì lo mandò in Francia, e facea tutte cose valentremente. Morto Costanzio e messo in sedia Giuliano apostata, comando Giuliano che facesse o sacrificio a li dei Gallicano, o elli si partisse: ch'egli non era ardito di dare la morte a così grande uomo. Sì che Gallicano n'andòe in Alessandria, e trafittoli il corpo da l'infedeli, ricevette la corona del martirio. E Giuliano, preso da avarizia maledetta, la sua avarizia difendeva con testimonio de la scrittura del Vangelio, ché le ricchezze de la chiesa toglieva a' cristiani, dicendo così loro: "Cristo vostro dice nel Vangelio: "Chi non rinunzierà tutte le cose le quali possiede, non può essere mio discepolo". Udendo dunque che Giovanni e Paulo de le ricchezze ch'avea lasciate la vergine Costanzia, governavano e sostenevano i poveri, comandò loro che si dovessono accostare a lui com'elli aveano fatto a Costantino. E quelli dissero: "Mentre che i gloriosi imperadori Costantino e 'l suo figliuolo Costanzio si gloriavano d'essere servi di Cristo, noi servavamo a loro; ma tu che hai lasciata la religione piena di virtudi, da te al postutto siamo partiti e non ti vogliamo ubbidire". A i quali Giuliano comandò e disse: "Io ebbi chericato ne la Chiesa, e s'io avessi voluto a maggiore grado de la Chiesa sarei pervenuto; ma considerando io che vana cosa è seguire pigrezza e riposo, diedi l'animo a cavalleria, e sacrificando a li dei, per loro aiuto hone avuto lo 'mperio. Onde voi che sete nutricati ne la magione reale, non dovete venirmi meno d'essere al mio lato, acciò ch'io vi tegna più alti nel mio palazzo. E se cosa è ch'io sia spregiato da voi, farò quello che sia di bisogno che io non possa essere spregiato". E quelli rispuosero e dissero: "Mettendo Dio innanzi noi a te, le tue minacce neente tememo, acciò che noi non caggiamo in nimistade di Dio eternale". A questo rispuose Giuliano: "Se fra diece dì da indi innanzi spregerete di venire a me, costretti sarete poscia quello che voi non volete fare ora volentieri". Al quale i santi rispuosero: "Già pensa che siano passati X e oggi fa quello che tu ci minacci di fare allotta". A i quali rispuose Giuliano: "Or pensate voi che i martiri vi facciano cristiani? Se voi non mi consentirete, io vi punirò non come martiri, ma come palesi uomini nemici". Allora Giovanni e Paulo per tutti quelli diece dì intendevano a fare limosine e tutto il suo davano a' poveri. In capo di diece dì fu mandato a loro Terenziano, il quale disse a loro: "Il nostro signore Giuliano sì vi manda uno idolotto d'oro di Giove, e mandalovi perché voi gli diate de lo 'ncenso, altrimenti voi perirete amendue insieme". Al quale i santi dissero: "Se Giuliano è tuo signore abbi pace con lui; noi non abbiamo altro Signore che Gesù Cristo". Allora comandò che fossero dicollati nascosamente e sotterrati in casa in una cassa, e fece nominanza che fossero mandati a' confini. Dopo queste cose il figliuolo di Terenziano fu ingombrato dal dimonio, e dentro in casa incominciò a gridare che il demonio l'ardea. Udendo ciò Terenziano manifestòe il peccato suo, e diventòe cristiano, e scrisse la passione di queste due santi, e 'l figliuolo fu liberato dal dimonio. E furono martirizzati costoro intorno a gli anni Domini CCCLXIV. Racconta San Gregorio ne l'Omelia di quello Vangelio che dice: "Se alcuno vuole venire dopo me" che una donna visitava spesso la chiesa di questi martiri, e un die, tornando ella, trovò due monaci che stavano in abito di pellegrino; e quella, credendo che fossero pellegrini fece dare loro limosina. Ma quando lo spenditore s'appressimò per dare la limosina, e quelli li stettero più da presso e dissero: "Tu ci visiti, ora noi ti richiederemo al die di giudicio, e ciò bene che noi potremo, sì ti faremo". E detto questo sì disparirono da gli occhi suoi. Santo Ambruosio nel profazio dice così di questi martiri: "Li beati martiri Joanni e Paulo veracemente adempiereno quello che si canta di David: Ecco come è buona cosa e gioconda ad abitare i fratelli in una casa, compagni ne la legge del nascere, congiunti in compagnia de la fede, simiglianti in aguaglianza di martirio, gloriosi sempre in uno Signore".
cap. 83, S. LeoneLeone papa, come si legge ne li Miracoli de la Vergine Maria, dicea la Messa il die di Resussesso in santa Maria Maggiore e, comunicando i cristiani per ordine, una grande donna sì li basciò la mano, e per questo si levò contra di lui una forte tentazione di carne. Ma il servo di Dio si levò tosto contra se medesimo crudelmente, e nascosamente si tagliò al postutto in quello dì medesimo la mano scandalezzante, e gittolla da sé. Infrattanto nascea mormorio nel popolo perché il Sommo Pontefice non dicea Messa come era sua usanza. Allora Leone si rivolse a la beata Vergine Maria e al tutto sì commisse a la sua provvedenza. Allora incontanente ella li venne innanzi, e con le sue santissime mani gli rendéo la mano sua, e fermolla, comandandoli che andasse innanzi e facesse sacrificio al suo figliuolo. Sì che Leone predicò a tutto il popolo quello che gli era intervenuto, e apertamente mostrò a tutti la mano che gli era renduta. Questi ordinò il concilio di Calcedonia, nel quale s'ordinòe che solamente le vergini fossero velate; anche fue ordinato quivi che la Vergine Maria fosse chiamata Madre di Dio. Attila diguastava tutta Italia, sì che santo Leone tre dì e tre notti stette in orazione ne la chiesa de li apostoli, e poscia disse a' suoi: "Chi vuole venire dopo di me, sì vegna". Essendosi dunque approssimato ad Attila, sì tosto com'elli vidde santo Leone, sì discese a terra del cavallo, e gittollisi a' piedi, pregandolo che domandasse ciò che volesse. E domandando che si parta d'Italia, e lasci i pregioni, ed essendo ripreso da' suoi Attila che il triunfatore del mondo s'era lasciato vincere ad un prete, e quelli rispuose: "Io ebbi provvedenzia di me e di voi; che io gli viddi dal lato ritto stare un fortissimo cavaliere col coltello isguainato che mi disse: "Se tu non ubbidirai a costui, tu morrai con tutti i tuoi". Allora santo Leone mandò la Pistola a Fabiano, vescovo di Costantinopoli, incontra Eutichio e Nestorio; sì la puose sopra il sepolcro di san Pietro apostolo, e soprastando a digiuni e orazioni, sì disse: "Ciò ch'io avesse fallato in questa Pistola come uomo, tu, Piero, al quale fu commesso la rangola de la Chiesa, sì la togli e mendala". E dopo XL dì orando lui, sì gli apparve san Piero e disse: "Io l'abbo letta e mendata". E togliendo santo Leone la Pistola sì la trovò corretta e mendata con le mani de l'apostolo. Anche stette altri XL dì santo Leone al sepolcro di santo Piero in digiuni e in orazioni, pregandolo che gli accattasse da Dio perdonamento di suo' peccati. Al quale san Piero apparendo disse: "Io abbo pregato il Signore per te, e tutti i tuoi peccati t'ha perdonati. Solamente de lo imporre de le mani ti sia richiesto o bene, o male che tue l'abbi poste sopr'altrui ti sarà domandato perdono".
cap. 84, S. Pietro ap.Il suo martirio scrissero Marcello e Lino papa e Egesippo e Leone papa. Piero apostolo tra tutti gli altri e sopra tutti gli altri apostoli fue di maggior fervore, e volle sapere chi fosse il traditore del Segnore, però che, come dice santo Agostino, sed elli l'avesse saputo, con i denti se l'avrebbe manicato; e per questo non volea il Signore contarlo per nome, però che, come dice Grisostomo, se l'avesse nominato, Piero si sarebbe tosto levato da sedere e avrebbelo strangolato. Costui andòe al Signore sopra mare e, ne la trasfigurazione e ne lo risuscitare la donzella, fu eletto dal Signore; ne la bocca del pesce trovòe la moneta, e le chiavi del reame del cielo ricevette dal Segnore, e ricevette da Cristo le pecore a pascere; tre milia uomini convertì ne la Pentecosta a la sua predicazione; elli e san Giovanni guarirono uno zoppo, e allora convertì cinque milia uomini; ad Anania ed a Safira predisse la loro morte; e Enea paralitico sì guerìo; battezzò Cornelio; risuscitòe Tabita; con l'ombra del suo corpo sanòe l'infermi; fu imprigionato da Erode e liberato da l'Angelo. Chente fosse il suo mangiare e 'l vestire, elli medesimo il dice nel libro di Clemente, là ove dice: "Il pane solo con l'ulive e la carne con mangiare è a me in uso; il vestimento mio è quello che tu vedi: la gonnella col mantello; e abbiendo questo non domando neuna altra cosa". Dicesi anche che portava sempre in seno uno sudario, col quale si forbia spesso le lagrime che scorrevano de li occhi, per ciò che, quando si recava a mente del parlare la dolcezza e de la presenza di Cristo, per la troppa dolcezza de l'amore non poteva rattenere le lagrime. Racconta anche Clemente, secondo che si truova ne le Storie Ecclesiastiche, che essendo menata al martirio la moglie di san Piero, elli si rallegrò di grande allegrezza e, chiamandola del suo proprio nome, sì gridò dopo lei e disse: "O moglie ricordati del Signore!". Una volta che san Piero apostolo due de' discepoli suoi avea mandati a predicare, da che furono andati XX giornate, l'uno di loro passò di questa vita, l'altro tornò a san Piero, e disseli quello ch'era intervenuto. (Costui si dice che fosse san Marciale. Altrove si legge che 'l primo fu san Fronto, e l' compagno che morìo fue prete Giorgio). Allora san Piero gli diede il bastone comandandogli che andasse dal compagno e gli mettesse il bastone addosso. Quando l'ebbe fatto, colui ch'era giaciuto morto XL dì, incontanente risuscitò vivo. In quello tempo era in Gerusalem un mago, ch'avea nome, Simone, che si chiamava la prima veritade, e coloro che credessono in lui affermava che diventerebbono perpetuali, e dicea che neuna cosa gli era impossevole a fare. Leggesi anche nel libro di Clemente ched elli disse: "Io sarò adorato come Dio palesemente, e segnoreggerò gli onori divini, e ciò ch'io vorrò fare sì potrò. Alcuna volta che la mia madre Rachel mi comandava ch'io andasse a mietere nel campo, io, veggendo il segono posto là, comandai al segono che per se medesimo mietesse, e mietéo diece cotanti più che gli altri". Aggiunse anche questo, secondo che dice san Geronimo, e disse: "Io sono parola di Dio, io sono bello, io sono consolatore, io onnipotente, io tutte le cose di Dio". I serpenti de l'ottone facea muovere, le statue de l'ottone e le pietre facea ridere, i cani cantare. Questi adunque, come dice Lino, vogliendo disputare con san Piero e mostralli d'essere Dio, l'ordinato die venne san Piero al luogo de la battaglia, e san Piero disse a quelli che v'erano presenti: "Pace sia a voi, frati, che amate la veritade". Al quale disse Simone: "Noi non abbiamo bisogno di tua pace; se pace fusse e concordia, ad invenire la veritade non protremo fare neente; ch'elli hanno pace i ladroni tra loro, per la qualcosa non ci ricordare la pace, ma battaglia: da che due combattono, allora è pace quando l'uno è vinto". Disse san Piero: "Perché hai tu paura d'udire pace? De' peccati nascono le battaglie, ma dove non si fa il peccato quivi è pace. Ne le disputazioni s'invenisce la verità, ne l'opere la giustizia". Disse Simone: "Tu non di' nulla, ma io ti mosterrò la potenzia e la mia divinitade, sì che tue m'adori incontanente. Io sono la prima virtude, e posso volare per aere, e posso fare novelli albori e mutare le pietre in pane e durare nel fuoco sanza offendimento, e tutte cose, in ciò che voglio, sì io posso fare". Contra costui disputava san Piero e tutte le sue malizie scopìa. Allora Simone vedendo che non potea resistere a San Piero, tutt'i suoi libri de l'arte magica gittò nel mare, perché non apparisse che fosse mago, e andonne a Roma, acciò che vi fosse avuto per Domenedio. Quando san Piero l'ebbe saputo, sì li tenne dietro e andonne a Roma. Sì che nel quarto anno di Claudio imperadore san Piero arrivò a Roma, e stette in su la sedia XXV anni, e ordinòe due vescovi, cioè Lino e Cleto, per suoi aiutatori, sì come dice Joanni Beleth. E soprastando a la predicazione, molti ne convertìa a la fede e molti infermi curava. Ma lodando sempre ne la sua predicazione la castitade, e soprapponendola a molte virtudi, convertìo quattro amiche d'Agrippa, ch'erano amiche in mala parte del prefetto di Roma, intanto ch'elle ricusaro di ritornare più a lui; onde il prefetto adirato guatava pure di cogliere cagione incontro a san Piero. Dopo queste cose apparve il Signore a san Piero e disse: "Simone mago e Nerone pensano contro a te; ma non temere, ch'io sono teco per liberarti, e darotti sollazzo del servo mio Paulo, il quale enterrà domane in Roma". Sappiendo dunque san Piero, come dice Lino, che tosto sarebbe il disponimento del tabernacolo suo, essendo nel convento de' frati, prese la mano di Clemente e ordinollo vescovo e costrinselo di sedere ne la caffera nel luogo suo. Dopo queste cose Paulo, sì come il Signore avea predetto, sì ne venne a Roma, e incominciò a predicare Cristo con san Piero insieme. E Simone Mago era tanto amato da Nerone che sanza dubbio era creduto ch'egli guardasse la vita e la salute sua e di tutta la cittade. Un die avvenne, sì come dice Leone papa, stando Simone dinanzi a Nerone, la sua fattezza subitamente si cambiava, e ora pareva vecchio, ora pareva giovane; la qualcosa vegendo Nerone, estimava che fosse veracemente Iddio. Disse adunque a Nerone Simone Mago, sì come racconta Leo papa: "Acciò che tu sappia, o ottimo imperadore, che io sia verace figliuolo di Dio, fammi dicollare, e io risuciterò al terzo die". Comandò dunque Nerone al giustiziere che 'l dovesse dicollare, il quale giustiziere, credendosi dicollare Simone, dicollòe uno montone, sì che Simone per arte magica ne campòe sanza male veruno, e ricolse le membra del montone e nascosele, e tre dì stette celato, e 'l sangue del montone rimase quiviritto rappreso. E 'l terzo die si mostrò Simone a Nerone, e disse: "Fa rasciugare il sangue mio, il quale è sparto, imperò che ecco me, il quale era stato dicollato; com'io ti promisi, sono risucitato il terzo die". Vedendolo Nerone sì si sbigottio, e pensò veramente se fosse figliuolo di Dio. Queste cose dice Leone papa che dette sono. Alcuna volta stando in camera con Nerone, il dimonio in sua figura parlava fuori al popolo; a la perfine l'ebbero i romani in tanta reverenzia che gli fecero una imagine e soprascrissevi questo titolo: "A Simone, dio santo". Sì che Piero e Paulo, come dice Leo papa, entrarono a parlare con Nerone, e tutte le malie di costui gli scopriano. Ancora disse san Piero, ovvero san Paolo: "Sì come in Cristo son due sustanzie, cioè Dio e uomo, così in questo mago sono due sustanzie, cioè d'uomo e di diavolo". E disse Simone, sì come testimonia Marcello santo papa, e Leo papa: "Acciò ch'io non patisca lungo tempo questo nemico, io comando agli angeli miei che mi vendichino di costui". Al quale disse Pietro: "Gli angeli tuoi non temo io, ma eglino temono me". Nerone disse: "Non temi Simone che la divinità sua conforma per opere?" Al quale disse Piero: "Se la divinitade è in lui, dicami testeso quello ch'io penso, ovvero quello che io fo, lo quale pensiero io manifesterò prima ne le tue orecchie, acciò che non ardisca di mentire quello ch'io penso". Nerone disse: "Vieni qua, e dimmi che tu pensi". Piero andòe, e disseli segretamente: "Fammi recare un pane d'orzo, e falmi dare nascosamente". Quel fu recato e benedisselo Piero, e nascoselo sotto la manica, e disse: "Dica testeso Simone, che s'è fatto Dio, quello ch'è pensato e detto e fatto". Rispuose Simone: "Dica anzi Piero quello che penso io". Disse Piero: "Quello che Simone pensa, io mosterrò di sapere, da ch'io farò quello ch'elli avrà pensato". Allora Simone indegnato sì gridò: "Vegnano cani grandi e divorino costui". E subitamente apparvero grandissimi cani, e fecero assalto contra Piero; ma elli offerse loro il pane benedetto, e subitamente gli messe a fuggire. Allora disse Piero a Nerone: "Ecco ch'io ho mostrato di sapere quello che Simone avea pensato contra di me, non con parole, ma con fatti. E per angeli, che avea promesso di mandare contra di me, sì mandò cani, a mostrare che non ha angeli divini, ma canini". Disse Simone: "Uditemi, Piero e Paulo, se io non posso ora fare nulla in parole, noi verremo colà dove mi vi converrà giudicare, ma ora vi perdono". Insino qui dice Leon papa. Allora Simone, come dice Egesippo e Lino, levato in superbia, fu ardito di vantarsi di risuscitare i morti. E avvenne che un giovane era morto, e chiamati dunque Piero e Simone, e questa sentenzia confermaro tutti, che quelli fosse morto, il quale non potesse risucitare il morto. Facendo adunque Simone li suoi incantesimi sopra il morto, parve a coloro ch'erano d'intorno, che il morto menasse il capo. Allora gridando tutti voleano allapidare Piero, sì che Piero, appena fatto racquetare la gente, disse così: Se 'l morto vive, levisi ritto e vada e favelli; altrimenti sappiate ch'elli è fantasia che 'l capo del morto si muova. Sia sceverato Simone dal cataletto, acciò che si scuoprano pienamente le malizie del diavolo". Sì che fue sceverato Simone dal cataletto, e 'l garzone stette sanza muovere, e san Piero stando da la lungi, fatta l'orazione, gridòe, e disse: "Giovane, nel nome di Gesù Cristo Nazzareno Crucifisso, leva su e va". Immantanente e il giovane si levò e andò. E volendo il popolo allapidare Simone, disse Piero: "Bastili la pena ched elli si riconosce vinto con le sue arti. Il nostro maestro c'insegnò che noi rendessimo bene per male". Disse Simone: "Sappiate, Piero e Paulo, che non v'interverrà quello che voi desiderate, ch'io vi faccia degni di martirio". E quelli rispuosero: "Avvengaci quello che noi desideriamo, ma a te non sia mai bene, però che ciò che tu parli, sì menti". Ora dice qui san Marcello che Simone andò a casa di Marcello, suo discepolo, e legò uno grandissimo cane a l'uscio de la casa sua, e disse: "vedrai se Piero, il quale è uso di venire a te, ci potrà entrare". Poco stante venne Piero, e fatto ch'ebbe il segno de la Croce, sciolse il cane; e 'l cane a tutti gli altri era lusinghevole, ma solo Simone perseguitava, e prendendolo, sì lo gittò in terra e miselsi sotto, ché 'l volea strangolare. Accorse Piero e gridòe al cane che non li facesse nocimento; e certo il cane non lo danneggiò il corpo, ma elli gli stracciò sì panni indosso ch'al tutto rimase ignudo. E 'l popolo suo, e massimamente i fanciulli con esso il cane, gli corsero tanto dietro che, quasi come un lupo, il cacciarono fuori de la cittade. Del quale vitoperio non patendo la vergogna, per uno anno non si lasciò trovare in veruno luogo. E Marcello, vedendo queste maraviglie, da indi innanzi s'accostò a Piero. Poi ritornando Simone fue anche ricevuto in amistà di Nerone. Or dice Leon Papa che tornando Simone fece raunare il popolo, e propuose ch'era gravemente offeso da' Galilei, e per ciò la cittade la quale solea difendere, disse che volea abbandonare; e ordinòe il die nel quale dovea andare in cielo, perché non si degnava d'abitare più in terra. Sì che venuto quel dì, salette in su la torre alta, ovvero in sul Campidolio, come dice Lino, e gittandosi quindi, incoronato d'alloro, incominciò a volare. Disse allora Paulo a Piero: "A me s'appartiene d'orare e a te di comandare". Disse Nerone: "Un verace uomo è questi, ma voi siete ingannatori". Disse Piero a Paulo: "Paulo, leva alto il capo e vedi". Quando quelli ebbe levato il capo e veduto Simone volare, disse a Piero: "Piero, perché t'indugi? Fa quello che hai cominciato, già ci chiama il Signore". Allora disse san Piero: "Io vi scongiuro, angeli di Satanas, che portate colui per l'aere, per Gesù Cristo nostro Signore, che voi non lo portiate più, ma lasciatelo andare e cadere". E immantanente lasciato, sì cadde, e isfracellatosi il capo, morìo. Udendo ciò Nerone dolsesi d'avere perduto un cotale uomo, e disse agli apostoli: "Voi m'avete fatto con sospetto animo, e per lo malo essemplo sì vi perderò". Infino qui dice Leon papa. E miseli in mano di Paulino, uomo grande e potente; e Paulino gli diede ne la guardia di Mamertino, sotto la rangola di due cavalieri, Processo e Martiniano; i quali cavalieri, Piero convertì a la fede, onde apersero la carcere e lasciarolli andare liberi. Per la qualcosa Paulino dopo il martirio de li apostoli, sì richiese Processo e Martiniano, e trovato ch'elli erano cristiani, per comandamento di Nerone furono loro tagliate le teste. Or pregavano i cristiani san Piero che si partisse indi, e non volendosi partire, a la perfine, vinto per prieghi, sì si partì. Essendo venuto a la porta, come dice Leon papa e Lino, al luogo ove si dice ora santa Maria al Passi, vide Cristo che li venìa incontro, e disseli: "Domine, quo vadis?" e quelli rispuose: "Io vegno a Roma ad essere crocefisso un'altra volta. La qualcosa intendendo de la sua passione, sì tornò addietro. Abbiendo detto ciò a' frati suoi, fu preso da sergenti di Nerone, e fue presentato ad Agrippa prefetto, e fecesi la faccia sua come il sole. Ciò dice Lino. E disse il prefetto: " Or se' tu quelli che ti vai gloriando ne popoli e ne le femminelle, che tu vai spartendo da la compagnia de' martiri?" E l'apostolo, riprendendo colui, dicea ch'elli si gloriava ne la croce del Signore. Allora Piero, sì come straniero, fu comandato d'essere crocefisso; ma Paulo, perch'era cittadino di Roma, fu comandato che perdesse la testa. Di questa sentenzia che fu data loro addosso dice Dionisio, ne la pistola che mandò a Timoteo, de la morte di Paulo e dice così: "O fratello, mio Timoteo, se tu avessi vedute l'angosce de la loro fine, tu saresti venuto meno per la tristizia e per lo dolore. Chi non avrebbe pianto in quella ora che quella sentenzia fu uscita sopra loro, cioè che Piero fosse crocefisso e Paolo fosse dicollato? Tu avresti veduto allora le turbe de' giudei e de' pagani, che li percotevano e sputavano ne le facce loro. E vegnendo il terribile tempo de la loro fine, quando si sceverarono insieme, legarono le colonne del mondo, non certo sanza gran pianto de' fedeli. Allora disse Paulo a Piero: "Pace sia con teco, fondamento de le chiese, e pastore de le pecore e de li agnelli di Cristo". Rispuose Piero a Paulo: "Va in pace, predicatore de la veritade, tramezzatore de' buoni e guida de la salute de' giusti". E quando gli ebbero dilungati insieme, io seguitai il maestro mio, ché non gli uccidessero in una medesima via". Questo dice, infino qui, Dionisio. Or dice Leone e Marcello che quando Piero fue venuto a la croce, disse: "Imperò che 'l Signore mio discese di cielo in terra, fu levato in alto in su la croce ritta, ma me, il quale esso degna di richiamare de la terra al cielo, la mia croce dee mostrare il capo in terra e dirizzare i piedi al cielo. Adunque perch'io non sono degno di stare de la croce in quello verso che stette il Signore mio, rivolgetela e col capo disotto mi crucifiggete". Allora quelli rivolsero la croce, e conficcarono i piedi disopra e le mani disotto. Allora il popolo si mosse a furore, e volevano uccidere Nerone e 'l prefetto, liberare l'apostolo; e elli gli pregò che non dovessero impedimentire la sua passione. E 'l Signore, come dice Egesippo e Lino, sì aperse gli occhi di coloro ch'erano quivi e piangeano, e viddero gli angeli stare con corone di rose e fiori e gigli, e Piero in croce stava con essi, e toglieva uno libro da Cristo, e quelle parole che diceva, sì vi leggea entro. Allora san Piero, come dice Egesippo, d'in su la croce cominciò a dire: "Te, Signore mio, ho desiderato di seguitare, ma non fu ardito d'essere crucefisso ritto; tu sempre ritto, alto e levato; noi figliuoli del primo uomo che sommerse il capo suo in terra, la cui caduta significa il mondo de la generazione umana, così nasciamo che pare che siamo tutti inchinevoli a la terra. Ed è mutata la condizione, ché quella cosa pensa il mondo che sia diritta, la quale è manca. Tu, Signore, se' a me tutte le cose, tu se' a me tutto e niuna cosa abbo altra che te solo; a te faccio grazie con tutto lo spirito del quale vivo, col quale intendo, per lo quale priego". Là ove si pongono due altre ragioni, per le quali non volse essere crucifisso ritto. Veggendo dunque san Piero che i fedeli aveano veduta la gloria sua, rendendo grazie a Dio e raccomandando a lui i fedeli, mandò fuori lo spirito. Allora Marcello e Apuleo fratelli, suoi discepoli, sì 'l dispuosero de la croce, e seppellirlo lo corpo suo, compognendolo con divisate spezie. Santo Isidoro nel libro che fece del Nascimento e de la Vita e de la Morte de' Santi, dice così: "Piero, poi che ebbe fondata la chiesa d'Antiochia, al tempo di Claudio imperadore, andò a Roma contra Simone mago e, predicandovi il Vangelio XXV anni, vi tenne il vescovado di quella cittade, e nel XXXVI anno, da la passione di Cristo, fu crocifisso da Nerone col capo disotto, sì come elli volle". Infin qui dice Isidoro. In quello dì medesimo Piero e Paulo apparvero a Dionisio, secondamente ch'elli disse ne la predetta Pistola in queste parole: "Intendi il miracolo, vedi la maraviglia, fratello mio Timoteo, del dì del loro mortificamento. Perch'io fui presente al loro sceveramento e, dopo la morte loro, gli vidi insieme per mano entrare ne la porta de la città, vestiti di vestimenti luminosi e adorni di corone di chiarità e di luce". Insin qui dice Dionisio. Ma Nerone non rimase impunito; ma per questa fellonia e per altre che commise, s'uccise se stesso con la sua mano propria. De le quali fellonie contiamo qui alcune brievemente. Leggesi in una storia, avvegnadio che non è autentica, che Senaca, suo maestro, aspettando merito decevole de la sua fatica da lui, comandòe Nerone che dovesse eleggere in su che ramo d'albore desiderasse d'essere impiccato, dicendoli che questo era il merito che dovea ricevere da lui per lo merito de la sua fatica. E domandandolo Senaca, ond'elli avea meritato questo tormento di morte, uno acuto coltello fece crollare spesso sopra il capo suo; e Senaca, per paura del capo, ragguardava il coltello di sopra di lui stante, temendo fortemente il pericolo de la morte. Al quale disse Nerone: "Perché per paura del capo, dal luogo al minacciante coltello?" Al quale rispuose Senaca: "Io sono uomo, però che temo la morte e muoio non volonteroso". Al quale disse Nerone: "E così temo io ancora te, com'io ti solea temere da fanciullo; per la qualcosa stando te vivo, non potrò mai vivere in pace". Disse Senaca: "S'egli è bisogno pure che io muoia, almeno mi fa questo, che io elegga che morte io vorrò fare". Al quale disse Nerone: "Tosto l'eleggi, ma non ti indugiare a morire". Allora Senaca fece fare un bagno d'acqua, e fessi aprire le vene ne l'uno braccio e ne l'altro; e così per troppo scorso di sangue, finì la vita sua; e così per un cotale indovinamento, ebbe nome Senaca, quasi se necans, cioè se uccidente, però che se medesimo uccise, come detto è. Di questo Senaca si legge ch'ebbe due fratelli: l'uno fue Giulio Gallio, nobile arringatore, il quale con la sua propia mano s'uccise; l'altro fue Mela padre di Lucano poeta, il quale Lucano per tagliatura di vene, a comandamento di Nerone, si legge ch'elli morì. Ancora venne Nerone in tanta pazzia di mente, come si legge in quella storia medesima non autentica, che fece uccidere la madre, e sparalla per vedere com'elli era nudrito nel suo ventre. E i medici di fisica il riprendevano del perdimento de la madre così dicendo: "Le ragioni niegano, e non è licito che 'l figliuolo uccida la madre, la quale il partorì con tanto dolore e nutricò con tanta fatica e sollecitudine". A i quali disse Nerone: "fatemi dunque impregnare d'un fanciullo e poscia parturire, acciò ch'io possa sapere quanto fosse il dolore de la mia madre". Sì che questo volere di parturire gli era venuto in cuore, però che passando per Roma avea una donna udito partorire, che mettea grandi boci. E' medici gli dissero: "Non è possibile quello ch'è contrario a la natura, né non si può sapere quel che non e consentevole a la ragione". Disse a loro Nerone: se voi non mi farete ingravidare d'uno fanciullo e partorire, tutti voi farò morire di crudele morte". Allora quelli gli dierono uno beveraggio nel quale gli diedero a bere occultamente una rana, e per loro artificio la fecero crescere nel suo ventre; e subitamente il ventre suo, non patendo le cose contrarie a la natura, sìe enfiòe in tale modo che Nerone si credeva essere gravido d'un fanciullo; e facendoli fare dieta come da nutricare la rana, e' dicealli che per lo concepere gli convenìa osservare cotali cose. A la perfine, sentendo troppo dolore, disse a' medici: "Affrettatemi il tempo del parturire, imperò che per lo languidore del parturire, appena posso rifiatare". Allora i medici gli dierono a bere beveraggio da vomito, e mando fuori una rana terribile a vedere, tutta lorda d'omori e 'nsanguinata di sangue. E pognendo mente Nerone al parto suo, sì li ne venne abbominazione; e maravigliavasi vedendo così fatta cosa; e' disserli ch'elli avea parturito così sozzo parto, perché non avea voluto aspettare il tempo del partorire. E quelli disse: "Or fue cotale l'uscita de le interiora de la madre ?" E coloro rispuosero: "Mae sì". Comandò dunque che 'l parto suo fosse nutricato, e fosse rinchiuso a conservare in una volta di pietre. Queste cose non si truovano scritte ne le Croniche, ma sono scritture non autentiche. A la perfine si maravigliava quanta e chente fosse l'arsura de la città di Troia; e però per sette dì e sette notti fece ardere Roma; la qualcosa ragguardando di su una altissima torre, e rallegrandosi per la bellezza de la fiamma, con enfiato abito cantava canzone. Come si legge ne la Cronica, costui pescava con reti d'oro, e intendea in canzone sì che tutti quelli che menavano le cetare e melodie soperchiava; menòe marito per moglie ed egli fue ricevuto da marito come moglie. Ciò dice Orosio. Li romani non patendo più la sua pazzia, fecero uno romore contra lui, e infino fuori de la città il perseguitarono. E quelli vedendo che non potea campare la morte, aguzzòe uno stecco co' morsi de' denti, e trafisselsi per lo miluogo del corpo con un palo, e di cotale morte finì la vita sua. E in altro luogo si legge ched e' fue divorato da' lupi. Sì che tornando i romani, trovarono la rana appiattata ne la volta, e gittandola fuori de la cittade sì l'arsero, onde quella parte de la città, dove la rana era stata nascosa, prese il nome da questo fatto, ond'è chiamato Laterano, quasi latente rana, cioè nascondente. Al tempo di san Cornelio papa, i greci ch'erano cristiani, aveano furato le corpora di questi apostoli e portavalle via; ma le demonia che abitavano ne l'idole, costretti da la divina vertude, sì gridavano e dicevano: "Soccorrete, uomini romani, ché i vostri dei sono portati via". Per la qualcosa intendendo i fedeli di questi apostoli, e i pagani de' loro iddei, la moltitudine de' fedeli ragunata con quella de l'infedeli vanno perseguitando costoro. Onde li greci, abbiendo paura, a le catacombe le corpora de li apostoli entro un pozzo gettarono, ma poscia ne furono tratte fuori da' fedeli. Ma dubitando quali fossero l'ossa di san Piero e quali di san Paolo, stando in orazione e in digiuni i fedeli, ebbero questa risposta da cielo: "Le maggiori ossa sono del predicatore, le minori sono del pescatore". E così partirono l'ossa l'une da l'altre, e ripuoserle ne le loro chiese, ch'ellino aveano edificate a loro nome. Altri dicono che Silvestro papa, volendo consegrare le loro chiese, pesò in una bilancia sì le grandi ossa come le piccole con somma riverenzia, e collocò l'una metàe ne l'una chiesa, e l'altra metàe ne l'altra. Dubitasi d'alcuni se in uno medesimo dì furono martirizzati san Piero e san Paulo. Dissono alcuni che in uno medesimo dì, rivoltò l'anno: ma san Geronimo, e buonamente quasi tutti i santi che trattano di ciò, s'accordano di questo che in uno medesimo die e anno furono passionati, sì come manifestamente si comprende de la Pistola di Dionisio, e come dice Leon papa o Massimo, secondo alcuni, in un sermone, là ove dice così: "Non sanza cagione pensiamo che avvenisse che in un die e in uno luogo, sotto uno tiranno, ebbero la sentenzia. In uno die furono morti, acciò che pervenissono insieme a Cristo; in uno luogo, acciò che a neuno venisse meno Roma; sott'uno persecutore, acciò che l'iguale crudelezza constrignesse l'uno e l'altro. Adunque il die per lo merito, il luogo per la gloria, il persecutore iscacciato per la vertude". Questo dice Leon infin qui. E avvegna che in uno medesimo die e ora fossono martirizzati a Roma, ma non in uno medesimo luogo, ma in diversi luoghi; e perché Leone dice che furono morti in uno medesimo luogo, questo dice elli in ciò che abendue furono morti a Roma. Di ciò disse uno questi versi: Ense coronatur Paulus, cruce Petrus, eodem Sub duce, luce, loco, dux Nero, Roma locus. Anche dice un altro verso: Ense sacrat Paulum par lux, dux, urbs cruce Petrum. E avvegna che in un medesimo die fossero martirizzati, impertanto ordinò san Gregorio che in quel dì si facesse più spezialmente solennità di san Piero quanto a l'Officio, e 'l seguente dì si facesse ricordanza di san Paulo, sì che perché in quel die fue sagrata la chiesa di san Piero, sì perch'ell'è maggiore in dignità, sì che perché fu primaio al convertire, sì anche perché fu papa di Roma fatto, da Gesù Cristo, suo vicario per lo cielo.
cap. 85, S. PaoloLa passione di san Paolo scrisse santo Lino. Paulo apostolo dopo il suo convertimento sostenette molte persecuzioni, le quali santo Ilario narra brievemente, e dice: "Paulo Apostolo, in una contrada che si chiama Filippis, fu battuto con verghe e messo in carcere e confittili i piedi al legno; in Listri fu lapidato; in Iconio e in Tessalonica fu perseguitato da malvagi uomini; in Efeso gli furono ammesse le fiere salvatiche; in Damasco fu collato da le mura in terra per la sporta; in Gerusalem fu menato dinanzi, battuto e legato, messo gli agguati; in Cesarea fu chiuso, accusato; navicando in Italia fu messo a pericolo; vegnendo a Roma fu sentenziato sotto lo 'mperio di Nerone e ucciso e finito". Qui dice santo Ilario. Ricevette l'apostolato in tra ' pagani; uno ch'era attratto in Listri sì 'l dirizzò; un giovane ch'era caduto da una finestra e morì immantanente, sì lo risucitò; e molti altri miracoli fece a l'isola di Mitilene. Una serpe gli assalì la mano, ma non li fece male veruno, anzi la prese e gittolla nel fuoco. Dicesi che chiunque si nasce de la schiatta di quello uomo che ricevette Paulo ad albergo, in niuno modo sono offesi da cose velenose; onde, quando son nati loro i fanciulli, pongono le serpi ne le culle loro per provare se sono veraci loro figliuoli. Dimostrasi alcuna volta che Paulo è minore di Piero, alcuna volta maggiore, alcuna volta iguale; ma certo egli è minore in dignitade, maggiore in predicazione, iguale in santitade. Racconta Aimo che san Paulo, da quella ora che' galli cantano infino a la quinta ora, soprastava al lavorìo de le mani, poscia a predicare, sì che spesse volte infino a la mezzanotte prolungava la predica, e 'l rimanente del tempo era assai necessario al mangiare e al dormire e a l'orazione. E vegnendo a Roma, non essendo ancora Nerone innalzato a lo 'mperio non confermato, e udendo anche de la legge de' giuderi e de la fede de' cristiani era grande briga tra san Paulo e' giuderi, non ne curò molto, e così san Paulo andava liberamente e liberamente predicava. E san Geronimo, nel libro de' Valorosi Uomini, dice così che nel XXV anno da la passione del Signore cioè il secondo di Nerone, Paulo fu mandato pregione a Roma, e per due anni, stando in libera guardia, disputòe contra giuderi; poscia lasciato da Nerone predicò il Vangelio ne le parti d'occidente, e nel XIV anno di Nerone, cioè in quello die che fue crocifisso san Piero, fu tagliato il capo a san Paulo. Infino qui dice san Geronimo. La sapienza e l'onestade di costui si spandea in tutte parti e da tutti era tenuto maraviglioso; ancora s'innamicò con molti de la casa de lo 'mperadore, e convertilli a la fede di Cristo. Ancora furono raccontate alcune sue scritte dinanzi a lo 'mperadore, e furono commendate da tutti mirabilmente; i senatori sentiano di lui grandemente altissime cose. Un dì che Paulo predicava in uno solaio entro il vespro, un giovane ch'avea nome Patroclo, donzello di Nerone e molto amato da lui, acciò che potesse meglio udire san Paulo per la moltitudine, salìo in su la finestra, e, addormentandovisi un poco, cadde a terra e morì. Udendo Nerone che quelli era morto, dolsisene molto e rimisse un altro ne l'officio suo; e san Paulo, conoscendo queste cose per ispirito, disse a quelli che v'erano presenti che andassero là e portasserli Patroclo, carissimo a lo 'mperadore, lo quale era morto. E portato ch'elli l'ebbero, san Paulo lo risucitò e mandollo a lo 'mperadore co' compagni suoi. E elli lamentandosi de la morte di colui, "Eccoti Patroclo giovane venire a le porte de lo 'mperadore" fu detto a lo 'mperadore. Udendo Nerone che Patroclo era vivo, lo quale aveva cotanto amato, udito poco dinanzi ch'elli era morto, isbigottito tutto e' non lasciò entrare dentro a sé; ma a la perfine confortato da gli amici, il lasciò entrare. Al quale disse Nerone: "Patroclo, or se' tu vivo?" E quelli disse: "Sono vivo". Disse Nerone: "E chi t'ha fatto vivere ?" Al quale rispuose Patroclo: "Messere Jesù Cristo, re di tutt' i secoli" Adirato Nerone disse: "Adunque egli regnerà ne' secoli e risolverà tutt' i reami del mondo?" Disse Patroclo: " Mai sì, imperadore". Allora Nerone gli diede una grande gotata, e disse: "Dunque se' tu cavaliere fatto a quello re?" E quelli rispuose: "Ma die pur sì, ched elli mi svegliò da la morte". Allora cinque donzelli de lo 'mperadore, che gli stavano continuamente innanzi, dissero a lui: "Perché tu imperadore, batti il giovane savio, che risponde veracemente ? Noi altressì siamo cavalieri di quello re che non si può vincere". Udendo ciò Nerone, sì li rinchiuse in pregione, acciò che tormentasse molto coloro i quali molto ha amati innanzi. Allora fece cercare per tutt'i cristiani per punirli per forti tormenti, tutti, sanza veruna domanda. Allora Paulo fu menato dinanzi a Nerone, preso tra gli altri. Al quale disse Nerone: "O uomo, servo del grande re, il quale se' mio pregione, perché mi sottrai tu i cavalieri miei e ragunili a te?" Al quale disse Paulo: "Non solamente de la tua corte ho raccolti cavalieri, ma di tutto il mondo, a i quali il re nostro farà donamenti che mai non verrano meno, e cacceranno via ogne povertà. A costui se tu vorrai essere suggetto, sarai salvo; il quale ha tanta potenzia che verrà a giudicare tutti e risolverà per fuoco la figura di questo mondo". Udendo queste cose Nerone, e acceso d'ira, tutti i cavalieri di Cristo comandò che fossero arsi in fuoco, e Paulo, sì come offenditore de la maestade imperiale, perdesse la testa. Allora fu uccisa tutta la moltitudine di cristiani, ché 'l popolo di Roma, per sua vertù, ruppe il palazzo de lo 'mperadore e, levando rumore contra lui, gridavano tutti: "Ponci modo, Cesare, tempera il comandamento; de' nostri sono quelli che tu uccidi difendendo lo 'mperio de' romani". Lo 'mperadore temendo questo, rimutò il bando che non dovesse toccare i cristiani infino a tanto che lo 'mperadore avesse più pienamente sentenziato di loro. Per la qualcosa Paulo fu rimenato anche e presentato dinanzi a lo 'mperadore; lo quale, come Nerone l'ebbe veduto, fortissimamente gridòe: "Levatemi dinanzi il malfattore, dicollate questo rio uomo, non lasciate più vivere lo 'ncolpatore, uccidete il rimutatore de' sentimenti, toglietelo d'in su la faccia de la terra il cambiatore de' sentimenti e de le menti". Al quale disse Paulo: "Nerone, poco tempo ti patirò, ma io viverò eternalmente a messere Jesù Cristo". Disse Nerone: "Toglieteli il capo, acciò che intenda ch'io sono più forte che il suo re, lo quale io abbo vinto; e veggiamo sed elli potrà vivere sempre". Al quale disse Paulo: "Acciò che tu sappia me vivere eternalmente dopo la morte, quando il capo mio mi sarà tagliato, io t'apparirabbo vivo, e allora potrai sapere che Cristo è signore de la la vita e non de la morte". E dette queste cose, fu menato al luogo del tormento. Il quale essendo menato, dissero a lui tre cavalieri che 'l menavano: "Dicci, Paulo, chi è quel re vostro, il quale voi tanto amate, che per lui eleggete anzi morire che vivere? e che merito avrete voi?" Allora Paulo gli predicò sì del regno di Dio e de la pena de lo inferno, che li convertìo a la fede di Cristo. E quelli pregandolo che andasse liberamente là ove volesse, ed elli rispuose: "Non voglia Dio, frati miei, che io fugga, però ch'io non sono fuggitivo, ma legittimo cavaliere di Cristo; ché io so bene che per questa vita passatoia andròe a la vita eternale; e sì tosto com'io sarò dicollato, uomini fedeli torranno il corpo mio. Ma voi segnate il luogo e venite là domane, e troverete a lato al sepolcro mio due uomini, cioè Tito e Luca, stare in orazione; a i quali, quando voi avrete detto per quale cagione io v'abbia mandati a loro, ellino vi battezzeranno e farannovi insieme rede del regno celestiale". E parlando lui, mandò Nerone due cavalieri per vedere se fosse ancora morto, e volendoli egli convertire, dissero quelli: "Da che tu sarai morto e resurressito, noi crederemo quello che tu di'; ma vieni ora tosto, e ricevi quello che tu hai meritato". Ed essendo menato al luogo de la passione ne la porta Ostiense, li venne incontro una donna che avea nome Plantilla, discepola di san Paulo; la quale secondo Dionisio fu chiamata d'un altro nome, cioè Lemobia - la quale per la ventura ebbe due nomi - e questa gli s'inginocchiò a' piedi, e incominciò a raccomandarsi a le sue orazioni. A la quale disse Paulo: "Va, Plantilla, figliuola de la eternale salute, va, prestami il velo con che tu ti copri il capo, che ne voglio legare gli occhi miei e poscia lo ti renderò". E quella credendo a lui, facevansi beffe di lei i giustizieri dicendo: "Or perché dai tu a questo reo uomo e mago così prezioso panno a perderlo?" Essendo dunque san Paulo venuto al luogo de la passione, distese le mani al cielo inverso l'oriente, e oròe a Domenedio lungamente con lagrime, con boce fioca, e rendette grazie a Domenedio. Poscia accomiatandosi da' suoi frati, fasciossi gli occhi col velo di Plantilla e, ponendo ambodue le ginocchia in terra, distese il collo e cosìe fu dicollato. E incontanente il capo suo saltanto da lo 'mbusto, gridòe con chiara boce in lingua ebrea: "Jesù Cristo", il quale era stato così dolce a lui ne la vita sua, e 'l quale cotante volte avea nominato. Che si dice ch'elli il contòe ne le sue Pistole Cristo, ovvero Jesù, ovver l'uno e l'altro, da cinquecento volte. Di quello colpo uscì fuori latte infino ne le vestimenta del cavaliere saltando, e poi scorse il sangue, ne l'aere risplendente una luce grandissima, e del corpo uscì fuori uno odore soavissimo. Ma Dionisio, ne la Pistola ch'elli mandò a Timoteo de la morte di san Paulo, dice così: "In quell'ora piena di tristizia, fratello mio diletto, dicendo il giustiziere a Paulo che apparecchiasse il collo, allora il beato apostolo ragguardò in cielo, armando il petto suo e la fronte del segno de la croce, e disse: Signore mio Jesù Cristo, ne le tue mani raccomando lo spirito mio"; e allora, sanza tristizia e sanza costrignimento, distese il collo e ricevette la corona; e percotendo il giustiziere e mozzando il capo di Paulo, allora quello beatissimo in quello colpo ispiegòe il velo e raccolse il sangue suo propio col velo e legollo e inviluppollo e diedelo a quella femmina. E ritornato il cavaliere giustiziere, disse a lui Lemobia: "Dove hai tu lasciato il maestro mio Paulo?" Rispuose il cavaliere: "E' giace col compagno colà, fuori de la città, ne la valle Pugilii, e del velo tuo è fasciato il volto suo". E quella rispuose e disse "Ecco ch'entrarono ora ne la città Piero e Paulo vestiti di vestimento chiaro ed aveano le corone lucenti e splendienti di luce ne' capi loro". E trasse fuori il velo insanguinato del sangue e mostrollo loro; per la quale opera molti credettero a Domenedio e furono fatti cristiani". Infino qui dice Dionisio. Udendo Nerone quelle cose ch'erano intervenute, fortemente stupidìo, e cominciò a ragionare di tutte queste cose con filosofi e con gli amici. E ragionando insieme di queste cose, venne Paulo stando le porte serrate; e stando dinanzi a lo imperadore, sì disse: "Imperadore, ecco che io Paulo, cavaliere de l'eternale Re che non può essere vinto, almeno ora puo' credere ch'io non sono morto, ma vivo; ma tu, misero, morrai di morte eternale, per ciò che tu uccidi i santi di Dio ingiustamente". E dette queste cose sparve. Ma Nerone, per la troppa paura fatto quasi sciabordito, non sapeva che si fare, e per conforto e per consiglio de gli amici trasse di prigione Patroclo e Barnaba, e lasciogli andare liberamente dovunque e' volsero andare. E quelli cavalieri, cioè Longino capo de' soldati e Accesto, vennero la mattina al sepolcro di Pagolo, e e vidervi due uomini, cioè Tito e Luca, che stavano in orazione e nel mezzo di loro stava san Paulo; e veggendoli, Tito e Luca fortemente spaventati cominciarono a fuggire e san Paulo sparve. E li cavalieri gridavano dietro a coloro e diceano: "Non crediate che noi vi perseguitiamo, ma volemo essere battezzati da voi, sì come Paulo ci disse, lo quale noi vedemmo testeso orare con voi". E quellino, udendo queste parole, tornarono e con grande allegrezza gli battezzarono. Il capo di Paulo fu gittato in una valle, e per la moltitudine de gli altri che v'erano stati morti e gittati, non si potette trovare. Ma leggesi ne la detta Pistola di Dionisio che una volta, rimondandosi la fossa e 'l capo di Paulo essendone gettato fuori con l'altra rimondatura, un pastore di pecore il ricolse in una sua verga, e quella verga ficcò in terra presso a le mandre de le pecore. E vidde per tre notti continue egli e 'l signore suo sopra il detto capo risplendere una luce da non potere dire. Essendo annunziato al vescovo e a' fedeli, sì dissero: "Veramente questo è il capo di san Paulo". Sì che uscito fuori il vescovo e tutta la moltitudine de' fedeli, recarone seco quello capo, e ponendolo in su una mensa d'oro apparecchiavasi di congiugnerlo al corpo. Al quale rispuose il patriarca: "Noi sapemo che molti fedeli furono morti e disperse di qua e di là le capita loro, onde ho dubbio di congiugnere questo capo al corpo di San Paulo; ma pognamo questo capo a' piedi del corpo e preghiamo Iddio onnipotente che s'egli è il suo capo, ched e' rivolga sé al corpo e congiungasi con esso". La quale cosa essendo piaciuta a tutti, puosero quello capo a' piedi del corpo di san Paulo; ed eccoti, stando tutti in orazione e maravigliandosi, il corpo si rivolse per se medesimo e congiungesi al capo nel luogo suo. E così benedissero tutti Domenedio, e cognobbero veramente che questo fosse il capo di san Paulo. Racconta Gregorio Turonese, che visse ne gli anni di Giustino il giovane, che disperandosi uno, s'apparecchiava d'impiccarsi, ma chiamando il nome di san Paulo sempre diceva: "Aiutami, santo Paulo!" Allora gli fu presente una cotale ombra iscura che 'l confortò, e disse: "E' buono uomo, fa quello che tu fai e non dimorare". E quelli sempre apparecchiando il lacciuolo, dicea: "O beatissimo Paulo, aiutami!" E isbrigato il lacciuolo, fu presente un'altra ombra come d'uomo, e disse a colui che confortava l'uomo: "Fuggi, cattivissimo, ché Paulo avvocato ci viene". Allora l'ombra iscura isparve e l'uomo ritornò a sé e gittò via il lacciuolo e prese degna penitenzia. Ancora in quella medesima Pistola san Dionisio piange la morte di san Paulo, suo maestro, con pietose parole; e dice così: "Chi darà a gli occhi miei acque, e a le luci mie fontana di lagrime, ch'io pianga il dì e la notte il lume de le chiese, lo quale è spento? Chi non inducerà pianto e lamento, ovvero chi non si vestirà di vestimento da piagnere, e spaventato ne la mente, non si maraviglierà? Però che ecco che Piero, fondamento de le chiese e gloria de' santi apostoli, s'è partito da noi e hanne lasciati orfani, e Paulo, domestico de le genti e consolatore de' pericolanti, ci è venuto meno, e non si trova più il quale fu padre de' padri, dottore de' dottori e pastore de' pastori; dico di Paulo abisso di sapienza, stormento alte cose sonante, predicatore di veritade non fatichevole, Paulo dico, nobilissimo apostolo. Questi angelo terrestro e uomo celeste, imagine e similitudine de la deitade e de lo Spirito Santo di forma di Dio, ci ha tutti noi abbandonati, noi, dico, poveri e indegni in questo mondo disprezzevole e maligno, ed è entrato a Cristo, Suo Dio e Segnore e amico. Oimè, fratello mio Timoteo, diletto de l'anima mia, ov'è il padre tuo maestro e amatore? Onde ti manderà elli salute? Da qui innanzi ecco che se' diventato orfano e rimaso solo; già non ti scriverà più con la sua mano santissima dicendoti: "Figliuolo carissimo, oimè, fratello mio Timoteo". Che tristizia è questa che ci è incontrata e che tenebra e che danno che siamo fatti orfani? Già non ti verranno le Pistole sue dove sia scritto: "Paulo, piccolo servo di Gesù Cristo"; già non ne scriverrà più di te a le città dicendo: "Ricevete il figliuolo mio diletto". Ripiega fratello sopra i libri de' profeti e segna sopra essi, però che non abbiamo veruno che ci ispiani le simiglianze e le scuritadi di quelle parabole e fatti e parole. David profeta piangeva il figliuolo suo e dicea: "Guai a me per te, figliuolo mio! Guai a me!". E io dico: "Guai a me, maestro mio verace; guai a me!" Oggimai è rimaso e mancato lo scorrimento de' discepoli tuoi vegnenti a Roma e adomandanciti. Già non sarà niuno che dica: "Andiamo e veggiamo i maestri nostri, e domandiamoli in che modo ci convegna reggere le chiese a noi commesse, e ispianeranno a noi le parole di messere Gesù Cristo e le parole de' profeti. Veramente guai a questi figliuoli, fratello mio Timoteo, i quali son privati di padre ispirituale, de' quali è privata la greggia; e anche a noi, frati, guai! che siamo privati de' nostri maestri ispirituali, i quali aveano collegato lo 'ntendimento e la iscienza de la vecchia e de la nuova legge, e avevanla collegata ne le loro Pistole. Ov'è il corrimento di Paulo e la fatica de' suoi santi piedi? Ov'è la bocca parlante e la lingua consigliante e lo spirito bene piacente a lo Dio suo ? Chi non piagnerà e trarrà guai? Ché coloro che aveano meritato gloria e onore sì come Dio, come malfattori sono dati a la morte. Oimè che in quell'ora ragguardai il corpo santo, insanguinato del sangue innocente! Oimè, padre mio, maestro e insegnatore, or fostu peccatore di cotale morte? Or dunque dove t'andrò io a cercare, gloria de' cristiani e loda de' fedeli? Chi ha fatto racquetare la voce tua e la sveglia de le chiese, o stormento alte cose risonante, bischerollo del salterio di diece corde? Ecco che se' entrato a Domenedio, tuo Signore, lo quale tu disiderasti e invaghisti di lui con tutto l'affetto. Gerusalem e Roma con malvagia amistade son fatte iguali nel male: Gerusalem crucifisse il nostro Signore Jesù Cristo, e Roma dette a morte gli apostoli suoi; ma Gerusalem servette a colui, lo quale crucifisse, e Roma solennizzando glorifica coloro, i quali uccise. E ora, fratello mio Timoteo, coloro i quali tu amasti e con tutto il cuore desideravi, Saul dico re e Gionata, in sua vita non sono sceverati, né ne la morte, e io non sono sceverato da messere lo maestro mio se non quando ti spartirono gli uomini malvagi e pessimi; e lo spartimento di questa ora non sarà sempre, però che l'anima sua conoscerà gli amati sanza ogni cagione che gli parlino, i quali sono testeso dilungati da lui, ma nel die de la resurressione generale sarebbe il grande danno d'essere spartiti da loro". Insino a qui dice Dionisio. E Joanni Grisostomo, nel libro de le lode di Pagolo, commenda questo glorioso apostolo da molte cose dicendo così: "Neente al postutto avrà errato quelli ch'avrà nominata l'anima di Paulo un prato dilicatissimo di virtudi, e un Paradiso ispirituale. Ma quali segnali saranno trovati iguali a le sue lode, con ciò sia cosa che tutt'i beni che sono ne gli uomini una sola anima possegga, e ragunarli tutti pienamente non solamente a li uomini, ma grande cosa ch'è a dire, a gli angeli? Né basterebbe, né pertanto li riterremo, anzi che maggiormente poche cose diremo. È certo questa maniera di grandissima loda, quando la vertude e la grandezza di colui ch'è lodato soperchia l'abbondanzia de l'orazione; e così l'essere vinto è molto più gloriosa cosa a noi, che spesso avere vinto. Onde dunque prenderemo noi più utile prencipio de le sue lode, se non che da questo? Primieramente che noi mostriamo com'elli possiede li beni di tutti. Abel offerse sacrificio e quindi fu lodato; ma se noi rechiamo qui il sacrificio di san Paulo, quanto da la terra al cielo tanto apparirà più sovrano. Certo se medesimo offerìa per ciascuno die, però che in doppio modo offerìa sacrificio, sì nel cuore sì nel corpo, d'intorno portando la mortificazione di quello; non né offerìa pecore né buoi, ma se medesimo offerìa doppiamente in sacrificio; non fu contento di tutto questo, ma tutto il mondo si studiò d'offerire, il quale la terra e 'l mare e la Grecia e la Barberia, e quasimente ogne contrada ch'è sotto il cielo andò cercando, come volando, de li uomini faccendoli angeli, anzi maggioremente essi uomini quasi di demoni faceva angeli. Quale sagrificio si trova iguali a questo, lo quale san Paulo sacrificò col coltello de lo Spirito Santo, e offerselo in quello altare che è sopra il cielo allogato? Ma Abel per inganno del suo fratello percosso morìo, ma san Paulo fu morto da coloro i quali egli desiderava di liberare da infiniti mali. Or vuogli ch'io ti mostri le sue infinite morti? tante morti fece quanti dì ci visse. Di Noè si legge che pur seco figliuoli conservò ne l'Arca; ma costui da molto più crudele diluvio ondeggiante liberò tutto il mondo, accocciando l'arca di belle tavole, cioè compognendo le Pistole per tavole, tutto il mondo pericolante liberòe del mezzo de la tempestade. Ma questa arca non è posta pure in uno luogo, la quale comprende le fini del mondo, né non s'unsero di bitume ovvero di pece le tavole di questa arca, ma di Spirito Santo. Questa ricevente coltivatori d'animali poco meno più stolti d'animali sanza ragione sì li fece seguitatori de li angeli. In ciò vinse ancora quell'arca, per ciò che quella ricevendo corbo dentro, di nuovo mandò fuori il corvo, e ricevendo il lupo, non poté mutare la salvatichezza sua; ma questa ricevendo sparvieri e nibbi gli fece come colombi e, traendone fuori ogni salvaticume, misse dentro mansuetudine de lo Spirito Santo. Di Abraam si maravigliano tutti, imperò che al comandamento di Dio lasciò il paese e' parenti; ma costui lasciò tutto il mondo, anzi il cielo, e 'l cielo del cielo, e tutte queste cose disprezzòe, ricevendo Cristo, una sola cosa ricercando per tutte queste, cioè la carità di Cristo, quando disse: "Né le cose presenti, né quelle che debbono venire, né altezza, né profondo, né altra creatura mi potrà iscostare da la carità di Cristo". Ma Abraam, mettendosi in pericolo de' nimici, liberòe il figliuolo del fratello; ma Paulo, traendo tutto il mondo de la mano del diavolo, sostenette innumerabili pericoli, e con le propie morti comperò grandissima scuritade a li altri. Volse anche Abraam sagrificare lo figliuolo, ma san Paulo sagrificò miglia di volte se medesimo. In Isaac si maraviglia altri la pazienzia, imperò che le pozzora ch'elli avea fatte, patìa che fossero serrate, e Paulo veggendo non le pozzora ruvinate di pietre, ma il propio corpo, non solamente come quegli il battea, ma eziandio quelli da' quali pativa si studiava di portare in cielo. E quanto più era ruvinata questa fontana, tanto rampollava più e più fiume di sé spandendo usciva fuori. De la longanimitade e pazienzia di Jacob si maraviglia la Scrittura; or quale sia quella persona la quale possa la pazienzia di Santo Paolo seguitare? Ché non sostenne il servigio di sette anni, ma di tutta la vita per la sposa di Cristo. Non divampato solamente dal caldo del dì e dal gelo de la notte, ma, sostegnendo mille tentazioni, è ora impiegato di battiture, ora scalfito con le pietre, e tra le battaglie, in ogne parte saltando, le prese pecore traeva de la bocca del diavolo. Ancora Josep abbellito de la virtude de la castitade fue, ed io temo che non sia già una beffa a lodare san Paulo; il quale, crucifiggendo se medesimo, non solamente le bellezze di corpi umani, ma eziandio l'anima che pare a le cose chiara e bella vedea, a modo come noi spregiamo la favilla e la cennere, il quale stava al postutto fermo come 'l morto al morto. Stupidisconsi tutti gli uomini del fatto di Job, però che fue un combattitore maraviglioso; e san Paulo non pur mesi, ma molti anni perseverando ne la battaglia,chiaro ne risplendette, non radendo le schianze de la carne con la zolla de la pietra aspra, ma eziandio entrando ne la bocca di quella intendenzionevole lezione spesse volte, e combattendo contra infinite tentazioni, era più sofferente d'ogne pietra. Il quale non da tre o da quattro amici, ma da tutti gl'infedeli e da i frati eziandio, sostenne a vituperii, sputacchiato e bestemmiato. E colui aveva grande alberghìa a' poveri; ma quella rangola e sollecitudine che quelli avea a' deboli quanto a la carne, cotale l'avea questi a li animi infermi. A chiunque andava e venìa era aperta la porta de la casa di colui; ma le cose di costui tutte erano aperte a tutto il mondo. E certo colui abbiendo pecore e buoi sanza novero, era molto cortese a' poveri; ma costui non possedendo altro che 'l corpo suo, di questo servìa sofficentemente a' poveri bisognosi; la qualcosa in alcuno luogo ricorda dove dice: "A le mie nicissitadi e a quelli ch'erano meco, servirono queste mani". Li vermini e le piaghe facevano crudeli dolori a san Giob, ma se tu consideri bene la battiture, la fame, le carcere e' pericoli di san Paulo, le quali pativa da' suoi medesimi domestichi e da li strani e da tutto il mondo, la sollecitudine ch'elli sostenea per le chiese, l'arsione per li scandalezzati per ciascuni dì, vedrai come questa anima era più dura d'ogne sasso e vincea di fermezza il ferro e 'l diamante. Le cose che Job sostenne nel corpo, questi sostenne ne la mente, cioè Paulo, lo quale la tristizia di tutte quante cose scorrenti più noiosa d'ogne verme consumava; onde di lui scorrevano continue fontane di lagrime, non solamente e' dì ma le notti, ed abbondavano in tutti più fortemente ch'ogne femmina partorente, per la qualcosa diceva: "Figliuoli miei, i quali un'altra volta parturisco". Moisé per la salute di giudei elesse d'essere raso del libro di Dio, Moisé adunque offerse sé a perire con gli altri, ma Paulo per gli altri. Non volse elli perire con quelli che perivano, ma, acciò che gli altri si salvassero, volse cadere da l'eternità de la gloria. Quelli contrastava a Faraone, questi tutto die al diavolo; quegli per una gente combattéa, questi per l'università del mondo, non in sudore, ma in sangue. Giovanni Batista prendea per cibo radici e mele salvatiche, ma Paulo conversòe così riposatamente nel mezzo stropiccio del mondo, come quegli nel diserto; non certo pasciuto di grilli o di miele salvatico, ma contento di più vile cosa che queste, e abbisognante per certo del necessario cibo per lo fervente studio di predicare. Veracemente di colui apparve grande costanzia contra quella femmina Erodiada, e questi non uno o due o tre crudeli tiranni corresse, ma sanza numero e alti in signoria e potenzia, anzi assai più crudeli di colui. Resta adunque che noi aguagliamo Paulo a li angeli, ne' quali magnifica cosa predichiamo, però che con tutta rangola obbedìo a Domenedio. De la qual cosa maravigliandosi David, sì dicea: "Potenti in vertude, faccenti la parola sua". Di che altra cosa si maraviglia il profeta ne gli angeli? Ché dice: "Il quale fa gli angeli sui spiriti e servi suoi fuoco ardente". Ma in san Paulo bene possiamo noi trovare ciò; il quale come fuoco e spirito andò scorrendo tutto il mondo, e scorrendo purgò; ma non avea questi acquistato il cielo, e questa è al postutto maravigliosa cosa, ché cotale conversava nel cielo, essendo ancora attorneato de la mortale carne. Di quanta dunque condannagione siamo noi degni, quando uno uomo raguna in sé tutti i beni, e noi non ci brighiamo di seguitare una minima parte di quelli! Non ebbe quelli altra natura né altra anima poi che fu nato, né non abitòe altro mondo, ma, in una medesima terra e contrada e sotto quelle medesime leggi e costumi nutricato, tutti gli uomini che ora sono, ovvero che furono, trasandòe con la vertude. Ma non è questa solamente in lui maravigliosa: che per l'abbondanza de la devozione non sentisse dolori in alcuno modo, ma eziandio che essa vertude compensòe per merito. E noi per certo per quella, e n'è proposta a noi la mercede, combattiamo, la quale elli abbracciando, eziandio sanza guiderdone amava, sostenendo elli con tutta mansuetudine tutte le cose le quali per loro asprezza parea che impedimentissero la vertude, cotidianamente più alto; cotidianamente si levava più ardente, e sopravvegnente a lui i pericoli, sempre con nuova allegrezza combatteva. Il quale, veggendosi sopravvenire la morte, al raccomunamento e dilettamento de la sua allegrezza invitava gli altri, dicendo: "Godete e rallegratevi con meco". Adunque più volentieri andava a la vergogna e a le ingiurie, le quali sostenea per lo studio del predicare, ched elli non faceva a' dilettamenti de' buoni, più appetendo il disiderio de la morte che de la vita, più de la povertà che de la ricchezza, e molto più le fatiche che gli altri riposi dopo le fatiche, più eleggendo la tristizia e il pianto che gli altri dilettanza, più studiosamente orando e più fruttuosamente per li nemici, che gli altri, per gli amici. Una cosa egli era in grande temenza e paura, ciò era l'offesa di Dio; né non gli era altra cosa desiderevole se non piacesse a Dio sempre. Non dico tanto che non disiderasse alcuna de le cose presenti, ma ancora neuna di quelle che sono a venire. Non andava mendicando le merce, le genti, gli osti, le pecunie, le provincie, le podestadi; però che queste cose non riputò pure come ragnateli, ma quelle cose che sono promesse in cielo; e allora vedrai l'ardere amore di lui in Cristo. Costui per lo dilettamento di quello non disiderò dignitade d'angeli o d'arcangioli, né cosa simigliante a queste; quella cosa che era maggiore di tutte, quest'era l'amore di Cristo del quale si godea; con questo si tenea più beato di tutti; sanza questo non disiderava d'essere pure compagno de le Dominazioni né de' Principati, ma con questo amore maggiormente essere più di fuori, anzi del novero de' puniti, che, sanza questo, essere tra i sommi e gli onori. Quest'era il maggiore e singulare di tutt'i tormenti da questo amore iscostarsi; quest'era a lui ninferno, quest'era sola pena, questo gli era infiniti ed intollerabili tormenti; sì come l'usare l'amore di Cristo era a lui vita, era il mondo, era regname, pure la promessione parealli beni sanza numero. Così sprezzava tutte le cose che noi tegnamo e temiamo, come si vuole sprezzare l'erba ch'è già fracida. Li tiranni e' popoli che soffiavano furore così gli stimava come fossero cotali zanzare; la morte e mille tormenti pensava che fosse quasi come un giuoco di fanciulli; pure che alcuna cosa sostenesse per Cristo, a lui parea essere onorato; da ch'elli era incatenato più che se fosse stato incoronato; però che quando elli era ristretto ne la carcere, abitava in cielo, e più volentieri ricevea le battiture e le fedite ch'altri non facea il palco, e amava non meno i dolori che i doni. Con ciò fosse cosa che esso dolori prendea in luogo di doni, e per ciò quelli dolori appellava grazie, imperò che quelle cose che sono a noi cagione di tristizia, a lui parturivano grandissima dilettanza. E di tristizia grandissima ardeva, per la quale cosa diceva: "Chi è scandalezzato che io non arda?" E se in tristizia dica alcuno che sia alcuno diletto, però che molti, i quali sono piagati de le morti de' loro figliuoli, alcuna consolazione hanno quando sono lasciati bene piangere, e più si dogliono quando sono dinegati di dolersi; e così Paulo la notte e 'l die ricevea consolazione con le lagrime. Non piagne neuno con tanto affetto i mali proprii con quanto elli piagnea gli altrui. In che modo pensi tu che fosse afflitto quand'elli piagnea il perdimento de gli altri; il quale, acciò ch'elli si salvassero, desiderava d'essere messo di fuori da la gloria de' santi, e, non essendo salvati, estimava più acerba cosa che se medesimo perire? Adunque a quale cosa potrà altre aguagliare costui, a quale ferro, a quale diamante? Chi non appellerà quella anima d'oro, avvero maggiormente diamantina, però ch'elli era più forte d'ogni diamante, e più prezioso ch'oro e che gemme, e altra materia avanzava per fermezza, altra per preziositade? A quale dunque cosa sia aguagliata da altrui l'anima di costui? Al quale di quelle che sono al postutto non ha veruna. Che se a l'auro fosse dato la fortezza del diamante, o al diamante fosse dato l'onore de l'oro, allora per la ventura l'aguagliamento di quello si potrebbe per alcuno modo convenirsi a l'anima di san Paulo. Ma perché dunque reco il diamante e l'oro a la simiglianza di Paulo? Se tu peserai da l'altro lato tutto quanto il mondo, allora vedrai apertamente chinare giù il peso di Paulo sanza anima; adunque del mondo, e di tutte le cose che nel mondo sono, diciamo che Paulo è più degno e più nobile. Se dunque il mondo non è più degno di lui, ma per la ventura n'è il cielo? Ma questo è trovato più basso. Se non solamente il cielo, ma le cose che sono nel cielo, pospuose a l'amore divino, come non maggiormente il Segnore, il quale è tanto più benigno che Paulo, quanto la bontade avanza la malizia, giudica lui più degno che cieli sanza numero? Però che non ci ama Dio tanto quanto elli è amato da noi, ma tanto più diffusamente, quanto dire non si potrebbe in parole. E Domenedio rapì costui nel Paradiso e levollo insino al terzo cielo; e non fu sanza cagione che Paulo conversando in terra così si portava in tutte le cose come s'elli avesse la compagnia de li angeli. Ché, essendo ancora legato al corpo, godeva de la perfezione loro e, sottoposto a tante fragilitadi, in niuna cosa si sforzava d'apparire più basso che le vertudi disopra. Però che come uccello pieno di penne per tutto il mondo volòe ammaestrando; e come persona che non avesse corpo sprezzòe le fatiche e' pericoli, e, come già quasi possedesse il cielo, tutte le cose terrene al postutto disprezzòe; e quasi come abitante con quelle vertudi che sono sanza corpo vegghiòe per continua intenzione de la mente. E certo a li angeli è spesse volte commesso la sollicitudine di diverse genti, ma neuno di loro governò così il popolo a sé creduto, come governò Paulo tutto il mondo. E sì come alcuno perdonatissimo padre è afflitto inverso il figliuolo compreso de la farnesia dal quale, quanto più è vituperato e percosso, tanto gli ha più misericordia e piagnelo; così Paulo a coloro da i quali era afflitto aggiugnea maggiori nutrimenti di pietade. Però che spesse volte per coloro che l'aviano battuto cinque volte e disideravano di bere il sangue suo, fortemente lagrimava e si dolea e per loro orava, dicendo: "Frati, certo la volontà del cuore mio ecc.." Fortemente sì mordea e ben addentro si sbranava vedendo costoro perire. Ché come il ferro messo nel fuoco tutto diventa fuoco, così Paulo, acceso de l'amore, tutto era diventato amore. Il quale, come fosse comunale padre a tutto il mondo, in tale guisa ne l'amore di tutti seguitava essi loro padri e madri; anzi avanzava tutt'i padri di sollicitudine e di pietade, non solamente i carnali, ma eziandio gli spirituali. Che ogni uomo al postutto disiderava di dare a Domenedio, quasi com'elli avesse ingenerato tutto il mondo; e così si studiava di metterli tutti nel reame di Dio, mettendo elli il corpo e l'anima per loro, i quali amava in Domenedio. Questo uomo non gentile di sangue, ma un lavorante il quale fecea prima l'arte de le pelli, in tanta vertude venne che in meno spazio di trenta anni, i Romani e ' Persii e ' Medi e ' Parchi, e quelli d'India e Scizia e d'Etiopia, e ' Sarmati e ' Saraceni, e tutta al postutto l'umana generazione, misse sotto il giogo de la veritade; e come il fuoco messo ne la stipa e nel fieno guasta tutto, così questi consumava tutte l'opere de' dimoni. Consonando Paulo con la lingua e sopravvegnendo più fortemente d'ogni fuoco, davano luogo tutte le cose che fuggiano e il coltivamento e le minacce de' tiranni e li aguàiti de' dimestichi. Ma generalmente, sì come nascendo i razzi del sole le tenebre sono scacciate e li adolteri e ' ladri si nascondono per le fosse, li scherani vanno via e ' micidiali fuggono a le spelonche e tutte le cose diventano lucenti e chiare, alluminando i razzi disopra la terra, così seminando san Paulo il Vangelo in ogni parte era scacciato l'errore e ritrovava la veritade, gli avolteri e l'altre cose villane a dire vennero meno e consumarsi apparendo questo vapore di fuoco. Tra cotale paglia e chiara fiamma di veritade risurgea tra queste cose molto splendientemente, saliendo infino a l'altezza del cielo; e da questi massimamente fu sollevata, i quali parea che la premessono; né pericoli, ovvero impeto, potero impedire il suo andamento. Ma l'errore ha questa condizione che, non abbiendo neuno contrasto, invecchia e viene mancando. Ma la verità fa tutto il contrario, ché, essendo da molti combattuta, è risuscitata e viene crescendo. Però dunque che Dio ha così annobilito la nostra generazione, studiamoci di divenire simiglianti a quello; e non pensiamo sia impossibile, però che cotale corpo ebbe elli chente noi, e cotale anima e cotali cibi; un medesimo è quelli che formòe te e lui e com'elli è suo Dio così è tuo. Vuo' tu conoscere i doni di Dio in santo Paulo? I vestimenti suoi davano spaventamento a' demoni. Ma questo è più da maravigliare, ché quando san Paulo si mettea tra i pericoli, non potea essere ripreso di mattezza, né quand'elli gli fuggìa, poteva essere ripreso di codardia. Elli amava la vita presente per lo guadagno del predicare e da l'altre parte la spregiava molto per la filosofia, a la quale il contento del mondo l'avea trasportato. A la perfine quando tu vedrai Paulo fuggire i pericoli, non ti maravigliare men di lui, che quando elli s'allegrava di mettersi contra i pericoli. Ché come questo è da fortezza, così quelle è da savere; e quando tu il vedrai dire di sé alcune cose, simigliantemente te ne maraviglia come se tu il vedessi spregiare se medesimo. Ché come quello viene da umilitade, così questo viene da grandezza d'animo. Più dunque meritava parlando di sé che tacendo non volere essere lodato; però che, s'elli non avesse fatto questo, più sarebbe colpevole a coloro che loro medesimi hanno impreso a lodare. Ma elli non si sarebbe gloriato sed elli i peccatori avesse perduto, coloro che s'erano creduti a lui, imperò che quando si fosse umiliato più si sarebbe esaltato. Tanto meritò san Paulo ingloriandosi, quanto un altro celando le propie lode. Né non fu mai veruno che tanto pro facesse celando i suoi meriti, quanto san Paulo manifestandosi. Grande male è a dire alcuna grande cosa di sé; e maravigliosa e somma mattezza è, non sopravvegnendo alcuna necessità di fatto e per isforzata necessitade, volere essere onorato de le propie lode. Ché a parlare secondo Dio ciò si è anzi segno di mattezza; per ciò che questa cosa toglie ogni merito acquistato per fatiche. Ad esaltare altri sé in parole è vantamento e desiderio d'onore di se medesimo, ma dire solamente quelle cose che sono necessarie a la presente cagione è amore di frutto e pensamento di rimedio di molti, sì come fece Paulo; il quale essendo compreso da un falso predicatore, fu costretto di dire de le sue lode e di mostrare massimamente la sua dignitade, ma le più celòe e le maggiori. "Io verrò, ciò disse, a le visioni e a la revelazioni del Signore ecc.. ma io perdono ch'alcuno non pensi di me più che ne veggia, ovvero oda di me più che ne veggia, e acciò che la grandezza de le revelazioni non mi faccia insuperbire ecc.." Tanti parlamenti grandi e spessi ebbe san Paulo con Domenedio, quanti non ebbe mai veruno de' profeti o de li apostoli; e per quelli ne diventava più umile. Veduto fu temere piaghe, sì che tu diresti che secondo natura essendo uno de la più gente, per la volontà non solamente era sopra molti uomini, ma eziando uno de li angeli era. E certo temere piaghe non è degno di reprensione de li angeli, se per paura de le piaghe non fa cosa che non sia da fare. In ciò che colui teme le piaghe, il quale non è vinto in battaglia, più s'è maraviglioso mostrato, che colui che non teme. Secondamente che a piagnere non è cosa di colpa, ma per lo piagnere o fare, o dire alcuna di queste cose che dispiacciono a Dio. Qui si mostra chente Paulo fosse, il quale vivendo in cotale natura fu posto in alcuno modo sopra natura, e sed elli teméo la morte, certo elli non la ricusava. Avere cotale natura suggetta ad infermitadi e non servire a le infirmitadi, non è cosa di peccato, acciò che degnamente sia tenuto maraviglioso chi la debolezza de la natura avrà vinta con la virtù de la volontade; e sed elli sceverò da sua compagnia Joanni, il quale era anche chiamato Marco, ciò fece elli dirittissimamente; però che ne l'offizio de la predicazione non conviene che l'uomo sia molle o risoluto, ma forte e robusto per tutte cose. E non dee neuno aggiugnere ad usare questo chiaro dono se non è apparecchiato di dare mille volte l'anima a la morte e a' pericoli. Chi non è di così fatto animo, molti altri si perderanno per lo suo essempro, e più gli sarebbe utile se si stesse in pace e intendesse pure a sé. Non conviene dunque a colui c'hae a governare e comuni, ovvero a chi ha a combattere con fiere salvatiche, ovvero colui ch'è mandato al giuoco de le spade, ovvero a qualunque avere l'anima così apparecchiata e disposta a' pericoli e a le morti, come conviene avere a colui che piglia l'officio del predicare. Però che i pericoli sono assai maggiori a questi cotali e gli avversari sono più crudeli, né non si combatte al postutto in alcuno luogo in simigliante condizione. Il cielo gli è posto innanzi per guiderdone e 'l fuoco de l'inferno per tormento. Ma se neuno commovimento fu tra loro, non pensare che ciò fosse peccato; però che commuoversi altri non è male, ma commuoversi sanza ragione sì è male, e commuoversi non richiedendo ciò n'è non ragionevole fatto. Questo cotale affetto mise il savio creatore in noi per destare de la pigrizia e da l'ozio l'anime che dormono e che sono disolate. Ché come Dio puose nel coltello il taglio, così puose ne la mente nostra l'aguzzamento de l'ira per usarla quando fia mestiere. Però che la benignitade non sempre è buona, ma quando il tempo la richiede; ma quando il tempo non è, allora è viziosa. E così san Paulo spesse volte usòe l'affetto, e a coloro che parlavano fuori di temperamento era migliore adirato. Ma questa cosa era in lui maravigliosa, ché, con tutti i legami e battiture e piaghe, era assai più splendiente di coloro che risplendono de la corona e de la porpore; e quando era menato legato, così s'allegrava come se fosse menato a un grandissimo imperio. E poscia che fu entrato in Roma non si contentòe di starvi, ma ne la Spagna n'andò scorrendo; non lasciò passare pure un die di stare ozioso o in riposo, ma ne l'ardore del predicatore più che esso fuoco era ardente; né di pericoli ebbe temenza, né di schernie ebbe vergogna. Ma questa è ancora maraviglia che, essendo così ardito e sempre armato, come per combattere, e soffiante quasi fuoco di battaglia, da l'altro lato si rendeva umiliato e inchinevole a gli altri. Ché i suoi congiunti, ovvero maggioremente servitori, quando comandassero ch'andasse in Tarso, nol disdisse; e disserli che convenìa che fosse collato a terra de le mura, e sofferselo. E questo faceva elli per soprastare più lungamente a la predicazione, e credendo molti per questo ch'elli andasse a Cristo. Temea per certo che per la ventura non si partisse quinci povero de la salute di molti. Quando quelli che combattono sotto uno capitano e elli li vedranno dare le grandi fedite e scorrerli il sangue d'addosso, né per tutto questo dare luogo a' nemici neente, ma stare bene forte e crollare la lancia e per spessi colpi cadere li nemici, né non perdonare ad ogne dolore, sanza dubbio con tutta allegrezza si sottomettono volentieri a così buono capitano; e così addivenne in san Paulo, che veggendolo legato con catene e neente di meno predicare ne la carcere, veggendolo anche piegato e pertanto predicare a quelli che 'l batteano, per certo grande fidanza prendeano in lui. Elli medesimo significandolo, disse: "Sì che molti de' frati, confidandosi ne' legami miei, più abbondantemente ardiscono sanza paura predicare la parola di Dio". E allora prendea elli più certa allegrezza e più fortemente s'animava contro a' nemici, però che, come il fuoco caggendo spesse volte in diverse materie s'accresce più e acquista accrescimenti, così la lingua di san Paulo a qualunque si commovesse, a sé immantanente li traeva. E' suoi combattitori diventavano pasto spirituale a questo fuoco, imperò che per loro crescea maggioremente la fiamma de la predicazione". Queste cose dice san Giovanni Grisostomo. Cominciano le feste del mese di Luglio.
cap. 86, Felicita e sette martiriSette fratelli che furono figliuoli di santa Felicita, i nomi de' quali sono questi: Januario, Felice, Filippo, Silvano, Alessandro, Vitale e Marziale; tutti questi con esso la madre loro, per comandamento d'Antonio imperatore, comandò Publio prefetto che fossero chiamati a sé, e confortòe la madre che dovesse avere misericordia di sé e di suoi figliuoli. La quale disse: "Né con le tue lusinghe potrò essere tratta, né con tue paure e minacce mi potrai rompere, perch'io son sicura de lo Spirito Santo che abbo, di mantenermi viva, e meglio vincerabbo stando uccisa". E rivolgendosi a' figliuoli, e' disse: "Vedete, figliuoli carissimi, il cielo e guatate in su, ché Cristo v'aspetta lassù. Combattete forte per Cristo e rendetevi fedeli de l'amore di Cristo". Udendo ciò il prefetto comandò che le fossero date molte gotate. E stando la madre e ' figliuoli costantissimi ne la fede, tutti furono morti per diversi tormenti, veggendoli la madre loro e confortandoli ne la fede. Questa santa Felicita san Gregorio la chiama più che martire, imperò che sette volte fu martirizzata in sette suoi figlioli e l'ottava volta nel suo propio corpo. Ne l'Omelia dice così: "Beata santa Felicita, la quale, credendo, fue ancella di Cristo e, predicando, fu fatta madre di Cristo; sette figliuoli temette lasciare vivi in carne dietro a sé, sì come le carnali madri sogliono temere di non metterlisi innanzi morti; partorette in ispirito quegli ch'ella avea parturito in carne, acciò che predicando parturisse a Dio i suoi figliuoli, i quali avea parturiti in carne al mondo; e coloro i quali ella sapea ch'erano sua carne, non potea sanza dolore vederli morire, ma era una forza dentro d'amore che vinceva il dolore de la carne. Dirittamente dunque ho detto questa femmina essere più che martire, la quale tante volte ne' suoi figliuoli è disiderosamente morta. Da che non ha temuto il martirio di molti, ella ha vinta la vittoria del martirio, però che per l'amore di Cristo la sua morte sola non bastòe". Ricevettero passione costoro intorno a gli anni Domini CX.
cap. 87, S. TeodoraTeodora, gentile femmina e bella, al tempo di Zeno imperadore, presso Alessandria avea marito che temea Domenedio ed era uno ricco uomo. Sì che il diavolo avendo invidia a la santità di Teodora, accese uno altro ricco uomo a l'amore di costei, e davale molta molestia con ispessi messaggi e doni ch'elli le mandava perch'ella gli consentisse. Ma ella rifiutava i messi e spregiava i doni. E quelli la molestava tanto, che non le lasciava avere posa, ma pareva poco meno ch'ella venisse meno. A la perfine le mandò una incantatrice, la quale la confortava molto ch'ella avesse misericordia di colui e consentisseli. E quella dicendo che dinanzi agli occhi di Dio, il quale vede tutte le cose, non commetterebbe sì grave peccato giammai, la 'ndovina rispuose: "Ciò che si fa di die Dio il sa bene e vede; ma quello che si commette da vespro innanzi, e da che il sole è tramontato, Dio nol vede". Disse la fanciulla a la incantatrice: "Or di' tu il vero?" E quella rispuose: "Mai sì, dico vero". Sì che ingannata la fanciulla per le parole di questa ria femmina, disse che nel vespro facesse venire l'uomo, e compierebbe la volontà sua. Quando quella l'ebbe detto a l'uomo, quegli, rallegrandosi molto, venne a quell'ora che quella avea detto e giacque con lei e partissi. E Teodora, ritornando poi a sé medesima, piagnea amarissimamente e batteasi il volto, dicendo: "Oimè! oimè! c'ho perduta l'anima mia, e distrutto lo vedere de l'anima mia la bellezza!" Il marito tornando a casa e veggendo la moglie così sconsolata piagnere e non sappiendo la cagione, si sforzava di racconsolarla, ma ella non volea ricevere neuno consolamento. Sì che venuta la mattina quella se n'andòe a uno monasterio di donne, e domandò la badessa se Dio poteva sapere un grave peccato ch'ella avea commesso nel vespro del die. E la badessa disse: "Neuna cosa si può nascondere da Domenedio. E' sa e vede ciò che si fa a qualunque ora si commette". E quella, piagnendo amaramente, disse: "Datemi il libro del santo Vangelio, che vo' sortire me medesima". E aprendo il libro trovò questa parola: "Quod scripsi, scripsi". Sì che tornata che fu a casa, non essendovi il marito, un die, tagliandosi le treccie de' capelli e prese le vestimenta del marito e misselesi indosso ratto, s'affrettò in via ad uno monasterio di monaci che stava da lungi VIII miglia, e domandò d'essere ricevuta co' monaci. Ed ebbe la sua domanda compimento e, domandata del nome, disse ch'era chiamata Teodoro. Quella adunque facea tutti gli uffici umilemente, e lo suo servigio era molto caro a tutti. Sì che dopo alquanti anni l'abate chiamò frate Teodoro e comandolli che accoppiasse i buoi e recasse de l'olio da la città. E 'l marito di lei piagnea temendo ch'ella non se ne fosse andata con altro uomo. Ed eccoti l'angelo di Dio, e disse a lui: "Levati domattina e sta ne la via del martirio di Piero apostolo, e quella che ti verrà incontro, quella è la moglie tua". E fatto ciò, Teodora venne con li cammelli, e vedendo il marito suo e riconoscendolo disse fra se stessa: "Oimè, marito buono, quanto m'affatico per essere libera dal peccato ch'io commisi in te!" E approssimandosi a lui, sì lo salutò e disse: "Dio t'allegri, segnore mio". Quegli al postutto non la conobbe, ma aspettando elli lungo tempo e gridando elli ch'era ingannato, venneli una boce e disse: "Quegli che ti salutò ieri mattina era la moglie tua". Di tanta santitade fue Teodora che molti miracoli fece. Uno uomo ch'era lacerato da la bestia, sì 'l campò e co' suoi prieghi il risucitò, e tenendo dietro a quella bestia sì la maladisse e quella subitamente cadde morta. E 'l diavolo non potendo sostenere la sua santitade, sì l'apparve e disse: "Ai! meretrice sopra tutte l'altre e adoltera, tu lasciasti il marito tuo per venire qua ed ispregiare me; per le vertudi mie da tremare io susciterò in te la battaglia e s'io non ti farò rinnegare il crucefisso acciò che tu sappi ch'io sono". Ma quella si fece il segno de la santa Croce, e 'l dimonio sparve immantanente. Una volta ch'ella tornava da la città co' camelli, essendo albergata in alcuno luogo, una fanciulla venne a lei e disse: "Dormi con meco". E quella rifiutandola andò ad un altro, che giaceva nel detto albergo, e concepette di lui. E ingrossandole il ventre, fue domandata di cui avesse conceputo, e quelle disse: "Quello monaco Teodoro giacque con meco". Sì che, nato il fanciullo, i parenti il mandarono a l'abate del monasterio e l'abate riprendendo Teodoro, e elli domandandone perdonanza, puoseli il fanciullo in su le ispalle e cacciollo fuori del monasterio. E quella, così cacciata rimase sette anni fuori del monasterio e nutricò quello fanciullo del latte de le bestie. Ma il diavolo avendo invidia a tanta pazienza di costei, trasfigurossi nel marito suo, e disse a lei: "Che fa' tu, donna mia? Ecco che io languisco per te, e non ricevo veruna consolazione. Vienne dunque, luce mia, ma se tu se' giaciuta con altro uomo, io sì lo ti perdono". E quella, credendo che fosse il marito suo, sì li disse: "Unquemai non istarò teco, però che 'l figliuolo di Giovanni conte giacque con meco, e io voglio fare penitenzia del peccato che io commisi in te". Ed abbiendo orato isparve immantanente; e quella conobbe allora ch'era stato il demonio. Un altra volta la volle il diavolo spaventare, e vennero i demoni a lei in similitudine di fiere salvatiche terribili; e uno uomo gl'inizzava e diceva: "Manicate questa meretrice". Quella si puose a orazione, e sparvero. Un'altra volta venne una schiera di cavalieri, e uno prencipe andava loro innanzi, e tutti gli altri l'adoravano. Dissero i cavalieri a lei: "Teodora leva su, e adora il prencipe nostro". E quella rispuose: "Io adoro Domenedio". Essendo ciò detto, el prencipe comandò ch'ella li fosse menata dinanzi e tanto fosse tormentata ch'ella fosse pensata morta, e poscia sparve tutta quella turba. Anche un'altra volta vidde quiviritto molto oro, e quella, faccendosi il segno de la santa Croce, fuggi quindi e accomandossi a Dio. Un'altra volta vidde uno che le recava uno canestro pieno d'ogne maniera di cibi, e disse a lei: "Mandati a dire quello prencipe che ti battéo, che tu tolghi e mangi, imperò che ti battéo non sappiendo che si fare". Quella si segnò e quelli isparve. Compiuti che furono i sette anni, l'abate, considerando la pazienzia di costui, sì la riconciliò e rimisela nel monasterio con 'l fanciullo. Nel quale luogo, quando ebbe compiuti poi due anni in vita lodevole, tolse il fanciullo e rinchiusesi con lui ne la cella sua. Essendo ciò rapportato a l'abate, mandovvi alcuni monaci che ascoltassono diligentemente quello ch'ella parlasse con lui. E quella, abbracciando il fanciullo e baciando, sì li disse: "Figliuolo dilettissimo, il termine de la vita mia ne viene, io ti lascio a Domenedio. Lui abbi per padre e per aiutatore, figliuolo dolcissimo; starai in digiuni e in orazioni, e servirai divotamente a i tuoi frati". E dicendo queste parole rendette lo spirito a Dio e dormì in santa pace ne gli anni Domini CCCCLXX. Veggendo ciò, il fanciullo cominciò fortemente a piagnere. In quella notte fu mostrato a l'abate una così fatta visione che si apparecchiavano grandissime nozze; e vennero gli ordini de gli Angeli e de' profeti e de gli apostoli e di tutt'i santi; ed eccoti nel mezzo di loro una femmina sola, attorneata di gloria che non si potrebbe dire, e venne infino a le nozze e sedette sopra letto e tutti quelli d'intorno l'adoravano. E venne la voce e disse a l'abate: "Questo è l'abate Teodoro e fu accusato di falso del fanciullo, e sette anni furono imposti sopra lui; ella è gastigata perché vituperò il letto del marito suo". Isvegliato l'abate andò ratto co' frati suoi a la cella di costei, e trovolla già morta; ed entrando dentro e scoprendola, trovò che era femmina, sì che l'abate mandò per lo padre de la garzonetta ch'avea infamata costei, e sì li disse: "Il marito de la figliuola tua sì è morto". E levando il vestimento seppe ch'ell'era femmina. Sì che venne una grande paura sopra coloro che vidono ciò, e l'angelo di Dio parlò a l'abate, e disse: "Leva su tosto, e sali a cavallo, e va in città, e chiunque ti viene incontro, piglialo con teco e menalo". E andando l'abate, uno uomo gli venne incontro correndo, e quegli il domandò dove corresse. Rispuose l'uomo: "La moglie mia è morta e io la vo a vedere". Allora l'abate si misse in groppa il marito di Teodora, e venendo al monasterio piansero molto e seppellirla con molte lode. E 'l marito prese la cella di Teodora, sua moglie, e stettevi entro, e a la perfine dormìo in santa pace. E 'l fanciullo tenne la via di Teodora sua balia in ogne onestà di costumi intanto crescendo che, morto l'abate del monasterio, tutti chiamarono ad una boce costui per abate del monasterio.
cap. 88, S. MargheritaLa sua leggenda scrisse Teodimo, glorioso uomo e santo. Margherita de la città d'Antiochia fu figliuola di Teodosio patriarca de' pagani. Costei fu data a balia e, vegnendo a l'etade puerile, fu battezzata; e per questo era molto in odio al padre. E da ch'ella ebbe compiuti li XV anni, un die, guardando ella le pecore de la baila con altre donzelle, il prefetto Olibrio passava per quella contrada, e vedendo così bella fanciulla, incontanente fu preso di lei e tostamente le mandò suo sergenti, dicendo a loro: "Andate e sì la pigliate, acciò che s'ella è libera, io la mi tolga per moglie, e s'ella è ancella, sì la mi tegna per amica". Essendo dunque appresentata a lui dinanzi, sì la domandò de la sua schiatta e del nome e de la setta. Quella rispuose che era di nobile schiatta e avea nome Margherita e era de la ischiatta de' cristiani. A la quale rispuose il prefetto: "Le due prime cose ti si confanno troppo bene, però che tu se' tenuta nobile e se' provata d'essere Margherita bellissima; ma la terza cosa non ti si confà, cioè che una fanciulla così nobile e bella abbia per Domenedio uno crucifisso". E affermandogli santa Margherita come spontaniamente era stato crocifisso per lo nostro ricomperamento, ma ora viveva eternalmente, adirato, il prefetto comandò ch'ella fosse messa in pregione. E 'l seguente dì la si fece venire dinanzi, e sì le disse: "O vana donzella, abbi misericordia de la tua bellezza e adora li nostri dei, acciò che tu abbi bene". E quella rispuose: "Io adoro colui del quale triema la terra, e temonlo il mare e' venti, e tutte le creature". E 'l prefetto disse: "Se tu non mi consentirai, io farò isquarciare lo tuo corpo". Al quale Margherita rispuose: "Cristo diede se medesimo per me a la morte, e però non dubito io disiderare la morte per Cristo". Allora il prefetto comandò ch'ella fosse sospesa in alto e squarciata sì crudelmente prima con le verghe, di poi con i pettini di ferro sino a la nudità de l'osso, che del corpo suo usciva il sangue come di purissima fontana. E piagneano coloro che erano quivi presenti, e dicevano a Margherita: "Noi ci dogliamo di te, però che vedemo il tuo corpo essere così crudelmente isquarciato. Oi che bellezza tu hai perduta per la tua miscredenza! almeno credi ora, acciò che tu viva". A' quali ella rispuose: "Oi mali consiglieri, partitevi da me, questo tormento de la carne è salvamento de l'anima". Poscia disse al prefetto: "Disvergognato cane e non saziabile leone, tu hai podestà ne la mia carne, ma Cristo si riserba l'anima". E 'l prefetto ricoprìa la faccia col mantello, ché non patìa di vedere tanto spandimento di sangue. Poscia la fece porre a terra, e fecela rinchiudere ne la carcere, e un mirabile lume rifulse. Nel quale luogo essendo pregò il Signore che le dimostrasse il nimico visibilemente, il quale combattea con lei. Ed eccoti apparire iventro un grande drago e, ponendo la bocca sopra il capo di colei e la lingua sotto il calcagno, sì l'ebbe tranghiottita; ma quando ella vidde ch'elli la volea tranghiottire, sì si armò col segno de la Croce; e però il drago, per vertù de la Croce, sì crepò, e la vergine n'uscì fuori sanza male. Ma questo che si dice del divoramento del dragone e del suo criepamento è tenuto che sia favole. E 'l diavolo un'altra volta, per poterla ingannare, sì si trasfigurò in ispezie d'uomo; e ella vedendolo si diede a l'orazione; da che fu levata, il diavolo andò a lei, e tenendole la mano sì le disse: "Bastiti quello che tu hai fatto, guardati oggimai da la mia persona". E quella il prese per lo capo e gittollo a terra e sotto a sé, e puose il piè diritto sopra il collo suo, così dicendo: "Cadi giù, superbo dimonio, sotto i piedi de la femmina". E 'l dimonio gridava: "O beata Margherita, io sono vinto! Se un giovane m'avesse vinto, io non ne curerei, ma ecco che sono vinto da una tenera donzella, e quindi mi duole più, ché 'l padre e la madre tua furono miei amici". E quella il costrinse di dire perché in tante guise tentava gli cristiani. E quelli rispuose che naturale odio era a lui incontra gli uomini vertudiosi; e avvegna che da loro sia spesse volte cacciato, pur del disiderio di ringannare rimane molesto; e però ch'elli ha invidia a l'uomo de la beatitudine la quale elli perdette, avvegnadio che non la possa ricoverare, ma pure elli si sforza di torla a gli altri. E disse che Salamone rinchiuse una infinita moltitudine di dimoni in uno vasello, e di quello vasello traeva fuoco, e li uomini, credendo che v'avesse grande tesoro entro, sì lo ruppono e le demonia uscendone fuori riempierono l'aere. Dette queste cose la vergine Margherita sollevò il piede e disse: "Fuggi misero". E 'l demonio sparve immantanente. Sì che divenne sicura, però che da ch'ella avea vinto il prencipe, sanza dubbio vincerebbe il ministro. E 'l seguente die ragunato il popolo, fu menata dinanzi al giudice; e non volendo sacrificare fu spogliata, e con faccelline accese le sue carni furono abbronzate in tale guisa che tutti si maravigliavano come così tenera fanciulla potesse patire tanti tormenti. Dopo questo la fece legare e, legata, mettere in una grande tina piena d'acqua, acciò che per lo cambiamento de le pene, crescesse il dolore, ma subitamente si commosse la terra e, stando tutti in paura, la vergine n'uscì fuori netta sanza male veruno. Allora crederono in Cristo cinque milia uomini e, per lo nome di Cristo, ricevettono la sentenzia de la testa. E temendo il prefetto che gli altri non si convertissono, tosto fece dicollare santa Margherita. E ella accattòe spazio d'orare per sé e per li suoi persecutori, e anche per coloro che facessero memoria di lei e che si raccomandassero devotamente a lei, e che qualunque femmina avesse pericolo di parto e ella la chiamasse, ch'ella mandasse fuori la criatura sanza veruno male. E venne la voce da cielo e disse com'ella sarebbe esaudita ne le sue orazioni. E levandosi da l'orazione, disse al giustiziere: "Frate, tolli la spada tua e sì mi percuoti". E quelli percotendo, a uno colpo l'ebbe tagliato il capo; e così ricevette la corona del martirio. Passionata fue XVIII dì fra Luglio come dice la sua leggenda. Ma altrove si truova XIIIentrante Luglio. Di questa vergine dice così un santo: "Santa Margherita fu ornata de la perseveranza, del timore di Dio, adorna di religione, sparta in compunzione, lodevole d'onestate, singulare ne la pazienzia, e nulla cosa si trovava in lei contraria a la religione de' cristiani. Fu in odio al padre suo, fu innamorata di messere Jesù Cristo".
cap. 89, S. AlessioAlessio fu figliuolo di Eufemiano, gentilissimo romano e più innanzi ne la corte de lo imperadore. Al quale servivano innanzi tre milia donzelli che aveano tutti scaggiali d'oro e vestimenta di seta. Ed era il detto Eufemiano uno uomo ch'era molto misericordioso, e ciascheduno die ne la casa sua s'apparecchiavano tre mense a' poveri, orfani, pellegrini e vedove, a i quali valentremente servìa; e ne l'ora de la nona egli con uomini religiosi prendeva il cibo nel timore di Dio. E avea moglie ch' era chiamata Aglaes, ed era de la stessa religione e costumi; e non avendo figliuolo veruno, per li loro prieghi concedette Domenedio loro un figliuolo e, poi che l'ebbero, da indi innanzi si fermarono di vivere in castitade. E posto il figliuolo a lo studio de la lettera e a le sette arti, essendo già fiorito in tutte l'arti de la filosofia e venuto a etade di XIII anni, sì li fue scelta una donzella de la casa imperiale, e fugli data per moglie. Or venne la notte ne la quale si ritruova in camera con la sposa; allora il santo giovane cominciò ad ammaestrare la sua sposa nel timore di Dio e inducerla a castitade di verginità; poscia le diede a serbare l'anello suo de l'oro e 'l capo de lo scheggiale ch'elli avea cinto, e disse così: "Tolli queste cose e serbale quanto a Dio piacerà, e 'l Signore sia tra noi". E poi tolse de l'avere suo e vassene al mare e, entrando nascosamente ne la nave, venne infino in Laodicea; poscia si mosse indi e andonne in Edessa, città di Sorìa, là dove è la imagine del nostro Signore Jesù Cristo, fatta sanza opera d'uomo in uno bello panno. E giunto che fu là, ciò che avea portato seco diede a' poveri, e, mettendosi vili vestimenti, con gli altri poveri cominciò a sedere sotto il portico de la gloriosa Vergine Maria. De le limosine ricevea quanto li potea bastare e l'altro dava a' poveri. Il padre doloroso de la partenza del figliuolo mandò suoi donzelli per tutte le parti del mondo che andassero cercando di lui diligentemente. De' quali, essendone venuti alcuni a la città di Edissa, furono bene conosciuti da lui, ma ellino non conobbero lui, e diederli limosina con gli altri poveri; la quale ricevendo, fece grazia a Dio, e disse: "Grazie ti rendo, Signore mio, che m'hai fatto ricevere limosina da' servi miei". Ritornati dunque i donzelli annunziarono al padre che non l'aveano potuto trovare in parte veruna; e la madre sua, dal die de la partenza, distese uno panno di sacco in sul letto suo, nel quale luogo piagnendo dava lamentevoli voci, dicendo: "Qui starò io sempre in pianto infino a tanto ch'io avrò ricoverato il figliuolo mio". E la sposa disse a la suocera sua: "Infino a tanto ch'io udirò novelle de lo sposo mio dolcissimo, starommi solitaria a modo di tortora". Essendo dunque stato Alessio in quel luogo XVII anni al servigio di Dio, a la perfine la imagine ch'era iveritto de la beata Vergine, disse al guardiano de la chiesa: "Fa venire dentro l'uomo di Dio, però ch'egli è degno del reame del cielo, e lo spirito di Dio si riposa sopra lui, però che l'orazione sua sale come incenso nel cospetto di Dio". E non sappiendo il guardiano di cui dicesse, un'altra volta li disse la imagine: "Colui che siede fuori ne la piazza è esso". Allora il guardiano uscì ratto fuori e menollo dentro ne la chiesa. Il quale fatto essendo palesato a tutti e avuto in reverenzia da tutti, volendo fuggire la gloria de gli uomini partissi quindi, e vennene in Laodicea, e ivi entròe in nave e, volendo andare in Tarso di Cilicia, la nave, per dispensazione di Dio menata da' venti, capitò in porto romano. Vedendo ciò Alessio, disse fra se stesso: "Io mi starò in casa di mio padre sanza essere conosciuto, e non darò fatica altrui di me". Ed incontrossi nel padre che venìa dal palazzo, attorneato di moltitudine di sergenti, e cominciolli a gridare dietro e diceva: "Servo di Dio, ricevi me pellegrino in casa tua e fammi nutricare de' minuzzoli de la mensa tua, acciò che Dio abbia misericordia del tuo pellegrino". Udendo ciò il padre, per amore del figliuolo suo comandò che fosse ricevuto, e assegnatoli luogo propio in casa sua e un propio servigiale. Ma elli perseverava in orazioni, e macerava il corpo suo con digiuni e con vigilie. E' fanti de la casa sua facieno molte scherne di lui e rivesciavagli ispesse volte l'acqua in capo de le masserizie di cucina, e facevangli molti rincrescimenti, ma elli era paziente a tutte queste cose. Sì che XVII anni stette, così non conosciuto, in casa del padre. Veggendo dunque per ispirito che la fine sua s'appressimava, adimandò una carta da scrivere e inchiostro, e scrissevi entro tutto l'ordine de la vita sua. E la Domenica vegnente, dette le Messe, venne una voce da cielo nel santo luogo, e disse: "Venite a me tutti voi che v'affaticate e siete caricati e io vi satollerò". Udendo ciò tutti, caddero tutti isbigottiti in terra boccone; ed eccoti la voce da cielo la seconda volta, e disse: "Cercate l'uomo di Dio che preghi per Roma". Cercandone coloro e non trovandolo, fu detto un'altra volta: "Cercate in casa d'Eufemiano". Dimandatone quelli, disse che non ne sapeva veruna cosa. Allora gl'imperadori Arcadio e Onorio vennero insieme con papa Innocenzio a la casa del detto uomo, ed eccoti il servigiale d'Alessio venire al segnore suo, e disse: "Guarda, messere, che non sia quello pellegrino nostro, ched egli è uomo di grande vita e di grande penitenzia". Corse dunque Eufemiano e trovollo morto e vidde il volto suo risplendiente com'un angelo; e volle torre la carta che teneva scritta in mano, ma non la poteo avere. Uscendo dunque fuora ed abbiendo raccontato ciò a l'imperadori e al papa, coloro entrarono ne la casa e dissero: "Avvegnadio che noi siamo peccatori, pur siamo governatori del reame e costui ha cura universale del reggimento pastorale; dacci dunque la carta sì che noi sappiamo quello che ci è entro scritto". Allora andò il papa e tolseli la carta di mano, e elli la lasciò, e fu fatta leggere dinanzi a tutto il popolo e a tutta la moltitudine e al padre di lui. Eufemiano udendo queste cose, conturbato per troppa paura, estupidìo e diventòe tramortito e, venutoli meno la forza, cadde in terra. E quando fu ritornato alquanto a se medesimo squarciò le vestimenta sue e cominciossi a divellere i capelli suoi canuti del capo suo e pelarsi la barba e dirompersi tutto quanto, e cadendo sopra il corpo del figliuolo gridava: "Oimè, figliuolo mio, perché m'hai tu così contristato, e per cotanti anni m'hai dato pianto e dolore? Oimè misero, che ti veggio guardiano de la vecchiezza mia, giacere in uno letticello e non mi parli! De! Che consolazione potrò io avere da quinci innanzi?" E la madre sua udendo queste cose, come leonessa rompente la rete, così, con le vestimenta squarciate e scapigliata, si levò ritta e levava gli occhi a cielo; e non potendo per la grande moltitudine andare al santo corpo, gridava dicendo: "Fatemi luogo e acciò, uomini, ch'io veggia il figliuolo mio, ch'io veggia la consolazione de l'anima mia, che poppòe il petto mio!" Ed essendo pervenuta al corpo, gittandosi sopra esso, gridava: "Oimè, figliuolo mio, lume de gli occhi miei, perché la ci hai così fatta, perché ti se' portato con esso noi così crudelmente? Tu vedevi lagrimare il padre tuo e me, misera, e non ci ti mostravi? I servi tuoi ti faceano ingiurie, e tu le sostenevi?" E anche più e più si gittava sopra 'l corpo, e or vi spandeva sopra le braccia, ora le toccava il volto angelico con le mani, e basciando gridava: "Piangete con esso meco tutti voi che siete qui presenti, però che diciasette anni l'ho tenuto in casa mia, e non l'ho conosciuto ched e' fosse uno solo mio figliuolo; i servi suoi li facevano villania, e davanli le gotate! Oimè, chi darà a gli occhi miei fontana di lagrime, acciò ch'io pianga il dì e la notte il dolore de l'anima mia?". E la sposa sua, vestita di nero, corse là piagnendo e dicendo: "Oimè, ch'io sono oggi sconsolata e appaio vedova; già non abbo in cui guardare, né in cui levare gli occhi; ora è rotto lo specchio mio, è perita la speranza mia; oggimai è cominciato il dolore che non ha fine!" E 'l popolo vedendo queste cose lagrimevolemente piagnevano. Allora il papa con l'imperadori puosero il corpo in uno onorato cataletto e menarlo nel mezzo de la città; e fu annunziato al popolo ched era trovato l'uomo di Dio, lo quale tutta la città andava caendo, e tutti andavano incontro al corpo suo. I ciechi ricevettono lo vedere, gl'indemoniati erano liberati e tutti gl'infermi, da qualunque infermità gravati fossero, toccato che aveano il corpo santo erano sanati. E gl'imperadori, vedendo tante maraviglie, cominciarono per loro medesimi a portare il letto con esso il papa, acciò che fossono santificati da quello corpo santo. Allora gl'imperadori comandarono che fosse gittato oro e argento in buona quantità ne le piazze, acciò che le turbe fossero occupate de l'amore de la pecunia e lasciassero portare il corpo santo a la chiesa. Ma il popolo puose da l'uno lato l'amore de la pecunia e più che più correvano a toccare il corpo santissimo, e così, con grande fatica, il portarono al tempio di santo Bonifazio martire, e per sette dì permagnendo ne le lode di Dio. In quello cotale luogo lavorarono uno monimento d'oro e di gemme e di pietre preziose, e misservi entro con grande reverenzia il corpo santissimo a XVII dì del mese di Luglio. E di quello monimento usciva sì soavissimo odore che a tutti pareva che fosse pieno di spezie. E morì XVII dì fra Luglio nel CCCXCVIII.
cap. 90, S. PrassedePrassede vergine fu serocchia di santa Potenziana vergine, le quali furono serocchie di santo Donato e di santo Timoteo apostolo, i quali furono ammaestrati da li apostoli ne la fede. Questi, quando era la grande persecuzione de' cristiani, avendo seppellito le corpora di molti cristiani e dato l'avere l'oro a' poveri, a la perfine morirono in pace, intorno a gli anni Domini CLXV sotto Marco e Antonio Nero.
cap. 91, S. Maria MaddalenaMaria Maddalena, dinominata dal castello Magdalo, nacque di gentile legnaggio, sì come di discendenti di schiatta di re; il cui padre ebbe nome Siro e la madre Eucaria. Costei col fratello suo Lazzaro e con la serocchia sua Marta avea in possessione il castello ch'era chiamato Magdalo, ch'è presso a Genesaret a due miglia, e anche Betania, ch'è presso a Gerusalem, e grande parte possedeva di Gerusalem. Le quali possessioni divisero tutte così tra loro che Maria ebbe il castello di Magdalo, onde ella è dinominata, e Lazzaro ebbe la parte de la città di Gerusalem, e Marta ebbe Betania. E con ciò fosse cosa che Maria si desse tutta a le delizie del corpo e Lazzaro intendesse il più a cavalleria, Marta, savia, governava valentremente la parte de la sirocchia e quella del fratello e la sua, e serviane a' cavalieri e a' fanti suoi e a' poveri ne' loro bisogni. Ma tutte queste cose vendettero dopo l'ascensione di Cristo e gittarono lo prezzo a' piedi de gli apostoli. E abbondando la Maddalena in ricchezza, però che con l'abbondanza de le cose v'ha per compagno il diletto del corpo, quant'ella risplendea di ricchezze e di bellezza, tanto sottomisse il corpo suo a diletto, ond'ella avea già perduto il suo propio nome e soleasi chiamare la peccatrice. Ma predicando Cristo quivi e altrove, ella, per volontà di Dio ispirata, andò a casa di Simone lebbroso, là ov'ella udì che Cristo mangiava; e non essendo ardita, come peccatrice, di stare fra le sante persone, stettesi di dietro a' piedi del Signore, e ivi gli lavò con le lagrime e forbilli co' suoi capelli e unse con unguento prezioso; però che gli abitanti di quella contrada per la grande arsura del sole usavano unguenti e bagnora. E con ciò fosse cosa che Simone fariseo pensasse così fra se medesimo: "Se costui fosse profeta, neente si lascerebbe toccare a la peccatrice", il Signore il riprese de la sua superba giustizia e a la femmina perdonòe tutt'i peccati. Questa è dunque quella Maria Maddalena a la quale il Signore fece così grandi beneficii e mostrò sì grandi segni d'amore; però che cacciò da lei sette demonia e, accesala tutta nel suo amore, fecelasi famigliarissima e sua albergatrice, e volsela avere per sua procuratrice in viaggio, e sempre la scusòe dolcemente. Imprima la scusòe al fariseo, che dicea ch'ell'era immonda; e scusolla a la serocchia che dicea ch'ell'era oziosa; e a Giuda che dicea ch'ell'era una scialacquata. Vedendola Cristo piagnere, non poté tenere le lagrime. Per lo cui amore risucitò il suo fratello, ch'era stato quattro dì morto; per lo cui amore liberò Marta, sua serocchia, dal flusso di sangue ch'ella avea patito sette anni; per li cui meriti fece degna Martilla, cameriera de la sirocchia, di dire così beata e dolce parola come fu quella ch'ella gridando disse a Cristo: "Beato il ventre che ti portò". Ché secondo il detto di santo Ambruosio, ella fue Marta, e questa fue sua cameriera. Questa è adunque colei che lavò i piedi al Signore con le lagrime e rasciugogli co' capelli e unse con lo unguento; la quale nel tempo de la grazia fu la prima che fece solenne penitenzia, la quale elesse l'ottima parte, la quale sedendo a' piedi del Signore udì le parole sue, la quale unse il capo del Signore, al quale fue a lato a la croce di Cristo ne la Passione, la quale apparecchiò gli unguenti per ugnere il corpo suo, la quale non si partì dal monumento partendosene i discepoli, a la quale Cristo, risuscitando, apparve di prima e fecela apostola de li apostoli. Adunque dopo l'Ascensione del Signore, ciò il quarto decimo de la passione di Cristo, avendo già i giuderi morto santo Stefano e cacciati via i discepoli da tutt'i confini de la provincia di Giudea, i discepoli andarono per diverse contrade de' pagani seminandovi la parola di Dio. Ora era da quello tempo con gli apostoli san Massimino, uno de' settantadue discepoli di Cristo, al quale la Maddalena era stata raccomandata da san Piero. Sì che in questo spargimento san Massimino e Maria Maddalena e Lazzaro, suo fratello, e Marta, sua serocchia, e Martilla, cameriera di Marta, e anche santo Cedonio, il quale cieco da la nascita era stato alluminato da Cristo, tutti questi insieme, e molti altri cristiani, furono messi in una nave da l'infedeli e abbandonati al pelago, sanza veruno argomento di nave, acciò che tutti v'affogassero entro; ma per volontà di Dio a la perfine capitarono a Marsiglia. Nel qual luogo, non trovandovi persona che li volesse ricevere, stavansi sotto uno portico ch'era tempio de l'idolo di quella gente de la terra. Veggendo santa Maria Maddalena correre il popolo a quello tempio per fare sacrificio a l'idoli, levossi in piede col volto piacevole e con la faccia chiara, con la lingua pulita e ritraevali da l'adorare gl'idoli e predicava Cristo costantissimamente; e maravigliansi tutti per lo bello parlare di lei e per la dolcezza de le sue parole. E non era da maravigliare se la bocca ch'avea dato così piatosi basci e così belli a' piedi del Salvatore, desse maggiore odore che tutti gli altri de le parole di Dio. Poscia eccoti venire il prenze de la provenza con la moglie sua, per fare sacrificio a l'idole, acciò che potesse avere figliuolo. A i quali santa Maria Maddalena fece una predica e confortolli di non fare sacrificii. Infrattanto, rivolti alquanti dì, apparve in visione la Maddalena a quella donna, così dicendo: "Per quale cagione, con ciò sia cosa che voi abbondiate in tante ricchezze, lasciate morire i santi di Dio di fame?" E dicendo ancora, la minacciò fortemente sed ella non confortasse il marito suo di sollevare la povertà di santi, ché incorrerebbe ne l'ira di Dio onnipotente. Ma ella temette di dirlo a lo marito suo la visione. Vegnente l'altra notte apparve a lei medesima dicendole simigliante parole, ma ancora fu nigligente a palesarlo al marito suo. La terza volta, entro la mezza notte, apparve ad abendue, molto accesa e adirata con uno volto infiammato, come tutta la casa ardesse, e disse: "Dormi tu, tiranno, membro del padre tuo satanas, con la serpentina moglie tua, la quale non t'ha voluto dire le parole mie? Ripositi tu nemico de la Croce di Cristo, avendo satollato la ghiottornia del ventre tuo di divisate maniere di vivande, e lasci morire i santi di Dio di fame e di sete? Giaci tu nel palazzo involto ne' panni di seta, e vedi quelli sconsolati e sanza albergo e lascili passare oltra? Non andrà così, malvagio, non ne camperai così netto, che tu non ne sia bene pagato, ché tu ti se' tanto indugiato a fare loro bene!" Così parlòe e partissi. Quando la donna fu svegliata cominciò a sospirare e a tremare e, sospirando il marito suo per quella cagione medesima, sì li disse: "Signore mio, or vedesti tu il sogno che ho veduto io?" E quelli disse: "Ben l'ho veduto io, e non cesso di maravigliarmi e di temere; che ne faremo?" Rispuose la moglie: "Più utile è ubbidire che incorrere ne l'ira di quello Signore, lo quale ella predica". Per la quale cosa gli ricevettero ad albergo e apparecchiarono loro tutte le cose che faceano loro bisogno. Sì che predicando uno die santa Maria Maddalena, il detto prencipe le disse: "Credi tu potere difendere la fede, la quale tu predichi?" E quella disse: "Certo sì, sono apparecchiata per difenderla sì come fede fortificata per cutidiani miracoli e per la predicazione del maestro nostro san Piero, lo quale è vescovo di Roma". Allora le disse il prencipe con la moglie sua: "Ecco che noi siamo apparecchiati ad ubbidire in tutto a' tuoi detti, se tu ci accatti uno figliuolo da quello Domenedio che tu predichi". Disse la Maddalena: "Per questo non rimarrà". Allora santa Maria Maddalena pregò il Signore per loro che degnasse di dare loro uno figliuolo, e fu esaudita da Dio, e concepette la donna. Allora il marito incominciò a volere andare a san Piero per provare s'egli era così la verità come Maria avea predicato di Cristo. Al quale disse la moglie: "Che è, signore mio, che pensi tu andare sanza me? Non andrà ella così; se tu ti partirai, io mi partirò; se tu andrai, io verrò; se poserai, io poserò". A la quale disse il marito: "Non sarà così, madonna, però che con ciò sia cosa che tu sii gravida e nel mare siano infiniti pericoli, potresti agevolemente pericolare; riposati dunque a casa e abbi cura a le possessioni". E ella pure contrastava seguitando costume femminile, e con lagrime e gittandolisi a' piedi; a la perfine ebbe quello ch'ella domandava. Sì che Maria puose in su le spalle loro il segno de la Croce, acciò che l'antico nemico non desse loro impedimento ne la via in neuna cosa. Sì che incaricato la nave molto bene di tutte cose necessarie, e tutte l'altre cose ch'aveano lasciarono a guardia di Maria Maddalena e cominciarono ad andare. E compiuto già il corso di due dì ed una notte, cominciò il mare molto a gonfiare, e 'l vento a soffiare, sì che tutti, e massimamente la donna gravida e debole, per così crudele traboccamento de l'onde commossi erano da gravissime angoscie costretti, sì che in lei venne subitamente lo dolore del parto, e tra per l'angoscia del ventre e per le tribulazioni del tempo parturì il fanciullo e morìe. Nacque dunque il fanciullo e palpitava per volere cercare d'avere sollazzo de le mammelle de la madre, e mettea fuori pianti di lamento. E odi guai! nato è il fanciullo micidiale de la madre, e lui conviene morire, non essendo quivi chi gli desse nutricamento di vita! Che farà il pellegrino, vedendo la moglie morta e 'l fanciullo piangere cercando le mammelle de la madre con lamentevoli voci? Lamentavasi molto questo uomo e diceva: "Oimè, misero, oimè, che farai? Io ho disiderato d'avere figliuolo, e ho perduto la madre col figliuolo!" I nocchieri gridavano, e diceano: "Sia gittato in mare questo corpo, anzi che noi pericoliamo con esso; mentre che sarà con esso noi, questa tempesta non rimarrà". Ed avendo preso il corpo per gittarlo in mare, il pellegrino disse: "Perdonate, perdonate e se non volete perdonare né a me né a la madre, almeno abbiate misericordia del fanciullo che piagne, lasciate stare un poco, sostenetevi un micolino se per la ventura la donna tramortita potesse respirare ancora". Ed eccoti apparire, non di lungi da la nave, una collina, la quale, poi che l'ebbero veduta, giudicarono che fosse il meglio a portare là il corpo e 'l fanciullo che metterlo a divorare a le bestie marine. E a grande pena impetròe da' nocchieri per prieghi e per prezzo d'arrivare colà. E non potendosi per la durezza essere cavato una fossa quivi, tolse il corpo e allogollo in una più segreta parte de la collina, con uno mantello ivi sotto e ponendo il fanciullo a le mammelle de la madre sua, sì disse con lagrime: "O Maria Maddalena, perché a crescere mia perdezza e mia miseria arrivasti ne le parti di Marsiglia? Perché io, sciagurato, per lo tuo ammonimento presi a fare questo viaggio? Or domandasti tu al Signore che questa mia femmina concepesse, acciò ch'ella perisse? Ecco ch'ella concepette, e partorendo l'è venuta la morte, e conceputa è nato acciò che perisca, non essendo chi lo notrichi. Ecco quello ch'io ho avuto per lo tuo priego! Io ti raccomandai tutte le cose, e al tuo Domenedio raccomando: s'Egli è potente che si ricordi de l'anima de la madre, e per lo tuo priego abbia misericordia che 'l fanciullo nato non perisca". Allora coperse col mantello suo il corpo e il fanciullo da ogne lato, e poscia salette ne la nave. Ed essendo venuto a san Piero gli venne incontro e, veduto che l'ebbe il segno de la Croce postogli in su le spalle, dimandò chi e' fosse e onde venisse. E quegli gli venne contando tutte le cose per ordine. Al quale disse san Piero: "Pace sia a te, bene sia venuto e a utile consiglio credesti, né non avere a grave se la moglie tua dorme e se 'l fanciullo si posa con lei, però che 'l Signore è potente a fare doni a cui E' vuole, e torre le cose date e rendere le cose tolte e mutare lo tuo pianto in letizia". Sì che san Piero il menò in Gerusalem, e mostrogli tutte le luogora dove Cristo predicò e dove E' fece i miracoli e 'l luogo dove fu morto e donde salette in cielo. Ed essendo ammaestrato diligentemente ne la fede da san Piero, passati due anni, entròe ne la nave, e missesi a ritornare in suo paese. E navicando elli per ordinamento di Dio presso a la Collina, giunsero dove elli avea posto giù il corpo de la moglie col fanciullo, e fece tanto con priego e con prezzo, ch'ellino arrivarono colàe. E il fanciullo era conservato quiviritto da la beata Maria Maddalena sano e salvo, e andava spesse volte a la riva del mare, e usava di trastullarsi quiviritto con le petruzze e con la ghiaia, come è usanza di fare i fanciulli. Ed essendo arrivato, vide il fanciullo giucare con le petruzze a la riva del mare, come soleva fare, e, non rimagnendosi di maravigliare che ciò fosse, discese de la nave a terra. E 'l fanciullo vedendo costui, e non avendo mai veduto così fatta cosa, ebbe paura, e ricorrendo a l'usate mammelle de la madre, celatamente si nascondea sotto 'l mantello. E 'l pellegrino, per vedere più manifestamente, andò là e trovò il fanciullo bellissimo che succiava le mammelle de la madre. E tollendo il fanciullo, disse: "O beata Maria Maddalena, come sare' io inventurato e come mi sarebbero venute tutte le cose prosperevoli, se la femmina respirasse e potesse ritornare meco nel nostro paese! Io so per certo, e sanza dubbio il credo, che tu che n'hai dato questo fanciullo e nutricatolo per due anni in questa ripa, potrai col tuo priego ristituire la madre ne la prima santade". A queste parole la donna rispirò, e come si svegliasse dal sonno, sì disse: "O beata Maria Maddalena gloriosa, di quanto merito tu se' appo Dio, lo quale ne le tribulazioni del mio parto usasti officio di baila, e in tutte le necessitadi hai compiuto il servigio a l'ancella tua!" Udite queste parole il pellegrino, maravigliandosi, disse: "Or se' tu viva, moglie mia amata?" E quella disse: "Sì, son viva, e ora, di prima, vegno del pellegrinaggio donde tu se'venuto; e come san Piero menò te in Gerusalem e mostrotti tutt'i luoghi dove il Signore fu passionato e morto e seppellito, e molti altri luoghi, così io vi sono stata con voi per guida e compagnia di beata Maria Maddalena, e tutte le luogora viddi, e, vedute, sì lo riposte ne la mente". E cominciandosi a tutt'i luoghi ne' quali Cristo patì, e' miracoli che 'l marito avea veduti, tanto bene gli spianò e ridisse, che non erròe pure uno punto. Allora il pellegrino prese la moglie e 'l fanciullo, ed entròe allegro ne la nave, e poco poscia arrivarono ne le parti di Marsiglia. Ed entrando ne la città trovarono santa Maria Maddalena che predicava con esso discepoli suoi e gittaronlisi a' piedi con lagrime, e narrarono a lei tutte le cose ch'erano a loro intervenute, e ricevettono il battesimo da san Massimino. Allora ne la città di Marsiglia furono distrutti tutti i tempii de l'idole, e ordinarono le chiese di Cristo, e tutti in concordia elessero san Lazzero per vescovo di quella cittade. A la perfine, per volontà di Dio, vennero a la città d'Achissi, e recarono quello popolo per molti miracoli a la fede di Cristo; nel quale luogo san Massimino fue ordinato vescovo. Infrattanto beata santa Maria Maddalena, disiderosa de la contemplazione disopra, domandò uno ermo asprissimo, e in luogo apparecchiato per mano d'angeli stette trenta anni sanza essere conosciuta. Nel quale luogo non era né fiumi d'acque, ne sollazzo veruno d'arbori o d'erbe, acciò che per questo si manifestasse che 'l Redentore nostro l'avea ordinato di saziare non di mangiare di terra, ma solamente de le vivande del cielo. Ciascuno die a le sette ore canoniche era levata da gli angeli in aere, e udìa eziandio con gli orecchi del corpo glorioso canti de le schiere del cielo, onde ogni die saziata di questi soavissimi mangiari e riposta per quelli medesimi angeli a luogo propio, non avea bisogno in veruno modo di nutrimenti corporali. E uno prete, disideroso di fare vita solitaria, fecesi una cella presso al detto luogo per XII stadia; sì che uno die aperse il Signore gli occhi del detto prete, e con gli occhi corporali vidde manifestamente come gli angeli discendevano al detto luogo nel quale santa Maria Maddalena dimorava, e sollevavala in aere, e, dopo spazio de l'ora la reduceano al detto luogo con divine lode. E volendo il prete conoscere la verità di così maraviglioso vedimento, raccomandandosi con prieghi al suo Criatore, andava al detto luogo con disiderosa divozione, e, appressimandosi ad una gittata di pietra, cominciarono le gambe sue a risulversi, e, per la forte paura, cominciarono le 'nteriora sue infino a le midolla ad agitarsi tutte. E ritornando indietro, le gambe insieme co' piedi davano l'uso de l'andare, ma se si volesse rivolgere per andare al detto luogo, il languidore di tutto il corpo e la debolezza de la mente in tutt'i modi il vietava. Intese dunque l'uomo di Dio che sanza dubbio quello era celestiale sacramento, al quale non potea andare sperimento d'uomo. Invocato dunque il nome del Salvatore, gridòe e disse: "Io ti scongiuro per Dio, che se tu se' uomo o creatura ragionevole ch'abiti in codesta spelonca, che tu mi risponda e spianami la verità". E abbiendo ripetuto tre volte queste parole, santa Maria Maddalena gli rispuose: "Vieni più presso, e potrai vedere e sapere la verità di tutto quello che disidera l'anima tua". Ed essendosi quegli tremante appressimato infino a la metà del termine, ella disse a lui: "Ricorditi tu, per lo Vangelio, di quella famosissima peccatrice c'ha nome Maria, la quale bagnòe di lagrime i piedi del Salvatore e rasciugogli co' capelli e guadagnòe perdonamento de' suoi peccati?" A la quale disse il prete: "Bene me ne raccordo, e più di trenta anni sono rivolti che questo fatto fosse, crede e confessa la santa Chiesa". E quella disse: "Io sono quella essa la quale, per tutto quello spazio di tempo che tu hai ricordato, sono stata qui, non conosciuta a tutti gli uomini; e come ti fu promesso ieri di vedere, così ogne die è sollevata per mani d'angeli, e sette volte per ciascuno die son fatta degna d'udire con gli orecchi del corpo il dolcissimo giubilare de le schiere del cielo. Però dunque che m'è rivelato dal Signore ch'io mi debbo partire di questo mondo, vattene a santo Massimino, e brigati di dirli questo, che la più prossimana domenica di Risurresso, quando egli è usato d'andare al mattutino, entri solanato ne l'oratorio, e troverammi essere iveritto per servigio de gli angeli". Il prete udiva la voce sua come d'uno angelo, ma non vedea persona. Sì che andò tosto a san Massimino, e narrolli tutte cose per ordine; e san Massimino, ripieno di molta allegrezza, fece grandi grazie al Salvatore, e in quello dì e ora che gli era comandato d'entrare nell'oratorio solanato, sì vi entrò e vidde santa Maria Maddalena stare ancora nel coro de li angeli che l'avevano menata. Ed era levata da terra per ispazio di due cubiti stante nel miluogo de gli angeli, con le mani stese e pregante il Signore. E temendosi san Massimino d'andare a lei, rivolesi ella a lui e sì li disse: "Vieni qua, padre, più da presso, non fuggire la figliuola tua!" E approssimandosi lui, come si legge ne i libri del detto san Massimino, in tale maniera risplendeva il volto suo per lo continuo e lungotano vedimento de gli angeli, che più tosto potrebbe altri vedere i razzi del sole che la faccia sua. Ragunato dunque tutto il chericato e 'l detto prete, santa Maria Maddalena ricevette dal vescovo il corpo e 'l sangue di Cristo con molta abbondanza di lagrime; poscia distese tutto il corpicello dinanzi a la volta de de l'altare per terra, e quella santissima anima n'andòe a Domenedio. Dopo l'uscita de la quale, tanto odore di soavitade vi rimase che poco meno per sette dì era sentito da coloro che entravano ne l'oratorio. Il cui santissimo corpo san Massimino seppellìo onorevolemente, conciandolo con divisate maniere di spezie, e comandòe che dopo la sua morte fosse seppellito a lato a lei. Egisippo, ovvero secondo alcuni libri Giosefo, s'accorda assai con la predetta storia; ché dice in uno suo trattato che Maria Maddalena, dopo l'Ascensione di Cristo, per l'ardore de la carità di Cristo e per lo tedio ch'ella avea, non volea mai vedere uomo; ma poi ch'ella fu venuta al territorio d'Achissi, se n'andò nel diserto e XXX anni vi stette non conosciuta; nel quale luogo, sì come dice, ciascuno die ne l'ore canoniche era levata da gli angeli in aere. Disse ancora: "Un prete essendo venuto a lei, sì la trovò rinchiusa ne la cella, e quella gli chiese un vestimento ed ebbelo, e vestillosi, e andò a la chiesa con lui, e ivi comunicata levò le mani in orazione lunghesso l'altare, e dormìe in pace". Ma al tempo di Carlo Magno, cioè ne gli anni DCCLXIX, Gerardo duca di Borgogna, non potendo avere figliuoli de la moglie, con larga mano dava de' beni suoi a' poveri e facea molte chiese e monasterii. Abbiendo dunque fatto il monasterio in Zabasse, mandò egli e l'abate di quello monasterio, uno monaco con dicevole compagnia a la città d'Achissi per recarne de le reliquie di Santa Maria Maddalena, se potesse. Vegnendo dunque il detto monaco a la detta città, trovandola disfatta insino al fondamento da' pagani, per alcuno caso gli venne trovato uno sepolcro, la cui sepoltura di marmo dimostrava che 'l corpo di santa Maria Maddalena v'era riposto dentro, però che in quello sepolcro era scolpita di maravigliosa opera la storia di lei. Sì che venne una notte e ruppelo e tolse le reliquie e portolle a l'albergo. In quella medesima notte apparve santa Maria Maddalena al detto monaco, e sì li disse che non temesse neente, ma che compiesse quello ch'elli avea incominciato. Ritornando dunque al monasterio, ed essendovi presso a una mezza lega, per veruno modo non poteva muovere quindi le reliquie, mentre che non venne l'abate e ' monaci con la processione e ricevetterle con molto onore. Uno cavaliere, il quale solea venire ogni anno al corpo di santa Maria Maddalena, fu morto in battaglia; il quale essendo pianto da' parenti, pietosamente si rammaricavano a la Maddalena, com'ella avea lasciato morire il devoto suo sanza confessione e sanza penitenzia. Allora subitamente colui ch'era morto si levò ritto, maravigliandosi tutti, e fecesi chiamare il prete, ed essendosi confessato il cavaliere e preso il corpo di Cristo, incontanente morìo in pace. Una nave che era carica d'uomini e di femmine, si ruppe. Eravi dentro una donna pregna. Vegendosi quella pericolare nel mare, chiamava quantunque potea la Maddalena, promettendole che s'ella campasse di quello pericolo e partorisse il figliuolo, ella il donerebbe al suo monasterio. Immantanente l'apparve una femmina da riverenza in ispezie e in abito, e presela per lo mento, quando gli altri perivano, e menolla a la riva sana e salva. E quella parturì poscia il figliuolo, e compiette fedelmente il detto suo. Dicono alcuni che Maria Maddalena fosse disposata a san Giovanni Vangelista, e aveala menata allora quando Cristo il chiamò da le nozze; ed ella indegnata perché Cristo le tolse il marito, andò e diedesi ad ogne diletto. Ma perché non era convonevole cosa che 'l chiamare di Giovanni fosse cagione de la dannazione di colei, il Signore la convertì misericordievolemente a penitenzia; e però ch'elli la rimosse da sommo diletto carnale, la riempì sopra tutti gli altri di sommo diletto spirituale, il quale diletto è ne lo amore di Dio. E ciò confessano alcuni di san Giovanni, che però le diede il Signore ad avere dolcezza de la sua famigliaritade perch'elli il rimosse dal detto dilettamento. Ma queste cose son riputate che sieno vane da alcuni. Uno uomo che avea meno il lume de gli occhi, andò al monasterio Vigiliaco per vicitare il corpo di santa Maria Maddalena, e dicendoli la guida sua che vedea già la chiesa sua, cominciò il cieco a gridare a grandi boci: "O santa Maria Maddalena, Dio il voglia ch'io meriti alcuna volta vedere la chiesa tua!" Immantanente gli occhi gli furono aperti. Alcuno scrisse in una cedola tutti i suoi peccati, e puosela sotto il panno de l'altare di santa Maria Maddalena, pregandola ch'ella gli accattasse perdonanza. E ponendo poscia mente la cedola, trovò ispenti i suoi peccati di quella cedola. Essendo messo uno in pregione per debito, chiamava spesse volte santa Maria Maddalena in suo aiuto; ed eccoti una voce e apparilli una bella femmina la quale gli rispuose, e ruppeli i ferri di gamba e aperse l'uscio de la prigione e comandogli che fuggisse. E quelli vedendosi sciolto, immantanente fuggìo. Uno cherico di Fiandra, che avea nome Stefano, era caduto in tante moltitudine di fellonie, che tutte maniere de' peccati usando, non solamente guardandosi di fare quelle cose ch'erano da fare di salute, ma elli non volea pure udire. Ma cotanto facea ch'elli avea in grande divozione santa Maria Maddalena, sì che digiunava la sua vilia e guardava la sua festa. Visitando lui il sepolcro suo, ed essendo venuto là e stando iveritto, che né bene dormìa né al tutto vegghiava, la Maddalena gli apparve in ispezie d'una bella donna, e parea che avesse gli occhi tutti lagrimosi, e sostenevanla due angioli da la parte ritta e da la manca, e disse a colui: "De! Stefano, or perché mi fai tu cose che non sono degne di miei meriti? Perché non ti muovi tu a contrizione a la perseveranza de le mie labbra? Certo che da poi che tu m'hai avuta in devozione, sempre ho pregato Iddio per te perseverantemente; leva su dunque e pentiti, e io non ti abbandonerò infino a tanto che tu sarai racconcio in Domenedio". sì che quegli immantanente si sentì infondere tanta grazia ne la mente, che rinunziò al secolo ed entrò in religione e fu di perfettissima vita. A la cui morte fu veduta santa Maria Maddalena appresso al cataletto istare con gli angeli, e portare l'anima sua come una colomba bianca con molte lode in cielo.
cap. 92, S. ApollinareApollinari, discepolo di san Pietro apostolo, fu mandato da lui da Roma a Ravenna; nel quale luogo, poi che ebbe sanata la moglie del tribuno, battezzò lei e 'l marito con tutta la loro famiglia. La quale cosa fu nunziata al giudice e Apollinare fu menato innanzi; ed essendo menato al tempio di Jove per fare sacrificio, dicendo lui a'preti de l'idoli che l'oro e l'argento appiccato a l'idoli sarebbe meglio che si desse a' poveri anzi che appiccarlo così davanti le demonia, fu immantanente preso e battuto con bastoni tanto, che fu lasciato per mezzo morto. Poscia fu ricolto da' discepoli e fu menato in casa d'una vedova e stettevi sei mesi a guarire. Indi si mosse, e andò a la città di Classe per guarire làe uno gentile uomo ch'era mutolo. Ed entrando ne la casa, una fanciulla che avea lo spirito maligno sopra sé, gridòe e disse: "Partiti quinci, servo di Dio, ch'io ti farò con i piedi legati tirarti fuori di questa città". E santo Apollinari prese il demonio e costrinselo che uscisse di lei. Ed abbiendo chiamato il nome di Cristo sopra il mutolo, ed essendo guarito, credettero in Cristo più di cinquecento uomini. E i pagani, poi che l'ebbero battuto con bastoni, sì gli vietarono che non ricordasse Jesù Cristo; ma elli giacendo in terra gridava ch'Egli è verace Iddio. Allora lo fecero stare a piedi ignudi sopra la bracia; ma pure predicando ancora costantissimamente, sì 'l cacciarono fuori de la città. A quello tempo essendo Rufo patricio capitano di Ravenna, avea una figliuola inferma; a la quale essendo invitato santo Apollinari a guarirla, sì tosto com'elli le fu entrato in casa, la fanciulla morìo. Al quale disse Rufo: "Volesselo Iddio che tu non fossi mai entrato in casa mia, però che gli Dei grandi se ne sono crucciati, e non hanno voluto sanare la figliuola mia; ma tu che le potrai fare?" Al quale disse Apollinari: "Non avere tu paura; giurami tu che se la fanciulla risucita, che tu non la vieterai di seguitare il suo criatore". Abbiendo ciò fatto, fatta l'orazione del santo, la fanciulla si levò viva e sana, e, confessando ella il nome di Cristo, ricevette il battesimo con la madre e con grande moltitudine, e rimase vergine. Udendo ciò lo 'mperadore, scrisse al prefetto de la corte che od e' facesse sì che Apollinari sacrificasse, od elli il mandasse a' confini. Sì che non volendo elli sacrificare, il prefetto il fece battere con bastoni, e comandò che fosse disteso in su la colla e tormentato. Nel quale luogo predicando elli Cristo costantissimamente, gli fece gittare l'acqua bogliente ne le sue piaghe recenti; e così con ciò il volea mandare a' confini legato d'uno grave peso di ferro. Ma veggendo li cristiani tanta empiezza, infiammati ne l'animo, levaronsi a romore contr'a' pagani, e ucciserne più di CC uomini. Vedendo ciò il prefetto, sì si nascose e misse Apollinari in una strettissima pregione; poscia lo 'ncatenò e misselo in un nave con tre cherici che 'l seguitavano, e mandollo a' confini, là dove, pure con due cherici e due cavalieri, scampando il pericolo de la tempestade, battezzò quelli cavalieri. Poscia ritornòe a Ravenna, e fue preso da' pagani, e menato al tempio d'Apollo, e veggendo quello idolo sì 'l maladisse e subitamente cadde. Vedendo ciò e' pontefici sì 'l menarono dinanzi a Tauro giudice, il quale giudice, quando il santo gli ebbe alluminato un suo figliuolo ch'era cieco, sì credette e fecelo stare IV anni in uno suo podere. Dopo queste cose abbiendolo i pontefici accusato a Vespasiano, e Vespasiano mandò a dire che chiunque facesse ingiuria a li dei, od elli satisfacesse od elli fosse privato de la città, però che non è giusta cosa che noi medesimi vendichiamo gli dei, ma ellino se ne vendicheranno bene se s'adireranno. Allora Demostenes da che quelli non volea sacrificare, sì 'l misse in mano d'uno conostabile di cento cavalieri, il quale era già cristiano, per lo cui preghiero andò a stare colà dove stavano i malati per nascondersi dal furore de' pagani. E li pagani gli tennono dietro e preserlo e batterorlo durissimamente infino a la morte. Nel quale luogo sopravvisse sette dì e, ammonendo li discepoli suoi, rendette lo spirito suo a Dio. E fu seppellito onorevolemente da' cristiani in quel luogo intorno a gli anni Domini LXX, sotto Vespasiano imperadore. Di questo martire dice così santo Ambrosio nel Profazio: "Apollinari degnissimo vescovo, dal prencipe de gli apostoli Piero fu mandato a Ravenna a predicare il nome di Jesù Cristo a quelli che non credevano; il quale, faccendo là maravigliosi segnali di vertudi a coloro che credeano in Cristo, con crudeli tormenti di battiture fue attritato spesse volte, il corpo già invecchiato fu squarciato da li empi con orribili tormenti. Ma perché i fedeli non temessero de le sue angosce fra i tormenti, compié i segnali apostolici ne la vertù del nome di Jesù Cristo, risucitando la donzella morta, rendendo chiaro vedere a' ciechi e 'l parlare al mutolo, liberando la 'mperversita dal dimonio, purgando le malattie appiccaticce e sanando le dissolute membra de la 'mfermitade pestilenziosa, abbattendo l'idolo insieme col tempio. O degnissimo vescovo d'ammirazione, di lode, il quale con la dignità del Papa meritòe di ricevere l'apostolicale podestade! O fortissimo combattitore di Cristo, il quale raffreddando già in lui il calore naturale, costantemente ne le pene predicòe Jesù Cristo redentore del mondo!"
cap. 93, S. CristinaCristiana, nata di nobilissimi padre e madre in Tiro città di Italia, fu messa in una torre dal padre suo con XII cameriere; e avea seco dei d'oro e d'argento. Ed essendo bellissima e adomandata da molti in maritaggio, li parenti non la voleano concedere a veruno, volendo ch'ella permanesse vergine ne la coltivatura de li dei. Ma ella, ammaestrata da lo Spirito Santo, avea in orrore i sacrificii de l'idoli, e lo 'ncenso che si deve sacrificare a li dei sì lo nascondea entro la finestra. E vegnendo il padre a lei, le cameriere li dissero: "La tua figliuola, nostra donna, contende di sacrificii e di sacrificare a li dei nostri, e anche dice che è cristiana". E 'l padre, lusingandola, la 'nvitava ad onorare li dei. Al quale ella disse: "Non mi chiamare tua figliuola, ma di colui al quale si confà sacrificio di laude; però che non si confà d'offerire sacrificio a li dei mortali, ma a Domenedio del cielo". Al quale disse il padre: "Non offerere solamente a un Dio sacrificio, acciò che gli altri non s'adirino con teco". E quella disse: "Bene hai detto, non sappiendo te la veritade. Io offero sacrificio al Padre e al Figliuolo e a lo Spirito Santo". Al quale disse il padre: "Se tu adori tre idei, perché non adori tu anche gli altri? "E quella disse: "Quelli tre sono una deitade". Dopo queste cose Cristiana ispezzò tutti li dei, e l'oro e l'argento diede a' poveri. Ritornando il padre per adorare li dei ma non trovandogli, e udendo dire a le ancelle quello che Cristiana avea fatto, adirato di ciò, sì la fece spogliare e battere a XII uomini, intanto ch'eglino venìano già meno. Allora disse Cristiana al padre: "O sanza onore e sanza vergogna e abbominevole a Domenedio, coloro che mi battono vegnono meno, adomanda per loro la vertude da li idei tuoi, se tu puoi". Allora la fece mettere incatenata in pregione. Udendo queste cose la madre istracciò le vestimenta sue e andonne a la carcere e gittossi a' piedi de la figliuola, dicendo: "Figliuola mia, Cristiana, lume de gli occhi miei, abbi misericordia di me!" E quella le disse: "Perché mi chiami tu tua figliuola non sai tu ch'io abbo il nome di Dio?" E non potendola la madre confortare di nulla, tornò al marito e dissegli quello ch'ella l'avea risposto. Allora il padre la fe' menare dinanzi a la sua sedia. A la quale disse: "Fa sacrificio a li dei, e se non sì, sarai afflitta da molti tormenti, e non sarai detta mia figliuola". E quella disse: "Grande grazia m'hai donata, ché tu non mi chiami figliuola del diavolo però che ciò che nasce di demonio, sì è demonio; tu se' padre di quel satana". Allora lo padre le fece radere le carni con unghiali e dirompere le sue membra tenerelle; e quella tolse de le carni sue e gittonne nel volto del padre, così dicendo: "Togli, tiranno e manuca la carne che tu ingenerasti". Allora il padre la puose a una ruota e misevi sotto fuoco e olio, ma la fiamma ne saltò fuori, e uccise MDuomini. E 'l padre suo, imponendole ch'ella facesse queste cose per arte di magi, sì la fece anche mettere in pregione e, fatta la notte, comandò a' fanti suoi che legassono una grande lapida al collo e gittasserla nel mare. Quando quelli l'ebbero ciò fatto, immantanente vennero gli angeli e sì la ricevettoro, e Cristo discese a lei e battezzolla nel mare, così dicendo: "Io ti battezzo in Dio padre mio, e in me Jesù Cristo, suo figliuolo, e ne lo Spirito Santo". E commisela a san Michele Arcangelo, il quale la rimenò a terra. Udendo ciò il padre battessi la fronte sua e disse: Che malìe sono queste che tu fai, ch'adoperi le malìe tue nel mare?" E quella li disse: "Stolto e disavventurato, io ho avuto questa grazia da Cristo". Allora la misse in pregione comandando che la mattina dovesse essere dicollata. Ma in quella notte Urbano, suo padre, fu trovato morto. Dopo costui succedette uno malvagio giudice ch'avea nome Elius; il quale fece apparecchiare una culla di ferro accesa con olio e con resina e con pece, e facevelavi gittare entro, e fece menare la ruota a quattro uomini, acciò che si consumasse più tosto. Allora Cristiana loda Domenedio di ciò che lei, rinata novellamente un'altra volta, che fosse menata in culla com'una fanciullina. Allora il giudice adirandosi le fece radere lo capo e menarla ignudanata insino a l'idolo d'Apollo; al quale comandò e cadde in terra e tornò in polvere. Vedendo ciò il giudice isbigottìo tutto quanto e morìo. Dopo costui succedette Giuliano, il quale fece accendere una fornace e gittarvi entro Cristiana. Nel quale luogo stette cinque dì senza neuno male, cantando e attorniando con gli angioli. Udendo ciò Giuliano e impognendo a l'arte de' magi, fece isciogliere e ammetterle due serpenti aspidi e due vipere e due serpenti colabri. Ma i serpenti leccano i piedi suoi, gli aspidi le s'appiccavano a le mammelle non nocendole di nulla, i colubri le s'avvolgeano al collo leccando il sudore suo. E Giuliano disse a lo 'ncantatore: "Or non se' tu mago? Annizza le bestie". Faccendo quelli ciò, fecero i serpenti assalto contra lui, e sì l'uccisero. Allora Cristiana fece comandamento a' serpenti, e fecegli andare a luogo diserto, e risucitò l'uomo morto. Allora Giuliano le fece mozzare le mammelle, de le quali uscì latte per sangue; poscia le fece mozzare la lingua, ma non perdette però la favella, e tolse l'amoccatura de la lingua e gittolla ne la faccia di Giuliano, e, percotendone l'occhio suo, sì l'ebbe accecato. Adirato Giuliano lasciale andare due saette e ficcogliele per mezzo il cuore e una nel lato; e così quella, percossa, rendette lo spirito a Domendio, intorno a gli anni Domini CCLXXXVII.
cap. 94, S. Jacopo maggioreÈ detto Jacopo Maggiore, come l'altro è detto Minore, primieramente per ragione del chiamamento, però che fu chiamato di prima da Cristo; secondariamente per ragione de la familiaritade, però che maggiore familiaritade pare che Cristo avesse con costui, che con l'altro. E ciò si mostra in quanto elli il ricevea a le sue credenze, come fue al risucitamento de la donzella e a gloriosa trasfigurazione. Nel terzo luogo è detto Maggiore per ragione de la passione, imperò che fu il primo tra gli altri apostoli che ricevesse passione. Adunque sì com'elli è detto Maggiore di quell'altro in ciò che prima fu chiamato a la grazia de l'apostolato, così può essere detto Maggiore in ciò che prima fu chiamato a la gloria de la eternitade di Jesù Cristo. Jacopo, figliuolo di Zebedeo, dopo l'ascensione di Cristo predicando per Samaria e per la provincia di Giudea, a la perfine se n'andò ne la Spagna per seminare làe la parola di Dio. Ma vedendo ched elli non vi facea prò veruno e che solamente nove discepoli v'avea acquistati, lasciovvene due per predicarvi e gli altri sette tolse seco, e ritornòe in Giudea. Ma il maestro Giovanni Beleth dice che solamente uno ve ne convertìo. Predicando lui dunque in Giudea la parola di Dio, un mago, ch'avea nome Ermogene, mandò a Jacopo il discepolo suo, ch'era chiamato Fileto, con esso i farisei, acciò che quello Fileto convincesse Jacopo dinanzi a' giudei che la sua predicazione fosse falsa. Ma abbiendolo l'apostolo convinto lui ragionevolemente dinanzi a tutti e fatto molti miracoli dinanzi a lui, tornò Fileto ad Ermogene e approvando dinanzi a lui la dottrina di san Jacopo e raccontandoli i miracoli ch'elli avea fatti, disse che volea essere suo discepolo, e anche confortava il maestro che diventasse altressì suo discepolo. Allora Ermogene, adirato, per sua arte magica il fece sì stare fermo che non si potesse muovere, dicendo così: "Or vedremo se 'l tuo Jacopo ti potrà isciogliere!" La quale cosa quando l'ebbe mandato a dire a san Jacopo per uno fanciullo, san Jacopo gli mandò il sudario e disse: "Tolga questo sudario e dica questo verso: "Il Segnore rilieva i caduti, il Signore iscioglie gl'inferriati". Sì tosto com'elli fue tocco dal sudario, fu sciolto da' legami e fece assalto di parole a l'arti magiche e venne a san Jacopo. Sì che adirato Ermogene chiamò i demoni e comandò loro che li menino legato san Jacopo con esso Fileto insieme, acciò che si vendichino di loro, sì che i discepoli suoi non ardiscano per innanzi a fare assalto contra lui. E venendo i demoni a san Jacopo, incominciarono a urlare per l'aere entro, dicendo: "Jacopo apostolo, abbi misericordia di noi, però che noi ardiamo innanzi che 'l tempo nostro venga". A i quali disse san Jacopo: "Perché siete voi venuti a me?" E quelli dissero: "Ermogene ci ha mandati che noi menassemo te e Fileto a lui; ma comunque noi venimmo a te, l'angelo di Dio ci rilegò con catene di fuoco e malamente siamo tormentati". Al quale disse san Jacopo: "Disciolgavi l'angelo di Dio, e tornate da lui e menatelomi legato, ma sanza male neuno". Quelli andarono e presoro Ermogene e legaroli le mani dietro e menarolo gravemente legato a san Jacopo, così dicendo: "Tu ci mandasti colà dove noi siamo incesi, e gravemente tormentati". Dissero le demonia a san Jacopo: "Dacci signoria sopra lui, sì che noi possiamo vendicare le 'ngiurie che t'ha fatte e l'incendi che ci ha dati". A i quali disse san Jacopo: "Ecco Fileto che v'è innanzi, perché nol tenete?" E quelli gli dissero: "Noi non possiamo, né potremo pure toccare la formica che ti va per camera, con mano". Disse san Jacopo a Fileto: "Acciò che noi rendiamo bene per male, come Cristo ammaestrò. Ermogene legò te, sciogli tu lui". Sciolto, Ermogene stette vergognoso, e santo Jacopo gli disse: "Va diliberamente dovunque vuogli, però che non è di nostra dottrina che veruno si converta se non bene volentieri". Disse a lui Ermogene: "Io so come i demoni s'adirano, onde se tu non mi desse alcuna cosa di che ellino avesseno paura, ellino m'uccideranno". Al quale disse san Jacopo: "Togli il bastone mio". Quelli andò e tutt'i libri suoi d'arte magica recòe a l'apostolo per arderli; e san Jacopo gli fece gettare in mare acciò che, per avventura, l'odore de l'arsura non turbasse li non avveduti. Gettati ch'ebbe Ermogene i libri, tornò a l'apostolo, e tenendo le piante sue, sì li disse: "O tu liberatore de l'anime, ricevi il pentuto, il quale tu hai sostenuto per adrieto, portante invidia a te e dicendo male di te". Sì che cominciò ad essere perfetto nel timore di Dio, intanto che molti miracoli si faceano per lui. Vedendo i giudei Ermogene ch'era convertito, movendosi da invidia, andarono a san Jacopo e, con ciò fosse cosa che predicasse Jesù Cristo crocefisso, ripreserlone; ma elli provava loro per le Scritture, l'avvenimento e la passione di Cristo apertamente, sì che molti ne credettono. Allora Abitar, ch'era papa di quello anno, misse il popolo a romore e, mettendo una fune in collo a l'apostolo e sì lo fece menare ad Erode Agrippa. Essendo menato l'apostolo ad essere dicollato di comandamento d'Agrippa, uno paralitico che giaceva ne la via, gridòe a lui che gli donasse santade. Al quale disse san Jacopo: "Nel nome di Jesù Cristo, per la cui fede io sono menato ad essere dicollato, leva su sano, e benedici il creatore tuo". E levossi ritto subitamente sano e benedisse Dio. Allora uno de li scribi che gli avea messo la fune in collo e traevalo, il quale avea nome Josia, vedendo queste cose, sì li si gettò a' piedi e, chiedendo perdonanza de l'offese, e domandò d'essere fatto cristiano. Vedendo ciò Abiatar, sì il fece tenere, e disse a lui: "Se tu non maladirai il nome di Cristo, tu sarai dicollato con esso Jacopo". Al quale disse Josia: "Maledetto sie tu, e tutti i tuoi sono maladetti, ma il nome di Jesù Cristo sia benedetto in secula seculorum". Allora Abiatar gli fece dare de le pugna entro la bocca, e mandato ch'ebbe ambasceria ad Erode per costui impetròe che fosse dicollato con san Jacopo. E dovendo essere dicollati ambidue, san Jacopo domandò uno orciuolo d'acqua al giustiziere, e battezzonne incontanente Josia; e poscia fu mozzo il capo a catuno di coloro e compierono il martirio. E fu dicollato santo Jacopo VII d'uscente Marzo, il die de l'annunziagione de la nostra Donna e VII uscente Luglio fue traslatato a Compostella, e XXVIII dicembre fue seppellito, per ciò che l'opera del suo sepolcro si penò a fare da Luglio infino presso a Gennaio. Sì che ordinò la Chiesa che si facesse la festa sua VII dì uscente Luglio, cioè in tempo più convenevole universalemente per tutto il modo. Dicollato che fu san Jacopo, li discepoli suoi, sì come dice Joanni Beleth, il quale ditermina diligentemente questa traslazione, si tolsoro di notte il corpo suo per paura di giuderi, e misserlo in una nave e, commettendo a la divina potenzia e provvedenza dove dovesse essere seppellito, entrati ne la nave senza nessuno governamento, e per guida de l'angelo di Dio, arrivarono in Galizia, nel reame di Lupa. Ché avea in Ispagna una reina, ch'era così chiamata e per nome e per operazione di vita. Sì che ponendo quello corpo fuori de la nave, sopra uno grande sasso, quello sasso incontanente diede luogo al corpo, come fosse stato terra, e adattossi mirabilemente al corpo in luogo di fossa. E entrando dunque i discepoli a la reina Lupa, sì le dissero: "Messere Jesù Cristo sì ti manda il corpo del discepolo suo, acciò che quello che tu non volesti ricevere vivo, sì lo riceva morto". E narrandole il miracolo com'elli erano capitati quivi sanza governamento di nave, adimandarono luogo convenevole a la sepoltura. Udendo queste cose la reina, come dice il maestro Giovanni Beleth, sì li mandò maliziosamente ad uno crudelissimo uomo, ovvero come vogliono dire altri, al re di Spagna per avere il consentimento di lui sopra questo fatto. E quelli gli prese e rinchiuseli in prigione. E stando lui a mensa, venne l'angelo di Dio, e aperse la carcere, e lasciogli andare deliberamente. Quando quelli il seppe, mandò loro dietro cavalieri i quali gli prendessono. E quando quelli cavalieri passavano uno ponte, il ponte ruppe, e tutti caddero nel fiume e annegarono. Udendo ciò quelli fu pentuto e, temendo il pericolo a sé e a la sua gente, mandò loro dietro, pregandoli che tornassero a lui, e avrebbero ciò che volessero a loro senno. Coloro tornarono e convertirono il popolo de la città a la fede di Cristo. Udendo ciò, la reina Lupa fu fortemente dolente e, tornando i discepoli a lei e manifestando loro il consentimento del re, quella rispuose: "Togliete i buoi che io abbo in cotale monte, e mettetegli al carro e portateli al corpo del Segnore vostro e, comunque voi volete, sì edificate il luogo". Ma questa Lupa diceva queste cose pensando lupinamente, però ch'ella sapeva che quelli buoi erano non domati e salvatichi; e imperò pensò che non si potessero giugnere insieme né porrerli al giogo, o, se si giugnessero, discorebbero qua e là, e gitterebbero il corpo e coloro ucciderebboro. Ma contra Dio non è sapere. Coloro non pensando la malizia salirono in su lo monte, e uno dragone che soffiava fuoco e venìa loro addosso, ponendo contra lui la Croce, si crepò per lo diritto mezzo. Fatto che ebbero anche il segno de la Croce sopra i tori, immantanente diventarono mansueti come agnelli, e accoppiandoli insieme puosero in sul carro il corpo di san Jacopo, con esso la lapida sopra cui elli era posto. Allora i buoi sanza veruno governamento, portarono il corpo nel miluogo del palagio di Lupa. Quella vedendo ciò e maravigliandosene, credette in Dio e diventò cristiana, e diede loro tutto ciò che domandarono e, consegnando il palagio per la chiesa al santo, magnificamente la dotòe, ed ella finìe la vita sua in buone opere. Uno uomo, ch'avea nome Bernardo, del vescovado di Modena sì come dice Calisto papa, essendo preso e incatenato e messo in uno fondo di torre, chiamando sempre messere san Jacopo, egli gli apparve, e disse: "Vieni e seguitami in Galizia". E rotte le catene essendo disparito, quelli con li legami appiccati al collo, salìo in su l'altezza de la torre, e indi fece uno salto sanza veruno male, con ciò fosse cosa che la torre fosse alta LXcubiti. Uno come dice Beda avendo fatto un villano peccato, laonde il vescovo temeva di prosciogliere confessandolo, egli mandò quello uomo a san Jacopo con esso una cedola ne la quale era scritto quello peccato. E abbiendo posto la cedola in su l'altare, ne la festa del santo, e pregando santo Jacopo che distruggesse quello peccato per li suoi meriti, poscia aperse le cedola e trovolla spenta di quello peccato. Rendette grazie a Dio e a messere santo Jacopo e palesòe il fatto a tutta gente. Trenta uomini di Lorena, sì come dice Uberto Bisuntino, intorno a gli anni Domini MLXX andando a san Jacopo tutti quanti, trattone uno, sì promissero insieme di fede di servire l'uno l'altro. Sì che l'uno di loro essendo infermato, fu aspettato XV dì da' compagni, ma la perfine fu abbandonato da tutti, e da quello compagno che non avea promesso la fede fu guardato a piede del monte san Michele; ma vegnendo il vespro del die l'uomo morìo. Ma il vivo ebbe grande paura per la solitudine del luogo e per la presenzia del morto e per la imminente oscurità de la notte e per la ferocia de la gente barbara; ma incontanente v'apparve san Jacopo in ispezie di cavaliere a cavallo, e consolando sì il disse: "Dammi questo morto, e tu mi sali in groppa in sul cavallo". E così in quella notte, anzi la levata del sole, compierono XV giornate e giunsero ad uno monte ch'è presso a san Jacopo ad una mezza lega; e san Jacopo gli puose iveritto amendue, e comandò al vivo che invitasse i calonaci di san Jacopo che venissero a seppellire il pellegrino morto, e dicesse a' compagni suoi, che per la fede ch'elli aveano rotta al pellegrino, il pellegrinaggio non valeva loro nulla. E quelli adempiette il comandamento; e maravigliandosi i compagni del suo viaggio, disse loro quello che san Jacopo avea detto loro. Nel MXX andava uno tedesco, sì come dice Calisto papa con uno suo figliolo a san Jacopo; e andando a la città di Tolosa per albergarvi, fu innebbriato da l'oste suo, e fue messo nascosamente ne la bonetta di costui uno nappo d'argento. E uscendo fuori la mattina, l'oste tenne loro dietro come fosseno ladroni, e quando gli ebbe giunti, sì appuose loro ch'elli aveano involato uno nappo d'argento. E dicendo loro che li farebbe punire se potesse trovare loro il nappo de l'argento, fu aperta la bonetta, e iventro il nappo, onde furono menati a la corte. Sì che fu data la sentenzia che ciò che aveano, fosse de l'albergatore e l'uno di loro fosse impiccato. Ma volendo il padre morire per lo figliuolo e 'l figliuolo per lo padre, a la perfine il figliuolo fu impiccato, e 'l padre n'andò piagnendo a san Jacopo. Sì che dopo XXXVI dì tornando e rivolgendosi al corpo del suo figliuolo e mettendo boci di grande lamento, ed eccoti il figliuolo impiccato il cominciò a racconsolare dicendo: "Dolcissimo mio padre, or non piagnere, ché io non ebbi mai tanto bene, però che infino ad ora san Jacopo mi sostenta e pascemi de la celestiale dolcezza". Udendo ciò il padre, corse a la città, e venne il popolo, e ispiccò il figliuolo del pellegrino sano ed allegro, e l'albergatore fu impiccato. Racconta Ugo di san Vittore che ad uno che andava a san Jacopo apparve il diavolo in figura di san Jacopo, e ricordandoli molto la miseria de la presente vita disse che sarebbe beato sed elli s'uccidesse per l'onore suo. Sì che il pellegrino prese il coltello e uccise se medesimo. E con ciò fosse cosa che quelli nel cui albergo era albergato fosse avuto per sospetto, e temesse molto di morire, colui, il quale era morto, risucitò immantanente, e affermava che quando il demonio il quale l'avea confortato de la morte, il menava al tormento, san Jacopo corse immantanente e trasselo di mano al dimonio e menollo innanzi a la sedia del giudice e, accusandolo le demonia, san Jacopo accattò grazia che fosse rimenato al mondo. Uno giovane del distretto di Leon sopra Rodano, sì come racconta Ugo abbate di Clunì, il quale solea spesso con grande divozione andare a san Jacopo, una volta che volea andare là, in quella notte cadde in fornicazione. Sì che andando lui una notte, gli apparve il diavolo in figura di san Jacopo, e sì li disse: "Sa' tu ch'io sono?" Dicendo quegli che no, disse il diavolo: "Io sono l'apostolo san Jacopo, lo quale tu se' uso di visitare ogni anno. Sappi che molto m'allegrava de la tua divozione, ma ora novellamente, uscendo de la casa tua, cadesti in fornicazione e, non confesso, se' stato prosuntuoso di venire a me, quasi come il tuo pellegrinaggio piacesse a Dio e a me. Non si conviene fare così, ma chiunque desidera di venire a me pellegrinando, primamente dee aprire i suoi peccati per la confessione e poscia gli dee punire pellegrinando". E dette queste parole il demonio isparve. Allora il giovane angosciato si ponea in cuore di reddire a casa e confessare i peccati suoi, e poscia ricominciare il viaggio. Ed eccoti il diavolo apparirli un'altra volta in figura de l'apostolo e confortollo di tutte queste cose, affermandoli che quello peccato non gli sarebbe dimesso se non si tagliasse prima li granelli suoi; e più beato sarebbe sed elli si volesse uccidere ed essere martire per lo suo nome. Sì che il giovane in quella notte, dormendo i compagni, tolse uno coltello e tagliossi li granelli, poscia col coltello medesimo si trafisse per lo ventre. Isvegliati i compagni videro questo fatto, e avendo paura d'essere avuti per sospetti di micidio, fuggirono ratto ratto. E quando venne che la fossa s'apparecchiava, colui ch'era morto si rilevò a vita, e fuggendo tutta la gente e maravigliandosi, raccontò loro tutto ciò che gli era intervenuto; e diceva così: "Quando io per inganno del dimonio m'ebbi ucciso, i dimoni mi presono e menavanmi verso Roma, ed ecco immantanente correrci dietro san Jacopo, e riprese molto i demoni de lo 'nganno; e quando ebbero molto conteso insieme, costrignendone san Jacopo, venimmo ad uno prato là dove la beata Vergina stava a parlare con molti santi. A la quale quando san Jacopo si fue lamentato per me, ella riprese molto i demoni e comandò ch'io fossi rimenato a vita. Sì che san Jacopo mi ricevette e rendemmi a la vita, sì come voi vedete". E dopo tre dì, rimagnendo in lui sol le margini, missesi la via tra ' piedi ed ebbe trovati i compagni co' quali narrò tutte le cose per ordine. Un francesco, sì come dice Calisto papa, intorno a gli anni Domini MC, andava a san Jacopo con la moglie insieme e co' figliuoli, sì perché volea fuggire la mortalità ch'era in Francia, sì perché disiderava di visitare messere san Jacopo. Ed essendo venuto a la città di Pampilonia, la moglie morì, e l'oste tolse a costui tutta la pecunia sua e la giumenta che portava e' fanciulli suoi. Quelli andando isconsolato, alcuni de' fanciulli si puose in su le spalle, alcuni menava a mano. Al quale si fece incontro uno uomo con uno asino e, avendo compassione di costui, prestogli l'asino per portarvi suso i fanciulli. Quando fu giunto a san Jacopo, vegghiando lui in orazione, gli apparve san Jacopo e sì li disse: "Cognoscimi tu?" Quegli dicendo che no, disse l'uomo: "Io sono Jacopo apostolo, che ti prestai l'asino mio, e anche il ti presterò insino a la tua tornata, ma prima vogli che tu sappia che l'oste tuo, cadendo a terra del palco, si morrà, e tu riavrai tutto quello che ti tolse". Ed essendo intervenuto ogni cosa così, quelli tornò lieto a casa, e, scaricato ch'ebbe l'asino, sparve immantanente l'asino, e lasciò e' fanciulli. Uno mercante era spogliato e rubato da uno tiranno ingiustamente, e anche il tenea in pregione, il quale chiamava di notte san Jacopo in suo aiuto. Al quale sa' Jacopo apparve, vegghiando le guardie, e menollo insino al sommo de la torre. Immantanente la torre s'inchinò tanto che 'l sommo fu pari con la terra; de la quale scendendo sanza salto fuggìo sciolto, e le guardie tenendoli dietro, avvegna che andassono a lato a lui e' non lo vedeano. Andando tre cavalieri, sì come dice Uberto Bisuntino, del distretto di Leon sopra Rodano a messere san Jacopo, l'uno di loro pregato da una femminella che le portasse per l'amore di san Jacopo un suo sacchetto in sul cavallo, poscia trovando uno infermo che venìa meno ne la via, sì 'l puose in sul cavallo suo, e elli tolse il bordone de lo infermo, e 'l sacchetto de la femminella e tenea dietro al cavallo. Ma essendo rotto, tra per lo caldo del sole e per la fatica de la via, quando fu giunto in Galizia gli venne una gravissima infermitade, ed essendo pregato da' compagni de la salute de l'anima sua, tre dì stette mutolo, ma il quarto dì, aspettando i compagni ched e' morisse, suspiròe gravemente, e disse: "Io rendo grazie a Dio e a messere san Jacopo che per li suoi meriti sono liberato. Ché quando io voleva fare quello di che voi m'ammunivate, i demoni vennero a me, e costrignevammi sì gravemente che io non poteva parlare cosa neuna che si permettesse a salute". Udiva la boce, ma non potea rispondere; ma ora san Jacopo ci è entrato, e porta ne la mano manca il sacchetto de la femmina e ne l'altra il bastone del povero, li quali io aveva aiutati ne la via, sì che il bordone tenea per lancia, e 'l sacchetto per iscudo; e assalendo quasi le demonia, levò alto il bastone e spaventò le demonia e missele a fuggire. Sì che ora la grazia del beato Jacopo sì m'ha liberato e renduta la favella. Chiamatemi dunque il prete, però ch'io non posso lungo tempo stare in questa vita. E rivolgendosi a l'uno di loro, sì li disse: "Amico mio, non volete più essere cavaliere del Signore tuo terreno, però ch'egli e veramente dannato, e de' fare di qui a poco mala morte". Seppellito costui, quando quelli ebbe detto al signore suo il fatto, per neente il tenne e non si volse amendare, sì che poscia ad una battaglia gli fue dato d'una lancia, laonde ne morìo. Un uomo da Vicilaco, sì come dice Calisto papa, andando a san Jacopo gli venne meno moneta, sì che vergognandosi lui d'andare mendicando, missesi a riposare sotto uno albore, e sognava che san Jacopo gli dava manicare. Da che fue isvegliato trovossi a capo un pane cotto sotto la cennere, del quale e' visse XV tanto che fu tornato a casa. Ogne die ne manicava due volte quanto gli bastava, l'altro die il trovava tutto intero nel sacchetto. Racconta Calisto papa, che un cittadino di Barcellona, ne li anni Domini MC andando a messere san Jacopo, solamente una cosa si dice che domandasse: ciò fu che indi innanzi non fosse preso da veruni nemici. Sì che tornando per Sicilia fu preso in mare da' Saracini e più volte fu venduto da loro per le fiere, ma pure le catene di che elli era legato sempre si scioglievano. Ed essendo già venduto XIII volte e ristretto con doppie catene, dimandando elli l'aiuto di san Jacopo, egli gli apparve e disse: "Imperò che stando te ne la chiesa mia, lasciasti stare la salute de l'anima e domandasti solamente la salute del liberamento del corpo, però se' tu caduto in questi pericoli; ma perché il Signore è misericordioso, sì m'ha mandato a te perché io ti ricomperi". Immantanente gli si ruppero le catene, ed elli andò per le terre e per la castella de' saracini, portando una parte di catene in testimonianza di questo miracolo, e veggendolo tutti e maravigliandosi intorno a la terra sua. Quando alcuno il voleva pigliare, vedendo la catena, fuggìa immantanente spaventato, e anche quando i leoni e l'altre fiere bestie, andando lui per li diserti, si rivolgeano contra lui, veduta ch'aveano la catena erano commossi da grande spaventamento e ratto si mettevano a fuggire dinanzi a lui. Ne gli anni Domini CCXXXVIII la vilia di santo Jacopo in uno castello, c'ha nome Prato, che è tra Firenze e Pistoia, uno giovane ingannato d'una villana semplicitade, andò a mettere fuoco ne le biade d'uno suo manovaldo, però che quelli gli volea torre il suo retaggio. Fu preso e messo in mano de la corte e, confessato che ebbe, fu giudicato ad essere trascinato a coda di cavallo e poi arso. E quelli confessò i peccati suoi e botossi a messere san Jacopo. Ed essendo trascinato su per la terra petrosa in sola la camicia lungo spazio di via, non sentìo né nel corpo, né ne la camiscia, alcuno danno. A la perfine fu legato a un palo, e ragunate le legne da ogne parte e, abbiendovi messo entro fuoco, le legne e ' legami arsero; ma chiamando lui sempre l'aiuto di santo Jacopo, né ne la camiscia, né nel corpo non gli si trovò male veruno. E volendolo un'altra volta gittare nel fuoco, fu liberato dal popolo e 'l Segnore fu magnificamente lodato nel suo apostolo.
cap. 95, S. CristoforoCristofano, di gente Cananea, fu d'una lunghissima statura e d'un volto terribile: XII cubiti era lungo. Leggesi di lui in alcune sue storie che, stando lui con uno re de' Cananei, gli venne in cuore d'andare caendo il maggiore signore che fosse nel mondo e d'andare a dimorare con lui. Sì che venne ad un grandissimo re, del quale era generale fama che 'l mondo non avesse uno maggiore di lui. E 'l re, veggendolo, ricevettelo molto volontieri e fecelo stare ne la sua corte. Or venne che alcuna volta un trastullatore contava una canzone dinanzi al re, ne la quale si contava spesse volte il diavolo. E 'l re, perché avea la fede di Cristo, quantunque udìa nominare il diavolo, immantenente si facea ne la fronte il segno de la Croce. Veggendo ciò Cristofano si maravigliava molto perché il re facesse ciò e che volesse dire quello cotale fatto. E domandandone il re di questo fatto, ed elli non volendoglile manifestare, disse a lui Cristofano: "Se tu nol mi dirai, io non starabbo più con teco". Per la qualcosa il re fu costretto di dirgliele, e disse così: "Quantunque io odo nominare il diavolo, sì mi armo di questo segno, temendo ch'elli non prendesse podestade in me e nocessemi". Allora disse Cristofano: " Se tu temi il diavolo che non ti noccia, adunque si conviene ched elli sia maggiore e più potente di te, lo quale tu mostri di così temere. Ingannato sono dunque de la speranza mia, che mi credeva avere trovato il maggio e 'l più potente signore del mondo. Ma sta sano, ch'io voglio andare caendo quello diavolo per prenderlo per mio segnore e per diventare suo servo". Sì che si partì da quello re e andava caendo il diavolo. Andando lui per uno gran diserto, vidde una gran moltitudine di cavalieri, l'uno de' quali, che era un fiero cavaliere e terribile, venne a lui e dimandollo dov'elli andava. Al quale rispuose Cristofano: "Io vo caendo messere lo diavolo per prenderlo per mio signore". E quelli disse: "Io sono colui che tu vai caendo". Rallegrato Cristofano, obbligossi a lui in servo perpetuale e ricevettelo per suo segnore. Andando dunque abendue insieme ed avendo trovato una croce rilevata ad un crocicchio di via, sì tosto come il diavolo vidde quella croce, fuggìo spaventato e, lasciando la via, menò Cristofano per uno diserto asprissimo e poscia il rimenò ne la via. Veggendo ciò Cristofano e maravigliandosene, domandollo perch'elli avea tanto temuto, ch'avea lasciata la via piana e sviatosi per così aspri diserti. E non volendoli il diavolo dire per veruno modo, Cristofano li disse: "Se tu non lo mi dirai, tosto mi parto da te". Per la qualcosa costretto il diavolo, sì gliele disse: "Uno uomo che ha nome Cristo, fu confitto in su quella Croce; de la quale Croce quando io veggio il segnale, ho grande paura e fuggone spaventato". Al quale disse Cristofano: "Dunque è quello Cristo maggiore di te e più potente, il cui segno tu temi tanto? Indarno dunque mi sono affaticato e ancora non ho trovato il maggiore e 'l più potente prencipe del mondo. Or ti sta, ch'io ti voglio abbandonare ed andare caendo quello Cristo". Quando ebbe molto cercato chi gli sapesse insegnare Cristo, a la perfine capitò ad uno romito, il quale gli predicò di Cristo e ammaestrollo diligentemente ne la sua fede. E disse il romito a Cristofano: "Questo re al quale tu desideri di servire, richiede cotale servigio che ti conviene spesse volte digiunare". Rispuse Cristofano: "Altro mi richeggia, ché questa cosa non posso io fare". Anche disse il romito: "Molte orazioni li ti converrà anche fare". Rispuose Cristofano: "Non so che si sia questo, né non posso fare così fatto servigio". Disse il romito: "Sa' tu il cotale fiume nel quale molti che vi passano vi muoiono entro?" Rispuose Cristofano: "Sì, so bene". Disse i' romito: " Da che tu se' di lunga statura e di grande forza, se tu stessi a lato a quello fiume e valicassevi la gente, molto sarebbe a grado al re Cristo, al quale tu disideri di servire, e credo ched elli ti si manifesterebbe lì". Rispuose Cristofano: "Certo questo servigio bene posso io fare e promettolomi bene servire in ciò". E così andò a quello fiume, e facevisi una abitazione, e portando seco una bertica in luogo di bastone col quale si sostenea, tenendola ne le mani entro l'acqua, tutta gente valicava sanza rimanersi. Sì che passato il tempo di molti dì, riposandosi lui ne la casetta sua, udì una voce d'un fanciullo che chiamava e diceva: "Cristofano vieni fuori che mi valichi". Cristofano saltò immantanente fuori e non trovò persona; sì che si tornòe ne la casetta sua. E anche s'udìo chiamare, e anche corse fuori, ma non trovò persona. La terza volta chiamato, uscì fuori e trovò un fanciullo a lato a la riva del fiume, il quale pregò strettamente Cristofano che 'l valicasse. Sì che Cristofano si puose il fanciullo in su la spalla e, togliendo la pertica sua, entrò nel fiume per valicarlo. Ed eccoti l'acqua del fiume gonfiare a poco a poco e 'l fanciullo pesava gravissimamente come piombo, e quanto più andava innanzi, tanto più cresceva l'acqua, e 'l fanciullo più e più aggravava con peso da non poter portare gli omeri di Cristofano, intanto che a Cristofano parea che fosse posto una grande angoscia, e temevasi molto di pericolare. Ma essendo appena scampato e valicato il fiume, puose il fanciullo in su la riva, e disse a lui: "O fanciullo, in grande pericolo m'hai posto e pesi tanto che se io avessi avuto addosso tutto il mondo, appena avrei sentito maggiori pesi!" E 'l fanciullo rispuose: "Non ti maravigliare, Cristofano, imperò che non solamente hai avuto sopra te tutto il mondo, ma eziandio colui il quale creò tutto il mondo hai portato. Ché io sono il re tuo Cristo al quale tu servi in questa operazione e, acciò che tu pruovi ch'io dica il vero, quando tu sarai passato di là, ficca in terra il bastone tuo a lato a la casetta tua, e la mattina il troverai ch'avrà messo foglie e frutti e fiori". E immantanente isparve da gli occhi suoi. Sì che venne Cristofano e ficcò il bastone in terra. La mattina quando si levò, trovò che avea messo fronde e datteri a modo di palma. Dopo queste cose venne a una città di Licia c'ha nome Samon; nel quale luogo non intendendo la loro lingua, pregò Domenedio che li desse ad intendere quella lingua. E stando lui nel popolo, i giudici credendo ched e' fosse un matto, sì 'l lasciarono stare. Accivito Cristofano quello ch'elli domandava, coprendo il volto suo, venne a' luoghi de la battaglia, e confortava in Domenedio li cristiani che erano tormentati. Allora l'uno de' giudici il percotéo entro la faccia, al quale Cristofano scoprendo la faccia, sì disse: "Se io non fossi cristiano, tosto vendicherei la mia ingiuria". Allora Cristofano ficcò la verga sua in terra, e pregò Domenedio ch'ella mettesse fronde, acciò che 'l popolo si convertisse. La quale cosa essendo fatta, immantanente VIII milia uomini credettero. E 'l re gli mandò CC cavalieri, che 'l menassero a lui. E abbiendolo trovato orare e temendosi di dirli queste cose, anche ve ne mandò altrettanti, i quali trovandolo orare, misersi ad orare con lui insieme. Levandosi Cristofano da l'orazione, disse loro: "Chi domandate voi?" Quelli veggendo il volto suo, sì li dissero: "Il re ci ha mandati che noi ti meniamo preso a lui". A' quali disse Cristofano: "S'io mi vorrò, né legato né sciolto, mi potrete menare a lui". E quelli gli dissero: "E se tu non vuogli, va liberamente dovunque tu vuogli; e noi diremo al re che noi non t'abbiamo trovato". "No, disse quegli, io verrò pure con voi". E missesi a convertirli a la fede e, convertì che furono, fecesi legare le mani di dietro e appresentare così legato al re. Il re veggendolo ebbe paura, e cadde incontanente a terra de la sedia. Poscia essendo rilevato da' donzelli suoi, dimandollo del nome suo e del paese. Rispuose Cristofano: "Innanzi al battesimo era chiamato Reprobo, ma ora sono chiamato Cristofano; innanzi al battesimo era cananeo, ma ora sono cristiano". Al quale disse il re: "Sozzo nome ti ponesti, cioè di Cristo che fu crucifisso, il quale né a sé fece prode, né a' te il potrà fare. Ma tu, cananeo malfattore, perché non sacrifichi a li dei nostri?" Rispuose Cristofano: "Dirittamente se' chiamato Dagno, però che tu se' morte del mondo e compagno del diavolo e li dei tuoi sono lavorii di mani d'uomini". Al quale disse il re: "Tra le bestie se' nutricato, e non puoi parlare se non cose bestiali e non sapute a gli uomini; ma ora, se tu sacrificherai, riceverai da me grandissimi onori e, se non, sì sarai consumato con crudeli tormenti". Non volendo dunque sacrificare, comandò che fosse messo in carcere; e quelli cavalieri, ch'erano stati mandati a Cristofano, fece dicollare per lo nome di Cristo. Poscia fece rinchiudere due belle donzelle, una de le quali avea nome Nicea e l'altra Aquilina, insieme con Cristofano entro la carcere, promettendo a loro molti donamenti se 'l traessero a peccare con seco. Vedendo ciò Cristofano incontanente si diede ad orazione. Ma essendo costretto da le donzelle col toccare e con abbracciamenti, levossi ritto e disse loro: "Che cercate voi e per quale cagione ci siete voi messe dentro?" Quelle spaventate per la chiaritade del volto suo, sì li dissero: "Abbi misericordia di noi, messere santo di Dio, acciò che noi possiamo credere in quello Dio lo quale tu predichi". Udendo ciò il re fecelesi venire innanzi e disse loro: "Dunque siete voi anche ingannate? Io vi giuro per li dei, che se voi non sacrificherete, voi morrete di mala morte". Quelle rispuosono: "Se tu vuoli che noi sacrifichiamo, comanda che le piazze siano purgate e tutti si ragunino al tempio". Fatto ciò, quand'elle furono entrate nel tempio, scinsensi la cintura loro e puorsela a i colli de li dei e, tirandoli a terra, li fecioro tornare in polvere, e dissero a coloro ch'erano presenti: "Andate a chiamare i medici che vi guariscano li dei vostri". Allora per comandamento del re, l'una, che avea nome Aquilina, fu sospesa in alto; e legatole a' piedi uno grande sasso, tutte le sue membra ruppeno. Quand' ella fu andata di questa vita a Domenedio, la serocchia sua, ch'avea nome Nicea, fu gittata nel fuoco; ma, uscendone sanza veruno male, fu incontanente dicollata. Dopo queste cose Cristofano fu appresentato al re, il quale comandò che fosse battuto con verghe di ferro; e feceli mettere in capo uno cappello d'acciaio tutto affocato; poscia fece fare una sedia di ferro, e fecevi legare Cristofano e feceli accendere d'intorno un fuoco e gittarvi entro la pece. Ma la scranna si spezzò a modo di cera, e Cristofano n'uscì fuori sanza veruno male. Poscia il fece legare ad uno legno e saettare a quattrocento cavalieri. Ma le saette stavano tutte sospese ne l'aere e nol potettono toccare veruna. Il re pensando che quelli fosse saettato da' cavalieri, dicendo loro villania, subitamente una de le saette vegnendo de l'aere si rivolse indietro e percosse il re entro uno degli occhi, sì che gliele acciecò. Al quale disse Cristofano: "Domane in quello dì debbo io compiere la vita mia, onde tu, tiranno, farai loto del sangue mio e ugnerattene l'occhio, e riceverai santade". Allora per comandamento del re fu menato a dicollare e in quello luogo, fatta l'orazione, fu dicollato. E il re togliendo un poco del sangue suo e ponendone sopra l'occhio, disse: "Al nome di Dio e di santo Cristofano" e incontanente diventò sano. Allora credette il re e misse bando che chiunque bestemmiasse Iddio o san Cristofano tosto morrebbe con la spada.
cap. 96, Sette DormientiE' sette dormienti nacquero ne la città d'Efeso. Decio imperadore, perseguitando li cristiani, quando fu venuto in Efeso, fece edificare templi nel mezzo de la cittade, acciò che tutti si mischiassono con lui ne' sacrificii de l'idoli. Abbiendo dunque fatta inquisizione di tutti i cristiani, e incatenati che fossero, li costrignea o di sacrificare o di morire, sì che tanto era lo spaventamento de le pene a tutti, che l'uno amico rinnegava l'altro, e 'l padre il figliuolo, e 'l figliuolo il padre. Allora furono trovati in quella città sette cristiani: Massimiano, Malco, Marciano, Dionisio, Joanni, Serafino e Costantino, i quali vedendo queste cose si doleano troppo. Ed essendo de' maggiorenti del palazzo, spregiando i sacrificii de l'idoli, celavansi in casa loro, soprastando a' digiuni e orazioni. Accusati dunque costoro, furonli presentati dinanzi e, fatta la pruova che fossero veramente cristiani, fu dato loro spazio di rispondere infino a la tornata di Decio. E quelli intanto vennero dando il patrimonio loro a' poveri di Dio e, avuto consiglio insieme, cansaronsi nel monte Celion e ivi si fermarono di stare più certamente. Standosi dunque così nascosti un grande tempo, l'uno di loro servìa gli altri, e quante volte entrava ne la città, sì si vestiva in abito e figura d'un povero ch'andasse mendicando. Essendo dunque Decio tornato ne la città, e fatto il comandamento che fosse cercato per loro per fargli sacrificare, Malco, loro servigiale, spaventato ritornò a' compagni e dimostrò loro il furore de l'imperadore. I quali essendo gravemente ispaventati, Malco puose loro innanzi il pane che avea recato loro, acciò che confortati per lo cibo, fossero più forti a combattere. E poi che ebbero cenato, seggendo e ragionando in pianto e in lagrime, subitamente, come Domenedio volle, s'addormentaro. Quando venne la mattina, essendo cercati e non trovati, Decio n'era molto dolente d'avere perduti cotali giovani, sì che furono accusati ch'erano stati nascosti infino a quell'ora nel monte Celion; e avendo dato tutto il loro a' cristiani poveri, perseveravano ne lo loro proponimento. Comandò dunque Decio che parenti loro fossero presenti e minacciogli de la morte sed e' non dicessero tutto, cioè che sapessono di coloro. Sì che costoro gli accusarono altressì ch'eglino aveano dato tutto il loro a' poveri rammaricandosene a lo 'mperadore. Allora pensando Decio quello che dovesse fare di loro, per volontà di Dio, comandò che la bocca de la spelonca fosse turata, acciò che rinchiusivi entro morissono di fame e di povertà. La quale cosa i servi de lo imperadorefecero, e due cristiani, Teodoro e Ruffino, iscrissero il loro martirio e puosero la scrittura saviamente tra le pietre. Morto dunque Decio e tutta quella generazione, dopo CCCLXXII anni, ne l'anno trentesimo di Teodogio imperadore, rampollòe la resia di coloro che negavano la resurressione de' morti. Onde contristato Teodogio, cristianissimo imperadore, ché vedea così empiamente malmenare la fede, vestissi di cilicio e, sedendo in basso luogo, piagnea ogne die. La qualcosa veggendo, il misericordioso Iddio volle consolare i dolorosi e confermare la fede de la resurressione de' morti, ed aprendo il tesoro de la sua pietade in questo modo sucitò i detti martiri. Ché misse in cuore ad un borghese de la città d'Efeso d'edificare in quello monte stalla a' pastori suoi. Aprendo dunque i maestri la spelonca, levaronsi i santi e, salutandosi insieme, una sola notte pensavano avere dormito e, ricordandosi de la tristizia del dì dinanzi, dimandarono Malco, il quale avea servito loro, quello che Decio avesse fermato di loro. E quelli disse: "Com'io vi dissi, noi fummo cercati ieri sera per farci sacrificare a l'idoli; ecco quello che lo imperadore pensa di noi". Rispuose Massimiano: "E Dio il sa che noi non sacrificheremo". E avendo confortato i compagni disse a Malco che andasse a la città per comperare dal pane e, recando più pane che non avea recato ieri, tornasse a dire quello che lo 'mperadore avesse comandato. Togliendo dunque quello Malco V soldi, uscì de la spelonca, e, veggendo le pietre, maravigliossi; ma pensando altro, pensò poco per le pietre. Vegnendo dunque pauroso a la porta de la città, maravigliossi molto vedendovi posto su il segnale de la Croce, e andando a l'altra porta e trovandovi quello medesimo segnale, maravigliossi vieppiù. Veggendo dunque a tutte le porte posto il segno de la Croce e armata ne la cittade, segnando se medesimo, ritornò a la prima porta e credevasi sognare. Onde confermandosene se medesimo e vegnendo a' venditori del pane col volto coperto, entrò ne la cittade, e udì gli uomini parlare di Cristo e, stupedito più che di prima, disse fra se stesso: "Che è ciò che ieri non osava niuno di nominare Cristo, e ora tutti confessano Cristo? Io mi credo che questa non sia la città d' Efeso, imperciò ch'ella è altrimenti edificata, ma io non so altra città così fatta". E abbiendo domandato e udito che questa era Efeso, pensossi veracemente errare, e pensò di ritornare a' compagni suoi; ma pure andò a quelli che vendevano il pane e, quando ebbe dato loro i fiorini d'ariento, maravigliandosi i venditori del pane, dicendo l'uno a l'altro: "Quello giovane ha trovato un antico tesoro!" e Malco veggendoli parlare insieme, pensava ch'elli il volessono tirare a lo 'mperadore e, spaventato, elli sì li pregò che il lasciassono e tenessensi i pani e ' danari. Ma quelli il tennero, e sì li dissero: "Onde se' tu, c'hai trovati i tesori de li antichi imperadori? De! mostralci e saremo compagni insieme e terrémoti celato, ch'altrementi tu non puoi celare". E Malco non trovava che dicesse loro per la paura che avea. Coloro veggendo costui tacere, misserli una fune in collo, e strascinavallo per le rughe infino al miluogo de la cittade; e uscì la novella a tutti i cittadini che un giovane avea trovato tesori. Raunati dunque tutta la gente a lui e scongiurandolo, volea satisfare loro che non ne avea trovato nulla; e pognendo mente a tutti, da neuno potea essere conosciuto, e ragguardando il popolo, volea conoscere alcuno de' parenti suoi e' quali e' pensava veramente che fossero vivi e, non trovandone neuno, stava come matto nel mezzo del popolo de la città. La quale cosa abbiendo udita san Martino vescovo e Antipater proconsolo, il quale era venuto novellamente ne la città, comandarono a' contadini che 'l menassono saviamente a loro e recassero la moneta d'ariento ch'elli avea. Ed essendo tirato da' ministri a la chiesa, pensavasi essere menato a lo 'mperadore. Sì che il vescovo e 'l proconsolo, maravigliandosi de la moneta d'argento, domandarollo dove avesse trovato il tesoro non saputo. E quelli rispuose ch'al postutto non avea trovato nulla, ma che del sacchetto de' parenti suoi avea avuto i detti danari. E dimandato di quale città fosse, rispuose: "Ben so io ch'i' sono di questa città, se questa è la città d'Efeso". Disse il proconsolo: "Fa trovare i parenti tuoi, che deano testimonianza di te". E quando gli ebbe contati per nome, e non era chi ne conoscesse veruno, dicevano ched elli s'infignea per iscampare per alcuno modo. E disse il proconsolo: "Come crediamo noi che questo argento fosse de' parenti tuoi, con ciò sia cosa che la scrittura sua abbia più di trecentosettantadue anni, e fosse di primi di Decio imperadore, e in niuna cosa sono simiglianti a' fiorini nostri d'ariento? E come furono i parenti tuoi, già è cotanto tempo, e tu giovane vuogli ingannare i savi e gli antichi d'Efeso? Però comando che tu sia dato a le leggi, infino a tanto che tu confessi quello che tu hai trovato". Allora inginocchiandosi Malco dinanzi a loro, disse: "Per Dio, signori, ditemi quello di che io vi domando, e io vi dirò quello ch'io abbo in cuore. Decio imperadore, che fu in questa città, dove è elli?" Il vescovo disse: "Figliuolo mio, non è oggi in terra chi sia chiamato Decio, elli fue imperadore già lungo tempo". Disse Malco: "Messere, in ciò mi maraviglio io molto, e non è chi lo mi creda; ma venite dopo me, mosterrabbovi e' compagni miei che sono nel monte Celion, e allora credete. Questo so io bene, che noi fuggimmo da la faccia di Decio imperadore, e iersera vidi che Decio imperadore entrò in questa cittade, se questa è la città d'Efeso". Allora il vescovo, pensando in se medesimo, disse al proconsolo che questa era visione che Dio vuole mostrare in questo giovane. Andarono dunque con lui grande moltitudine de la cittade, e entrò prima Malco a i compagni suoi, e, entrando il vescovo dopo lui, trovòe tra le pietre lettere suggellate di due suggelli d'ariento. E raunato il popolo sì le lesse, e intendendole e maravigliandosi tutti e veggendo i santi sedere ne la spelonca e le facce loro fiorite come rose, gittaronsi in terra, e diedono gloria a Domenedio. E immantanente mandò il vescovo e 'l proconsolo a Teodosio imperadore, pregandolo che venisse tosto a vedere i miracoli mostrati novellamente. Il quale si levò immantanente di terra e del sacco dov'elli piagneva e, glorificando Iddio, venne da Costantinopoli in Efeso, e incontrandosi a lui tutti, salirono tutti insieme a la spelonca a' santi. E sì tosto come i santi ebbero veduto lo 'mperadore, risplendettoro le facce loro come sole, ed entrato lo 'mperadore gittossi dinanzi a' piedi loro, glorificando Iddio. E levandosi gli abbracciò tutti e sopra catuno pianse, così dicendo: "Io veggio voi, come s'io vedessi il Signore risucitare Lazzaro". Allora disse santo Massimiano a lui: "Credi a noi che a le tue cagioni ci ha risucitati il Signore, innanzi al gran die de la resurressione, acciò che tu creda sanza veruno dubbio che la resurressione, de li morti sì è. Però che veramente siamo risuscitati e viviamo, e come il fanciullo sta nel ventre de la madre non sentendo offensione e vive, così siamo stati vivi, giacendo e dormendo e non sentendoci". E dette queste cose, veggendo tutti quanti, inchinarono i capi in terra e dormirono in pace, e renderono gli spiriti loro secondo il comandamento di Dio. E levandosi lo 'mperadore cadde sopra loro, piagnendoli e basciandoli; ed abbiendo comandato che si facessero casse d'oro ne le quali si mettessono, in quella notte apparvero i santi a lo 'mperadore, e disserli che sì come da indi a drieto erano giaciuti in terra e levatesi di terra, così gli lasciasse stare infino a tanto che Iddio gli risucitasse un'altra volta. Comandò dunque lo 'mperadore che in quello luogo, fosse adorno di pietre dorate, e tutti i vescovi che confessavano la resurressione fossero assoluti. In ciò che si dice ched elli dormissono CCCLXXII anni può essere dubbio, imperciò che si rilevarono ne gli anni Domini CCCCXLVIII, e Decio regnòe pure uno anno, e tre mesi, ciò fu ne gli anni Domini CCLII, e in questo modo non dormirono se non centonovantaquattro anni, ovvero CLXXXXIII anni.
cap. 97, Ss. Nazario e CelsoLa vita e la passione di costoro si dice che santo Ambrosio trovasse nel libricciuolo di san Gervasio e Protasio; ma in alcuni libri si truova scritto che un filosofo divoto a Santo Nazario scrisse la sua passione, e Cerasio, il quale avea seppellito le corpora di questi due santi, la puose a' capo loro. Nazario, figliuolo d'un gentilissimo uomo ch'avea nome africano ma era giudeo, e di santa Perpetua cristianissima donna e nobilissima fra ' Romani, battezzata da san Piero apostolo, quando avea nove anni si maravigliava molto a vedere il padre suo e la madre sua isvariarsi l'uno da l'altro così disguagliatamente ne l'osservamento de la fede loro, in ciò che la madre sua seguitava la legge del battesimo e 'l padre la legge del sabato. Onde dubitava molto a quale si dovesse più accostare, con ciò fosse cosa che l'uno e l'altro si sforzasse di ritrarrelo a la sua fede. A la perfine, per volere di Dio, s'accostò a le vie della madre, e ricevette il battesimo di santo Lino papa. Intendendo ciò il padre, sì 'l cominciò a rimuovere dal santo proponimento e spianare per ordine le maniere de' tormenti che si davano a' cristiani. (In ciò che si dice ched e' fue battezzato da san Lino papa, intendesi forse, non di quegli ch'era papa allora, ma di quello che dovea essere). Nazario dopo il battesimo, come si manifesta più giù, sopravvisse molti anni; il quale ricevette martirio da Nerone ch'uccise san Piero, faccendolo crucifiggere l'ultimo anno del suo imperio; e santo Lino fu papa dopo la morte di san Piero. Non consentendo Nazario al padre, ma maggioremente predicando Cristo con grande costanzia, a' prieghi de' parenti, i quali temevano che non fosse morto, uscette di Roma e tolse VII muli carichi de le ricchezze de' parenti e venne per le terre d'Italia dando ogne cosa a' poveri. E 'l decimo anno de la sua partenza da Roma venne a Piacenza e poi a Melano, là dove trovòe sostenuti in carcere san Gervasio e san Protasio. Udendo il prefetto che Nazario incoraggiava i detti martiri, tosto fu menato al prefetto e, perseverando in confessare Cristo, fu battuto con bastoni, e così fu cacciato di quella città. E andando elli di terra in terra, la madre sua, che era già morta, gli apparve e, confortando il figliuolo suo, sì l'ammonìo ch'andasse in Francia. Ed essendo venuto a una città di Francia c'ha nome Gemello, e convertitivene molti, una donna gli offerse un suo figliuolo, bel garzone il quale avea nome Celso, e pregollo che 'l battezzasse e menasselo seco. Udendo ciò il prefetto di Francia, rinchiuselo col fanciullo insieme in pregione con le mani di dietro legate e con la catena in collo per farlo l'altro dì tormentare. Allora la moglie gli mandò a dire ch'ella affermava che fosse non giusto giudicio ch'elli uccidesse gl'innocenti e ardisse di vendicare gli dei onnipotenti. Per le quali parole corretto quello segnore assolvette e' santi, e ammonìo e interdisse che non vi dovesse predicare. E venne a la città di Croa in Treveri, e ivi predicò Cristo di prima e, convertendovene molti a la fede di Cristo, e' sì vi fece una chiesa. Udendo ciò Cornelio vicario mandollo a dire a Nerone, il quale mandò cento cavalieri a pigliarlo. E quelli, trovandolo lungo l'oratorio che s'avea fatto, legarli le mani, così dicendo: "Il grande Nerone ti fa chiamare". Rispuse Nazario: "Il non composto re hae cavalieri non composti; perché dunque vegnendo voi, non diceste onestamente: "Nerone ti fa chiamare? e sarei venuto". Sì che il menarono legato a Nerone, e 'l fanciullo piagnente battéro Celso dandoli le gotate e costrignendolo che li tenesse dietro. Quando Nerone gli ebbe veduti, fecegli rinchiudere in pregione infin a tanto che pensasse di che tormenti gli uccidesse. Infrattanto Nerone avendo mandato cacciatori a predare fiere salvatiche, uscì subitamente fuori una moltitudine di fiere, e entrarono nel giardino di Nerone; nel quale luogo lacerarono molte persone e molte n'uccisono, intanto che Nerone turbato fuggìo e, fedito il piede, appena poté giugnere al palagio, e molti dì giacque per lo dolore di quella fedita. A la perfine si ricordò di Nazario e di Celso, e pensò che li Dei fossono adirati contro a lui perché gli avea lasciati tanto vivere coloro. Sì che per comandamento de lo 'mperadore, i cavalieri trassero di pregione Nazario, percotendolo con calci e battendo il fanciullo e menandoli dinanzi a lo 'mperadore. Vedendo Nerone la faccia di Nazario a modo di sole, pensossi essere beffato per fantasie, e disseli che ponesse giù l'arte magiche, e comandolli che sacrificasse a li Dei. Menato Nazario al tempio, pregò che tutti dovessero uscir fuori, e così, stanto lui in orazione, tutti gl'idoli si spezzarono. Udendo ciò Nerone comandò che fosse gittato in mare, e comandò che s'elli campasse per avventura, che 'l perseguitassono e poi l'ardessono nel fuoco e la polvere sua gittassono in mare. Sì che Nazario e 'l fanciullo Celso furono messi in una nave e, quando furono menati nel miluogo del pelago, ivi furono traboccati nel mare; ma incontanente si commosse d'intorno a la nave una forte tempestade, e d'intorno a' santi si vedea grande bonaccia. E temendosi coloro di pericolare e pentendosi de' mali ch'aveano commessi ne i santi, eccoti Nazario col fanciullo Celso andare sopra l'acqua, e apparve a coloro col volto allegro e salìo in su la nave, credendosi già quelli pericolare, e con la sua orazione aumiliò il mare, e capitò con loro ad uno luogo presso a la città di Genova per secento passi. Nel quale luogo quand'ebbe lungamente predicato, a la perfine venne a Melano, là dove avea lasciati san Gervasio e Protasio. La quale cosa abbiendo udito Cornelio prefetto, mandollo a' confini, rimagnendo Celso in casa d'una donna. Sì che Nazario, se ne venne a Roma e, trovandovi il padre suo ch'era già vecchio e cristiano, sì 'l richiese in che modo s'era convertito. E que' disse che Piero apostolo gli apparve, e ammunillo che seguitasse la via de la moglie e del figliuolo che li entravano innanzi a Cristo. Poscia fu costretto da' pontefici de' templi di tornare con molta ingiuria a la città di Melano, dond'elli era stato isbandeggiato e mandato a Roma; nel quale luogo fu presentato al preside col fanciullo Celso. Poscia fu menato fuori de la porta Romana in uno luogo che si dice "Tres Muri", e ivi fu dicollato col fanciullo Celso. I corpi de' quali quando i cristiani gli ebbero rubati e riposti ne l'ortora loro, in quella notte apparvero i santi ad uno c'ha nome Cerazio, e sì li dissero che seppellissero le corpora loro più profondo in casa sua per paura di Nerone. E quelli disse a loro: "Sanicate prima, segnori, la figliuola mia paralitica". La quale, come l'ebbero sanata, incontanente tolse le corpora loro e seppellille sì come quelli comandarono. E dopo lungo temporale rivelò Domenedio questi corpi a santo Ambruosio, e, lasciando Celso nel luogo suo, tolse Nazario ch'era così intero e sanza veruna corruzione, co' capelli e con la barba, con maraviglioso odore, e parea che in quella medesima ora fosse seppellito, e traslatollo a la chiesa de li apostoli, e ivi il rispuose onorevolemente. Passionati furono intorno a gli anni domini LVII a IV dì uscente Luglio. Di questo martire dice così santo Ambruosio nel Profazio: "Il martire santo alluminato di rossichente sangue, cioè Nazario, fu meritevole di salire al celestiale regname. Il quale, essendo angosciato per tormenti sanza novero, con la fermezza de la fede soperchiòe la rabbia de' tiranni. Né non poté dar luogo a le minacce che li facevano i persecutori, imperò che quello accrescitore de la vittoria, Cristo Signore, difendea colui che combattea per lui. Fu menato a fare sacrificio a l'idoli scomunicati, le maravigliose cose de' quali egli armato de l'aiuto di Dio, sì tosto come entrò nel tempio, recò tutto in polvere. E per questo essendo gittato ne le liquide acque del mare, lungi da terra, per servigio di dono angelico, fermi passi ponea fra l'onde. O beato e glorioso combattitore di Dio, il quale, assalendo il prencipe del mondo, innumerabile moltitudine di popolo accompagnòe a la vita eterna! O grande e ineffabile sacramento, che la chiesa s'allegri maggiormente de la salute di coloro i quali il mondo s'allegra d'avere morti! O beata madre, glorificata de' tormenti de' figliuoli suoi, i quali non mandò al ninferno con pianto e con lamento, ma passanti a i regni celestiali si proseguita di perpetuale loda! O testimonio adornatissimo, stella splendiente di celestiale splendore, il cui inestimabile odore avanza tutte le spezie di Sabeiciti!". Lo quale Ambruosio trovando sì l'ha dato in perpetuale padrone e medico, de la fede propugnatore, combattitore di santa battaglia.
cap. 98, S. FeliceFelice fue eletto papa in luogo di Liberio e fu ordinato; però che non volendo il detto Liberio papa consentire a la resia d'Ario, fu mandato a' confini da Costanzio, figliuolo di Costantino, e vi stette tre anni. Per la qualcosa tutto il chericato di Roma ordinò Felice in suo luogo, lo stesso Liberio volente e consenziente. Il quale Felice, ragunato ch'ebbe il concilio dinanzi a quarantotto vescovi, condannòe Costanzio imperadore, ariano ed eretico, e due preti che 'l favorivano. Onde Costanzio, indegnato, sì cacciò Felice del vescovado suo e fece rivenire Liberio a cotale patto, che solamente ricomunicasse Costantino e coloro che Felice avea condannati. Sì che Liberio, afflitto per tedio, soscrisse lo sbandeggiamento in eresia; e così crebbe intanto la persecuzione che molti sacerdoti e cherici erano morti entro la chiesa, non vietandolo Liberio. E Felice, scacciato del vescovado suo, abitando in un suo podere, funne tratto fuori e meritòe il martirio, essendoli tagliato il capo intorno a gli anni Domini CCCXC.
cap. 99, Ss. Simplicio, Faustino e BeatriceSimplicio e Faustino, fratelli, per non volere sacrificare sotto Diocliziano, molti tormenti sostennero a Roma. A la perfine, essendo data sopra loro la sentenzia, furono dicollati, e gittate le corpora loro nel Tevere. E la serocchia loro, ch'avea nome Beatrice, trasse le corpora loro del fiume e sepellille onorevolemente. Lucrezio prefetto e 'l vicario suo, desiderando d'avere il podere suo, sì la fece pigliare e comandolle che sacrificasse a l'idoli. Quella non vogliendo, Lucrezio la fece strangolare di notte a' servi suoi; il cui corpo tolse Lucina vergine, e seppellillo a lato a' fratelli suoi. Poscia entròe Lucrezio in quello podere nel quale, avendo fatto il convito a gli amici suoi, dicendo villania de' martiri, un fanciullo da latte, fasciato in panni, gridòe del grembo de la madre la quale era ivi presente, udendolo chi volle, e disse così: "Or odi, Lucrezio, per ciò che tu hai ucciso e assalito, ecco che se' dato in possessione del nimico". Immantanente Lucrezio temendo e tremando fue preso dal demonio, e fue per tre ore tanto angosciato che morì in quello convito. La qualcosa veggendo, coloro che erano presenti convertirsi a la fede, e narravano a tutti che la passione di santa Beatrice vergine era vendicata entro il convito. Furono passionati ne gli anni Domini CCLXXXVII.
cap. 100, S. MartaMarta, albergatrice di Cristo, il cui padre ebbe nome Siro e la madre Eucaria, di schiatta reale discese. Il padre suo fu capitano di molte terre di Soria e di marittima; tre terre possedea Marta con la serocchia per ragione de l'ereditade de la madre, cioè Maddalo e Betania e parte di Gerusalem. Non si legge che mai avesse marito o che avesse avuto compagnia d'uomini; ma servìa la nobile albergatrice di Cristo a Cristo, e volea che la serocchia servisse con lei insieme, però che le parea ch'a servire a così grande oste, com'era Cristo, non basterebbe tutto il mondo. Dopo l'ascensione di Cristo, essendo partiti gli apostoli per lo mondo, ella col suo fratello Lazzaro e con la serocchia sua Maria Maddalena e anche san Massimino che l'avea battezzate e a cui elle erano state raccomandate da lo Spirito Santo, e molti altri, levando via remi e vele e altri governamenti e tutti gli alimenti di nave, furono messi in nave da l'infedeli; e, per guida del Segnore, capitarono a Marsiglia. A la perfine vennero nel terreno d'Achissi e ivi convertirono il popolo a la fede. Ed era santa Marta molto bella parlatrice e graziosa a tutti. Ora v'era in quel tempo, sopra Rodano, in un bosco tra Avignone e Arli, un dragone ch'era mezzo animale e mezzo pesce, più grosso che un bue e più lungo d'uno cavallo, e avea i denti arrotati come spada e le corna da ambo latora. Il quale, nascondendosi nel fiume, uccideva tutti i viandanti, e le navi subissava. Ed eravi venuto per lo mare entro di Galizia d'Asia, ingenerato da Leviathan, ch'è un serpente acquatico e ferocissimo, e da Onaco, animale il quale ingenera la contrada di Galizia, il quale saetta lo sterco suo per ispazio di volta di buoi dietro a coloro che 'l vanno perseguitando, e ciò che tocca abbrucia come fuoco. Santa Marta, essendo pregata dal popolo, andò là e trovollo in uno bosco manicare uno uomo e, gittandogli l'acqua benedetta addosso, e mostrolli una Croce. E 'l dragone incontanente vinto, stette fermo come pecora, e lasciatosi legare a santa Marta con la sua cintura, e' fu morto iveritto dal popolo con le lance e con le pietre. Ed era chiamato quello drago da li abitanti de la contrada Tarascone, onde, in ricordanza di ciò, si chiama quello luogo da quello drago Tarascone, che prima si chiamava Nerluc, cioè luogo nero, però che quivi erano le boscora ombrose e nere. Sì che in quello luogo rimase santa Marta con parola di Massimino suo maestro, e de la serocchia, standosi quivi d'allora innanzi in digiuni ed orazioni sanza cessare. Poscia sì vi ragunò uno grande convento di donne, cioè suore, e fecevi una chiesa ad onore de la beata Vergine, ne la quale menòe assai aspra vita, ché, ischifando carne e ogni grassume e uova e cascio e vino, una sola volta mangiava il die e cento volte s'inginocchiava il die e altrettante la notte. Una volta predicando lei tra Avignone e 'l fiume di Rodano, un giovane, stando di là dal fiume e desiderando d'udire le sue parole, non abbiendovi naviglio, ispogliossi ignudanato e incominciò a notare, ma la gran forza del fiume il rapìo e subitamente affogò. Il cui corpo, a grande pena trovato il secondo dì, fu portato a' piedi di santa Marta per risucitarlo. Quella si gittò in terra in modo di Croce, ed orò in questa guisa: " Adonai, messere Jesù Cristo, il quale risuscitasti di qua indrieto il mio fratello diletto, pon mente, oste mio caro, a la fede di coloro che sono qui intorno, e risuscita questo garzone". E presa che gli ebbe la mano, immantanente si levò vivo e sano, e ricevette il santo battesimo. Racconta Eusebio nel quinto libro de le Storie Ecclesiastiche che la femmina emorroissa, la quale fue sanata ne la corte, ovvero nel giardino suo, sì fece una statua de la imagine di Cristo col vestimento e con l'orlo, sì com'ella l'avea veduto, e molta reverenza le faceva, e l'erbe che crescevano sotto a quella statua, le quali non aveano prima neuna vertude, quando agiugnevano a l'orlo, erano di tanta vertude che molti infermi n'erano sanati. Quella emorroissa, la quale il Signore sanòe, santo Ambrosio dice che fue Marta. Racconta san Geronimo, ed è ne la Storia Tripertita, che Giuliano apostata levò indi quella imagine, la quale emorroissa avea fatta, e portolla in isola, e ivi l' acconciòe, la quale si ruppe per la percossa del fulmine. La morte sua revelò Domenedio a lei uno anno dinanzi; nel quale anno, essendo gravata di febbri, innanzi l'ottavo dì del suo uscire di questo mondo, udìe cori de li angeli che ne portavano in cielo l'anima de la sua serocchia; e quella raunòe incontanente il convento de' frati e de le suore sue, e disse loro: "Compagni miei e dolcissimi balii miei, io vi priego che voi vi rallegriate con meco, però ch'io veggio i cori de gli angeli che ne portano con grande allegrezza a le sedie del cielo l'anima de la mia serocchia. O bellissima e diletta mia, vivere possi tu col maestro tuo e oste mio in sedia beata". Incontanente santa Marta, sentendo pressimare l'uscita sua, ammunì la gente sua che vegghiassero intorno a sé con le lumora accese, ed entro la mezzanotte, innanzi al die del suo passare, essendo gravate dal sonno quelle persone che la guardavano, venne un vento terribile e spense tutte le lumora, e quella, veggendo la turba di maligni spiriti, incominciò ad orare e disse: "Padre mio Eli, oste mio caro, ragunati sono a divorarmi gl'ingannatori miei, tegnendo le scritture in mano de' mali ch'io ho fatto. Eli, non ti dilungare da me, ma sia in mio aiuto!" Dicendo queste cose, eccoti venire la serocchia a lei che tenea una faccellina in mano con la quale accese i cerotti e le lampane, e chiamandosi per nome insieme l'una l'altra, eccoti venire Cristo, e disse: "Vienne, diletta ospita mia, e dove sono io, sarai tu là con esso meco. Tu mi ricevesti nel tuo albergo, io ti riceverò nel mio cielo, e coloro che ti chiameranno, esaudirabbo per tuo amore". E appressimandosi l'ora del suo passamento sì si fece portare fuori per potere vedere il cielo, e fecesi porre in terra in su la cennere, e fecesi tenere la Croce dinanzi, e fece cotale orazione: "Oste mio carissimo, guarda questa tua poverella! Come tu degnasti d'albergare in mia casa, così mi ricevi nel tuo albergo del cielo". E fecesi leggere innanzi il Passio secondo Luca; e quando si diceva: "Padre ne le mani tue raccomando lo spirito mio" e quella mandò fuori lo spirito. La Domenica seguente, faccendosi l'officio al corpo suo intorno a l'ora de la terza, stando san Frontonio a Pettagorica, e dicendo la Messa, dopo la Pistola dormendo lui in caffera, il Signore gli apparve, e sì li disse: "Diletto mio Frontonio, se tu vuogli adempiere quelle cose, che tu promettesti a l'ospita nostra, di qua dietro leva su tosto, e seguitami". Quegli compiendo il comandamento, subitamente vennero abendue a Tarascone, e intorno al corpo suo salmeggiando, tutto l'ufficio compierono ambedue, rispondendo gli altri; e con le loro mani missero il corpo nel sepolcro. E quando venne che a Pettagorica fu finito il canto dopo la Pistola, il diacano che avea a leggere il Vangelio, dimandando la benedizione, destòe il vescovo ed egli, appena isvegliato, rispuose: "Frate mio, perché m'hai desto? Il mio Signore Gesù Cristo m'ha menato al corpo di Marta, sua albergatrice, e avemela messa nel sepolcro. Mandatevi tosto messaggi, che ci rechino l'anello nostro de d'oro, e i guanti grigi, le quali cose, acconciandomi me a seppellire il corpo, sì le raccomandai al sagrista e io per dimenticanza le lasciai perché sì tosto mi svegliaste". Mandati che furono i messaggi e, trovando così queste cose né più né meno come san Frontonio avea detto, recarne l'anello e l'un guanto solamente, e l'altro si ritenne il sagrista in testimonianza di questo fatto. E aggiunse anche san Frontonio questo fatto, e disse: "Quando dopo la sepoltura noi uscivamo de la chiesa, un frate di quello luogo, savio di lettera, venendoci dietro, domandò il segnore com'elli avesse nome. E quelli non rispondendo nulla, mostrò un libro che tenea aperto in mano, nel quale non era scritto veruna altra cosa se non questo versolino: "In memoria eternale saràe l'ospita mia, e nel sezzaio die non avrà paura de la ria udita". E rivolgendo il libro per tutti i fogli, trovò scritta la detta parola. E con ciò fosse cosa che a l'avello suo si facessono molti miracoli, Clodoveo, re di Francia, diventòe cristiano; e poi che fue battezzato da san Remigio, gli venne un gran duolo ne le reni; e quelli andò al sepolcro di costei, e riportonne santade compiutamente. Per la qualcosa dotòe quello luogo e diedegli ville e castella e terra da l'una parte e l'altra del Rodano per ispazio di tre miglia, e francheggiò quello luogo. E Martilla, sua cameriera, scrisse la vita sua, e poscia se n'andòe in Ischiavonia e, predicando quivi il Vangelo di Cristo diece anni dopo la morte di santa Marta, e poscia morìo in pace.
cap. 101, Ss. Abdon e SennenAbdon e Sennen furono martirizzati sotto Decio imperadore. Abbiendo Diecio imperadore vinta Babilonia con l'altre province, sì ci trovò alcuni cristiani, i quali ne menò seco a la città di Cordova, e ivi gli fece morire per diversi tormenti. E le corpora loro tolsero due sorregoli, ciò furono Abdon e Sennen a seppellire. Onde accusati e appresentati dinanzi a Decio, furono menati a Roma dietro a lui legati con catene. Poscia, quando furono a Roma, furono menati dentro al palazzo dinanzi a lui, e al sanato di Roma, ed ebbero comandamento che od elli sacrificassero, e riceverebbero liberamente le cose loro, od ellino sarebbero divorati da' morsi di bestie. Disprezzando dunque il comandamento e sputando ne l'idolo, furono menati a la grande piazza, e furono ammessi loro due leoni e quattro orsi, i quali non toccarono i santi, ma guardavalli. Allora missono mano a le coltella e con esse gli uccisero. Poscia legarono i piedi loro e trascinarli e gittarli dinanzi a l'idolo del sole. E quando vi furono gittati e giaciuti tre dì, Quirino suddiacono gli ricolse, e seppeglili in casa sua. E furono passionati ne gli anni Domini CCLIII.
cap. 102, S. GermanoLa sua vita scrisse Costantino prete, e mandolla scritta a san Censurio, vescovo d'Altissiodoro. Germano fu di gentilissimo legnaggio, nato ne la città d'Altissiodoro e molto ammaestrato de le sette arti. A la perfine andò a Roma ad imprendere la scienzia di ragioni di leggi, là ove ebbe tanta dignitade che 'l senato il mandò in Francia per acquistare l'altezza del ducato di tutta Borgogna. Governando dunque lui la città d'Altissiodoro più diligentemente che gli altri, avea nel miluogo de la cittade un'albore, che si chiamava pino, a i rami de la quale appiccava le capita de le fiere salvatiche per maraviglia de la cacciagione. Ma riprendelne di cotale vanitade il santo vescovo Amatore di quella cittade, e ammonendolo spesse volte che facesse tagliare lo detto albore, acciò che di quello fatto non avvenisse veruna mala cagione a' Cristiani, quegli per veruno modo non vi volle acconsentire. Sì che una volta, non essendovi Germano, il vescovo tagliò l'albore e missela tutta ad ardere. La quale cosa udendo Germano, dimenticatosi de la religione cristiana, venne là attorneato di molti cavalieri, e minacciò il vescovo de la morte. Ma il vescovo cognoscendo per la revelazione di Dio che Germano dovea essere vescovo dopo lui, diede luogo al furore, e andonne ad Agostodano. Poscia ritornò ad Altissiodoro e rinchiuse Germano scaltritamente entro la chiesa, e iveritto gli diede la prima tonsura, e predisse a lui che gli dovea succedere nel vescovado. E così fue. Ché poco tempo poscia morì quello vescovo in pace, e tutto il popolo adomandò Germano per loro vescovo. E quegli diede tutto il suo a' poveri, e de la moglie fece suora, e afflisse tanto il corpo suo per ispazio di XXX anni, che giammai non manicò pane di grano, né bevve vino, né aceto, né olio, né legume, né sale per sapore; ma due volte l'anno, cioè per Risurresso e per Natale, bevea vino, salvo che tanta acqua vi mettea, che poco sapeva di vino. Al mangiare primieramente mescolava la cennere, poi prendea pane d'orzo; sempre quando digiunava non mangiava mai se non a vespro. Di state e di verno non tenea mai altro indosso che cilicio e tonica, ovvero cocolla, il quale vestimento, se per la ventura non l'avesse donato altrui, tanto il portava, che tutto era raso da potere rompere. Il letto suo era ornato di cennere e di cilicio e di sacco, neuno piumaccio teneva a capo, ma sempre stava in pianto e portava a collo le reliquie de' santi. Non si spogliava mai, rade volte si scalzava e rade volte si scigneva; sopra natura d'uomo fue ciò che fece. Tal fue la sua vita che se non avesse fatti miracoli parrebbe cosa incredibile. Tanti furono i miracoli che, se non fosse andato innanzi la santità, sarebbero creduti fantastichi. Albergando elli in alcuno luogo, vedendovi apparecchiare un'altra volta la mensa dopo cena, maravigliandosi di ciò, domandò perch'eglino apparecchiavano più. Essendosi detto: "Per quelle buone femmine che vanno di notte", in quella notte ordinò san Germano che vegghiasse, ed ecco che vidde una gente di demoni, in forma d'uomini e di donne, porrersi a mensa, e comandando loro che non si partissono, isvegliò tutti quelli de la famiglia, e domandavalli se conoscessero quelle persone. E quelli dicendo ch'erano tutti loro vicini e vicine, mandò a le case di ciascuno, e a' demoni comandò che non si partissono; ed ecco che furono trovati tutti ne' letti loro. E scongiurati coloro che mangiavano, dissero che erano demoni che ingannavano così la gente. A quello tempo era in grande nominanza santo Lupo vescovo di Trettafina; la cui città assediando il re Attila, santo Lupo sì si puose in su la porta e gridava chi fosse quegli che dava loro angoscia. E quelli rispuose: "Io sono Attila, flagello di Dio". Contra 'l quale l'umile vescovo piagnendo disse: "E io sono Lupo, che guai a me sono guastatore de la greggia di Dio e molto degno de la battitura di Dio!" E incontanente fece aprire le porte e quegli, acciecati da Dio, passarono da l'una porta a l'altra, sanza vedere e sanza fare male a persona. Sì che san Germano prese per compagno il detto santo Lupo e andonne in Brettagna dove gli eretici erano rampollati. Ed essendo nel mare, nacque una grandissima tempesta, e a l'orazione di san Germano divenne grande bonaccia; e furono ricevuti onorevolmente da' popoli, l'avvenimento de' quali li demoni avieno già detto dinanzi, li quali san Germano cacciò da le corpora ingombrate. E quando ebbero convinti gli eretici, tornarono a casa loro. Essendo egli infermo in alcuno luogo, avvenne che a tutta quella ruga de le case dov'elli era, s'apprese il fuoco, e ardeva ogne cosa. Quegli, essendo pregato d'essere portato altrove per campare dal fuoco, puosesi incontro a l'arsura, e, ardendo la fiamma di qua e di làe, l'albergo suo non toccòe niente. Tornando lui un'altra volta in Brettagna per confondere gli eretici, uno de' suoi discepoli gli tenea dietro molto ratto; il quale essendo infermato ad un luogo che si chiama Cormandoro, morìo là. Tornando quindi san Germano, fece aprire il sepolcro di colui, e chiamollo del proprio nome, e dimandollo quel che facesse e se desiderava d'essere anche più cavaliere con seco. Quelli, incontanente rizzandosi a sedere, rispuose ch'elli aveva tutta soavitade e che non volea essere richiamato più qua. Allora accennandoli il santo ched elli si posasse, e quelli pose giù il capo e dormì anche in pace. Predicando lui in Brettagna, abbiendogli il re di Brettagna disdetto albergo a lui e a' compagni, il bifolco del re, tornato da la pastura, tolse la prebenda nel palazzo e portolla a la capanna sua, e vidde san Germano e' compagni che si morivano quasi di fame e di freddo; i quali elli li ricevette benignamente in casa sua, e uno solo vitello ch'elli avea, comandò che fosse morto e apparecchiato per lui e per li compagni. E fue fatta la cena, e, mangiato, santo Germano fece raggiugnere insieme tutte l'ossa del vitello e, a l'orazione sua, il vitello si levò ritto sanza dimoranza. Il seguente die san Germano andò in fretta incontro al re e dimandollo apertamente perché gli avea negato l'albergo. Allora il re fortemente spaventato non poté rispondere a lui, e quelli disse: "Esci fuori de la signoria e lascia istare il reame a migliore di te". Sì che san Germano, per comandamento di Dio, fece venire il bifolco con la moglie e, maravigliandosi tutta la gente, il fece re; e d'allora i re cominciarono a uscire di schiatta di bifolco e signoreggiano la gente di Brettoni. Stando a campo quelli di Sassonia contra i Brettoni, e vedendo ch'erano pochi, chiamarono i santi che passavano in d'oltre; ed essendo predicati da' santi, a pruova andavano tutti a la grazia del battesimo; sì che il die de la Pasqua per fervore de la fede gittate via l'arme, si puosono in cuore di combattere fortemente. Quelli udendo ciò, arditamente andavano contra disarmati; ma san Germano, nascondendosi co' suoi, sì li ammonì tutti che quando egli gridasse: "Alleluia", tutti quanti gli rispondessono ad una boce. La qualcosa essendo fatta, tanta paura venne addosso a coloro ch'erano nemici, che, gittando via tutte l'arme, non solamente pensavano ch'e' monti, ma che 'l cielo cadesse loro addosso, e tutti fuggirono. Una volta passando lui per Agostodomo, capitòe a l'avello di san Cassiano vescovo, e domandollo com'elli stesse. Quegli immantanente, udendolo tutti, rispuose de l'avello, e disse così: "Con dolce riposo mi godo e aspetto l'avvenimento del Redentore". E quelli disse: "Or ti posa in Cristo per lungo tempo e per noi adora attentamente, acciò che noi meritiamo d'avere l'allegrezze della santa resurressione". Essendo capitato una volta a Ravenna fu ricevuto con grande onore da la reina Placida e dal suo figliuolo Valentiniano. Quando venne l'ora de la cena, la reina gli mandò un vasello d'argento ampissimo, pieno di cibi dilicatissimi, e quelli il ricevette in questo modo che i cibi dette a li donzelli, e 'l vasello de l'argento si ritenne per li poveri. E in quel luogo di guiderdone mandò a la reina una scodella di legno con pane d'orzo iventro. Quella il ricevette allegramente, e coperse poscia d'ariento quella scodella. Un'altra volta che la detta reina l'avea invitato a convito, quegli, consentendo benignamente, da l'albergo suo insino al palagio de la reina fu portato in su l'asino, imperò ch'era molto macero per digiuni e per fatiche. Ma, mangiando lui, l'asino di san Germano morìo. Udendo ciò la reina fece presentare al vescovo il cavallo proprio di molta mansuetudine. Quelli veggendolo, disse: "Siami presentato l'asino, che quelli che mi recòe qua, sì me ne porterà". E andando a l'asino morto, sì li disse: "Leva su, torniamo a l'albergo nostro". Incontanente l'asino si sollevò e scossesi tutto quanto e, come non avesse avuto neuno male, ne riportò san Germano a l'albergo. Ma anzi che uscisse di Ravenna predisse che non dimorerebbe lungo tempo in questo mondo. Poco stante il prese la febbre, e il settimo die morìo in pace; e 'l corpo suo fue trasportato in Francia, com'elli avea domandato da la reina. Morìo intorno a gli anni Domini CCCCXXX. Abbiendo san Germano promesso a santo Eusebio, vescovo di Vercella, che a la sua tornata li sagrerebbe la chiesa ch'esso avea fondata, intendendo Eusebio che san Germano era uscito del corpo, fece accendere ceri per consegrare elli la chiesa sua; ma quanto più s'accendevano, tanto più si spegnevano a mano a mano. Veggendo ciò Eusebio intese per questo che o la sagra si convenisse fare ad altro tempo, o serbarla a fare ad altro vescovo. Essendo dunque il corpo di san Germano portato a Vercelle, fu incontanente messo entro la detta chiesa e tosto, per miracolo di Dio, furono infiammati tutt'i ceri. Allora santo Eusebio si ricordò de la promessione di santo Germano, e quello che avea promesso di fare vivendo cognobbe ch'avea fatto stando morto. Questo fatto si vuole così pigliare, che non s'intenda del grande Eusebio vercellese; che ciò addivenisse al suo tempo, però ch'elli morìo sotto Valente imperadore, e da la morte di lui infino a la morte di san Germano corsono più di L anni. Adunque è un altro Eusebio al tempo del quale questo fatto si narra che avvenisse.
cap. 103, S. EusebioEusebio fue sempre vergine; essendo elli ancora catecumino, ricevé da Eusebio papa il battesimo e il nome: nel quale battesimo furono vedute mani d'angeli, i quali il levarono del santo fonte. Una donna presa di lui per la sua bellezza, volendo ella andare ne la camera sua, per gli angeli che la guardavano non poté entrare, onde la mattina vegnente gli si gittò a' piedi, e con grande lamento gli domandò perdonanza. Poi che fu ordinato prete tanta santità fu in lui che ne la Messa gli appariva tra le mani il misterio angelico. Dopo queste cose macchiando la pestilenzia ariana tutta Italia, favoreggiando a la detta eresia lo 'mperadore Costanzio, Julio papa consegrò Eusebio per vescovo di Vercelle, la qual città a quello tempo teneva principato tra l'altre città d'Italia. Udendo ciò gli eretici feceno serrare tutte le porte de la chiesa. Eusebio, entrato ne la città, inginocchiossi dinanzi a l'uscio de la chiesa maggiore, la quale è de la Vergine Maria, e con la sua orazione aperse immantanente tutte l'uscia. E cacciò del vescovado Assentio vescovo di Melano, corrotto di resia e in suo luogo ordinò Dionisio cattolico. E così Eusebio tutta la Chiesa de l'occidente e Atanasio tutta la Chiesa de l'oriente purgavano de la pestilenzia de li ariani. Arriano fu un prete d'Alessandria, il quale dicea che Cristo era pura criatura, affermando che era quando non era, e per noi fu fatto, acciò che Dio creasse noi per lui, sì come per istrumento. E però il grande Costantino fece ragunare il consilio a Nicea, là ove il suo errore fue condannato. Ed elli morì poscia d'una miserabile morte, però che tutte le 'nteriora e le budella gittò disotto. E Costanzio, figliuolo di Costantino, fu corrotto da quella eresia, per la qualcosa Costanzio imperadore, indegnato contra Eusebio, ragunòe il concilio di molti vescovi e fece venire Dionisio, e molte pistole mandò a Eusebio che dovesse venire. Il quale sappiendo che la malizia potea più ne la moltitudine, dispregiòe di venire e appuose la sua vecchiezza. Onde lo 'mperadore Costanzio, contra quella scusa, ordinò che 'l concilio si facesse ne la città di Melano, che v'era presso. Nel quale luogo vedendo lo imperadore ch'Eusebio v'era meno, comandò che li ariani scrivessono la fede loro, e a quella fede fece soscrivere Dionisio vescovo di Melano e XXXIII vescovi. La qualcosa udendo Eusebio, uscì de la città sua per andare a Melano, e predisse molte cose sosterrebbe. Ed essendo venuto ad un fiume per andare a Melano, la nave essendo da lungi da l'altra parte del fiume, al suo comandamento venne a lui, e portò lui e' compagni di là dal fiume, sanz'altro governatore. E allora il detto Dionisio gli si fece incontro, e gittandolisi a' piedi domandò perdonanza. Non potendo dunque Eusebio essere piegato né per minacce, né per lusinghe da lo 'mperadore, disse dinanzi a tutti: "Voi dite che 'l figliuolo è minore che 'l padre, perché dunque soprapponete a me il mio figliuolo, e discepolo? Ché il discepolo non è sopra il maestro, il servo sopra il signore suo, né il figliuolo sopra il padre". Per la quale ragione coloro commossi, offersero a lui la carta ch'elli aveano scritta e ne la quale aveano soscritto Dionisio. Ed elli disse: "Neente mi scriverrò dopo il figliuolo, al quale io soprastoè per autorità, ma ardetela e scrivetene una nuova, se voi volete ch'io mi vi soscriva". E così, per volontà di Dio, fu arsa la carta ne la quale s'avea soscritto Dionisio e gli altri XXXIII vescovi, e funne fatta una nuova e data ad Eusebio e gli altri vescovi che vi si soscrivessoro. Ma essendo tutti animati da Eusebio, per neuno modo vi vollono acconsentire, e incominciarsi molto a rallegrare in ciò che vedeano al postutto arsa la carta, ne la quale per costrignimento s'avevano soscritti. Allora adirato Costanzio, misse Eusebio in mano de li ariani che ne facessero ciò che volessero. E quelli traendolo tra gli altri vescovi, e flagellandolo duramente, sì 'l tranarono per li gradi del palazzo disopra infino disotto, e anche, disotto infino disopra. E quand'ebbe sparto molto sangue per lo capo tutto flagellato, non consentendo ancora, legarolli le mani di dietro al dosso, e con la fune in collo lo trascinavano. Ed elli faccendo grazie a Dio, diceva che era apparecchiato di morire per la confessione de la fede cattolica. Allora Costanzio fece mandare a' confini Liberio papa e Dionisio e Paulino e tutti gli altri vescovi ch'erano stati animati per lo essemplo di colui. E gli ariani menarono Eusebio a Scitopoli, cittade di Palestina, e rinchiuserlo in uno luogo sì strettissimo ch'era più piccolo di lunghezza di lui, e più stretto per l'ampiezza, in tal maniera che inchinato non potea stendere li piedi, né volgersi in altro lato, e stando col capo abbattuto, con le spalle solamente e le gomita potea muovere. Morto Costanzio, Giuliano regnòe dopo lui e, volendo piacere a tutti, comandò che i vescovi isbanditi fossero ribanditi e che s'aprissono i templi de li Dei e fosse pace sotto la legge qualunque catuno volesse. E così Eusebio uscendo quindi, venne ad Atanasio, e contolli quante cose avea patite. Morto Giuliano e regnando Joviniano, addormentati gli ariani, Eusebio tornòe a Vercelle, e 'l popolo il ricevette con grande allegrezza. Ma regnando anca Valente, gli ariani ricominciarono a rampollare e attorneando la casa d'Eusebio e traendolo fuori di casa, rivescione per terra con le pietre l'uccisero, e così passò beatamente a Domenedio, e fue sepolto ne la chiesa ch'elli avea fatta fare. E dicesi ch'elli accattò questa grazia da Domenedio a la sua città per suoi prieghi che niuno ariano vi potesse vivere. E visse, almeno secondo la Cronica, LXXXVIII anni. Finìo intorno a gli anni Domini CCCL.
cap. 104, MaccabeiLi Maccabei sono sette fratelli con la loro madre da riverire e con Eleazaro sacerdote, i quali per non volere mangiare carne di porco per osservare la legge, sostennero generazioni di tormenti che non furono mai uditi, secondo che pienamente si contiene nel secondo libro de' Maccabei. Ed è da notare che la Chiesa de l'oriente fa festa d'abendue Testamenti, ma quella de l'Occidente non fa festa de' santi del Vecchio Testamento, però che discesero a l'inferno, trattone che de li Innocenti, però che in ciascuno di loro fu morto Cristo, e anche di Maccabei. E assegnasi quattro ragioni perché la Chiesa fa festa di questi Maccabei, avvegna che scendessero al limbo de lo inferno. La prima si è per lo vantaggio del martirio; ché perch'elli sostennero più che gli altri santi del Vecchio Testamento tormenti che mai non furono uditi per adrieto, però sono privilegiati che la loro passione degnamente si celebri da la Chiesa. Questa ragione si pone ne le Storie Scolastiche. La seconda si è per la rappresentazione del misterio, però che sette è numero d'universitade. Son significati in costoro tutti i Padri del Vecchio Testamento i quali furono degni d'essere fatto festa di loro, però ch'avvegna che la Chiesa non faccia festa di loro perché scesero al limbo, impertanto perché la moltitudine di novelli è entrata, in queste sette fa reverenza a tutti, perché sette, sì come è detto è, significa università. La terza si è per l'essemplo del patire, però che son posti per essemplo a i fedeli, acciò che per la loro costanzia i fedeli siano più animati al zelo de la fede, e siano più fortemente armati a sostenere per la legge del Vangelio, sì come quegli per la legge di Moisé. La quarta ragione si è per la cagione del tormento, però che per difendere la legge loro, sostennero cotali tormenti, sì come i cristiani sostegnono per difendere la legge del Vangelio. Queste tre sezzaie ragioni assegna il maestro Giovanni Beleth ne la Somma de li Offici capitolo V.
cap. 105, S. Pietro in VincoliLa festa di San Piero apostolo, che dice ad Vincula, per quattro ragioni si crede che fosse ordinata, cioè: in ricordanza de la liberazione di san Piero, in ricordanza de la liberagione d'Alessandro, per distruggere il costume de' pagani e per impetrare l'assoluzione de li spirituali legami. La prima cagione è in ricordanza de la liberagione di san Piero; però che, sì come dicono le Storie Scolastiche, Erode Agrippa ritornò a Roma e là fue molto familiarissimo a Gaio, nipote di Tiberio 'mperadore. Un die, stando Erode nel carro con Gaio, levò le mani a cielo e disse: "Dio 'l volesse che io vedesse la morte di questo vecchio, e te segnore di tutto 'l mondo". Queste parole udìo il carradore d'Erode, e manifestolle incontanente a Tiberio. Per la qualcosa indegnato Tiberio imperadore, rinchiuse Erode ne la carcere. Ne la quale stando un die appoggiato a uno albore, ne le cui ramora avea un gufo, un de' prigioni ch'era là entro, il quale sapeva d'indovinare, disse a lui: "Non avere paura, ché tosto sarai liberato e sarai tanto innalzato, che se ne maraviglieranno ad invidia gli amici e' conoscenti tuoi, e in questa prosperità morrai. Sì tosto come tu vedrai sopra te l'animale, di questa maniera non potrai vivere oltre cinque dì". Passato alcun tempo Tiberio morìo e Gaio fu fatto imperadore; il quale liberòe Erode de' legami de la prigione e, magnificatolo altamente, sì 'l mandò per re in Giudea. E poi che fu venuto, misse mano per affliggere alcuni de la Chiesa. E morto ch'ebbe santo Jacopo, fratello di san Giovanni, con la spada innanzi a i dì de l'azzimo, veggendo che ciò era a grado a' giuderi, ne i dì de l'azzimo prese san Piero e rinchiuselo ne la carcere, vogliendo dopo la Pasqua producerlo al popolo. Ma l'angelo di Dio gli apparve la notte e sciolselo maravigliosamente de' legami e fecelo andare liberamente a l'officio de la predicazione. Ma la malizia del re non sostenne indugio di vendetta, ché 'l seguente die fece venire a sé le guardie, acciò che li tormentasse con crudeli pene per lo fuggire di san Piero. Ma a ciò fare fu impedito perché lo scioglimento di san Piero non facesse nocimento altrui; ché andò ratto in Cesarea e ivi, percosso da l'angelo, fece mala morte. Ché, sì come racconta Josefo nel XIX libro de l'Antichitadi, essendo venuto a Cesarea e raunati a lui tutti ad un animo gli uomini di quella provincia, egli vestito d'un vestimento risplendiente, maravigliosamente lavorato ad oro e argento, nel cominciamento del die andò oltre a la piazza. Nel quale luogo, abbiendo il vestire de l'ariento ricevuti i primai razzuoli del sole, rimbalzava lo splendore e raddiava la luce; a coloro che ragguardavano dava splendore di metallo tremante, acciò che il terrore de lo sguardo ristrignesse il vedere a' ragguardanti e che per questo mentisse più alcuna cosa di lui d'arroganza l'artefice di quella opera che non era di natura d'uomo. E incontanente l'accordano le boci del popolo lusinghiero, che dicea così: "Insino ad ora t'abbiamo noi tenuto come uomo, ma per questo già confessiamo che tu se' sopra natura d'uomo". E dilettandosi ne li onori lusinghevoli e non rifiutando gli onori divini offerti a sé, ragguardando un die sopra una funicella stare sopra il capo suo l'angelo, cioè il gufo, messaggio de la sua morte prossimana, e ragguardando al popolo disse: "Oimè, ecco ch'io mi muoio vostro Dio". E sapea bene, come lo 'ndivino avea detto dinanzi, ched elli morrebbe infra cinque dì, e, incontanente percosso, cinque die rodendogli i vermini le sue interiora, cadde morto. Queste cose dice Josefo. Adunque in ricordanza di così maravigliosa liberagione da' vincoli del prencipe de li apostoli, e di così crudele vendetta che seguitòe nel tiranno incontanente, la Chiesa fa solenne la festa di san Piero a Vincula; onde ne la Messa si canta la Pistola che racconta come questa liberagione fu fatta. E secondo ciò pare che questa festa si doverrebbe chiamare di san Piero da' Vinculi. La seconda cagione perché questa festa fu ordinata, sì è perché Alessandro papa, il quale fu il sesto papa che resse la Chiesa dopo san Piero, e Ermete prefetto di Roma, il quale era convertito a la fede per lo predetto Alessandro, erano tenuti a guardia di Quirino tribuno, e da diversi luoghi. Disse il tribuno ad Ermete: "Maravigliomi di te che se' tenuto un savio uomo, come tu lasci l'onore de la prefettura e sogni d'altra vita". Al quale disse Ermete: "E io innanzi a questi anni scherniva tutte queste cose, e pensava che non fosse altra vita che questa". Rispuose Quirino: "Fammi dunque provare che tu sappi che sia altra vita, e tosto m'avrai per tuo discepolo". Al quale disse Ermete: "Santo Alessandro, cui tu tieni in pregione, egli il t'insegnerà meglio". Allora Quirino, maladicendo Alessandro, disse: "Io t'ho detto che tu mi facci provare questo, e tu mi mandi ad Alessandro, lo quale io tegno incatenato per le sue follie. Ma io raddoppierò la pregione sopra te, e anche sopra Alessandro; e se io potrò trovare lui con teco, o te con lui, veramente darò fede a le tue parole e a le sue". Sì che fece quello che disse, e fecelo assapere ad Alessandro. Stando dunque in orazione santo Alessandro, l'Angelo di Dio venne a lui e menollo a santo Ermete ne la carcere; e trovandoli Quirino insieme, maravigliossi molto; e narrando Ermete a Quirino come Alessandro avea risucitato il figliuolo suo morto, disse Quirino ad Alessandro: "Io abbo la mia figliuola gozzuta, c'ha nome Balbina, sì ch'io ti prometto di ricevere la fede tua, se tu puoi accattare da Domenedio santade a la mia figliuola". Al quale disse Alessandro: "Va ratto, e mena a la mia pregione la figliuola tua". Disse Quirino: "Da che tu se' qui, come ti potrò io trovare ne la tua pregione?" Rispuose Alessandro: "Va tosto, ché colui che mi menò qua, mi rimenerà tosto là". Sì che andò Quirino, e menò la figliuola sua a la pregione d'Alessandro e, trovandolo iveritto, sì li si gittò a' piedi. Allora la figliuola sua cominciò a basciare divotamente i legami di santo Alessandro, acciò ricevesse santade. A la quale disse Alessandro: "Non basciare, figliuola mia, queste mie catene, ma cerca diligentemente per le boghe di san Piero, le quali, se tu bascerai divotamente, riceverai santade". Sì che Quirino fece cercare diligentemente per le boghe di san Piero ne la pregione dov'elli era stato, e quando l'ebbe trovate, sì le diede a basciare a la figliuola. Quella sì tosto come l'ebbe basciate, ebbe incontanente perfetta santade. Allora Quirino chiedendo perdonanza, trasse Alessandro di pregione, ed elli con la sua figliola e famiglia e con molti altri, ricevette il battesimo. Allora santo Alessandro ordinò che si facesse questa festa in calendagosto, e fece la chiesa in onore di san Piero, ne la quale ripuose i ferri suoi, e chiamolla san Piero ad Vincola. In questa solennitade corre molta gente a la detta chiesa e iveritto bascia il popolo i legami di san Piero. La terza cagione perché questa festa fu ordinata, dice Beda questa: "Ottaviano imperadore e Antonio, congiunti insieme per parentado, divisono così tra loro lo 'mperio di tutto il mondo, che Ottaviano possedesse ne l'occidente la Italia e la Francia e la Spagna, e Antonio ne l'Oriente l'Asia e Ponto e Africa". Antonio, ch'era lascivo e carnale, abbiendo per moglie la serocchia d'Ottaviano, sì le diede commiato e tolse per moglie Cleopatra, reina d'Egitto. Per questa cosa indegnato Ottaviano, con gente armata si misse andare in Africa contra Antonio e vinselo in tutto. Allora Antonio e Cleopatra, vinti fuggirono e per molto dolore s'uccisero loro medesimi. Sì che Ottaviano distrusse il regno d'Egitto e fecelo provincia di Roma. Quindi andò in Alessandria, e spogliandola di tutte ricchezze, sì le trasportòe a Roma, onde in tanto accrebbe la repubblica che per uno danaio si desse quello che prima si vendea quattro. E però che le civili battaglie aveano molto guasta Roma, in tal modo la rinnovò, che disse: "Io la trovai a mattoni, io la lascio di marmo". Per ciò dunque che tanto accrebbe la Repubblica, prima di tutti fu chiamato Augusto; onde da lui sono detti li 'mperadori Augusti, i quali soccedettono a lui ne lo 'mperio, sì come da Giulio Cesare, suo zio, sono appellati Cesari. Onde questo mese d'Agosto, il quale prima era chiamato Sestile, perché il sesto mese dopo Marzo, il popolo lo intitolò del suo nome, e chiamollo Augusto. Sì che in ricordanza di quella vittoria, la quale Ottaviano ebbe il primo die d'Agosto, tutt'i romani facevano molto solenne questo die infino al tempo di Teodogio imperadore, il quale cominciò a regnare ne gli anni Domini CCCCXXVI. Adunque Eudogia, figliuola del detto Teodogio imperadore, moglie di Valentiniano, andò in Gerusalem per boto, là dove un giudeo l'offerse per grande presente due catene, con le quali san Piero apostolo era stato legato sotto Erode. Essendo dunque tornata a Roma e veggendo i romani fare festa in calendagosto per onore d'uno imperadore pagano, dolendosi che cotanto onore si facesse a uomo dannato, pensando ancora che non li potrebbe avere ritratti leggermente da le usanze, pensando ordinòe che 'l guardare di quello die stesse pure fermo, ma facessesi per onore di san Piero, e che tutto il popolo chiamasse quello die ad Vincula. Avutone dunque ragionamento con san Pelagio papa, indussero il popolo, con lusinghevoli confortamenti, che dimenticassono la memoria del prencipe de' pagani e facessesi festereccia ricordanza del prencipe de li apostoli. La quale cosa essendo piaciuta a tutti, mostrò le catene che avea recate di Gerusalem a tutto il popolo. E 'l Papa mostrò al popolo quella catena e offerse, con la quale il detto apostolo fue incatenato sotto Nerone. E accompagnata questa con quella, sì miracolosamente fu fatta una catena di tutte, sì come se fosse stata sempre una medesima. Onde il Papa e la reina ordinarono a Roma, che quel che la 'ndiscreta religione de gli uomini faceva ad uno uomo dannato pagano, mutandolo in meglio, il facesse a san Piero prencipe de li apostoli. Sì che i detti legami il papa e la reina puosero ne la chiesa di san Piero ad Vincula, e dotorolla di molti doni e grandi privilegii, e ordinò che 'l detto die si celebrasse per tutto il mondo. Insino qui dice Beda; lo stesso dice Sigberto. Ma di quanta vertude questa catena fosse, apparve negli anni Domini CCCCLXIV. Un conte, parente d'Ottone imperadore, fue sì crudelemente dinanzi a gli occhi di tutti tormentato e preso dal diavolo, che tutto quanto si lacerava con denti. Allora per comandamento de lo 'mperadore fu menato a Joanni papa per attornearli al collo la catena di san Piero. Ma essendoli posto un'altra catena al collo di quello impazzato, e non uscendo di quella veruno bene di sanamento, come quella che non avea in sé vertù veruna, a la perfine fu tratta fuori la vera catena e posta al collo de lo 'ndemoniato. Ma il diavolo non potette sostenere il peso di cotanta vertude, ma, gridando, incontanente si partì da lui. Allora Teodorico, vescovo di Men, prese quella catena e affermò che per veruno modo non la lascerebbe se le mani non gli fossero mozze. Essendo dunque nata grande contenzione sopra ciò tra 'l vescovo da una parte e 'l papa e gli altri cherici da l'altra, a la perfine lo 'mperadore pacificòe questa tencione, e 'l vescovo impetròe dal Papa uno anello di quella catena. Narra Mileto ne la Cronica sua, e ciò si narra anche ne la Storia Tripartita, che in questi dì apparve uno grande drago ad Epiro, ne la cui bocca isputando Donato vescovo, il quale era uomo di grande vertude, immantanente l'uccise; ma prima li disegnòe la Croce con le dita dinanzi a la faccia sua e mostrolla a lui, lo quale appena poterono tirare sette paia di buoi al luogo dove si dovea ardere, acciò che per lo suo mal fiato non si corrompesse l'aere. Anche dice quei medesimo, ed è scritto ne la stessa Storia Tripartita, che in Creta il diavolo si puose allora in figura di Moisé, il quale raunando da ogne parte i giuderi sopra uno grande traboccamento del monte, sì li menòe presso al mare; e promettendoli di menarli a la terra di promissione con i piedi asciutti, andando elli innanzi, sì n'affogò molti sanza novero. Onde si crede che 'l diavolo indignato perché, a cagione di giudei che avevano dato la catena a la regina, cessòe il plauso d'Ottaviano, vendicossi di costoro. E molti di loro che camparono, volaro a la grazia del battesimo. E con ciò sia cosa che quello monte soprastesse a grande chinate e coloro si rivolgessero, quelli dinanzi furono morti, sì perché furono lacerati da pietre taglienti ed agute, sì perché affogarono nel mare. Volendo gli altri fare quello medesimo e non sappiendo quello che fosse intervenuto a' primai, ma alquanti pescatori, che passavano indi, raccontarono a coloro il male ch'era addivenuto a quelli e così quelli si convertirono. Queste cose si contegnono ne la Storia Tripartita. La quarta cagione perché questa festa fu ordinata si è questa: però che 'l Signore assolvette miracolosamente san Piero da i legami, e diede a lui podestade di legare e d'assolvere noi che siamo temuti e obbligati da' legami de' peccatori e abbisognamo d'essere assoluti. E però gli facciamo onore ne la solennitade che si chiama ad Vincula che, com'elli meritòe d'essere assoluto e come ebbe podestade dal Signore da potere assolvere, così elli ci assolvea da' legami de' peccati. Che questa ultima cagione che detta è, fosse alcuna de le quattro, agevolemente se ne puote altri accorgere chi vede la Pistola che narra l'assoluzione da i legami fatta in san Piero apostolo; e 'l Vangelo narra la podestà d'assolvere conceduta a lui; e l'orazione de la festa d'oggi che addomanda la Chiesa che noi siamo assoluti da' legami de' nostri peccati. E che per le chiavi ch'elli ricevette assolva alcuna volta coloro che si debbono dannare, assai appare in uno miracolo che si legge nel libro de' Miracoli de la Vergine Maria e si dimostra. A la città di Colognale nel monasterio di san Piero, era alcuno monaco lieve e carnale e lascivo. Costui morendo di morte subitana, i dimoni l'accusavano e gridavano contra lui tutte maniere de' peccati. L'un diceva: "Io sono l'avarizia tua, per la quale così spessamente disiderasti contro al comandamento di Dio". L'altro gridava: "Io sono la vanagloria, per la quale tu t'aggrandisti appo gli uomini vantando". L'altro dicea: "Io sono la bugia, ne la quale mentendo peccasti". E così faceano gli altri peccati simigliantemente. E per contrario alcune buone opere ch'elli avea fatte, lo scusavano e dicevano: "Io sono l'obbedienza che tu facesti a' maggiori tuoi spirituali; io sono il canto de' Salmi che tu cantasti spesse volte a Domenedio". San Piero, di cui questi era monaco, andò a pregare Domenedio per lui. Al quale rispuose il Signore: "Or non disse il profeta ispirato da me: "Messere, chi abiterà nel tabernacolo tuo, ovvero chi si riposerà nel monte santo tuo? Chi entra sanza macchia e adopera giustizia, ecc. Come dunque può essere questi salvo, con ciò sia cosa che né elli sia entrato sanza macola, né non abbia adoperata giustizia?" Pregando per lui dunque san Piero e la vergine Maria, madre di Dio, questa sentenzia vi diede il Signore ched elli tornasse al corpo, e facessivi penitenzia. Allora immantanente san Piero con la chiave ch'elli tenea in mano, ispaventò il diavolo e misselo al fuggire. E l'anima di colui diede in mano d'uno ch'era stato monaco del detto monasterio, e comandolli ch'elli la rimettesse nel corpo. Il quale monaco adomandòe per merito del rimenamento a colui che tornava al corpo, che ogni die dicesse per lui il Salmo: "Misere mei, Deus", e che nettasse spesso la sepoltura sua. E quegli ritornando da morte a vita, raccontò a tutti quelle cose che gli erano intervenute da san Piero.
cap. 106, S. Stefano papaStefano papa, abbiendo convertiti molti de' pagani con parole e con essemplo di vita e abbiendo seppellito molti corpi di santi martiri, con sommo studio fu mandato caendo da Valeriano e da Galieno imperadori, ne li anni Domini CCLX, per fare sacrificare lui e' cherici suoi, od eglino li punirebbero con diversi tormenti. E missero bando che chiunque li manifestasse, possedrebbe tutto il loro avere. Per la qualcosa diece de' suoi cherici incontanente furono presi e, sanza neuna audienza, furono dicollati. E 'l seguente die fu preso papa Stefano e menato al tempio di Marte per farlo adorare ivi l'idolo, od elli riceverebbe la sentenzia del capo. Ma quando fu entrato nel tempio ed ebbe pregato il suo Domenedio che distruggesse quello tempio, immantanente cadde grande parte del tempio, e tutta la moltitudine per la grande paura fuggìe, ed elli andòe al cimiterio di santa Lucina. La quale cosa udendo Valeriano, mandò a lui cavalieri più che primai, i quali vegnendo a lui, sì 'l trovarono che dicea Messa e incontanente lui non pauroso e compiente le cose cominciate devotamente, sì lo dicollarono in su la sedia sua de la Messa.
cap. 107, Ritrovamento s. StefanoIl trovamento del corpo del primo martire santo Stefano si narra che fosse ne li anni Domini CCCCXVII, il settimo anno d'Onorio prencipe. E truovasi il trovamento di lui e la traslazione e 'l ricongiugnimento. Il ritrovamento fue in questo modo. Un prete ch'avea nome Luciano, nel territorio di Gerusalem, lo quale Gennadio ricorda tra li uomini illustri, scrisse queste cose, e dice che uno venerdì posandosi nel letto suo e poco meno che svegliato, un uomo vecchio di lunga statura, con bello volto e con la barba lunga, vestito di bianco, nel cui vestimento erano insieme tessute gemme d'oro e croci, calzato di calzamenti dorati disopra, sì apparve a lui. Il quale, tegnendo una verga d'oro in mano, sì 'l toccò e disse: "Con grande diligenzia appalesa i nostri avelli, però che sconvonevolemente siamo riposti in dispetto luogo; or va dunque e di' a Giovanni, vescovo di Gerusalem, che ci ripogna in onorevole luogo, però che, con ciò sia cosa che 'l secco e la tribulazione abbia conquassato il mondo, per l'aiuto di noi hae Domenedio ordinato di fare misericordia al mondo". Rispuose Luciano prete: "Messere, chi se' tu?" E quelli disse: "Io sono Gamaliel che nutricai Paulo apostolo e insegna'gli la legge a i pie' miei. Colui che giace meco è santo Stefano, il quale fu allapidato da li giuderi, e gittato fuori de la città, perché fosse divorato da le bestie e da gli uccelli. Ma quegli il vietò al tutto, al quale il detto martire osservòe la fede intera e salva; ma io lo ricolsi con molta riverenzia e seppellilo nel mio avello nuovo. L'altro che giace meco è Nicodemo, mio nipote, il quale andò a Jesù di notte, e ricevette il santo battesimo da Piero e da Giovanni; per la qualcosa indegnati contra di lui i prencipi de' sacerdoti l'avrebbero morto, se non avessero lasciato per onore di noi. Ma pure lo rubarono di ciò ch'elli avea, e dispuoserlo dal principato, affliggendolo di molti tormenti, e lasciarolo come per morto. Costui, quando ebbi menato a casa mia, sopravvisse alquanti dì, e, morto che fue, sì 'l feci seppellire lungo i piedi di santo Stefano. E 'l terzo che giace meco sì è Abibas, mio figliuolo, il quale nel ventesimo anno de la sua etade ricevette il battesimo con meco e, stando vergine, emprese la legge con Paulo, mio discepolo. E la mia moglie Etea e Selemias mio figliuolo, i quali non volsero ricevere la fede di Cristo neente furono degni de la nostra sepoltura, ma altrove troverrai che sono seppelliti e i luoghi loro troverai che sono voti". Detto questo fatto san Gamaliel isparve. Quando Luciano si svegliò, pregò il Signore che se questa visione fosse fatta in veritade, sì gli apparisse anco la seconda volta e la terza. Sì che il seguente venerdì gli apparve come di prima, e dimandollo perch'egli avea annighittite queste cose che dette gli avea. "Messere, disse quegli, non l'ho annighittite, ma pregai il Signore che se questo fosse da Domenedio, sì mi apparisse tre volte". Disse a lui Gamaliel: "Imperò che tu hai pensato ne la mente tua se tu ci trovassi, come tu potresti discernere le relequie di ciascheduno per quelle cose ch'io ti propongo per simiglianza, t'insegnerabbo i luoghi e le relequie di ciascheduno". E mostrolli tre panieri d'oro e uno d'argento, i quali erano pieni l'uno di rose vermiglie e gli altri due di rose bianche. E 'l quarto paniere mostrò pieno di gruogo bianco; e disse Gamaliel: "Questi panieri sono i nostri luoghi, e queste rose sono le nostre reliquie. E 'l paniere di rose vermiglie è il luogo di santo Stefano, il quale solo fra noi meritòe d'essere coronato per martirii; gli altri due pieni di rose bianche sono i luoghi di me e Niccodemo, i quali con puro cuore perseverammo nel servigio di Cristo e ne la confessione di lui, e 'l quarto paniere ch'è d'ariento pieno di gruogo bianco, si è d'Abibas, mio figliuolo, il quale fu fiorito di bellezza di verginità, e netto uscìe del mondo". Dette queste cose anche isparve. E 'l venerdì de la seguente edima sì gli apparve adirato, e ripreselo gravemente de lo indugio e de la nighienza. Sì che Luciano andò immantanente in Gerusalem, e raccontòe tutte cose per ordine al vescovo Giovanni. Sì che andarono dunque con altri vescovi, ch'eglino invitarono al luogo mostrato al detto Luciano, e quand'ebbero cominciato a cavare, la terra si commosse, e un soavissimo odore fu sentito. Al quale maraviglioso odore, per li meriti di questi santi, LXX uomini furono liberati da diverse infermitadi, e così con grandissima allegrezza trasportarono le relequie de' santi ne la chiesa di Sion, la quale è in Gerusalem, là dove santo Stefano arcidiacono usòe l'ufficio suo, e ivi le rispuosero onorevolemente. E in quell'ora scese una gran pioggia. E di questa visione e trovamento fa menzione Beda ne la Cronica sua. Questo trovamento di santo Stefano fu fatto il die che si fa festa de la sua passione, e la sua passione si dice che fosse fatta ivi in questo dì. Ma le feste sono mutate da la Chiesa per doppia ragione. La prima si è Cristo, però nacque in terra, acciò che l'uomo nascesse in cielo. E però fue convonevole cosa che a la nativitade di Cristo continuasse la nativitade di santo Stefano, il quale di prima ricevette martirio per Cristo, la quale cosa è a nascere in cielo, acciò che per questo si notasse che l'una seguitasse da l'altra, onde ne la Chiesa si canta di lui: "Ieri fu nato Cristo in terra, acciò che oggi nascesse Stefano in cielo". La seconda ragione si è perché la festa del trovamento si facea più solennemente che la festa de la sua passione, e questo si facea sì per la riverenza de la natività di Cristo, e sì per li molti miracoli che 'l Signore avea mostrati nel suo trovamento. Per ciò dunque che la sua passione è più degna che la sua invenzione, e per questo dee essere più solenne, però che la Chiesa traslatòe la festa de la sua passione a quello tempo nel quale s'abbia maggiore reverenzia. La traslazione sua, come dice santo Agostino, sì fue in questo modo che Alessandro, sanatore Costantinopolitano, andò in Gerusalem con la moglie, e fece un bellissimo oratorio al primo martire Stefano e, dopo la sua morte, si fece seppellire a lato al corpo suo. Sì che rivolti sette anni Giuliana, sua moglie, volendo ritornare nel paese suo, come quella che sosteneva molte ingiurie da' prencipi de' sacerdoti, sì ne volse riportare seco il corpo del marito. La quale cosa quando ebbe domandata al vescovo con molti prieghi, il vescovo l'offerse due casse d'argento, e disse: "Io non so quale si sia di queste la cassa del marito tuo". E quella disse: "Ben lo so io". E facendo un salto, abbracciòe il corpo di Stefano. E così credendosi torre il corpo del marito, sì le venne tolto il corpo di Santo Stefano. Ed essendo entrata ne la nave col corpo, furono uditi cantare angeli; e avevavi uno soavissimo odore; le dimonia gridavano e facevano levare grande tempesta, dicendo: "Guai a noi, ché 'l primo martire Stefano passa quinci battendoci di crudele fuoco". Sì che temendo i nocchieri che la nave non rompesse, chiamarono santo Stefano per loro aiuto, e immantanente apparve loro e disse: "Eccomi, non abbiate paura". E immantanente fu fatta grande bonaccia. Allora furono udite voci di dimoni gridare e dire: "Ispietoso prencipe, incendi la nave, però che l'avversario nostro Stefano sì v'è dentro". Allora il prencipe de' demoni mandò cinque demoni che incendessono la nave; ma l'angelo di Dio gli sospinse entro in mare in profondo; e quando furono venuti a Calcedonia, le demonia gridavano: "Il servo di Dio viene, il quale fu lapidato da malvagi giudei". E così giunsero in Costantinopoli sani e salvi, e ripuosero con molta reverenza il corpo del santo in una chiesa. Insino qui dice santo Agostino. Il congiugnimento del corpo di santo Stefano con quello di santo Lorenzo fu in questo modo. Intervenne che Eudosia, figliuola di Teodosio imperadore, era gravemente tormentata dal demonio. La quale cosa essendo mandata a dire al padre a Costantinopoli, comanda ch'ella fosse menata là per farla toccare a le reliquie di santo Stefano primo martire. E 'l dimonio gridava in lei: "Se Stefano non viene a Roma, non uscirabbo quinci, ché questo è il volere de li apostoli". Abbiendo udito ciò lo 'mperadore, impetrò dal chericato e dal popolo di Costantinopoli che dovessero dare il corpo di santo Stefano a' Romani, e torre quello scambio il corpo di san Lorenzo. E sopra ciò scrisse lo 'mperadore a Pelagio papa, il quale, di consiglio di cardinali, consentette a la domanda de lo 'mperadore. Eletti dunque cardinali per mandare a Costantinopoli, acciò che ne portassero il corpo di santo Stefano a Roma, vennero i Greci per lo corpo di san Lorenzo. Traslatandosi dunque il corpo di santo Stefano di Costantinopoli, i Capovani ricevettero ne la loro cittade con grandissimo onore il detto corpo santo e, per li loro divoti prieghi, impetrarono il braccio ritto di santo Stefano; allora fecero al suo onore la chiesa metropolitana. Quando furono giunti a Roma, volendo portare il corpo a la chiesa di san Piero ad Vincula, i portatori stettero fermi, non potendo andare più innanzi, e 'l dimonio gridava per la bocca de la donzella: "Indarno v'affaticate, però che non ha eletto di stare qui, ma appo il suo fratello Lorenzo". Fue dunque portato là il corpo, e al toccamento di quello, fu liberata la donzella dal dimonio. Allora san Lorenzo, volendo fare letizia e allegrarsi de l'avvenimento del fratello suo, cansossi da una parte del sepolcro, e lasciò vota l'una metà del luogo al suo fratello Stefano. Quando i Greci missero mano per torre il corpo di san Lorenzo, caddero a terra come per morti, ma pregando Iddio per loro il Papa col chericato e col popolo di Roma, a grande pena tornarono in sé medesimi a l'ora del vespro; ma tutti quanti morirono infra dieci dì; e' latini ch'aveano acconsentito a ciò, diventarono farnetichi e non poterono mai essere sanati infino a tanto che i corpi de' santi non furono sotterrati insieme. Allora fu udita una voce da cielo, che disse: "O bene avventurata Roma, la quale il corpo di Lorenzo spagnuolo e di Stefano di Gerusalem rinchiudi in uno sepolcro, pegni gloriosi!" Questo congiugnimento de' corpi fu fatto VIII dì uscente aprile circa ne gli anni Domini CCCCXXV. Racconta santo Agostino nel ventiduesimo libro de la Città di Dio sei morti risuscitati al priego di santo Stefano. Ciò sono questi: un fanciullo, il quale giacendo morto in modo che le dita grosse già erano collegate, chiamato che ebbero sopra lui il nome di santo Stefano, immantanente fu risuscitato. Anche uno fanciullo tutto ismicolato da uno carro, portato che l'ebbe la madre a la chiesa di santo Stefano, sì lo riebbe sano e vivo. Anche una monaca essendo in sul trabocchetto de la morte, portata ch'ella fu là, mandò fuori lo spirito; poi incontanente, veggendola tutti e maravigliandosi, si levò ritta sana ed allegra. Anche una fanciulla, ad Ippone, la cui gonnella avendo il padre portata a la chiesa di santo Stefano, e gittatola poscia a la figliuola addosso, ch'era morta, quella incontanente si rilevò. Anche un giovane a Ippone, essendoli unto il corpo de l'olio di santo Stefano, incontanente risuscitò. Anche uno fanciullo, il quale essendo portato a la chiesa di santo Stefano morto, chiamarono l'aiuto di santo Stefano sopra lui, e ritornò a vita. Di questo martire prezioso dice così santo Agostino: "Questo martire fue revelato da Gamaliel vestito d'una bianca stola, fue lapidato da Paulo spogliato, Cristo involto in pannicelli l'hae arricchito e coronato di pietre preziose". Anche: "In santo Stefano risplendette la bellezza del corpo e 'l fiore de l'etade giovenile e bello parlare d'uomo predicatore e la sapienzia de la santissima mente e l'operazione de la divinitade". Anche dice quello medesimo: "Forte colonna di Dio fue santo Stefano quando tra le mani piene di pietre tenuto come da forti tanaglie, stando bene fondato ne la fede era infiammato, era preso e percosso, menato, costretto, accresciuto, battuto e non soperchiato". Anche dice elli medesimo sopra quella parola scritta ne li Atti de li Apostoli "Dura cervice": "Questi non lusinga, ma quindi è prodotto; non tocca, ma trae; non teme, ma accende". Anche dice e' medesimo: "Pon mente a Stefano tuo conservo: uomo era come se' tu; de la massa del peccato era, come tu; di quello medesimo prezzo ricomperato che tu; diacano era, il Vangelo leggea, lo quale leggi tu e odilo, e ivi truovò scritto: 'Amate i nimici vostri'. Egli lo 'mprese leggendo, e adempiette ubbidendo".
cap. 108, S. DomenicoDomenico, capitano e padre glorioso de l'Ordine de' frati Predicatori, secondo la carne fue natìo de le contrade di Spagna d'una villa che si chiama Calaroga del vescovado d'Exoma, il cui padre ebbe il suo nome Felice e la madre Giovanna. La quale madre, innanzi che questi nascesse, vidde in sogno ch'ella partoriva nel ventre uno catello che tenea in bocca una faccellina accesa; il quale catello, uscendole del ventre, tutta la facciata del mondo incendeva. E anche a una gentile donna, la quale il tenne al battesimo, parea che 'l fanciullo Domenico avesse ne la fronte una stella splendiente, la quale alluminava tutto il mondo. E stando elli ancora fanciullino e sotto la cura de la balia, compreso fu spesse volte lasciare il suo letto e giacere in su la terra ignuda. A la perfine mandato a lo studio a Palenzia, diece anni stette che per l'amore d'apprendere sapienzia non assaggiò vino. Nel quale luogo, essendo una grande carestia venuta e forte fame, tutt'i libri e masserizie vendéo e 'l prezzo che n'ebbe diede tutto a' poveri. Crescendo già la sua nominanza, il vescovo d'Exoma il fece ne la sua chiesa calonaco regolare, e poi fatto specchio di vita a tutti, fu ordinato soppriore di calonaci. E intendeva il dì e la notte a leggere e orare, pregando Iddio continuamente ch'elli degnasse di dare questa grazia ched e' si potesse alcuna volta dare tutto alla salute del prossimo. E leggendo in grande studio nel libro de le Collazioni de' Santi Padri, molte perfezioni n'apprese. Ed andando col detto vescovo a Tolosa, comprese che l'oste suo era corrotto di resia, lo quale convertìo a la fede di Cristo, e allora quasi presentòe a Domenedio un covone de la prima ricolta de la mietitura che dovea venire. Leggesi ne' libri che trattano de l'opere de' conti di Monforte, che un die, avendo predicato san Domenico contra gli eretici, l'autoritadi, le quali avea proposte, sì recò scritte, e diede quella cedola ad uno eretico che vi dovesse diliberare suso. Ed essendo in quella notte raunati gli eretici al fuoco, trasse quello eretico fuori la cedola ch'elli avea avuta da san Domenico, e i compagni gli dissero che la gittassono nel fuoco, e se intervenisse ch'ella ardesse, la loro fede, anzi perfidezza, sarebbe oscura, ma se non potesse ardere, la fede de la romana Chiesa sarebbe vera. Per la quale cosa la cedola fu gittata nel fuoco. E stata che vi fu entro alquanto, saltonne ratto fuori sanza essere danneggiata dal fuoco. Maravigliandosi tutti, uno più duro de li altri disse: "Sievi gittata dentro un'altra volta". E anche ne saltò fuori non arsa. Anche disse quegli: "Siavi gittata la terza volta, e allora sanza dubbio conosceremo la fine del fatto". E anche ne saltò fuori non arsa, né danneggiata. Ma gli eretici, permagnendosi pur ne la loro durezza, fermarono tra loro medesimi con distrettissimo giuramento che neuno appalesasse questo fatto. Ma uno cavaliere, che v'era presente e appoggiavasi alquanto a la nostra fede, manifestòe poscia questo miracolo; e questo fue a Monte Reale. Crescendo il malore de la resia ne le parti de li Albigesi, ed essendo una grande disputazione a san Giove, e diputati uomini da l'una parte e da l'altra che dovessono sentenziare, nel quale luogo fu presentato un libro dov'era scritta la fede di santo Domenico e da l'altra parte il libro de' Paterini. Ma scordandosi insieme i sentenziatori, ordinaro tra loro di gittare entro il fuoco e' libri de l'una parte e da l'altra, e quello cotale che venisse che non ardesse sanza dubbio conterrebbe la vera fede. Gittati adunque in uno grande fuoco acceso i libri di ciascuno, il libro de li eretici arse immantanente, ma quello di san Domenico non solamente non fue danneggiato, ma a la lunga saltò fuori del fuoco. Gittatovi entro la seconda volta e la terza, tuttavia ne saltò fuori sanza essere arso. Tornando tutti coloro a casa loro e morto il vescovo d'Osma, rimasevisi san Domenico con alquanti che s'appoggiavano a lui per annunziare costantemente contra gli eretici la parola di Dio. Ma e lo scherniano gli avversarii de la veritade, gittandoli addosso lo sputo e 'l fango e cotali cose vili, e legandoli la paglia dietro per ischernie. E quando il minacciavano de la morte, sanza neuna paura rispondeva così a loro: "Non sono io degno d'avere gloria di martirio, non ho meritato ancora questa morte". Per la quale cosa, passando per un luogo dove gli era posto agguato, non solamente sanza paura ma cantando allegro andava per la via; e coloro maravigliandosi di ciò, gli dicevano: "Or non hai tu paura de la morte che avresti tu fatto, se noi t'avessimo preso?" E quegli rispuose: " Io v'avrei pregato che voi non mi uccidesse subitamente di morte tostana, ma che a poco a poco m'aveste mozze tutte le membra, poscia da che voi m'aveste poste innanzi a gli occhi miei le particelle de le membra così tagliate, e cavandomi gli occhi di capo a l'ultimo, essendo il corpo così mezzo vivo e mezzo morto, l'avessi così lasciato voltolare nel sangue suo, o io v'avrei detto che voi m'uccideste a vostro senno". Abbiendo lui trovato uno che, per la molta povertade in ch'egli era, s'era, accostato a le brigate de' Paterini, fermòe di vendere se medesimo, acciò che del prezzo ch'avesse di se medesimo, tollesse via da colui la cagione de la povertade e liberasselo venduto sotto errore. E avrebbelo fatto; se non che la misericordia di Dio provvide a colui per altra maniera a la sua povertade. Un'altra volta ch'una femmina gli contava d'un suo fratello con grande lamento, dicendo ch'era in prigione de' Saracini e che non l'era rimaso veruno consiglio per camparlo, quegli, per grande compassione ch'ebbe proferse se medesimo ad essere venduto per ricomperare il pregione; ma non lo permisse Dio, che l'avea preveduto più necessario a ricomperare spiritualmente molti pregioni. Albergando lui una volta ne le parti di Tolosa in casa d'alcune donne ingannate da' Paterini, per mostramento di santità tutta la Quaresima vi digiunò in un solo pane e acqua fredda e egli e 'l compagno, acciò che in questo modo rintuzzasse così chiovo con chiovo. E vegghiando la notte in orazione, quando la necessitade lo strignea, l'affaticate membra richinava a dormire in su una nuda tavola; e così fu fatto che indusse quelle donne a conoscimento de la veritade. Poscia cominciò a pensare di fare uno Ordine, che avesse questo officio d'andare per lo mondo predicando e ammonendo de la fede di Cristo contra gli eretici. Essendo dunque stato X anni ne le parti di Tolosa; dopo la morte del vescovo d'Exoma infino al tempo che si dovea fare il concilio di Laterano, andòe a Roma al Concilio generale con esso Folcone, Vescovo di Tolosa; e stando a Roma adomandòe a papa Innocenzio che fosse confermato a lui e a' suoi successori l'Ordine che fosse detto de' Predicatori e avesse il fatto. E mostrandosi il Papa malagevole a ciò fare, una notte il detto Papa vidde in sogno che la Chiesa di Laterano pareva che volesse ruvinare di subito gravemente; e veggendo ciò il Papa con grande tremore, soccorrea da l'altro lato il servo di Dio Domenico, e tutto quello dificio che dovea cadere, sostenea mettendovi sotto le spalle. Sì che isvegliandosi, e intendendo la visione quel che volea dire, mandò per lo servo di Dio Domenico, e accettòe allegramente la sua petizione, confortandolo che tornasse a i frati ed eleggessonsi alcuna regola approvata; e così tornando a lui, ne riprometterebbe la confermazione al suo volere. Sì che tornato a' frati suoi, manifestò loro la parola del sommo Pontefice. Ora erano per novero e' frati XVI, i quali, chiamando l'aiuto de lo Spirito Santo, tutti in concordia elessero la regola di santo Agostino, dottore e grande predicatore; quelli che insieme doveano essere predicatori per nome e per opera prendendo a sé alcune usanze di più stretta vita sopra quella regola; le quali usanze ordinarono d'osservare a loro per modo di costituzioni. Ma infrattanto, morto papa Innocenzio e messo nel papato messere Onorio, impetròe san Domenico dal detto Onorio la confermazione de l'Ordine ne gli anni Domini MCCXVI. Stando dunque a Roma ne la chiesa di san Piero, e pregando Domenedio che dilatasse l'Ordine suo, vidde venire a sé li gloriosi prencipi de li apostoli, san Piero e san Paulo, il primo de' quali, cioè san Piero, parea che li desse un bastone, e san Paulo uno libro; e dicevano a lui: "Or va e predica, ché Dio t'ha eletto a questo mestiere". E incontanente quasi in una ora di tempo gli parea vedere i figliuoli suoi andare per lo mondo, spargendosi a due a due, predicando la parola di Dio; per la quale cosa, ritornando elli a Tolosa, venne spargendo i frati suoi e alcuni ne mandò ne la Spagna, alcuni a Parigi e alcuni a la perfine a Bologna, ed egli si ritorno a Roma. Uno monaco innanzi che fosse trovato l'Ordine de' Predicatori, levato in estasia, vidde la beata Vergine inginocchiata e con le mani giunte, che pregava il figliuolo suo per l'umana generazione; il quale dando sempre commiato a la pietosa madre, a la perfine quella pure perseverando, elli le disse così: "Madre mia, che posso io, o che debbo più fare? Io mandai li patriarci e ' profeti, e poco s'ammendarono; venni io a loro; poscia mandai gli apostoli, e me e loro uccisero. Mandai i martiri e ' confessori e ' dottori, e non consentirono a loro. Ma però che non è licita cosa che a te sia detto nulla di disdire, io darò loro i miei predicatori, per li quali possano essere alluminati e mondati; e se non mi varrà, sì verrabbo contra loro". Una simigliante visione vidde un altro in quello tempo, che XII abbati de l'Ordine di Cestella furono mandati a Tolosa contra gli eretici. Che quando il figliuolo ebbe riposto, come detto è disopra, a la madre che 'l pregava, la madre gli disse: "Buono figliuolo, tu non dei fare secondo la loro malizia, ma secondo la tua misericordia". Allora il figliuolo vinto per gli prieghi de la madre, sì disse: "Al tuo volere farò questa misericordia con loro, che io manderò loro i miei predicatori che gli ammoniscano e informino al bene, e se non si correggeranno, già non perdonerò loro". Un fra' Minore, ch'era stato grande tempo compagno di san Francesco, a più frati de l'Ordine de' Predicatori raccontò questo fatto che, perseverando san Domenico a Roma appo 'l Papa per la confermazione de l'Ordine suo, stando la notte in orazione vidde per ispirito Cristo stare in aere, e tenea tre lance in mano, e menavale contra 'l mondo. E la madre soccorse ratto e dimandollo quello che volesse fare, e quelli disse: "Ecco che tutto il mondo è pieno di superbia e di concupiscenzia e d'avarizia; e però voglio uccidere il mondo con tre lance". Allora la Vergine, inginocchiandosi a' piedi, disse: "Figliuolo carissimo, abbi misericordia e tempera la tua giustizia con la misericordia". A la quale disse Cristo: "Or non vedi quante ingiurie mi son fatte?" E quella rispuose: "Tempera, figliuolo mio, il furore un pochettino; abbo il fedele servo e valente campione; il campione, il quale discorrendo in ogne parte, vincerà il mondo e metterallo sotto il tuo dominio. E uno altro servo gli darò in aiuto che combatterà con esso lui insieme". E 'l figliuolo le disse: "Ecco ch'io aumiliato ho ricevuta la faccia tua; ma io vorrei vedere coloro che tu vuoli mandare a sì grande officio". Allora ella presentò santo Domenico a Cristo. A la quale Cristo: "Veramente è buono e valente campione questi, e con grande studio farà quelle cose che hai detto". Offerseli anche santo Francesco, e costui lodò Cristo come avea lodato il primo. Considerando adunque san Domenico ne la visione sua diligentemente il compagno suo, lo quale e' non avea veduto per innanzi, l'altro die trovato che l'ebbe ne la chiesa, per quello ch'avea udito e veduto la notte sì 'l riconobbe sanza essergli mostrato, e gittandolisi in braccio e basciandolo, sì disse: "Tu se' il compagno mio; tu tornerai insieme con meco; perseveriamo insieme e niuno avversario avrà virtù sopra noi". E contolli per nome la detta visione; e da quell'ora si fecero d'un cuore e d'una anima in Domenedio. La qualcosa comandaro che s'osservasse ne' loro discendenti perpetualemente. Avendo elli ricevuto a l'Ordine uno novizio pugliese, alcuni, ch'erano stati suoi compagni al mondo, il pervertirono tanto che, fermandosi di tornare al secolo, per tutti i modi domandava i panni suoi secolareschi. Udendo ciò san Domenico incontanente si diede a l'orazione. Avendo dunque già spogliato il detto giovane de' vestimenti religiosi e messagli già la camicia sua, que' cominciò a gridare con gran boce e a dire: "Ecco ch'io ardo tutto, ecco ch'io bollo tutto, oimè! traetelmi, traetelmi questa maladetta camiscia, che m'arde tutto quanto!" Sì che per veruno modo non poté posare infino a tanto che non gli trassono la camiscia, e rivestillo un'altra volta i panni di religione, e rimiserlo ne la chiostra. Essendo san Domenico a Bologna una volta che i frati erano già andati a dormire, un frate converso cominciò ad essere angosciato dal demonio. Avendo ciò udito frate Rinieri Lausanense, suo maestro, brigossi di dirlo a san Domenico; e san Domenico comandò che fosse portato ne la chiesa dinanzi a l'altare. Essendovi a grande pena portato da diece frati, disse san Domenico: "Io ti scongiuro, misero, che tu mi dichi perché tu angosci la criatura di Dio e 'l perché e 'l come tu ci entrasti". E quelli rispuose: "Io il tribolo perché l'ha meritato, ched elli bevve ieri in città sanza licenza del priore, e non vi fece il segno de la croce; onde io entrai allora in lui in ispezie di beveraggio". E trovato fue per veritàe che così avea beuto. Dette queste parole fu sonato il primo cenno a mattutino; udito che l'ebbe il diavolo che parlava in lui, sì disse: "Oggimai non ci posso più stare da che l'incappucciati si levano". E così a l'orazione di san Domenico fu costretto d'uscirne. Abbiendo lui passato un fiume ne le contrade di Tolosa, i libri suoi non avendo luogo dove si potessono conservare, sì caddero entro il fiume; e 'l terzo die uno pescatore, gittandovi un amo entro, quando si credette avere preso uno grande pesce e quelli ne trasse fuori que' libri al postutto sì sanza male veruno, come fossero stati guardati in alcuno armaro con molta diligenzia. Essendo venuto ad uno monasterio, e posandosi e' frati, per non volere molestarli, fatta che ebbe l'orazione, con le porte serrate entrò dentro al monasterio con esso il compagno. Anche fu trovato quiviritto che, essendo stato con uno converso de l'Ordine di Cestella in una battaglia d'eretici, una sera essendo venuti ad una chiesa e trovatola serrata, fatta ch'ebbe san Domenico l'orazione, subitamente vi si trovarono dentro, e tutta quella notte vegghiarono in orazione. Dopo la fatica de l'andare, innanzi che fosse capitato a l'albergo, se per avventura trovava alcuna fonte, costumava di spegnere la sete, acciò che in casa de l'oste per più bere non cadesse in veruna colpa. Uno scolaio, ch'era molto carnale, venne per una festa a casa de' frati di Bologna per udire la Messa; e avvenne ch'allora diceva la Messa san Domenico. E quando fu venuto il tempo dell'Offerere, il detto scolaio andò, e basciolli la mano con molta divozione. Quando gli ebbe dato il bascio, tanto odore ne sentì uscire fuori di quella mano, quanto mai non avea sentito a la sua vita, e d'allora innanzi ristrinsesi maravigliosamente in lui il caldo de la lussuria, che colui che prima era vano e sdrucciolente in peccato, divenne poscia continente e casto. O di quanta mondizia di puritate isplendea la sua carne, il cui odore così mirabilemente purgava le sozzure de la mente! Un prete, vedendo alcuna volta san Domenico con i suoi frati così fervente soprastare a la predicazione, fermossi d'accostarsi a loro, pure ch'elli avesse il Testamento Nuovo necessario a lui a predicare. Pensando lui ciò, eccotili innanzi un giovane che portava sotto il vestimento il Testamento Nuovo vendereccio, e 'l prete il comperò incontanente con grande desiderio; ma dubitando lui ancora un pochetto, fece priego a Domenedio, e fatto il segno della Croce in su 'l libro di fuori, aperse il libro del Testamento Nuovo, e gittando gli occhi al primo capitolo che li venne a le mani, venneli a mano quella parola che fu detta a san Piero ne li Atti de li Apostoli: "Leva su e scendi e va con loro e non dubitare di nulla, però ch'io gli ho mandati". E quelli si levò tosto e accostossi a loro. Uno maestro in teologia, illustre per scienzia e fama, istando a Tolosa e provvedendo le sue lezioni, una mattina anzi die abbattuto dal sommo, inchinò un poco il capo in su la caffera, e fulli mostrato in visione che sette stelle gli fossono appresentate. Il quale maravigliandosi molto de la novità di così fatto presente, subitamente le dette stelle crebbero tanto in lume e in quantitade di grandezza, che tutto il mondo alluminavano. E quelli isvegliandosi, sì pensava molto che ciò volesse significare; ed ecco quando fu entrato ne la scuola e avea cominciato a leggere, san Domenico e sei frati con lui di quello abito, andarono umilemente al detto maestro e, dicendoli il loro proponimento, dissero di volere usare la scuola sua. E quelli ricordandosi de la visione, non dubitò che questi non fossero quelle stelle ch'elli avea vedute. Una volta che san Domenico era a Roma, uno maestro Reginaldo, diacano di santo Amiano d'Aurelia, il quale avea già letto cinque anni dicreto in Parigi, era venuto a Roma col vescovo d'Aurelia per passare lo mare. Ora avea costui per adrieto in proponimento di lasciare ogni cosa e d'intendere a predicare, ma non avea ancora veduto in che modo potesse ciò fare a compimento. E abbiendo saputo da uno cardinale, al quale elli avea già manifestato il volere suo, de l'ordinazione ch'era de l'Ordine de' Predicatori, ed abbiendosi fatto venire san Domenico, e rivelatoli il suo proponimento, fermossi da quell'ora d'entrare in quello Ordine. Non stette guari ch'una grave infermitade di febbre gli venne addosso, e al tutto fue isfidato del guerire. E perseverando san Domenico in orazione e pregando la beata Vergine, a la quale sì come a speziale padrona avea commessa tutta la rangola de l'Ordine, che almeno un poco di tempo degnasse di concederli questo maestro, ed eccoti subitamente la Reina de la misericordia accompagnata con due molto belle donzelle, e il maestro Riginaldo vegghiando e aspettandosi di morire, la vidde venire a sé visibilemente; e con allegra faccia disse a lui: "Adomandami ciò che tu vuogli e darolloti". E pensando lui quello che dovesse domandare, una de le dette donzelle gli disse che non chiedesse nulla, ma commettessesi al tutto nel volere de la Reina di misericordia. Quando quelli ebbe fatto ciò, ella stese la sua mano santa e unsele l'orecchie e 'l naso e la bocca e le mani e le tempie e le reni e' piedi d'uno unguento sanicativo ch'ella recòe seco, dicendo le formole de le parole a ogni untura. Quando venne a le reni, disse quella: "Siano strette le reni tue di cintura di castitade". A i piedi disse: "Io ungo li piedi tuoi ad apparecchiamento de l'evangelo di pace". E disse: "Di qui a tre dì ti manderò l'ampolla che ti darà pienamente santade". Allora li mostrò l'abito de l'Ordine, e disse: "Ecco, questo è l'abito de l'Ordine tuo". Questa medesima visione vidde simigliantemente san Domenico posto in orazione, tutta quanta. La mattina vegnente san Domenico ne venne a lui e trovollo sano e intese da lui tutto il modo de la visione e prese l'abito che la Vergine gli avea mostrato, ché i frati usavano prima pellicce disopra. E 'l terzo dì venne il servo di Dio e unse tanto il corpo di Reginaldo, che non solamente il caldo de la febbre, ma eziandio l'ardore de la concupiscenzia rasciugò sì in lui, che, sì come elli confessòe poscia, che da quell'ora innanzi non sentì pure i primai movimenti di lussuria. Questa visione vidde anche uno religioso de l'Ordine de l'ospedale con i suoi occhi, presente san Domenico, e maravigliossi. Questa visione palesò san Domenico a molti frati, massimamente dopo la morte di colui. Mandato dunque Reginaldo a Bologna, soprastava ardentemente a le predicazioni e cresceva il novero de' frati. Poscia fu mandato a Parigi e poscia pochi dì morì in pace. Un giovane nepote di messere Stefano da Fossa Nuova, cardinale, correndo uno cavallo, cadde in una fossa e funne tratto morto; e menato che fu a san Domenico, fue recato a la vita di prima per l'orazione di san Domenico. Ne la chiesa di san Sisti aveano i frati pattovito uno maestro di case; il quale, lavorando sotto una volta, ruvinò la volta addosso a costui e tutto quanto lo smicolò, e per lungo stare sotto le pietre rovinate si morìo. Ma il servo di Dio, san Domenico, poi che quelli fu tratto del fondaccio così morto, sì 'l si fece recare a sé e, per l'aiuto de le sue orazioni, sì 'l fece tornare a vita e a santade. Ne la stessa chiesa a Roma stando frati intorno a XL, fu trovato una volta che v'aveva poco pane, sì che san Domenico comandò che quello cotanto poco pane si dividesse e ponessesi in su la mensa; e mentre che catuno rompea il pezzuolo del pane con allegrezza, ed eccoti venire due giovani d'un abito e d'una simigliante forma, e entrati nel rifettorio con tovaglie a collo piene di pane, lo quale pane poi che l'ebbero offerto chetamente in capo de la mensa del servo di Dio san Domenico, sì subitamente si partirono, che non fu persona che potesse sapere da quindi innanzi né donde venissero, né dove n'andassero. Allora il santo padre Domenico, stendendo le mani, porgea il pane a' frati da ogne parte, dicendo loro: "Or mangiate, frati miei". Camminando alcuna volta san Domenico, era venuto un grande allagamento di pioggia, ed elli col segno de la Croce cacciò sì da sé e dal compagno tutta l'acqua che, fatto quasi un padiglione de la croce, mentre tutta la terra era innondata d'acqua, una sola gocciola non li toccò presso a tre cubiti di distanza. Una volta avendo elli passato un'acqua per nave ne le contrade di Tolosa, il nocchiere gli chiedeva il danaio per lo passaggio; al quale promettendo il servo di Dio lo reame del cielo per lo servigio che avea ricevuto da lui, dicendoli com'elli era discepolo di Cristo e non portava seco né oro né moneta, allora il nocchiere tirava costui per la cappa isforzatamente dicendo: "O tu mi lascerai, o tu mi pagherai il danaio". E 'l servo di Dio levò gli occhi in alto, e orando un poco fra se medesimo, ragguardando poi in terra e veggendo uno danaio in terra, che sanza dubbio Domenedio ve l'avea posto, ricolselo e diedelo al nocchiere: "Or tolli, disse quelli, quello che tu mi domandi, e lasciami andare in pace". Intervenne una volta camminando il servo di Dio, che s'accompagnò con lui uno religioso domestico di santità di conversazione, ma straniero di linguaggio e di parlare, sì che dolendosi che non si potea ricreare con lui a parlare insieme di Domenedio, a la perfine impetròe da Dio che potesse parlare l'uno il linguaggio de l'altro; e così, isvariatesi le parole l'uno a l'altro, tre dì s'intesero, ciò fue tutto il viaggio ch'egli aveano a fare insieme. Una volta gli fu menato uno imperversato da molte demonia; quelli tolse la stola e puoselasi a collo, poscia l'avvolse al collo de lo indemoniato e comandò a le demonia che, da indi innanzi, immantanente non l'angosciassero più. E le demonia cominciarono incontanente ad essere tormentati nel corpo de lo imperversato, e gridavano: "Lasciaci uscire; perché lasci tu tormentare noi qui e costrignere?" E quelli disse: "Io non vi lascerabbo se voi non mi date mallevadori di non tornarci mai". Dissero quelli: "Or che mallevadori ti possiamo noi dare?" E 'l santo: "I santi martiri, le cui corpora sono in questa chiesa". E le demonia dissero: "Noi non possiamo, però che i nostri meriti contradiano". Disse il santo: "E lui conviene pure dare, altrimenti io non vi lascerò liberi di questo tormento". Rispuosero le demonia: "Noi ci brigheremo di farlo". Poco stante dissero: "Ecco che abbiamo impetrato, avvegna che non siamo degni, che i santi martiri ci entrino per mallevadori". Dimandando lui che segnale avesse di ciò, dissero: "Andate a la cassa dove sono riposte le corpora de' santi martiri, e trovereteli volti sottosopra". Cercato fu di ciò, e così fu trovato come coloro aveano detto. Predicando lui una volta, alcune donne pervertite da li eretici, gittandolisi a' piedi, li dissero: "Servo di Dio, aiutaci! Se vero è quello che tu hai predicato oggi, già è lungo tempo che lo spirito de lo errore hae accecato le nostri menti". E quelli disse loro: "State ferme e aspettate un poco, ché vedrete a quale segnore voi v'accostate". Immantanente viddero saltare tra loro e uscire del mezzo di loro uno gatto nerissimo, maggiore che uno grande cane, che avea gli occhi grossi infiammati, la lingua lunga e lata e sanguinosa e ritratta infino al bellico, la coda avea corta e rilevata in su, la sozzura di dietro dovunque si volgeva, sì la mostrava là onde usciva puzza da non patire. Quando si fu molto rivolto qua e là intorno a coloro, a la perfine s'appigliòe a la fune de la campana e, salendo in sul campanile, disparìe, lasciandosi dietro sozze pedate. E quelle donne renderono grazie a Dio e convertironsi a la fede cattolica. Avendo lui convinti alcuni eretici ne le contrade di Tolosa, e quelli essendo condannati ad ardere, ragguardando fra loro ne vidde uno, il quale avea nome Raimondo, e disse a' giustizieri: "Serbate costui, e non sia per veruno modo arso con gli altri". E rivoltosi a lui, parlò con esso dolcemente, e disse: "Io so, figliuolo mio, io so ch'ancora sarai buono uomo e santo, avvegna che tardi". Lasciato dunque stare, XX anni perseveròe ne la resia; a la perfine si convertìo e diventòe frate Predicatore e menòe laudabile vita in quello Ordine e finìe beatamente. Stando lui in Ispagna con alcuni frati che s'erano accompagnati a lui, apparveli per visione un ferocissimo drago, che parea che volesse tranghiottire e' frati ch'erano con lui con la bocca aperta. Intendendo il servo di Dio ciò che questo volea dire, confortava i frati che contrastessono fortemente a le tentazioni. Poco stante tutti quelli ch'erano ivi, trattone frate Adam e due conversi, si partirono da lui. Domandato l'uno di quelli s'elli se ne volea andare, rispuose: "Non piaccia, Dio padre, che io lasci il capo e seguiti e' piedi". Allora si diede incontanente ad orazione, e poco meno gli convertì tutti con l'orazione sua. Stando lui a san Sisto a Roma co' suoi frati, subitamente fatto lo spirito del Signore sopra lui, chiamòe e' frati a capitolo, e annunziò loro che quattro frati si doveano morire di corto, due in corpo e due in anima. Poco stante due frati andarono a Paradiso e due si partirono de l'Ordine. Stando lui a Bologna, eravi uno maestro Currado de de Magna, del quale aveano grandissima voglia i frati ch'entrasse a l'Ordine. Sì che un die, ciò fue la vilia di santa Maria d'agosto, ragionando san Domenico col priore del monasterio Casa-Maria de l'Ordine di Cestella per una cotale dimestica materia, disse a lui: "Io ti manifesto, priore, che nol dissi ancora a persona, e tu nol dire mentre ch'io viverabbo, che mai non dimandai veruna cosa da Dio in questa vita, ch'io non l'avesse al mio senno". E dicendoli detto priore che forse morrebbe prima di lui, san Domenico per ispirito di profezia, predisse a quello priore viverebbe lungo tempo dopo lui; e così intervenne. Allora disse il priore a san Domenico: "O padre, adomandiamo dunque a Domenedio che ti dea il maestro Currado a l'Ordine, la cui entrata e' frati pare che desiderino cotanto". E 'l santo disse: "O frate mio buono, malagevole cosa hai domandato". Detta la compieta e andati i frati a dormire, elli rimase ne la chiesa e vegghiò in orazione come era usato. Sì che raunati i frati a la prima, quando lo cantore ebbe incominciato: "Jam lucis orto sidere", eccoti subitamente giugnere colui che dovea essere nuova stella di nuova luce: il maestro Currado; e gittossi a' piedi di san Domenico, domandandoli l'abito de l' Ordine e, perseverando, sì l'ebbe. Ora avea il servo di Dio san Domenico, ne la mente sua, ferma iguaglianza se non quand'elli si turbidasse a misericordia e a compassione; e perché il cuore allegro rende la faccia allegra e piacevole, com'elli era bene composto dentro, sì 'l manifestava la benignità di fuori. Nel tempo del die stando con i frati suoi compagni, salvo il tenore de la sua onestade, niuna era più comunale di lui, né più perseverante ne l'ore de la notte in vigilie e in orazione; il die spendea al prossimo, la notte a Dio. De' suoi occhi avea quasi fatta una fontana di lagrime. Spesse volte quando si levava il corpo di Cristo a la Messa, gli si levava tanto la mente, come s'elli v'avesse veduto Cristo incarnato presente; per la quale cosa stette molto tempo che non ne udì la Messa con gli altri. Elli aveva sì in consuetudine di stare la notte in chiesa, ch'appena, o rade volte, parea che avesse certo luogo a posarsi; e quando per lassezza fosse costretto del bisogno del dormire, chinava un poco il capo ovvero dinanzi a l'altare, ovvero in su una pietra. Ogni notte si dava tre discipline, l'una per sé e l'altra per i peccatori che conversano nel mondo e la terza per quelli che sono tormentati in purgatorio; e ciò facea con esso una catena di ferro. Una volta che fu eletto per vescovo di Ceserano, al postutto rifiuta il vescovado, affermando d'abbandonare anzi la terra ched elli consentisse a veruna elezione fatta di sé. Fu domandato alcuna volta perché non stava più volentieri a Tolosa o di quello distretto, che a Carcassona o di quello distretto, e elli rispuose: "Perché in Tolosa truovo molti che fanno onore, ma a Carcassona mi fanno tutto il contradio". Fu domandato da uno, in quale libro elli studiava più, elli rispuose: "Nel libro de la caritade". Un'altra volta che san Domenico era a Bologna, stando là in orazione la notte entro la chiesa, il diavolo gli apparve in figura di frate; e credendo san Domenico ched e' fosse uno frate, accennavali ch'elli s'andasse a posare con gli altri. E quelli, quasi per ischerne, rispondea con quelli medesimi cenni. Allora san Domenico volendo sapere chi e' fosse quelli che spregiava così il suo comandamento, accese una candela a la lampana e, ponendoli mente ne la faccia, conobbe ch'egli era il diavolo. E quando il santo l'ebbe fortemente ripreso, il diavolo gli cominciò immantanente a garrire del rompere del silenzio, e san Domenico affermava che li era licito di parlare così come maestro de li frati, e costrinselo ch'elli dicesse di che elli tentasse più i frati, da ch'ellino stanno in coro. E quelli rispuose: "Folli tardi venire e tosto uscire". Poscia il menò al dormentoro e domandollo di che elli tentava ivi e' frati; e quelli disse: "Folli troppo dormire e tardi levare, e così gli fòe rimanere de l'ufficio divino, e alcuna volta do loro sozzi pensieri". Poscia il menò a refettorio e domandollo di che elli tentava quivi e' frati. Allora il demonio, saltando su per le mense, dicea e spesse volte ripetea: "Or più or meno, or più or meno". E dimandollo san Domenico: "Che vuole questo dire?" Quelli rispuose: "Alcuni frati tento che mangiano più che non si conviene e così, per troppo mangiare, peccano; alcuni tento che mangiano meno, e così diventano deboli nel servigio di Dio e ne l'osservare la regola de l'Ordine". Indi il menò al parlatorio e domandollo di che tentava quivi i frati. Allora quelli, ravviluppando spesso la lingua, mandava fuori un suono di mirabile confusione. E domandandolo san Domenico che volesse ciò dire, rispuose: "Questo luogo è tutto mio; quando i frati si ragunano quivi a parlare, io mi brigo di tentarli che parlino confusamente e che s'infraschino in disutili parole e che non aspetti l'uno l'altro". A la perfine il menò al capitolo, ma quando il demonio fue dinanzi a l'uscio del capitolo, il dimonio per niuno modo ci volse entrare, ma disse: "Qua non enterrò io mai, perché gli è luogo di maladizione e inferno per me, e tutto dì ci perdo ch'io guadagno ne gli altri luoghi. Ché quando io avrò fatto fallare alcuno frate per alcuna nigligenza, ratto si purga di quella negligenza in questo luogo di maladizione e dinanzi a tutti se ne accusa; ché qua s'ammoniscono, si confessano, s'accusano, si percuotono, s'assolvono, e così mi doglio d'avere perduto tutto quello di che io era lieto d'avere guadagnato". E, dette queste cose, sparve. A la perfine, appressimandosi il termine de la sua pellegrinazione, essendo a Bologna, cominciò ad infermare di grave infermità di corpo; e fulli mostrato in visione lo spartimento de l'anima al corpo in questo modo: che li parea vedere un giovane bellissimo che 'l chiamava per queste parole e diceva: "Vieni, diletto mio, vieni a godere, vieni". Chiamò adunque de' frati del convento di Bologna infino a XII, e per non lasciarli sanza retaggio né orfani, fece uno cotale testamento e disse: "Queste sono quelle cose che vi lascio, come a' figliuoli a possedere per ragione di retaggio: abbiate caritade, servate umilitade, possedete povertade di volontade". E dinegò loro, con tutto quello distrignimento che poté, che mai veruno non inducesse possessioni temporali nel suo Ordine, maladicendo da la parte di Dio onnipotente e da la sua terribilemente colui che l'Ordine de' Predicatori ardisse di macchiare con la polvere de le ricchezze terrene. E dogliendosi i frati de la sua partenza, e non potendosene consolare, racconsolandoli dolcemente, disse così: "Non vi conturbi, figliuoli miei, la mia partenza corporale; ché sappiate sanza dubbio, che voi avrete più utilità di me stando morto che vivo". Essendo poi giunto a l'ultima ora de la sua vita, morìo in Domenedio ne l'anno del Signore MCCXXI. Il passamento del quale fue mostrato in quello medesimo die e ora in questo modo a frate Guala, ch'era allora priore de' frati Predicatori di Brescia e poscia fue vescovo di quella cittade. Ché addormentato elli nel campanile de' frati col capo appoggiato al muro d'un sonno leggere, sì vidde aprire il cielo e due scale bianche mandare giù a terra; le quali scale dal lato disopra tenea Cristo con esso la madre, e gli angeli giubilando saliano e scendeano giù e su per esse. E nel mezzo de le scale era posto una sedia disotto, in su la sedia sedea un frate col capo coperto; Jesù Cristo e la Madre tiravano su queste scale tanto, che colui che sedea fu levato infino al cielo e messovi dentro, e poscia fu richiusa l'apertura. Sì che vegnendo il detto frate incontanente a Bologna seppe e trovò che in quella medesima die e ora passato era il santo di questa vita. Un frate ch' avea nome Raone, essendo a Tiburi in quello medesimo die e ora che 'l santo Padre uscì del corpo, era andato a l'altare per dire Messa; e abbiendo udito come il santo Padre era infermato a Bologna, quando fue al luogo de la segreta dove si fa menzione de' vivi, volendo pregare per la santade di lui, subitamente levato ne la mente per contemplazione, vidde il servo di Dio san Domenico incoronato d'una corona, d'oro, tutto risplendiente di mirabile splendore, accompagnato da due uomini di grande riverenzia, l'uno da l'uno lato e l'altro da l'altro, e uscivano fuori di Bologna, per la via reale. Sì che, notando il die e l'ora, trovò che san Domenico era allora passato di questa vita. Essendo dunque il corpo suo giaciuto molto tempo sotterrato, e spesseggiando li miracoli sanza fine, non potendosi più occultare la sua santitade, mossersi li fedeli cristiani e buone persone a divozione degnamente di trasporre il corpo suo a più alto luogo. Ed essendo il monimento aperto, ch'appena si poté rompere con pali e picconi di ferro tant'era forte la calcina, e levata via la lapida, tanta abbondanza di soavissimo odore n'uscì fuori, che veracemente parve che s'aprisse non sepolcro, ma bottega tutta piena di spezie. Il quale odore vincea tutti odori di spezie, e non parea che si pareggiasse a odore di veruna cosa naturale; e non solamente stava l'odore ne l'ossa, ovvero ne la polvere del santo corpo, ma eziandio ne la terra raccolta d'intorno, in tale maniera che, essendo portato di quella cotale terra poi in lontane contrade, lungo tempo ritenne quello odore. E massimamente a le mani de' frati che toccavano alcuna cosa de le sante reliquie, s'appiccò sìe, che quantunque fossero lavate o stropicciate per più dì, davano testimonianza del conservato odore. Ne la provincia d'Ungaria era un gentile uomo che venne, egli con la moglie e con un loro fanciullino, a visitare le reliquie di san Domenico, che n'avea in Forlì. E 'l figliuolo suo, infermato làe, venne a l'ultimo de la sua vita e morìo. E 'l padre tolse il corpo del fanciullo morto e, ponendolo dinanzi a l'altare di san Domenico, incominciò a lamentare e a dicere: "O beato Domenico, lieto ne venni a te col mio figliuolo, e io me ne vo tristo; venni col figliuolo e me ne torno senza. Io ti domando con disiderio che tu mi rendi il mio figliuolo, rendimi la letizia del cuore mio". Ed eccoti, entro la mezzanotte, il fanciullo rivivere, e andò per la chiesa. Un giovane che era schiavo d'una gentile donna, stando in uno fiume a pescare, cadde ne l'acqua e affogò, e non si vedea. E stato che vi fue uno grande spazio di tempo, fu tratto del fondo del fiume il corpo suo morto, e la donna sua pregòe san Domenico che risucitasse questo morto, promettendoli d'andare a le sue reliquie a piede scalzo, e di donare a franchigia lo schiavo risuscitato. Immantanente colui ch'era morto, veggendolo tutti, ritorno a vita, e saltò su ritto entro nel miluogo de le persone, e la detta donna adempiette il voto suo, sì com'ella avea promesso. Ne la detta provincia d'Ungaria piangendo uno amaramente un suo figliuolo morto, e pregando san Domenico che il risucitasse, nel cantare de' galli, colui ch'era morto aperse gli occhi, e disse al padre: "Che è questo, padre, che tu hai volto così bagnato?" Disse il padre: "Figliuolo mio, son le lagrime del babbo tuo, però che tu eri morto ed io era rimaso solo senza veruno sollazzo". E quelli disse: "Molto hai pianto, padre, ma san Domenico, avendo compassione a la tua sconsolanza, impetròe da Dio, per li suoi meriti, che io ti fossi renduto vivo". Uno infermo che era stato anche cieco XVIII anni, avendo disiderio di visitare le reliquie di san Domenico, levossi del letto provandosi quasi d'andare; e subitamente si sentìe venire tanta forza, che cominciò ad andare a più ratto passo; e tanto più megliorava del male e del lume de gli occhi, quant'elli andava innanzi ogne die nel viaggio; tanto ch'a la perfine giugnendo al luogo dov'elli s'avea posto d'andare, ebbe perfettamente il beneficio de la santade d'amendue le malattie ch'egli avea portate tanto tempo. Ne la detta provincia volendo una donna fare Messa ad onore di san Domenico, non trovò il prete a quella ora che dovea. Per la qualcosa tolse le tre candele ch'elle avea trovate per la Messa e involsele in una tovagliuola netta e ripuosele in uno vasello; e partendosi un poco e tornando poi, vide le candele ardere con manifeste fiamme. Correndo le persone a vedere sì grande fatto, tanto stettero ivi in tremore e orazione, ched e' tolsero la tovagliuola che non era danneggiata punto. A Bologna era uno scolaio ch'avea nome Niccolaio, ch'avea sì grande duolo ne le reni e ne le ginocchia, che del letto non si poteva levare, e 'l cui pettignone manco erasi infracidato che al tutto era disperato di guerire. Sì che, botandosi elli a Dio e a messere san Domenico, quando s'ebbe misurato per lungo col filo donde si dovea fare l'avignitoio, cominciossi a cignere con esso anche il corpo, il collo e 'l petto. A la perfine, quando s'ebbe cinto il ginocchio col filo d'intorno, chiamando ad ogni misuramento il nome di Jesù Cristo e del beato Domenico, sentendosi incontanente allevato, sì gridò e disse: "Io sono liberato". E levandosi del letto e lagrimando de la letizia, sanza veruno appoggio, se ne venne a la chiesa, dove giaceva il corpo di san Domenico. E in quella medesima città ha Domenedio operati molti molti e quasi senza novero miracoli per lo servo suo san Domenico. In Sicilia, ne la città d'Agosta, era una fanciulla che avea il male de la pietra, e dovendolesi tagliare, la madre per lo grande pericolo che v'è, raccomandò la figliuola a Dio e al beato messere san Domenico. La notte vegnente apparve san Domenico a la fanciulla che dormìa, e puosele in mano la pietra ond'ella era tormentata, e partissi. La fanciulla, da che fu isvegliata e trovatosi guarita, diede la detta pietra a la madre e spianolle la visione per ordine. E la madre tolse la pietra e portolla a casa de' frati, e in ricordanza di cotanto miracolo appiccarono quella pietra dinanzi a la imagine di san Domenico. Ne la città di Palazia in Sicilia una povera femmina avea uno suo figliuolo ch'era molto afflitto d'una cotale infermità di gangole, che i fanciulli sogliono avere nel collo. E non potendo trovare veruno rimedio sopra ciò, botossi a Dio e a messere san Domenico, che s'elli il ne liberasse, sì 'l farebbe lavorare in dono a l'opera de la chiesa de' frati che si facea allora. La notte vegnente l'apparve uno in abito di frate, e disse a lei: "Femmina, conosci tu queste cose?" E contolle per nome quattro generazioni d'erbe, cioè bocca verde e pilatro e lapazio e sugo di porro. Quella dicendo di conoscerle, quelli disse: "Va, e tolli queste cose e mescola col sugo de' porri e polle in su la bambagia in sul collo del fanciullo tuo, e fia liberato". Quella da che fu isvegliata fece queste cose, e 'l figliuolo suo, guerito, compiéo il voto de la madre. Uno de le contrade di Piemonte era enfiato molto contraffattamente, sì si botò a san Domenico; e dormendo lui, san Domenico gli apparve, e sparolli il ventre sanza dolore, e purgollo da ogni fastidiume, e anche con la sua mano ugnendo lo risaldòe, e sanollo perfettamente. Ne la città d'Agosta, per la festa de la traslazione di san Domenico, tornando a casa alcune donne ch'erano state a la solennità de le Messe ne la chiesa de' frati, e trovando una femmina filare a' piè de l'uscio suo, cominciarolla a riprendere caritevolemente perché ne la festa di così santo Padre non si guardava di lavorare. Quella, crucciata di queste parole, rispuose: "Voi che siete pizzoche de' frati, guardate la festa del santo vostro". Incontanente l'enfiarono gli occhi, e vennevi entro un pizzicore, e cominciarne a uscire fuori vermini, sì che un'altra femmina le trasse de gli occhi XVIII vermini in poca d'ora. Quella venne a la chiesa de' frati, e confessossi ivi de' peccati suoi, e fece boto che mai non direbbe male del santo di Dio Domenico e che guarderebbe divotamente le sue feste. Incontanente fue sana come di prima. Una monaca ch'avea nome Maria, ne la città di Tripoli, ad uno monasterio che si chiama la Maddalena, avendo fortissime infermità, e percossa gravemente ne la coscia, cinque mesi stette miserabilemente tormentata, sì che ad ogni ora si temea ch'ella uscisse di questo mondo. Quella raccogliendosi fra se medesima, oròe così: "Signore mio, io non son degna di pregarti, né d'essere esaudita da te, ma io priego il signore mio santo Domenico, che sia tramezzatore tra me e te, e accattimi il beneficio de la santade". Orando dunque così lungamente con lagrime e la faccia in estasia, vidde san Domenico con due frati ch'aperse la cortina ch'era a letto di colei, ed entrando dentro disse a lei: "Perché hai tu così gran volontà di guerire?" E quella disse: "Messere, per potere servire più divotamente a lo Iddio mio". Allora quelli trasse di fuori, disotto a la cappa, uno unguento di maraviglioso odore, e unsenele la gamba, e fu guerita immantanente. E disse a lei elli: "Questo unguento è molto prezioso, e dolce, ma è malagevole". Quando la femmina ebbe domandato la ragione perché, quelli disse: "Questo unguento è segno d'amore, il quale è molto prezioso, perché non si può comperare per veruno prezzo e perché verso doni di Dio non è veruno migliore. Dolce è, perché niuna cosa è più dolce che l'amore; malagevole è, perché tosto si perde s'avvedutamente non si guarda". Elli ancora apparette a la serocchia sua che si posava nel dormentoro, e sì le disse: "Io abbo sanata la serocchia tua". E quella corre, e trovolla sanata. La quale, sentendo ancora sensibilemente l'unzione fatta, sì la forbìa con la bambagia con molta riverenzia. Quella da che ebbono contato ogni cosa a la badessa e al confessore e a la suora, ed ebbe presentata l'unzione ne la bambagia, di tanto e di sì nuovo odore furono ripieni che verune spezierie non vi si potrebbono appareggiare, e serbarono quella unzione con molta riverenzia. Come sia a grado a Dio il luogo dove si posa il santissimo corpo del beato Domenico, avvegnadio che per molti miracoli sia manifesto, ma uno basti apporre quie. Racconta il maestro Alessandro, vescovo di Vindonia, ne le chiose sue sopra quella parola del Salterio: "La misericordia e la verità si scontrarono insieme", che uno scolaio dimorante a Bologna, dato a la vanità del mondo, vidde una cotale visione: che li parea essere in uno grande campo, e ivi parea che li piovesse una grande tempesta addosso. Quelli, fuggendo la tempesta, capitòe ad una casa, e, trovandola serrata, bussòe a l'uscio e domandava d'essere ricevuto dentro. La donna ch'era dentro rispuose: "Io sono madonna giustizia, la quale abito qui, e questa casa è mia, ma perché tu non se' giusto, non ci puoi abitare entro". A le quali parole quelli, piangendo molto, sì si partì e, veggendo un'altra casa più là, venne ad essa e bussò l'uscio e domandava d'essere ricevuto dentro. La donna ch'era dentro rispuose: "Io sono madonna la verità, la quale abito qui, e questa casa è mia; ma te non riceverò io nel mio albergo, perché la verità non ama colui il quale non ama lei". Quegli si partì quindi, e vidde un'altra casa più là, e, vegnendo a quella, domandava d'essere ricevuto dentro contra lo furore de la tempesta. Quella che era dentro le rispuose e disse: "Io sono madonna pascie che abito qui; i peccatori non hanno pascie, ma hannola gli uomini c'hanno buona volontà; ma perch'io penso pensieri di pace e non d'afflizione, sì ti do buono consiglio: di qua da me si abita la serocchia mia, la quale aiuta sempre i miseri, or te ne va a costei, e fa ciò ch'ella ti dice". Quando fu andato a quella ch'era dentro, sì rispuose : "Io sono madonna misericordia, la quale abito qui; onde se tu vuogli essere liberato da la tempesta sopravvegnente, vattene a casa de' frati Predicatori da Bologna, e ivi troverrai la stalla de la dottrina, iventro la mangiatoia de la continenza e il pascolo de la Scrittura, e l'asino de la semplicitade col bue de la discrizione, e Maria che t'alluminerà e Giuseppe che ti perfezionerà e 'l fanciullo Jesù Cristo che ti salverà". Quando il detto scolaio fue svegliato venne a casa de i frati e, contando la visione così per ordine, dimandò l'abito de l'Ordine e ricevettelo. Il beato Domenico, innanzi che l'Ordine si cominciasse, vidde in visione Cristo cruciato che avea tre lance in mano e minacciava con esse il mondo ch'erano tutti o giudei, o pagani, o eretici, o falsi cristiani. E la beata Vergine gli venne innanzi, pregandolo per lo mondo e dicendo: "Perdona, figliuolo mio, al mondo; ecco ch'io abbo uno servo che ama molto me e te; io 'l manderò per predicatore de la verità, al quale molti si convertiranno e seguiteranno la via de la verità". E così parve a lui ch'esso vi fosse appresentato, e Cristo non assentendo, e dicendo che non basterebbe, e ella gli appresentò san Francesco, e disse: "Ecco, questi li sia dato per compagno". E Cristo assentìo a i prieghi de la madre. Allora san Domenico segnò bene la persona di santo Francesco e la forma del suo volto, onde quando andò poscia per alcuno tempo per la confermazione de l'Ordine a Roma, sì vi trovò san Francesco e veggendolo, sì lo conobbe che non lo avea mai veduto; al quale disse san Domenico: "Ecco che tu de'essere mio compagno, ché così e così viddi". E narrolli la visione per l'ordine. Queste cose disse san Francesco ad uno suo frate, il quale predicò poscia questo ad Ascoli.
cap. 109, S. SistoSisto papa fu natìo de la città d'Atenia. Prima fu filosofo, poscia fu discepolo di Cristo. Essendo chiamato papa, fue appresentato con due suoi diaconi, Felicissimo e Agapito, a Decio e a Valeriano. E non potendolo Decio inchinare con veruno suoi comportamenti, sì 'l fece menare al tempio di Marte perché od elli sacrificasse, od elli sarebbe messo ne la guardia di Mamertino. Ma non volendo sacrificare ed essendo menato a quella pregione, san Lorenzo gridava sopra lui e dicea: "Dove vai sanza il figliuolo, padre? Dove vai, prete santo, sanza il tuo ministro?" Al quale rispuose san Sisto, e disse: "Non ti lascio, figliuolo mio, né non ti abbandono, ma a te si debbono maggiori battaglie per la fede di Cristo; dopo tre dì seguiterai me sacerdote e tu diacono. Infrattanto prendi li tesori de la chiesa, e dispensali a cui ti pare". Quando elli gli ebbe distribuiti a i cristiani poveri. Valeriano prefetto stanziò che Sisto fosse menato al tempio di Marte, e se non volesse sacrificare, ivi li fosse mozzo il capo. Il quale essendo menato, san Lorenzo gridava dopo lui e diceva: "Non mi abbandonare, padre santo, ch'io abbo già speso i tesori, che tu mi desti". Allora i cavalieri, udendo dire i tesori, presono san Lorenzo, e dicollarono iviritto san Sisto e Felicissimo e Agapito. In questo dì è la festa de la trasfigurazione di Cristo; e 'l sangue di Cristo si fa di vino novello, se trovare se ne puote, in alcune chiese o almeno si prieme alcuna cosa d'uva matura nel calice. In questo dì ancora sì si benedice il racimolo de l'uva e 'l popolo se ne comunica. La ragione si è questa, perché 'l Signore disse a i discepoli suoi il dì de la Cena: "Non berrò oggimai di questa generazione di vite, infino a tanto ch'io bea de la novella nel reame del Padre mio". Ma quella trasfigurazione del Signore, e 'l novello vino ched e' disse, ripresentano il glorioso rinnovellamento che Cristo ebbe ne la risurressione. Né pertanto fue in questo die fatta la trasfigurazione, ma in cotale dì fu manifestata da gli apostoli. Ma dicesi ch'ella fu fatta nel prencipio de la primavera, ma, per lo vietamento del Signore, la tennero celata cotanto gli apostoli, e così la palesaro oggi. Così si legge in uno libro che si chiama Mitrale.
cap. 110, S. DonatoDonato fue ammaestrato e nudrito con Giuliano imperadore, sì che allora Giuliano fue ordinato a suddiacono; ma da che fu fatto imperadore, sì uccise il padre e la madre di Donato. Ma Donato si fuggì ne la città d'Arezzo e, standosi con Ilario monaco, sì vi fé molti miracoli. Né abbiendo il prefetto de la città il figliuolo indemoniato, quando l'ebbe menato a san Donato, il demonio incominciò a gridare e a dire: "Per lo nome del tuo Signore Jesù Cristo non mi sie molesto che io esca di casa mia; o Donato perché me ne costrigni uscire con tormenti?" Ma orando il santo il fanciullo fue incontanente guarito. Uno uomo, ch'avea nome Eustagio, il quale era, esattore de la repubblica in Toscana, lasciò in guardia a la moglie sua, ch'avea nome Eufrosina, la pecunia pubblica. Ed essendo la provincia costretta da li nemici, nascose quella pecunia e, vegnendo a morte, finì la vita sua. Il marito tornò e, non potendo rinvenire la pecunia, essendo già menato al tormento con i figliuoli, fuggì a san Donato. E san Donato andò con lui al sepolcro de la moglie e, fatta l'orazione, sì gridò: "Eufrosina, io ti scongiuro per lo Spirito Santo, che tu ci dica dove tu ponesti cotale pecunia!" E venne la voce del sepolcro e disse: "Ne l'entrata di casa mia, ivi la sotterrai". E quelli andarono e trovaronlavi come la voce avea detto. Dopo alquanti dì morìo in pace il vescovo Satiro, e tutto lo chericato elesse Donato in vescovo. Un die, s' come racconta Gregorio ne i Dialoghi, detto la Messa, comunicandosi il popolo e 'l diacono dando col calice in mane il sangue di Cristo a que' ch'erano comunicati, subitamente per suspignimento de' pagani, il diacono cadde e il calice si ruppe. De la qualcosa essendo tristo egli e tutto il popolo, san Donato ricolse i pezzuoli del calice rotto, e per la sua orazione il ristoròe ne la forma primaia. Ma una particella ne fu nascosta dal diavolo, la quale mancòe in quello calice, la quale è per testimonianza di questo miracolo. E i pagani vedendo questo miracolo, se ne convertìo ottanta e furono battezzati. Una fonte era sì macchiata che chiunque ne bevea ne moriva. Sì che andando là san Donato in su l'asino suo per sanare quell'acqua per l'orazione ched e' facesse, uno dragone terribile e orribile n'uscì fuori e, avvolgendo la coda a' piedi de l'asino, levossi incontanente erto contro a san Donato. E san Donato battendolo con una scurianda, ovvero, come si legge in altro luogo, isputandoli in bocca, tosto l'uccise, e fece orazione a Domenedio, e tutto il veleno cacciò via da quella fonte. Anche vi produsse un'altra fonte per la sua orazione, avendo elli co' suoi compagni molto grande sete. Essendo indemoniata la figliuola di Teodogio imperadore, menata che fue a san Donato, elli sì disse: "Esci fuori, sozzo spirito, e non volere abitare più ne la criatura di Dio". Al quale disse il dimonio: "Dammi via donde io esca e dov'io vada". Al quale disse san Donato: "Donde venisti tu qua?" Disse il demonio: "Del diserto". Rispuose il santo: "Ora là ti torna". Disse il demonio: "Io veggio in te il segno de la Croce del quale esce fuoco contra me, e per la paura, non so dove mi vada; ma dammi luogo d'uscire, ed io n'esco". Al quale disse san Donato: "Ecco che hai il passaggio, or torna al luogo tuo". Quelli n'uscì fuori, scommovendo tutta la casa. Dovendosi uno morto sotterrare, venne uno con una scritta dicendo che quelli gli dovea dare CC soldi, onde per ciò non lasciava sotterrare. La quale cosa abbiendo la moglie detto a san Donato con lagrime, aggiugnendo anche che quell'uomo avea ricevuto tutta quella pecunia, levossi san Donato e andò con lei al luogo e, toccando il morto con mano, sì disse: "Odimi tu". Quelli disse: "Eccomi". Disse il santo a lui: "Leva su nel nome di Jesù Cristo, e vedi quello che tu hai a fare con questo uomo, che non ti lascia sotterrare". Quelli ponendosi a sedere convinse colui del pagamento del debito dinanzi a tutti che v'erano presenti e, togliendoli la carta, sì la stracciarono con mano. Poscia disse al santo: "Comanda, padre, ch'io mi riposi anche". E 'l santo disse: "Vattene oggimai, figliuolo in riposo". In quello tempo era stato bene tre anni che non era piovuto, ed essendo così la terra sterile che non menava frutto, gl'infedeli si ragunarono a Teodogio imperadore, e domandarolli che desse loro Donato, il quale per arte di demoni avesse ciò fatto. Sì che a priego de lo 'mperadore san Donato pregòe Domenedio, e Domenedio diede incontanente piova in abbondanza; ed essendo tutti bagnati, egli si tornò a casa con le vestimenta asciutte. Ma quando i Goti guastavano Italia in quello tempo, partendosene molti da la fede, Evadraziano prefetto, essendo ripreso da i santi Ilariano e Donato di ciò ch'elli era apostata, sì li cominciò a costrignere che sacrificassero a Dio Jove. Non volendo elli ciò fare, il prefetto fece spogliare Ilariano e tanto lo fece battere ch'elli rendeo l'anima a Dio. E rinchiuse san Donato in pregione e poscia il fece dicollare sette dì entrante agosto, intorno a gli anni Domini CCCLXXX.
cap. 111, S. CiriacoCiriaco fu ordinato diacono da san Marcello papa. Questi fu preso e menato a Massimiano; poscia gli fu comandato di cavare la terra con esso i compagni suoi, e dovendola portare in sul collo loro infino al luogo dove si dificava là dove era san Saturnino che Ciriaco e Sesinnio aiutavano a portare. A la perfine rinchiuso in carcere san Ciriaco, il prefetto comandò che li fosse menato dinanzi. Sì che menandolo ad Aprognano, subitamente venne una voce da cielo con luce, e disse: "Venite beneditti dal padre mio!". E allora credette Aprognano, e fecesi battezzare e, confessando Cristo, venne al prefetto. Al quale disse il prefetto: "Or se' tu diventato cristiano?" Quelli rispuose: "Guai a me, c'ho perduti i miei dì!" Disse il prefetto: "Veramente hai perduto i dì tuoi". E fecelo dicollare. E Saturnino e Sisinnio, non volendo sacrificare, furono tormentati diversamente e, a la perfine, dicollati. Ma la figliuola di Diocliziano, ch'avea nome Artemia, essendo tormentata del demonio, il demonio cominciò a gridare in lei: "Se non ci viene Ciriaco diacono, io non uscirabbo!" Quando fu venuto a lei comandò al demonio che n'uscisse, e 'l dimonio rispuose: "Se tu vuoli ch'io n'esca, dammi vasello dove io entri". Disse Ciriaco: "Ecco il corpo mio, se tu puoi, entraci". Disse il demonio: "Non posso entrare nel vasello tuo, perch' io ti veggio da ogne parte suggellato e chiuso; ma se tu ci cacci quinci, sappi ch'io ti farò venire in Babilonia". Essendo dunque costretto d'uscirne, e uscitone, Artemia gridò e disse che vedea quello Domenedio che Ciriaco predicava. Sì che quando Ciriaco l'ebbe battezzata, viveasi sicuro di grazia di Diocliziano imperadore e de la imperadrice Serena, sua moglie, in una casa ch'elli li aveano data. E standosi così, venne uno messaggio a Diocliziano da parte del re di Persia pregandolo che li piacesse di mandare a lui Ciriaco, però che la figliuola sua era tormentata dal dimonio. Sì che a' prieghi di Diocliziano, Ciriaco n'andòe lieto in Babilonia con esso Largo e Smaragdo, fornita la nave di tutte cose necessarie a la vita. E quando fue entrato làe dov'era la donzella, il demonio per bocca sua disse: "Se' tu affaticato, Ciriaco?" Disse il santo: "Non sono affaticato però ch'io sono in ogni luogo governato con l'aiuto di Dio". Disse il demonio: "Pure io t'ho condotto là ove io voleva". Allora disse Ciriaco al demonio: "Jesù Cristo ti fa comandare che tu n'esca". Immantanente n'uscì, e disse: "O nome terribile, perché me ne costrigni uscire?" E così sanata, la donzella fu battezzata col padre e con la madre e con molti altri. Essendo offerte molte donora al santo, non le volse ricevere; ma XLV dì stette ivi a digiunare in pane e acqua; a la perfine tornò a Roma. Ma da indi a due mesi, morto Diocliziano, regnòe Massimiano, suo figliuolo, e dogliendosi de la sua serocchia Artemia battezzata, fece pigliare Ciriaco e fecelo tranare ignudo e legato con catene dinanzi a la carro suo. Poscia comandò a Carpasio vicario che 'l fecesse sacrificare con esso i compagni, od elli l'uccidesse con diversi tormenti. E quando gli ebbe strutta la pece in sul capo, e messolo a la colla, sì gli fece tagliare il capo e a' suoi compagni. E quando Carpasio ebbe impetrato a lo 'mperadore la casa di san Ciriaco, ad eschernie di cristiani si bagnava là dove Ciriaco battezzava, e faccendovi entro grandi nozze con XIX suoi compagni, subitamente vi morirono tutti entro; e da quell'ora innanzi, serrato il bagno, cominciarono i pagani ad avere in paura e in riverenzia gli cristiani.
cap. 112, S. LorenzoLorenzo martire e diacono, di gente spagnuola, fu menato a Roma dal beato Sisto. Dice Joanni Beleth che essendo andato san Sisto in Spagna, sì vi trovòe due giovani, cioè Lorenzo e Vincenzio, suo parente, uomini bene composti d'onesti costumi e chiari in ogni opera, e menolline seco a Roma. De' quali l'uno, cioè Lorenzo, rimase a Roma, e l'altro, cioè Vincenzo suo parente, ritornò in Ispagna, e là finì la vita sua per glorioso martirio. Ma a questa opinione di Giovanni Beleth contradice il tempo del martirio de l'uno e de l'altro, però che Lorenzo fu passionato sotto Decio, e Vincenzo, ancora giovane, sotto Diocliziano e Daciano; e tra Decio e Diocliziano scorsono degli anni intorno da XL, e sette imperadori v'ebbe in mezzo; onde san Vincenzo non potrebbe essere essuto giovane allora. Or sì che san Sisto ordinò Lorenzo per suo arcidiacono. A quello tempo ricevettero la fede Filippo imperadore e Filippo suo figliuolo e, fatti cristiani, aveano intendimento d'aggrandire molto la Chiesa. Questo Filippo fu il primo imperadore che Origene convertìo a la fede, ciò si dice, avvegna che altrove si legga che san Ponzio il convertìo. E regnòe nel millesimo anno de le costruzioni di Roma, acciò che 'l millesimo anno fosse anzi consegrato a Cristo, ch'a gli idoli. Che l'anno millesimo fue guardato e onorato da i romani con grande avvisamento di giuocora e di cose da vedere. Or avea Filippo imperadore uno cavaliere ch'avea nome Decio, molto ingegnoso d'arme e di battaglie e famoso uomo. E rubellandosi Francia in quelli dì lo 'mperadore mandòDecio cavaliere per sottomettere la Francia ch'avea rubellato a lo 'mperio di Roma. Quelli andò e, avuta la vittoria di Francia, ritornò a Roma. Sì che udendo lo 'mperadore de la sua venuta e volendolne più altamente onorare, sì gli andò incontro da Roma infino a Verona. Ma perché le menti de' rei uomini quanto più si sentono onorare, tanto più enfiano per superbia, Decio, levato in superbia, cominciò a desiderare lo 'mperio, e trattare la morte del segnore suo. Riposandosi dunque lo 'mperadore sotto il padiglione, nel letto suo, Decio entrò celatamente nel padiglione e uccise il signore che dormìa; e l'oste ch'era venuto con lo 'mperadore trasse a sé con priego e con prezzo e con promessioni, e vennesene ratto a la città reale. Udendo queste cose Filippo il giovane, ebbe forte paura, e tutto il tesoro suo e del padre suo come dice Sicardo ne la sua Cronica, raccomandò a san Sisto e a san Lorenzo, che se intervenisse che fosse morto da Decio, sì 'l dessono a le chiese e a' poveri. E non ti muova ciò che i tesori, che san Lorenzo dispensòe non sono detti de lo imperadore, ma de la Chiesa, imperò che poté essere che, con quelli tesori di Filippo imperadore, dispensòe eziandio i tesori de la Chiesa. O forse son detti tesori de la Chiesa, i quali avea lasciato a dispensare a i poveri. Dopo queste cose fuggì Filippo e appiattossi davanti da Decio, e 'l sanato di Roma andò incontro a Decio e confermarlo per imperadore. Ma perché non paresse ch'elli avesse morto il signore suo a tradimento, ma per zelo d'idolatria, cominciò a perseguitare crudelissimamente i cristiani, comandando che sanza veruna misericordia fossero tutti tagliati a pezzi. In questa persecuzione furono morti molte migliaia di martiri, intra i quali fu marterizzato Filippo giovane. Dopo queste cose cercando Decio per lo tesoro del signore suo, fugli offerto san Sisto, sì come uomo che coltivasse Cristo e avesse i tesori de lo imperadore. Allora Decio il fece mettere in pregione insino a tanto che per quelli tormenti rinnegasse Cristo e scoprisse i tesori. E santo Lorenzo, seguitando, gridava dopo lui: "Dove ne vai, padre, sanza il figliuolo? Dove ne vai, prete, sanza il ministro? Tu non eri usato d'offerire sagrificio sanza il ministro. Qual cosa, che in me sia, è dispiaciuta a la tua paternità? Or haimi provato tralignante? Or pruova certamente se tu eleggesti sofficente ministro, al quale tu hai commesso di dispensare il sangue di Cristo". E san Sisto li disse: "Non ti lascio io, figliuolo mio, né non t'abbandono; ma a te si confanno maggiori battaglie per la fede di Cristo. Noi come vecchi eleggiamo corso di più lieve battaglie, ma te come giovane aspetta più gloriosa vettoria del tiranno: dopo tre dì mi verrai dietro, tu diacono, a me prete". E dielli tutti li tesori, e comandolli che li desse a le chiese e a' poveri. E sa· Lorenzo andò caendo i Cristiani di dì e di notte diligentemente, e a ciascheduno ne dispensò, secondamente ch'egli era bisognoso. E vegnendo a casa d'una vedova, ch'avea in casa sua nascosti molti cristiani, la quale avea lungo dolore del capo, puosele la mano in capo, e liberolla de la infermità, e lavòe i piedi de' poveri, e a tutti diede limosina. In quella medesima notte venne a casa d'un cristiano, e trovandovi un cieco, sì l'alluminò col segno de la Croce. Non volendo adunque san Sisto consentire a Decio, né sagrificare a l'idole, comandò che fosse menato a dicollare. E correndo san Lorenzo là, gridando dopo lui: "Padre santo, non mi abbandonare, imperò ch'io abbo già ispesi i tesori i quali tu mi desti", allora i cavalieri, udendoli dire de' tesori, tennero san Lorenzo, e diederlo a Partenio tribuno, ed elli il rappresentò a Decio, e Decio imperadore sì li disse: "Dove sono li tesori de la Chiesa, i quali noi abbiamo saputo che sono riposti appo te?" Quegli non rispondendo nulla, Decio il misse in mano a Valeriano prefetto che 'l facesse o manifestare li tesori e sagrificare a l'idole, o farlo morire per diversi tormenti. E Valeriano il diede a guardia d'un prefetto ch'avea nome Ippolito, e quegli il serrò ne le pregione con molti altri. Or v'avea uno uomo in pregione ch'avea nome Lucillo, il quale per lo piagnere era fatto cieco; e dicendoli san Lorenzo ched e' vedrebbe lume sed elli credesse in Cristo, e ricevesse il battesimo, quelli domandò incontanente d'essere battezzato. E togliendo san Lorenzo l'acqua, disse a lui: "Tutte le cose sono lavate ne la confessione". E da che l'ebbe domandato diligentemente de li articoli de la fede, e quelli dicendo che credeva tutto, gittolli l'acqua in capo e battezzollo nel nome di Cristo, e tosto riebbe il lume. Per la qualcosa molti ciechi venivano a lui e tornavansi a casa ralluminati. Veggendo Ippolito queste cose, disse a lui: "Mostrami i tesori". Disseli san Lorenzo: "O Ippolito, se tu crederrai nel Signore Jesù, e li tesori ti mosterrò e vita eternale ti prometto". Disse Ippolito: "Se tu accordi il fare col dire, io farò quello onde tu mi conforti". In quella ora credette Ippolito e ricevette il santo battesimo con tutti quelli di casa sua. E, battezzato che fue, disse: "Io viddi l'anime de li innocenti godere molto allegre". Dopo queste cose mandò Valeriano ad Ippolito, che li rappresentasse Lorenzo. Al quale disse san Lorenzo: "Andiamo insieme, perché a me e a te è apparecchiata la gloria". Sì che vennero insieme al tribunale, e fu fatta la 'nquisizione de' tesori, e san Lorenzo chiese indugio tre dì, e Valeriano gliene diede sotto la promessa d'Ippolito. In questi tre dì raccolse i poveri e' zoppi e' ciechi e presentolli nel palazzo Salustiano dinanzi a Cesare, e disse così: "Ecco questi che sono i tesori eternali, che mai non scemano, ma crescono, i quali si spargono in ciascuno e in tutti si truovano, ché le mani di costoro ne portarono i tesori in cielo". Valeriano, in presenza di Decio, sì disse a san Lorenzo: "Perché ti vai tu infrascando in molte cose? Sacrifica testeso, e lascia stare questa arte magica". Disse a lui san Lorenzo: "Chi dee essere adorato, o colui ch'è fatto, o colui che fece?" Adirato Decio comandò che fosse battuto con iscorreggiate, e fecegli recare innanzi ogne maniera di tormenti. E comandolli che sagrificasse per iscampare da questi tormenti. San Lorenzo rispuose: "Oi, disaventurato te! Io ho sempre desiderato queste vivande". Disse a lui Decio: "Se queste ti piacciono e paionti vivande, or mi manifesta gli scomunicati tuoi pari, che ne mangino insieme con teco". Al quale disse san Lorenzo: "Elli hanno già dati scritti i nomi loro in cielo, e tu non se' degno de' loro agguardamenti". Allora per comandamento di Decio fu spogliato ignudanato e battuto con bastoni, e piastre ardenti fossero poste a le sue latora. E disse San Lorenzo: "Signore Gesù Cristo, Iddio da Dio, abbi misericordia di me, tuo servo, imperò che sono stato accusato e non t'abbo rinnegato, e sono stato domandato e ho confessato te, Cristo". Disse a lui Decio: "Io so che per arte magica tu hai per niente i tormenti, ma tu non potrai avere per niente me. Io ti fo testimonianza per li dei e per le dee che, se tu non sacrificherai, tu sarai punito per diversi tormenti". Allora comandò che fosse battuto con piombati lungamente. E san Lorenzo oròe, e disse: "Messere Jesù Cristo, ricevi lo spirito mio!". Allora venne una boce dal cielo, la quale Decio udìe, e disse la voce: "Ancora ti sono apparecchiate molte battaglie". Allora Decio, ripieno di furore, disse: "Uomini romani, udiste le demonia consolare questo maledetto, il quale né non coltiva li dei, né non teme i tormenti, né non ha spavento de l'ira de' principi". E comandò che fosse anche battuto con iscarpioni. E san Lorenzo sorrise e, rendendo grazie a Dio, e' pregò per coloro che gli erano d'intorno. In quell'ora credette uno cavaliere ch'avea nome Romano, e disse a san Lorenzo: "Io veggio un giovane stare bellissimo dinanzi da te, che rasciuga le membra tua con un panno delicatissimo, ond'io ti scongiuro per Dio, che tu t'affretti di battezzarmi, e non m'abbandonare". Disse Decio a Valeriano: "Io mi credo che noi siamo già vinti per arte magica". Sì che comandò che san Lorenzo fosse sciolto da la catasta e rinchiuso ne la prigione d'Ippolito, e Romano recò un orciuolo d'acqua e gittossi a' piedi di san Lorenzo e ricevette da lui il santo battesimo. Quando Decio il seppe, fece battere Romano con bastoni; il quale confessandosi d'essere deliberatamente cristiano, fue dicollato. In quella medesima notte Lorenzo fu menato a Decio, e, piagnendo Ippolito e volendo gridare ch'egli era cristiano, disse a lui Lorenzo: "Nascondi Cristo ne l'anima dentro, e, quando io griderò, odi e vieni". Or furono recate dinanzi a Decio tutte generazioni di tormenti; e disse Decio Cesare a san Lorenzo: "O tu sagrificherai a Dio, cioè a li dei nostri, o questa notte si spenderà in te tormentare". Rispuosegli san Lorenzo: "La mia notte non hae oscurità, ma tutte cose sono chiarite ne la luce". Disse Decio: "Sia recato un letto di ferro, perché vi si posi su Lorenzo contumace". Sì che i ministri lo spogliarono incontanente, e disteserlo in su la graticola del ferro e, mettendovi la bracia sotto, con le forche del ferro il vi calcavano su. E disse Lorenzo a Valeriano: "Appara tu, misero, che i carboni tuoi mi danno rifrigero, ma a te tormento eternale, però che sa bene il Signore che, accusato, io non ho rinnegato lui; domandato di Cristo, sì l'abbo confessato; arrostito, gli è fatto grazie e fo". E disse con la faccia allegra a Decio: "Ecco, misero, hai arrostita l'una parte, or ti volgi l'altra, e mangia". E faccendo grazie, sì disse: "Grazie ti fo, messere, però c'ho meritato d'entrare ne le parte del cielo!" E dette queste parole mandò via lo spirito suo. E vituperato Decio con Valeriano lasciò stare il corpo sopra il fuoco e andonne nel palazzo di Tiberio. E Ippolito rapìo la mattina il corpo, e con esso Justino prete, sì l'unse e acconciòe con buone speziaria, e soppellillo nel Campo Verano. Sì che i cristiani digiunando e stando tre dì in vigilie, mettevano grandi mugghi e spandeano molte lagrime. Se è vero che san Lorenzo fosse martirizzato da questo Decio, molti ne dubitano, con ciò sia cosa che ne le Croniche si legga che san Sisto fue dopo Decio; ma Eutropio afferma questo, così dicendo: "Decio, movendo la persecuzione ne i cristiani, infra gli altri spense il beatissimo diacono e martire Lorenzo". Ma in una Cronica, ch'è assai autentica, si legge che fue martirizzato non sotto questo Decio imperadore, il quale succedette a Filippo, ma sotto un altro Decio minore, il quale fue Cesare, ma non fue imperadore. Per ciò che tra Decio imperadore e questo Decio giovane, sotto il quale si dice che san Lorenzo fosse martirizzato, sì furono molti imperadori e papi. E come si truova ne la detta Cronica, essendo a Decio imperadore socceduti ne lo 'mperio Gallo e Volosiano, suo figliuolo, e dopo loro avendo tenuto lo 'mperio Valeriano con Galieno, suo figliuolo, li detti Valeriano e Galieno fecero Decio giovane, Cesare ma non imperadore. Ché anticamente gl'imperadori facevano alcuna volta Cesari, ma non Augusti o imperadori, come si legge ne le Croniche che Diocleziano fece Massimiano Cesare; poscia di Cesare il fece Augusto. Adunque questo Decio, chiamato Cesare, non fatto imperadore, fece martire san Lorenzo; ma Decio imperadore regnòe pure due anni, e fece martire san Fabiano papa. A Fabiano succedette Cornelio nel papato, il quale Cornelio fu martirizzato sotto Valeriano e Gallo A Cornelio succedette Lucio, a Lucio succedette Stefano; questi morì sotto Valeriano e Galieno, i quali regnarono quindici anni; a Stefano Sisto. Questo si legge ne la Cronica. E, se ciò è vero, allora potrebbe essere vero quello che pone il maestro Joanni Beleth, ma e' si legge in un'altra Cronica che il detto Galieno è Decio, e sotto esso furono martirizzati san Sisto e san Lorenzo, intorno agli Domini CXLVII. Racconta san Gregorio nel Dialogo, che in Sabina fu monaca, la quale era casta del corpo, ma non fuggì il vizio de la lingua. Essendo costei sotterrata ne la chiesa di san Lorenzo, fu menata dinanzi a l'altare del martire, e da le demonia segata per mezzo; e l'una parte sì rimase non tocca, l'altra parte fu arsa nel fuoco, sì che la mattina apparìa visibilemente l'arsura nel marmo. Ma Gregorio di Torno dice che, racconciando un prete la chiesa di san Lorenzo, avevasi una trave che era troppo corta; quello prete pregò san Lorenzo che, com'elli avea sovvenuto e nutricato i poveri, così sovvenisse al suo bisogno. Subitamente crebbe sì la trave che ve ne soperchiò piccola parte, e quella cotanta parte il prete la tagliò e sanonne molte infermitadi. Ancora un prete che avea nome Santolo, sì come dice Gregorio nel Dialogo, volendo racconciare una chiesa di san Lorenzo, ch'era stata arsa da' Longobardi, pattovì molti maestri. Sì che una volta, non avendo lui che dare loro che manicare, fece orazione a Dio e a santo Lorenzo, e andossene a uno forno e, ragguardandovi dentro, trovovvi, un pane bianchissimo; ma non potendo quello pane appena bastare ad uno desinare di tre persone, san Lorenzo non volendo ch'e' suoi lavoranti venissero meno, tanto il fece multiplicare che bastò a nutrimento di tutt'i lavoranti per X dì. Ne la chiesa di San Lorenzo a Melana, sì come dice Vincenzo ne la Cronica, avea un calice di cristallo maravigliosamente bello; il quale essendo portato a l'altare per mano del diacono, in una grande solennitade, uscigli di mano e cadde in terra e tutto si sminuzzolò. E 'l diacono, piagnendo, ricolse i minuzzoli e, ponendoli in su l'altare, chiamò san Lorenzo divotamente, e 'l diacono riebbe il calice intero e saldo, che prima era rotto cadendo in terra. Leggesi anche, ne' Miracoli de la beata Vergine, che un giudice era a Roma, il quale avea nome Stefano, che ricevendo volentieri li donamenti, pervertia le sentenzie di molte persone, e partivasi da la giustizia. Costui tolse tre case a la chiesa di san Lorenzo e uno orto di santa Agnesa vergine, per forza, e, da che l'ebbe tolto, sì 'l possedea ingiustamente. Intervenne che morìo e fu menato dinanzi al giudicio di Dio. E vedendolo san Lorenzo, andò a lui con molta indegnazione, e tre volte strinse durissimamente il braccio suo, e tormentollo di forte dolore. E santa Agnesa con l' altre vergini non volle riguardare in lui, ma rivolse la faccia da lui. Allora il giudice, dando la sentenzia sopra lui, sì disse: "Imperò ch'egli ha tolto l'altrui e ha venduto la verità per donamenti c'ha ricevuti, nel luogo di Giuda traditore sia messo Stefano". Allora san Progetto, lo quale il detto Stefano avea molto amato in vita sua sempre, andòe a san Lorenzo e a santa Agnesa a pregarli che perdonassono a costui. Sì che coloro, e massimamente la beatissima madre di Dio, pregando per costui, fulli conceduto che l'anima tornasse al corpo e facesse penitenzia XXX dì. Ebbe in comandamento anche da la beata Vergine che ogne dì de la vita sua dicesse il Salmo: "Beati immaculati". E quando fu tornato al corpo, il braccio era sì livido e abbronzato come s'elli avesse avute battiture entro. Il quale segnale gli rimase infino che visse. Rendendo dunque il mal tolletto e faccendo la penitenzia, in capo di XXX dì n'andò in cielo. Leggesi ne la vita di santo Arrigo imperatore che, stando insieme vergini elli e Conegonda sua moglie, abbiendo egli per tentazione del diavolo la moglie a sospetto d'uno cavaliere, sopra roventi bomeri di XV piedi, la fece andare a piedi scalzi. Quella salendovi suso disse: "Jesù Cristo, come tu sai ch'io sono pura e netta da Arrigo e da tutti gli uomini, così priego te che m'aiuti!". Ma Arrigo indotto da la vergogna le dette una gotata. E una voce le disse: "La vergine Maria libererrà te vergine". Sì che per tutta quella rovente massa del ferro andò attorneando sanza veruno male. Quando lo 'mperadore fu morto, una grandissima moltitudine di demoni passò dinanzi a la cella d'un romito. Quelli aperse la finestra e domandò il sezzaio che ciò fosse. E que' rispuose: "Noi siamo una legione di demoni ch'andiamo a la morte de lo 'mperadore, se per ventura noi trovassimo in lui veruna cosa del nostro". E lo romito lo scongiurò che tornasse da lui, e quelli tornò e disse: "Noi non abbiamo fatto prò veruno, ché quando i beni e' mali erano messi ne la bilancia, a l'ultimo venne Lorenzo, quello arrostito, e recò una pentola d'oro di grande peso; e quando parea che noi avessimo vinto, da che v'ebbe gittata entro quella pentola, pesò molto di più l'altro lato. Allora io adirato ruppi l'uno orecchio de la pentola". Il calice chiamava pentola, lo quale calice lo detto imperadore avea fatto fare a la chiesa di santo Anastagio per onore di san Lorenzo, il quale era tenuto in speciale devozione. Il quale calice per la sua grandezza avea due orecchie, sì che fu trovato che lo 'mperadore era morto allotta e l'uno orecchio del calice era rotto. Racconta san Gregorio nel Registro che, volendo l'anticessore suo megliorare alcune cose al corpo di san Lorenzo e non sappiendo dove si fosse il corpo suo, subitamente il corpo suo che non si sapea s'aperse, e tutti quelli che v'erano presenti, sì i monaci come gli altri famigliari che viddero lo corpo suo, si morirono infra diece dì. Nota ne la passione di san Lorenzo, fra tutte le passioni de' martiri, pare che sia eccellentissima in quattro cose, come si raccolgono de' Detti di santo Agostino e di santo Massimo, ovvero, come gli altri vogliono dire, di santo Ambrosio. La prima cosa si è ne l'acerbitade de la pena, la seconda ne l'effetto, ovvero utilità; la terza ne la costanzia, ovvero fortezza; la quarta ne la maravigliosa battaglia e nel modo della vettoria. Imprima dunque fu eccellentissima ne l'acerbità de la pena; de l'acerbità de la quale pena dice così santo Massimo ovvero, come dicono i libri, santo Ambrosio: "Non fue, frati miei, morto san Lorenzo di corta, ovvero d'una passione; ché chi è morto con ispada, una volta muore, chi è gittato entro una fornace infiammata, in una sospinta è liberato; ma costui è tormentato di molte fatte e di lunghi tormenti, acciò che morte non li manchi a tormento, e manchili a la fine. Noi leggiamo che i santi garzoni andavano per le fiamme de le loro pene, e scalpitaro i grossi carboni di fuoco con i loro piedi; adunque san Lorenzo non è da esaltare da minore gloria. Coloro andavano ne le fiamme de le loro pene, questi giacette in lato nel fuoco del suo tormento; coloro scalpitaro l'arsura con le pedate de' loro piedi, costui ristrinse li spandimenti de' lati suoi; coloro, stando ne la pena, con le mani levate oravano a Dio, costui abbattuto ne la sua pena pregava Dio con tutto il corpo. E nota che san Lorenzo è detto che tenga principato dopo santo Stefano fra gli altri martiri, non perch'elli sostenesse maggiore pena che gli altri martiri - con ciò sia cosa che molti sostennero altrettanta pena e alcuni maggiore - ma ciò si dice per sei cagioni che corrono insieme. La prima si è per lo luogo de la passione, ché fue a Roma martirizzato dov'è la sedia del Papa, e perché Roma è capo del mondo; la seconda per l'officio de la predicazione, lo quale empìo diligentemente; la terza per lo lodevole distribuire de' tesori de' poveri, i quali distribuì così saviamente. Queste tre ragioni pone il maestro Guglielmo d'Altisiodoro. La quarta sì è per l'autenticamento del suo martirio, ché, se d'alcuni santi si legge che sostennero maggiori tormenti, non è così autentica scrittura, anzi n'è dubbio di molti. Ma la passione di costui è molto solenne e assai approvata ne la chiesa, e molti santi l'appruovano e conservano ne le loro scritture. La quinta si è per la dignità de l'Offizio, perché fue arcidiacono di messere lo Papa, e, dopo lui, come vogliono dire, non se ne levò neuno arcidiacano ne la sedia romana. La sesta cagione si è per la crudelezza de' tormenti, però che sostenne gravissimi tormenti come quelli che fue arrostito in su la graticola del ferro. Onde di lui dice santo Agostino: "Le braccia e le membra minuzzate per segatura di molte battiture, comandò che fossero cotte col fuoco disotto, acciò che per la graticola del ferro, la quale per lo continovo caldo del fuoco avea già vertude e possa d'ardere, il tormento fosse più forte per lo rimuovere de le membra rivolte l'uno con l'altro, e la pena fosse più lunga". Nel secondo luogo fue eccellentissima la passione di costui nel desiderio, ovvero ne l'utilitade, però che quella acerbità de la pena, secondo il detto di santo Agostino e di santo Massimo, sì 'l fece alto per glorificamento, e onorevole per fama, e lodevole per divozione, e grande per seguitamento. Prima dunque alto per glorificamento; onde santo Agostino dice: "Tu persecutore incrudelisti contra 'l martire, quando tu incrudelisti sì li accrescesti la vettoria, raunandoli la pena. Or no trovo questo luogo tuo a gloria del vincitore, quando i trionfi e la crudeltade del tormento passarono in onore". Anche dice san Massimo, ovvero santo Ambrosio secondo il detto d'alcuni libri: "Avvegna che ne la favilla si sciolgano le membra, no pertanto si scioglie la fortezza de la fede, sostiene danno del corpo, ma acquista guadagno di salute". Anche dice santo Agostino: "Veramente beato quello corpo, lo quale il tormento non mutòe de la fede di Cristo, ma la religione lo 'ncoronò a riposo". Nel secondo luogo onorevole per fama; onde dice santo Massimo, ovvero santo Ambruosio secondo alcuni libri: "Lo beato martire Lorenzo possiamo assomigliare al granello de la senape, il quale, posto per diverse passioni, meritò di rendere odore del suo misterio per tutto il mondo. E colui che prima stando nel corpo era basso e non conosciuto e vile, poi che fue angosciato, lacerato, a tutte le chiese per lo mondo spande l'odore de la sua utilitade". Anche dice quello medesimo santo: "Adunque degna cosa è, e piacevole a Dio, che noi, con ispeziale riverenza, onoriamo il natale di santo Lorenzo, per le cui risplendienti fiamme insin a questo die risplenda la Chiesa di Cristo per tutto il mondo". Anche dice quello medesimo santo: "Di tanta gloria di martirio fue chiarito che, per la passione sua, alluminò tutto il mondo". Nel terzo luogo, lodevole per divozione. Il perché e' debbia essere ricevuto con divozione e lodato, santo Agostino lo mostra per tre ragioni, e dice così: "Noi dobbiamo con tutta divozione ricevere san Lorenzo; l'una perché diede il prezioso sangue suo per lo Segnore; l'altra perch'elli acquistò non piccolo vantaggio appo Domenedio quando mostra chente debbia essere la fede di cristiani, de la quale compagnia meritarono d'essere martiri; la terza che fue di santa conversazione, che trovò la corona del martirio a tempo di pace". Nel quarto luogo il fece grande per seguitamento; onde santo Agostino dice: "Questa fu la cagione del martirio, per lo quale il santo uomo fu sentenziato a la morte, acciò che confortasse gli altri che fossono suoi simiglianti". In tre cose si fece da doverlo seguitare. L'una in forte sostenimento d'avversitadi, onde santo Agostino dice: "Ammaestrare il popolo di Dio di neuna cosa ci ha più utile forma che 'l martirio; però che 'l parlare bello è agevole a pregare, la ragione è efficace a confortare; ma più forti sono gli esempli che le parole, e più è ad ammaestrare con opera che con voce". Ne la quale eccellentissima maniera d'ammaestramento di che gloriosa dignitade risplendesse il beato Lorenzo martire, eziandio gli persecutori suoi il poterono sentire, come fosse maraviglioso quando quella fortezza d'animo non solamente non cedeva, ma eziandio fortificava gli altrui con l'essemplo de la sua pazienzia". Nel secondo luogo si fece da dovere essere seguitato ne la grandezza de la fede e nel fervore; onde san Massimo o sant'Ambrogio dice: "Da che con la fede sua vinse i persecutori per le fiamme, mostra a noi per lo fuoco de la fede di superare le fiamme de l'inferno e che non temiamo il die giudicio per l'amore di Cristo". Nel terzo luogo ne l'ardente amore; onde dice quello medesimo santo o Ambrogio: "Immantanente alluminò san Lorenzo il mondo di quello lume donde fu acceso, e riscaldò e' cuori di tutti li cristiani di quelle fiamme ch'elli patìo". Di queste tre cose dice così quello santo: "Quando rechiamo ad esemplo il martirio di san Lorenzo, sì ci accendiamo a la fede e riscaldiamoci a la divozione". Nel terzo luogo fue eccellentissima la sua passione ne la costanzia, ovvero fortezza. De la quale dice così santo Agostino: "Il beato Lorenzo stette in Cristo infino a la tentazione e infino a la domandagione del tiranno e infino a la minaccia fortissima e infino a la morte; ne la quale lunga morte, perché avea bene manicato e bene bevuto, ingrassato di quello manicare e innebriato di quello beveraggio, non sentìo li tormenti; onde non vi diede luogo, ma succedette nel reame. Però che tanto fu costante e fermo che non solamente non si sottopuose a' tormenti, ma eziandio di que' tormenti sì come si ha da i Detti del beato Massimo, diventòe più perfetto nel timore di Dio e più fervente ne l'amore e più giocondo ne l'ardore". Onde quanto a la prima cosa dice san Massimo: "È disteso sopra gli affocati carboni di fiamme, e quanto più spesso v'è voltolato, tanto più teme Cristo Dio". Quanto a la seconda cosa dice così quello santo medesimo, o secondo alcuni libri Ambrogio: "Sì come il granello de la senape quando si pesta, sì s'incende, così san Lorenzo quando patisce, sì s'infiamma". Anche: "Novella maniera di maraviglia altri è quelli che 'l tormenta ed altri, incrudelendo, compiono i tormenti; i più crudeli tormenti fecero sa' Lorenzo più devoto al Salvatore". Quanto a la terza cosa, dice così quel santo: "Il cuore di Lorenzo sì si riscaldòe di tanta grandezza d'animo de la fede di Cristo, che dispregiando i tormenti del proprio corpo, allegro elli faceva beffe del crudelissimo suo tormentatore, il quale si gloriava de' suoi fuochi". Nel quarto luogo fue eccellentissima ne la maravigliosa battaglia, e nel modo de la vettoria. Però che san Lorenzo, come si coglie da le parole di san Massimo e di santo Agostino, patìo cinque fuochi di fuori, i quali soperchiòe tutti fortemente, e sì li spense. Il primo fuoco fu quello del ninferno, il secondo fu il fuoco materiale de la fiamma, il terzo fu fuoco de la concupiscenzia de la carne, il quarto fuoco fu quello dell'avarizia ardentissimo, il quinto fuoco fu quello de l'ira impazzita. De lo spegnimento del primo fuoco, cioè quello del ninferno, dice così santo Massimo: "Or potea cedere a l'arsura del corpo che ad un punto, la cui fede spegneva l'ardore del fuoco eternale?" Anche dice quello medesimo santo: "Valicò adunque per lo fuoco d'un punto e nerissimo, ma campòe la fiamma del fuoco, che arde perpetualemente". De lo spegnamento del secondo fuoco, cioè de la fiamma materiale, dice così quello medesimo santo, o, secondo alcuni libri, Ambrogio: "Egli era affaticato de lo incendio corporale, ma il divino amore spense l'ardore del corpo". Anche dice quello santo: "Avvegna che 'l malvagio re mettesse le legne sotto e facesse maggiori incendii, impertanto san Lorenzo, per lo calore de la fede, non sentì queste fiamme". Anche dice santo Agostino: "Non poté essere soperchiata la carità di Cristo per le fiamme, e sì fu più crudele il fuoco ch'arse di fuori, che quello ch'arse dentro". De lo spegnamento del terzo fuoco, cioè di quello de la concupiscenzia de la carne, dice così san Massimo: "Ecco che san Lorenzo passa per lo fuoco, del quale, arrostito non temette, ma alluminato ne risplendeo. Arse, acciò che non ardesse, e fue arrostito, acciò che non fosse arso". De lo spegnamento del quarto fuoco, cioè de l'avarizia, in che modo fue annullata e ingannata l'avarizia di quelli che disideravano li tesori, dice così santo Agostino: "Armasi di doppia faccia l'uomo disideroso de la pecunia e nimico de la veritade: de l'avarizia, acciò che rapisca oro, e de la empiezza, acciò che tolga Cristo; ma nulla ne tieni, niuna cosa ti giova, o crudeltà d'uomo; è sottratta ne' venti tuoi la materia mortale e, san Lorenzo andandone in cielo, tu, misero, vieni meno ne le fiamme tue". De lo spegnimento del quinto fuoco, cioè de l'ira impazzata, come quello furore de' perseguitanti fu ingannato e annullato, dice così santo Massimo: "Vinti gli apparecchiatori de le fiamme, si ristrinse tutto l'ardore de la pazzia del mondo; e cotanto giovò a fare la intenzione del diavolo, che l'uomo fedele salìo al suo Dio glorioso, e la crudeltà di perseguitatori intepidìo piena di confusione che li suoi fuochi". E che l'ira di perseguitanti fosse fuoco, si mostra quando dice: "Il furore pagano acceso à 'pparecchiato la graticola affocata per vendicare col fuoco le fiamme de la indegnazione". E non è maraviglia sed e' vinse questi cinque fuochi, però che, come si prende de le parole di san Massimo, ed elli ebbe tre rifrigerii dentro e portò tre fuochi in cuore, per li quali potesse spegnere ogni fuoco di fuori, e con l'ardore maggiore vincesse il minore. Il primo rifrigerio fue il disiderio de la celestiale gloria, il secondo fue la meditazione de la legge divina, il terzo fue la purità de la coscienzia. Per questi tre rifrigeri ispense ogni fuoco di fuori e fecelo freddo. Del primo rifrigerio, cioè del disiderio de la celestiale gloria, dice così san Massimo, ovvero santo Ambrosio secondo alcuni libri: "Non potea san Lorenzo sentire i tormenti del fuoco ne le sue interiora, il quale possedeva i rifrigeri di Paradiso ne' suoi sentimenti". Lo stesso: "Ben giace la carne arrostita a' piedi del tiranno, e 'l corpo sanza anima; non ne patisce danno in terra, il cui animo dimora in cielo". Il secondo rifrigero fue la meditazione de la legge di Dio, del quale refrigerio dice così quello santo: "Da che san Lorenzo pensa i comandamenti di Cristo, ciò ched elli soffera sì li è freddo". Il terzo rifrigerio fue la purità de la coscienzia, del quale rifrigerio dice così quel santo: "Arde per certo in tutte le 'nteriora il fortissimo martire, ma pertrattando il reame del cielo per lo rifrigero de la buona coscienzia si rallegra vincitore". Ebbe neente di meno il santo martire, come dice quel santo Massimo, tre fuochi dentro, per li quali vinse tutt'i fuochi di fuori per lo maggiore incendio. Il primo fuoco fue la grandezza de la fede, il secondo l'ardente amore, il terzo il vero conoscimento di Dio; il quale conoscimento l'alluminò come fuoco. Del primo fuoco dice così quel santo, ovvero santo Ambruosio: "Quanto l'ardore de la fede fu fervente in lui, tanto la fiamma del tormento raffreddò in lui questo e quel fuoco". Anche: "Il fervore de la fede è il fuoco del Salvatore; del quale dice il Signore nel Vangelio: Io sono venuto a mettere fuoco in terra. Di questo cotal fuoco san Lorenzo infiammato, non sentìo l'ardore de le fiamme". Il secondo fuoco fue l'ardente amore; del quale dice così quel medesimo santo, ovvero Ambrosio: "Ardeva di fuori il martire Lorenzo per l'arsure del tiranno crudele, ma la fiamma dentro de l'amore di Cristo maggiore sì lo spegneva". Il terzo fuoco fue il vero conoscimento di Dio, del quale dice così quel santo: "La crudelissima fiamma del persecutore non poté vincere il fortissimo martire, però che assai più ardentemente era scaldata la sua mente accesa da' razzuoli de la verità". Anche dice quel medesimo santo: "Non d'odio di retade, ma d'amore di veritade acceso, la fiamma che li fu data di fuori o nol disentìo o e' la vinse". Ma elli ha san Lorenzo fra gli altri martiri tre privilegii quanto a l'Officio. Il primo si è la vilia, però che solo tra ' martiri ha le vilie. Ma le vilie de' santi sono oggi, per le molte disordinazioni, rimutate in digiuni, però che usanza fue, da quinci adrieto, come racconta Joanni Beleth, che per le feste de' santi gli uomini, con le mogli loro, e con le figliuole loro, si ragunavano a la chiesa, e ivi vegghiavano la notte con le lumiere; ma perché molti avolterii si facevano in queste vigilie, la chiesa rimutòe le vigilie in digiuno, ma pure ritenne il nome antico, ché sono chiamate ancora vigilie e non digiuni. Il secondo privilegio sì è che hae ottava, ché solo egli, e santo Stefano, tra ' martiri, hanno ottava, com'hae san Martino tra ' confessori. Il terzo privilegio è ne' versi de l'antefane, che l'hanno solamente elli e san Paulo, ma san Paulo l'hae per l'eccellenza de la predicazione, e costui per l'eccellenza del martirio.
cap. 113, S. IppolitoIppolito, poi ch'ebbe soppellito il corpo di san Lorenzo, se ne venne a casa sua e, dando pace a' servi e a l'ancelle sue, comunicò a tutti del sagramento de l'altare, che Giustino prete avea sagrificato a Dio; e posta poi la mensa, innanzi che prendesse il cibo, vennero li cavalieri, e pigliarlo e menarlo a lo 'mperadore. Veggendolo Decio Cesare, sorridendo disse a lui: "Or se' tu fatto mago, che si dice che tu hai tolto il corpo di Lorenzo?" Disse Ippolito: "Questo feci io, non come mago ma come cristiano". Allora Decio, ripieno d'ira, comandò ch'elli fosse ispogliato de l'abito ch'usava come cristiano, e datoli ne la bocca con le pietre. Disse Ippolito: "Tu non m'hai spogliato de l'abito, ma maggiormente m'hai vestito". Disse Decio: "De! come tu se' fatto matto che non ti vergogni d'essere ignudo? Adunque or sagrifica a li dei e viverai, acciò che tu non perisca col tuo Lorenzo". Allora disse Ippolito: "Dio il voglia ch'io sia l'esemplo di san Lorenzo meritevolemente, lo quale tu, misero, fosti ardito [ms.: adirato] di nominare con la bocca puzzolente". Allora Decio il fece squarciare con bastoni e con pettini di ferro, e quegli con chiara boce si confessava cristiano; e faccendosi beffe di questi cotali tormenti, sì 'l fece rivestire del vestimento cavalleresco, lo quale elli usava innanzi, confortandolo di ritenere l'amistade e la cavalleria di prima. E quelli dicendo che volea essere cavaliere di Cristo, Decio adirato il misse in mano di Valeriano prefetto, che togliesse tutte le sue possessioni e uccidesselo con duri tormenti. E da che ebbe trovato che tutt'i suoi fanti erano cristiani, furono menati tutti dinanzi a la sua presenzia. I quali essendo costretti di sacrificare, santa Concordia, la balia di santo Ippolito, rispuose per tutti, e disse: "Noi vogliamo anzi col nostro Segnore morire con onore, che vivere con vergogna". A la quale disse Valeriano: "La schiatta de' servi non s'ammenda se non con battiture". Allora la fece tanto battere con piombati che l'anima si parti dal corpo, e ciò fece in presenzia d'Ippolito; laonde ebbe molta allegrezza e disse santo Ippolito: "Io ti rendo grazie, Signore mio, c'hai mandata innanzi a' santi tuoi la balia mia, col cospetto tuo". Poscia fece Valeriano menare fuori de la porta di Tiburi santo Ippolito con la sua famiglia; e santo Ippolito, confortandoli tutti, sì disse: "Frati miei, non abbiate paura che io e voi abbiamo uno Dio". E comandò Valeriano che in presenzia d'Ippolito a tutti fossero tagliate le teste. Poscia fece legare i piedi d'Ippolito a i colli de' cavalli non domati, e fecelo tanto tirare tra i cardi e le spine che rendette l'anima a Domenedio intorno a gli anni Domini CCLVI. E i corpi loro tolse Giustino prete, e seppelligli a lato al corpo di san Lorenzo; ma il corpo di santa Concordia non poté trovare, però ch'era stato gittato in luogo di letame. Ma uno cavaliere ch'avea nome Porfirio, credendo che santa Concordia avesse oro o gemme ne le vestimenta sue, andossene ad uno letamaio ch'avea nome Ireneo, il quale era cristiano nascosto, e disse a lui: "Tienmi credenza e trai il corpo di Concordia del luogo sozzo, ch'io abbo speranza ch'ella abbia ne le vestimenta oro e gemme". E quelli disse: "Mostrami il luogo, e tengoti credenza, e ciò che troverabbo sì ti mostrerrò". Quando il n'ebbe tratto fuori e non trovandovi nulla, quello cavaliere fuggì, e Ireneo chiamò un cristiano ch'avea nome Abondo, e portarono quel corpo a Giustino prete, ed elli il tolse divotamente e seppellillo a lato al corpo di santo Ippolito e de gli altri. La qualcosa udendo Valeriano, fece prendere Ireneo e Abondo, e amendue gli fece affogare vivi entro la sentina; e Giustino tolse i corpi loro e seppelligli con esso gli altri. Dopo queste cose salìo Decio con Valeriano in sul carro de l'oro per andare a la piazza a tormentare i cristiani. Sì che Decio fu preso dal Diavolo, e gridava: "O Ippolito, tu mi meni legato con catene di ferro!" E Valeriano, angosciato crudelmente, simigliantemente gridava: "O Lorenzo, tu mi tiri legato con catene di fuoco". E in quella ora incontanente morì; e Decio tornòe a casa e, treangosciato dal demonio, gridava: "Io ti scongiuro, Lorenzo, rimanti un poco di tormentarmi"; e così si morìo. Udendo ciò la sua moglie Trifonia crudele con la sua figliuola, ch'avea nome Cirilla, lasciò stare ogni cosa e andossene a san Giustino e fecesi battezzare a lui con molti altri. E l'altro dì, quando Trifonia orava, rendette l'anima a Dio; il cui corpo seppellìo Giustino prete a lato al corpo di santo Ippolito. Udendo XLVII cavalieri che la reina e la figliuola erano fatte cristiane, vennero con le mogli loro a Giustino prete per ricevere lo battesimo; li quali battezzò tutti Dionisio, ch'era sacerdote soccedente a san Sisto. Claudio imperadore, non potendo che Cirilla sacrificasse, sì li fece dare d'un coltello e segare le vene, e gli altri cavalieri fece dicollare. E le corpora loro furono seppellite nel campo Verano con esso gli altri. Di questo martire dice così santo Ambruogio nel Profazio: "Il beato martire Ippolito, considerando Cristo vero capitano, volse essere suo cavaliere, lo quale provò per verace capitano, e 'l santo martire Lorenzo dato a sua guardia, non perseguitato, ma seguitò. Il quale cercando per li tesori de la chiesa, trovò un tesoro, non tale che 'l tiranno il togliesse, ma tale che la pietade il possedesse, trovò il tesoro onde le vere ricchezze s'adomandassero, dispregiòe il favore del tiranno per avere degnamente la grazia del perpetuale re; non temette che gli fossero divelte le membra per non essere divelte da i legami eternali". Uno bifolco ch'avea nome Piero, mettendo i buoi al carro per la festa di santa Maria Maddalena, e andando dietro a i buoi e maladicendo li costrignea, allora incontanente furono inghiottiti da uno fiume e, quello Piero che mandava queste bestemmie, fu tormentato più crudelmente, ché 'l prese un fuoco intanto che consumò e le membra e la carne de la coscia e de la gamba e rimasero l'ossa inferme; a la perfine si sciolse la coscia da la sua congiuntura. Allora quelli se n'andò ad una chiesa de la beata Vergine Maria, e nascose quella coscia in uno colombaio di quella chiesa, e pregava la donna nostra con lagrime e con prieghi che 'l liberasse. Ed eccoti una notte apparilli la Vergine Maria in visione con santo Ippolito; e la Vergine disse a santo Ippolito per comandamento che rendesse santade a Piero. Incontanente santo Ippolito tolse la coscia dentro il colombaio, e, come fosse innesto d'albore, in un punto la innestò nel luogo suo. Al quale innestamento sentìo tanti dolori che tutta la famiglia destòe con le grida che elli misse. Quelli si levarono, e accesono il lume, e trovarono che Piero avea due coscie e due gambe; ma, pensandosi essere beffati, sì ricercarono più e più volte e trovarono che veramente aveva quelle membra. I quali destandolo a grande pena, domandavalo onde questo li fosse intervenuto; ma elli, credendo che coloro lo dicessero per giuoco, a la perfine vide il fatto e maravigliossi; ma pure la coscia nuova era più tenera che la vecchia, e non bastava a ragguagliarsi a perfetto sostenemento del corpo. Onde a manifestamento del miracolo zoppicòe un anno, e allora gli apparve un'altra volta la Vergine Maria, e disse a santo Ippolito che ciò che mancasse al guarire sì li ricompiesse. Quelli isvegliandosi e trovandosi al tutto sanato, sì entrò in uno romitorio; al quale il diavolo apparìa spesse volte in forma d'una femmina ignuda, e, accostandosi così ignuda, quanto quelli più contrastava, tutto li si ficcava addosso più isvergognatamente. Essendo dunque molto angosciato da lei, a la perfine tolse una stola e cinsele il collo con essa, e 'l diavolo fuggìo tosto e lasciovvi un corpo puzzolente, del quale usciva tanta puzza che neuno dubitava che non fosse stato corpo d'alcuna femmina che 'l diavolo avesse preso.
cap. 114, Assunz. Maria L'assunzione de la beatissima Madre di Dio com' ella fosse, sì s'insegna d'un libro che non è approvato, il quale s'appropia a san Giovanni Vangelista. Spargendosi gli apostoli per diverse contrade del mondo a predicare, la vergine Madre di Dio si dice che rimase in una casa posta presso al monte Sion; e tutte le luogora del figliuolo suo, cioè il luogo del battesimo e del digiuno e de la passione e de l'orazione e de la sepoltura e de la resurressione e de l'ascensione per continova divozione visitava, mentre ch'ella visse; poscia, secondo dice Epifanio, sopravvisse XXIV anni dopo l'Ascensione del Figlio suo. E dice Epifanio che la beata Vergine quando concepette Cristo avea XIV anni, e ne li XV il parturì, e con lui stette XXXIII, e dopo la morte del figliuolo suo sopravvisse XXIV anni, e così, quando morìo, avea LXXII anni. Ma più è vero ch'ella sopravvisse XII anni al suo Figliuolo, e così di LX anni fosse levata in cielo, con ciò sia cosa ch'altrettanti anni predicassero gli apostoli in Giudea e in quelle parti, come si legge ne la Storia Ecclesiastica. Sì che un die, accendendosi fortemente il cuore de la Vergine nel desiderio del suo figliuolo, per lo grande ardore si commovea l'animo a grande abbondanza di lagrime di fuori, e non potendo più sostenere con iguale animo il tempo di così dolce figliuolo e i sollazzi sottratti a lei, l'angelo l'apparve con molto lume, e salutolla reverentemente come madre del suo segnore, e disse: "Dio ti salvi, benedetta, ricevente la benedizione di colui che mandò salute a Jacob. Ecco ch'abbo recato a te, madonna, uno ramo di palma del Paradiso, la quale tu comanderai che si porti innanzi al cataletto quando tu sarai al terzo die ricevuta del corpo, però che 'l tuo figliuolo aspetta te, madre di riverenzia". Al quale rispuose la Donna: "Se io abbo trovato grazia davanti a li occhi tuoi, priegoti che mi debbi rivelare il nome tuo; e anche ti domando questo, più so o posso, che i figliuoli e i fratelli miei apostoli si ragunino tutti insieme a me, sì che io gli vegga innanzi ch'io muoia e possa essere spogliata da loro e, loro presenti, rendere lo spirito a Dio. Anche t'adomando questo: che, uscendo l'anima dal corpo, non veggia neuno spirito maligno, e che neuna potenza di Satanas mi vegna contra". E l'angelo le rispuose: "Perché, Madonna, disideri tu di sapere il nome mio, lo quale è maraviglioso e grande? Ecco che tutti gli apostoli si rauneranno oggi dinanzi a te, che ti faranno grande onore a la morte, e nel cospetto loro renderai lo spirito al figliuolo tuo. Ché quello che portò il profeta anticamente di Giudea in Babilonia subitamente con un capello in mano, sì ti potrà menare in uno punto tutti gli apostoli. Ma i maligni spiriti perché hai tu paura di vedere, con ciò sia cosa che tu abbia attritato al tutto il capo del diavolo, e spogliatolo de la signoria de la sua potenzia? Ma pure sia fatta la tua volontà, come tu hai domandato". Dette queste cose l'angelo con molto lume salìo in cielo; e quella palma risplendea di maravigliosa chiaritade, però ch'ella era simigliante a una verga verde, ma le foglie sue risplendevano come fa la stella Diana. Or addivenne che, predicando san Giovanni in Efeso, e lo cielo tonòe ripentemente, e una nuvola bianca sì 'l prese e puoselo dinanzi a l'uscio de la Donna, e picchiando l'uscio entròe dentro, e salutò la donna reverentemente. E riguardandolo la beata Vergine, fortemente stupidìo, e per l'allegrezza non poté tenere le lagrime, e disse: "Ricorditi de le parole del maestro tuo, ched elli ti disse quando mi ti raccomandò come madre, e te a me come figliuolo. Ecco che chiamata dal Segnore, pago il debito de l'umana condizione, e 'l corpo mio raccomando a te che n'abbi cura e sollecitudine di guardarlo, però che io abbo inteso che li giuderi hanno fatto consiglio, e dicono: Aspettiamo voi, uomini frati, tanto che quella che portò Jesù muoia, e torremo il corpo suo e arderemlo entro il fuoco. Sì che allora farai portare questa palma innanzi al cataletto quando voi portate il corpo mio al sepolcro". Disse Joanni: "Or lo volesse Iddio che qui fossero tutti gli apostoli miei frati, acciò che noi ti potessimo fare quello onore che ti si converrebbe, e renderti degne laude!" Dicendo lui queste cose, tutti gli apostoli furono rapiti de le luogora là dove predicavano da le nuvole, e posti dinanzi a l'uscio de la Donna. I quali, vedendosi tutti ragunati insieme, si maravigliarono, e dicevano: "Qual è la cagione che 'l Signore ci ha raunati tutti insieme in questo luogo?" E san Giovanni uscì fuori a loro, e predisse che Madonna si dovea partire dal corpo, e aggiunse anche e disse loro: "Guardatevi, fratelli miei, che quando ella morrà veruno non la pianga, sì che il popolo de' giudei non corrano qua e dicano: - Ecco costoro come temono la morte, che predicano a li altri la resurressione -". San Dionigi, discepolo di san Paolo apostolo, nel libro che fece de' Nomi Divini afferma questo medesimo, cioè che li apostoli si raunarono a la morte de la beata Vergine, e elli simigliantemente vi fu presente, e che catuno vi fece sermone a laude di Cristo e de la Vergine Maria. E dice così parlando a Timoteo: "Noi, come tu sai, e molti de' santi nostri frati, ci raunammo a vedere il corpo de la vita del principe e di colei che ricevette Dio. Or v'era presente Jacopo, fratello del Signore, e Piero, e la sovrana e antichissima altezza di teologi Paolo". Infino qui dice Dionisio. E quando la beatissima madre di Dio ebbe veduto tutti gli apostoli raunati, sì benedisse il Signore, e nel mezzo di loro sedette, ardendo le lampane e le lucerne. E intorno a la terza ora de la notte venne Jesù con gli ordini de li angeli, e con la compagnia de' patriarchi e con le schiere de' martiri e de' confessori, e ' cori de le Vergini e, dinanzi al letto de la Vergine, s'ordinano le schiere, e spesseggiansi dolci canti. Or che officio fu questo, colui lo potrebbe dire; ché 'l primaio che cominciò fue Jesù, e disse: "Vieni, eletta mia, e porrò in te la sedia mia, però ch'io ho disiderata la bellezza tua". E quella disse: "Apparecchiato è il cuore mio, Domenedio, apparecchiato è il cuor mio". Allora tutti quelli ch'erano venuti con Jesù cantarono dolcemente, dicendo: "Questa è quella che non seppe letto in peccati; avrà frutto in ragguardamento de l'anime sante". Ed ella di se medesima cantò e disse: "Beata mi diranno tutte le generazioni, però che 'l Signore m'ha fatto gran cose, il quale è potente e santo il nome suo". Allora il creatore di tutte le cose gridò più eccellentemente, e disse: "Vieni del Libano, sposa mia, vieni del Libano, vieni che sarai incoronata". E quella disse: "Ecco che vengo, ché in capo del libro è scritto di me ch'io faccia la volontà tua, segnore Dio, però che lo spirito mio s'è rallegrato in Dio, salvatore mio". E così quella santissima anima uscì del corpo, e fu ricevuta ne le braccia del figliuolo suo, e fu così diliberata dal dolore de la carne, com'ell'era stata dilibera e strana da corruzione. E disse a gli apostoli il Segnore: "Maria portate voi ne la valle Josafat, e riponetelo nel monimento nuovo che voi vi troverrete, e aspettatemi tre dì, tanto ch'io torni a voi". E incontanente fue attorneata da fiori di rose e da gigli de le valli; le rose sono i martiri, e' gigli sono le schiere de gli angeli e de' confessori e de le vergini. E gli apostoli gridavano dopo lei, e dicevano: "Vergine prudentissima, or dove ne vai tu? Ricorditi di noi, o Madonna!" Allora, a concordanza di coloro che salìano, maravigliandosi le schiere ch'erano rimase, andarono incontrole a processione ratto ratto: e veggendo il re loro portare in su le braccia l'anima d'una femmina, e avendo lei appoggiata a lui, stupiditi di ciò, cominciarono a gridare e a dire: "Chi è questa che sale del diserto, la quale abbonda di delizie, appoggiata sopra 'l diletto suo?" E gli angeli che l'accompagnavano, rispuosero: "Questa è la bella tra le figliuole di Gerusalem, come voi la vedeste piena di caritade e d'amore". E così fu ricevuta in cielo gaudente, e allogata a la diritta parte del figliuolo, ne la sedia di gloria; e gli apostoli videro la sua anima, che era di tanta bianchezza, che non lo potrebbe contare lingua d'uomo veruno. E tre vergini che v'erano presente, quand'ebbero spogliato il corpo per lavarlo, di tanta chiaritade risplendette il corpo che ben si potea toccare a lavare, ma vedere al postutto non si potea. E tanto stette così risplendente il corpo che fu lavato da le vergini. E gli apostoli presero riverentemente il corpo de la donna e puoserlo in sul cataletto. Disse Joanni a Piero: "Questa palma porterai tu, Piero, innanzi al cataletto, però che 'l Signore ti puose sopra noi e ordinotti prencipe de le pecore sue". Disse a lui Piero: "Maggiormente si conviene a te di portarla, però che tu fosti eletto vergine dal Signore, e degna cosa è manifestamente che vergine porti la palma de la Vergine. Tu ancora meritasti di posarti sopra il petto del Signore, e più di tutti gli altri n'attignesti fiumi di sapienzia e di grazia; e giusta cosa pare che tu, il quale ricevesti dal figliuolo suo più dono, sì le facci più onore a tanta vergine. Adunque dei tu portare questa palma del lume a l'essequie de la santitade, il quale fosti abbeverato del beveraggio de la luce de la fontana de la perpetuale caritade. Ma io porterò il cataletto col santo corpo, e gli altri apostoli, nostri frati, attorneando il cataletto, rendano lode a Dio". E disse Paolo apostolo: "Io, che sono il minimo di tutti voi, sì 'l voglio portare teco". Levando dunque Piero e Paulo il cataletto, Piero cominciò a cantare e a dire: "Exiit Israel de Aegypto, alleluia!" E gli altri apostoli seguitarono dolcemente il canto, e 'l Segnore coprìo il cataletto e gli apostoli d'una nuvola, in tal modo che vedere con si potevano, ma pure la loro voce s'udiva. E furonvi gli angeli a cantare con gli apostoli, e riempierono tutta la terra de l'odore di maravigliosa soavitade. Sì che isvegliandosi le persone a così fatta melodia, escono tostamente de la cittade, e dimandando diligentemente che ciò fosse sì che fu uno che disse: "Quella Maria i discepoli di Jesù la ne portano morta, e càntarle d'intorno questa melodia che voi udite". Allora corrono tutti a l'arme, e confortavansi insieme, e diceano: "Venite, e uccidiamo tutti li discepoli, e quello corpo che ha portato quello ingannatore, sì l'ardiamo entro il fuoco". E 'l principe de' sacerdoti vedendo queste cose, sì si maravigliò e, ripieno d'ira, disse: "Ecco il tabernacolo di colui che conturbò noi e la generazione nostra, vedete testeso che onore hae ricevuto". E dicendo queste cose, manumise il cataletto volendolo travolgere e abbatterlo a terra. Allora ambo le mani gli diventarono secche subitamente, e in tale modo gli s'appiccicarono al cataletto, che stava con le pendenti mani al cataletto e, angosciato del gran tormento, piagnea lamentevolemente, e l'altro popolo fu percosso d'accecaggine da gli angeli ch'erano ne le nuvole. E 'l principe de' sacerdoti gridava e diceva: "San Piero, non mi spregiare in questa tribolazione, ma priegoti che tu prieghi il Signore per me, ché ben ti dee ricordare come alcuna volta com'io fui con esso teco e, accusandoti l'ancella portinaia, sì ti scusai io". Al quale disse Piero: "Noi siamo testeso infaccendati al servigio de la donna nostra; non possiamo intendere a guarirti; ma se tu crederrai nel Signore Jesù Cristo e in Questa che 'l portò, i' ho speranza che tu guarrai tosto". E quelli disse: "Io credo che Jesù Cristo sia verace figliuolo di Dio, e costei sua santissima madre". Incontanente le mani gli si spiccarono dal cataletto, ma nel braccio era ancora rimasa la seccaggine, e 'l forte dolore non era andato. Disse a lui Piero: "Bascia il letto e di': Io credo in Jesù Cristo che costei portò nel ventre, e rimase vergine dopo il parto". Quando quelli ebbe ciò fatto, incontanente riebbe la santade di prima. E disse a lui Piero: "Togli questa palma da la mano del fratello nostro Giovanni e ponla sopra il popolo accecato, e chiunque vorrà credere, riaverrà il vedere, e chi non vorrà credere, non vedrà giammai". Sì che gli apostoli portarono Maria e misserla nel monimento, e presso lui, sì come il Signore avea detto loro, vi sedettoro. E 'l terzo die venne il Segnore con la moltitudine de li angeli, e salutolli dicendo: "Pace sia a voi!" E quelli rispuosero e dissero: "Gloria sia a te, segnore Dio, che fai le grande maraviglie tu solo". Disse il Signore a li apostoli: "Che grazia e che onore che vi pare che si faccia ora la madre mia?" E quelli dissero: "Segnore, a i servi tuoi pare giusta cosa che sì come tu, abbiendo vinto la morte, regni ne' secoli, così debbi risuscitare il corpo de la madre tua, e collocarla a la diritta parte tua eternalmente". Quelli acconsentendo, eccoti venire san Michele angelo incontanente, e rappresentò l'anima de la donna dinanzi al figliuolo. Allora il Salvatore parlò e disse: "Leva su, parente mia, colomba, tabernacolo di gloria, vasello di vita e tempio; e come tu non sentisti sozzura di peccato, così non sostenghi corrozione di corpo!". Incontanente ne venne l'anima al corpo, e uscì il corpo glorioso del sepolcro, e così fu assunta in cielo tutta gloriosa, accompagnata dal figliuolo e da le schiere de gli angeli. E santo Tommaso non essendovi, vegnendovi poscia e non credendo, la cintola con la quale era cinto il corpo di lei, subitamente ricevette da l'aere, sanza essere danneggiata, acciò che per questo intendesse ch'ella fosse al tutto assunta. Tutto questo ch'è detto, è quello non autenticato, che san Geronimo dice ne la Pistola che mandò a Paula e ad Eustochio: "Però che quello libricciuolo apocrifo non è d'avere per verace se non se quanto ad alcune cose degne di fede, le quali sono approvate da' santi; e sono nove, cioè quelle cose che sono date a la Vergine: Il consolamento de li angeli in tutt'i modi, il raunamento di tutti gli apostoli, la fine senza dolore, la sepoltura ne la valle di Josafath, l'essequiale devozione di Cristo, la processione di tutta la corte celestiale, la persecuzione de' giuderi pessimi, risplendenza di miracoli in ogne cagione che si concede, l'assunzione in anima e in corpo insieme. E molte altre cose vi sono in esse, le quali non sono vere, come se che san Tommaso non vi fosse e, venendo, abbia dubitato, e altre simili, con ciò sia cosa che cotali cose non sono da predicare, ma maggiormente da lasciare stare". Le vestimenta sue si dice che rimasono nel sepolcro a consolazione de' cristiani; onde d'alcuna parte di quelle vestimenta si racconta avvenuto un cotale miracolo. Abbiendo il capitano de' Normanni [ms.: Romani] assediata la città di Carnotesi, il vescovo di quella città tolse la gonnella de la beata Vergine Maria, la quale si conservava quivi, e puosela in su una aste a modo di gonfalone; e, seguitandolo il popolo, uscì fuori a' nemici, e incontanente tutta l'oste de' nemici fu percossa da smemoraggine e da ciechitade; e stavano in triemito con tutto il corpo e sbigottiti ne l'animo. Veggendo ciò quelli de la cittade, per giudicio di Dio sopraggiungono i nemici e uccisergli crudelmente; la quale cosa fu provato che spiacesse molto a la Vergine, però che incontanente sparve quella gonnella, e l'oste riebbe il vedere. Ne la Revelazione di santa Elisabetta si legge, ch'essendo ella una volta rapita in ispirito, vidde in uno luogo molto rimoto un sepolcro attorneato di molto lume, e una figura quasi di femmina iventro, la quale attorneava una grandissima moltitudine d'angeli, e, poco stante, fu levata dal sepolcro in alto con quella moltitudine che le stava innanzi; ed eccoleti venire incontro uno uomo da cielo, maraviglioso e glorioso, e portava in mano ritta il gonfalone de la Croce, e con lui infinite migliaia d'angeli, e, così ricevendola allegramente, con grande canto la ne menarono in cielo. Da ivi a poco tempo Elisabetta domandò l'angelo, col quale ella spesse volte parlava, che visione quella fosse. E quelli disse: "Mostrato t'è come, sì in corpo come in anima, la Donna nostra sia assunta in cielo". Dice anche che le fu revelato in quelle Revelazioni che, dopo XL dì del suo passamento, ella fue assunta nel corpo; e la beatissima madre di Dio, ragionando con lei, sì disse: "Dopo l'ascensione del Signore un anno intero e cotanti dì quanti sono dal dì de l'Ascensione insino al dì de la mia assunsione, sopravvissi; tutti apostoli furono presenti a la mia morte, e 'l corpo mio seppellirono riverentemente, ma poi in capo de' XL dì risuscitai". E domandandola Elisabetta sed ella dovesse ciò manifestare o tenere celato, ella rispuose che: "Non era da manifestarlo a i carnali e a' miscredenti, né da celarlo a i devoti e a' fedeli". Da notare è adunque che la gloriosa Vergine Maria fu assunta interamente, onorevolemente, allegramente e eccellentemente. Assunta è interamente in anima e in corpo, sì come crede pietosamente la Chiesa. La qualcosa molti de' santi non solamente affermano, ma eziandio si sforzano di provarlo per aperte ragioni. Ché quello che si legge che disse san Bernardo, è una de le ragioni, e prendesi per minore: "Se Domenedio i preziosi corpi de' santi, e massimamente de li alti santi come di san Piero e di san Jacopo, ha fatti così gloriosi e venerabili, e halli esaltati di sì grande e maraviglioso onore, che a loro sia diputato luogo che si convegna a la loro onorificanza, che tutto il mondo trae a riverire i loro corpi; non mostra che 'l corpo de la Donna nostra sia sopra la terra, da poi che non è frequentato per divota divozione de' fedeli, né non l'è diputato veruno luogo d'onore, ch'altrimenti parrebbe che Cristo avesse disprezzato l'onore del corpo de la madre, da ch'elli fa cotanto onore a' corpi de' santi. Anzi se 'l corpo de la Donna nostra fosse in terra, di peggiore condizione sarebbe che 'l corpicello di veruno santo; ché appena è veruno santo che 'l suo corpo non sia onorato d'alcune persone, e se 'l corpo de la beata donna al postutto non si sa, né non è onorato da alcuni, adunque pare ch'al postutto sia anneghiettito dal figliuolo, la quale cosa non è così da credere. Resta adunque a dire per certo che il corpo de la Vergine Maria, il quale non avea veruno onore in terra, che sia fatto grandissimo onore in cielo". Ancora dice san Geronimo che a dì XV d'agosto santa Maria salìo in cielo; ma in ciò che elli dice de la corporale assunsione di Maria è anzi pietosamente da dubitare che da determinare alcuna cosa. Mattamente non niega il salire de la Vergine; ma pruova maggiormente ched e' fosse, avvegnadio che non lodi quello che non è autentico, e dice che per la scrittura non è certo; onde ne le parole che seguitano il pruova così: "Non mancano di quelli che dicono che in coloro i quali risucitarono con Cristo sia già compiuta la resurressione; e alcuni sono che credono che 'l guardiano de la Vergine, Joanni Evangelista, gode con Cristo in carne glorificata, la quale cosa non dubitiamo noi fatta de la beata Vergine però che quelli che disse: Onora il padre tuo e la madre tua; e: Non venni a rompere la legge, ma adempierla, per lo certo onoròe la madre sua sopra tutti". E santo Agostino non solamente afferma ciò, ma pruovalo per tre ragioni. E la prima dice, ch'è l'unione de la carne di Cristo e de la Vergine. E dice così: "La puzza e 'l vermine è vituperio de la condizione umana, dal quale non campa persona nessuna, trattone la natura di Maria, la quale è provato che Cristo prese di lei". La seconda ragione si è la dignità del corpo suo, onde dice: "La sedia di Dio, la camera del Signore, il tabernacolo di Cristo, degna cosa è che sia com'elli, però che così prezioso tesoro è più degna cosa che sia serbato in cielo che in terra". La terza ragione si è la perfetta integritade de la carne verginale; e dice così: "Rallegrati, Madonna, di letizia da non potere dire, esaltata in corpo e in anima nel proprio figliuolo e presso al tuo figliuolo, però che non debba seguire miseria di corruzione quella che, parturendo figliuolo, non seguìo neuno corrompimento di verginitade, acciò che sia sempre incorrotta colei che tanta grazia riempì; vivendo sia intera, la quale ingenerò la intera e la perfetta vita di tutti; sia con lui, lo quale ella portò nel suo ventre; sia appo lui quella che lo 'ngenerò e allattò e nutricòe, Maria, ministratrice e servitrice di Dio, sia colà dove Cristo sta. De la quale perch'io non ardisco sentire altrimenti, non prosummo di dire alcuna cosa". Acciò fa quello che nobile versificatore disse: "Scandit ad aethera virgo puerpera, virgula Jesse non sine corpore [sed] sine tempore tendit adesse". Ciò sono a dire: "Passa a l'aere la vergine partorente, verga di Jesse, non sanza il corpo, ma sanza tempo va ad essere". Nel secondo luogo fu assunta onorevolemente, però che esso Gesù e l'esercito di tutta la cavalleria celestiale ben venne incontro. Dice san Gironimo: "Chi basterebbe a pensare come gloriosamente la reina del mondo n'andasse oggi, con quanto effetto di devozione tutta la moltitudine de le schiere del cielo le venne incontro a processione, chi lo direbbe in parole con quanti cantari ella fue menata a la sedia, con che piacevole volto, con che chiara faccia, con che divini abbracciamenti ella fue ricevuta e sovr'ogne creatura è esaltata?". Anche dice elli medesimo: "Nel dì d'oggi è da credere che venne incontro con grande festa la cavalleria del cielo a la madre di Dio, e attorniolla d'un grande lume, e menarla infino a la sedia con laudi e con canti spirituali, e che tutta la cavalleria del cielo s'allegrò allora d'una indicibile letizia, e giubilòe con tutta allegrezza. Imperò che questa festa si rivolge a noi ogni anno in questo die, a tutti coloro è fatta continua, credesi ancora che esso Salvatore per sé tutto festereccio le venisse incontro, e allogolla seco in sedia con allegrezza. Altrimenti come avrebbe compiuto quello comandamento, cioè onora il padre tuo e la madre tua?" Nel terzo luogo fu assunta allegramente. Di ciò dice così Gherardo, vescovo e martire, ne le sue Omelie: "Oggi la vergine beata ricevettoro i cieli rallegrando, gli Angeli gaudendo, gli Arcangeli giubilando, li Troni esultando, le Dominazioni salmeggiando, li Principati armonizzando, le Podestadi ceterando, li Cherubini e ' Serafini innizando e menandola infino a la sedia de la supernale maestade di Dio". Nel quarto luogo fue assunta eccellentemente, onde dice san Geronimo: "Questo è quello die, lo quale la intemerata madre e Vergine procedette a l'altezza del trono, e, innalzata ne la sedia del reame, dopo Cristo siede gloriosa". Come ne la celeste gloria sia stata sublimata e onorata anche dice Gherardo vescovo ne le Omelie sue: "Solo il Signore Jesù Cristo poté così magnificamente magnificare la madre sua, sì come fece, che da quella maestade continuamente abbia lode e onore, murata da i cori de li angeli, affossata de le torme de gli arcangeli, posseduta da le giubilazioni de' Troni, cinta intorno da' balli de le Dominazioni, assepata intorno da li servigi de' Principati, abbracciata da li abbracciamenti de le Podestadi, ingraziata de li onori de le Virtudi, attorneata di lode di Cherubini, da ogne parte posseduta da ineffabili cantamenti di Serafini. Ancora essa, ineffabilissima Trinitade, con perpetuale ballo le fae letizia e, crescendo la sua grazia tutta in lei, tutti gli fa attendere a lei. Lo splendentissimo ardore de l'ordine de li apostoli con ineffabile loda sì l'agrandisce, la moltitudine de' martiri in tutt'i modi s'inchina a cotanta madonna, l'oste de' confessori le fa continovo canto, la candidissima brigata de le vergini le fa continuamente ballo a sua gloria. Ancora i luoghi infernali malvolentieri le fanno urlato, e ' superbissimi demoni gridano". Uno cherico, divoto de la beata Vergine Maria, contra il dolore de le cinque piaghe di Cristo si studiava quasi di consolarla per queste parole ogni dì dicea: "Rallegrati, madre di Dio, Vergine sanza macchia; rallegrati tu, che ricevesti allegrezza de l'angelo; rallegrati tu che 'ngenerasti la chiaritade del lume eternale; rallegrati tu, madre di Dio, rallegrati, santa genitrice di Dio vergine, tu sola madre non corrotta, te loda ogne creatura, madre de la luce, preghiamti che sia sempre avvogada per noi". Sì che costui per molta infermità corrotto, venne quando a l'ultima ora de la sua vita, incominciò ad avere gran paura e perturbazione. Al quale apparendo la beatissima Donna, sì li disse: "Perché, figliuolo mio, hai cotanta paura, che m'hai cotante volte annunziato allegrezza? Rallegrati dunque tu, e acciò che tu t'allegri eternalmente, vienne meco". Ed era uno monaco molto carnale, ma divoto molto a la gloriosissima madre di Dio. Sì che una notte andando al peccato usato, passando dinanzi a l'altare, salutò la beata Vergine Maria, e così uscendo de la Chiesa, da che volea valicare un fiume, caddovi entro e fue affogato. La cui anima abbiendo rapita i demoni, furono presenti gli angeli per liberarla. A i quali dissero le dimonia: "Perché siete voi venuti qua? Voi non avete niente in questa anima!" Ed eccoti immantanente la Donna del mondo; e pur volendo quelli rapire l'anima sua, la Donna gli rispuose e riprese. E quelli dissero: "Noi lo trovammo finire in ree opere". E quella disse: "Voi dite gran falsità; io so bene che quando elli andava in veruno luogo, sì mi salutava imprima, e così faceva a la tornata; e se voi dite che vi sia fatto forza, mettiamla nel giudicio di Dio". E contendendo di ciò dinanzi al Segnore, piacque che l'anima tornasse al corpo e pentessesi de le sue opere. Infrattanto i frati, veggendo indugiare il mattutino, domandarono il sagrestano e, andando al fiume, ritrovarono colui attuffato ne l'acqua; ed abbiendo tratto il corpo del fiume, maravigliansi come questo fatto fosse andato; ed eccoti subitamente colui tornare a vita, e disse ciò che era intervenuto, e finìo la sua vita in buone opere. Uno cavaliere molto potente e ricco, abbiendo iscialacquato tutti i suoi beni, venne a tanta povertade che elli, il quale soleva donare le grandi cose, già cominciava ad avere bisogno de le piccole. Ora avea questi una femmina, sua moglie, che era castissima e divota molto de la Vergine Maria. Sì che approssimandosi una grande solennitade ne la quale il detto cavaliere solea fare molte donora, non avendo già che donare, per la grande confusione e vergogna, tanto che in quella festa passasse, se n'andò in uno diserto luogo, acciò che vi piagnesse la sua sciagura e schifasse la vergogna. Ed eccoti subitamente venire a lui uno cavallo molto terribile con un cavalcatore più terribile; e venne a costui, e dimandò la cagione di tanta tristizia; e quando quelli ebbe narrato tutto ciò che gli era intervenuto, que' disse: "Se tu mi vorrai ubbidire in poco cosa, io ti farò avere più ricchezze ed onore che tu non avevi prima". Quelli rispuose al diavolo di fare volentieri ciò che comandasse, pure che elli adempia la promessa. E 'l diavolo disse: "Andra'tene a casa tua, e cerca in cotale luogo, e troverrai cotanti pesi d'oro e d'argento, e cotante pietre preziose, e tu mi farai questo che tu mi menerai mogliata in cotale luogo". E 'l cavaliere tornò a casa sotto cotale promessione, e trovò ogne cosa come il diavolo li disse, sì che tosto comperò palagi e donò grandi doni, ricomperò i poderi e comperò ischiavi; e, appressimandosi il dì ch'era ordinato, disse a la moglie sua: "Salite a cavallo, ché vi conviene un poco venire meco a lungi". Quella con grande paura e tremore, ma non volendo contradire al marito, raccomandossi devotamente a la beatissima Madre di Dio, e cominciò andare dietro al marito. E quando furono andati bene oltre allungati, trovarono una chiesa tra via; la donna iscese dal cavallo, e entrò ne la chiesa, e 'l marito l'aspettava di fuori. Ed ella raccomandandosi divotamente a la gloriosa Vergine Maria, subitamente s'addormentòe, e la Madre di Dio pietosissima, per tutto simigliante a la detta donna, in abito e in agguaglianza, uscì da l'altare e venne fuori e salì a cavallo, dormendo la donna ne la chiesa. E 'l cavaliere credendo che quella fosse la donna sua, cioè la moglie, sì andò oltre. E quando fu giunto al luogo diterminato, ed eccoti venire il diavolo con grande impeto, e, approssimandosi al luogo, incominciò a tremare e avere troppo tremore e paura, sì che non vi fu ardito d'andare, ma disse al cavaliere: "O infedelissimo de gli uomini, perché hai fatte tante scherne di me, e per cotanti beneficii m'hai commesse tante frode? Io t'avea detto che tu mi menassi mogliata, e tu m'hai menata la madre di Dio; io voleva mogliata, e tu m'hai menata Maria. Però che faccendomi la moglie tua molte ingiurie, io mi volea vendicare di lei, e tu m'hai menato costei perché mi tormenti e mettami in inferno". Udendo l'uomo queste cose, maravigliosamente venne stupefatto, e per la grande paura non potea parlare. E la Donna del mondo disse al diavolo: "Per lo quale ardimento, malvagio spirito, hai tu voluto dare la morte a la devota mia? Ma tu non andrai netto di questa opera; or io ti do questa sentenzia: che tu discenda a lo 'nferno, e ad alcuno che mi chiami con divozione non sie mai ardito di nuocere". Sì che quelli si partì con grande pianto, e quell'uomo scese da cavallo, e gittossi a' piedi de la Donna. E la Donna il riprese, e comandolli che tornasse a la moglie che dormìa ne la chiesa, e che gittasse via tutte le ricchezze del diavolo. Sì che tornòe e destòe la moglie e narrolle tutto ciò che gli era intervenuto. E quando furono tornati a casa, ed ebbero gittato via tutte le ricchezze, stettero divotamente ne la lode de la Vergine, e ricevettero poscia molte ricchezze per cortesia de la Donna nostra. Uno in visione fu rapito al giudicio di Dio, il quale era molto aggravato di peccati. Ed eccoti venire il diavolo, e disse a Domenedio: "Voi non avete veruna propia cosa in questa anima, ella è tutta ne la mia signoria, ché io n'hoe la carta piuvica". Al quale disse il Signore: "Ov'è la carta tua?" Ed egli: "Io n'abbo la carta che tu dittasti con la tua propia bocca, e decretasti di durata eterna, però che tu dicesti: "A qualunque ora voi ne mangerete, sì morrete di morte". Adunque, essendo costui di quella schiatta che mangiò il frutto proibito dee morire meco per ragione de la carta piuvica". Disse Domenedio: "O v'ha mo' chi risponde per te". Quelli stette mutolo. Disse anche il demonio: "Ella è anche mia, per la ragione ch'io l'abbo posseduta già XXX anni, e hammi ubbidito come schiavo proprio". E a queste parole stette anche come mutolo. Allora disse il demonio: "Ancora è mia, però ched elli fece alcuni beni; li mali sanza comperazione vincono i beni". E 'l Signore non volendo dare tosto la sentenza contra di lui, concedettegli termine otto dì, che in capo d'otto dì comparisse dinanzi a lui a rispondere di tutte queste cose. E partendosi da la presenzia del Signore con grande tremore e tristizia, uno gli venne incontro, e richieselo de la cagione di tanta tristizia. Quando quegli gli ebbe contato ogne cosa, sì disse: "Non temere ch'io sì te ne aiuterò francamente". E domandandolo quelli come avesse nome, disse: "Ho nome verità". Trovò anche il secondo che l'impromisse d'atarlo efficacemente; domandato del nome, disse che avea nome giustizia. Sì che l'ottavo dì rivenne al giudicio, e 'l demonio gli appuose la prima cosa. A questo disse la verità: "Noi sappiamo bene ched e' sono due morti, cioè quella del corpo e quella de lo 'nferno, ma quella carta che il dimonio allega, dice de la morte del corpo, non di quella de lo 'nferno; la qualcosa si manifesta in ciò, che essendo tutti inchiusi in quella sentenzia, non muoiono però tutti nel fuoco de lo 'nferno". Allora vedendo il demonio che per quello have perduto, appuose a la seconda cosa; e la giustizia rispuose per lui: "Avvegna che tu l'abbi posseduto per servo molti anni, ma pure sempre la ragione contradisse, e dolevasi di servire a cotale segnore, e però non correva sopra lui la prescrizione". A la terza cosa non ebbe neuno aiutatore; disse il Segnore: "Sia recata la stadera, e siano pesati tutti i beni e' mali". La veritade e la giustizia dissero al peccatore: "Ricorri con tutta la mente a la madre de la misericordia, la quale siede a lato al Segnore, e brigati di chiamarla che t'aiuti". Quando ebbe ciò fatto, la Madre de la pietade sovvenne incontanente nel suo aiuto, e puose la mano sopra la stadera da quella parte dove erano i pochi beni, e 'l diavolo si sforzava di trarre da l'altra parte, ma la madre de la misericordia poté più di lui, e liberòe il peccatore. Sì che l'uomo essendo tornato a sé, mutò la vita in migliore condizione. Ne la città di Barunti, intorno a gli anni Domini di Cristo DXXVII, comunicandosi li cristiani il dì de la Pasqua, uno fanciullo giudeo andò tra ' fanciulli cristiani a l'altare, e prese con loro il corpo di Cristo. Ritornato il fanciullo a casa, essendo domandato dal padre onde venisse, rispuose ch'era andato a la chiesa co' fanciulli cristiani co' quali andava a la scuola, ed erasi comunicato con loro. Allora il padre ripieno di furore, prese il fanciullo e gittollo entro uno forno ardente che era ivi presso. E incontanente la santissima Madre di Dio gli apparve in forma d'una vergine, la quale il fanciullo avea veduto sopra l'altare, e guardollo dal fuoco. E la madre del fanciullo chiamòe con sue grida molti de' cristiani e de' giudei, i quali, vedendo il fanciullo nel forno, e non ne avea male veruno, sì nel trassero fuori, e domandandolo com'era campato, quelli rispuose: "Quella Donna reverenda che sta in su l'altare, sì mi vidde e sì mi diede aiuto e cacciò da me ogni arsura". Allora i cristiani, intendendo che quella era la imagine della Donna nostra, presero il padre del fanciullo, e gittarollo entro il forno, e incontanente vi fue arso e consumato. Alcuni monaci stavano anzi die lungo il fiume ed ivi si ragionavano loro favole e altre parole disutili, ed eccoliti udire nocchieri, che navicavano per lo fiume con grande impeto; a i quali dissero li monaci: "Chi siete voi?" Quelli dissero: "Noi siano demoni che ne portiamo a lo 'nferno l'anima d'Ebroino, proposto de la casa de' re di Francia, il quale fue apostata del monasterio di san Gallo". Udendo ciò, e' monaci temettero fortemente, e cominciarono a gridare ad alte boci: "Santa Maria, ora per noi!" E le demonia dissero loro: "Voi avete chiamato santa Maria, e però siete voi campati; ché noi vi volavamo sommergere, per ciò che noi v'avevamo trovati favoleggiare dissolutamente fuori d'ora". Sì che i monaci ritornarono al monasterio, e le dimonia se n'andarono in inferno. Una femmina sostenea molta molestia dal demonio, che apparìa a lei visibilemente in forma d'uomo. E molti rimedii vi dava la femmina, or con l'acqua benedetta, or con questo, or con quello; e non se ne rimaneva con tutto ciò. Sì che un santo uomo la consigliò che quando venissero, ella, con le mani levate, gridasse: "Santa Maria, aiutami!" Quand'ella l'ebbe fatto, il diavolo, quasi percosso d'una pietra, ispaventato stette fermo, e poco stante disse: "Il mal diavolo entri in bocca di colui che lo t'insegnò". E incontanente sparve, e none andò più a lei. Nota che uno miracolo è ne la fine de la leggenda di santo Ippolito, per ciò che vi si tocca in parte di santo Ippolito.
cap. 115, S. Bernardo La sua vita scrisse Guiglielmo, abbate di santo Teodorico, compagno di san Bernardo, e Ernaldo abbate di Buona Valle. Bernardo fu nato in Borgogna in Castel Fontane, di nobili e religiosi padre e madre. Il cui padre ebbe nome Celestino, cavaliere valoroso al mondo e non meno religioso a Dio, e la madre fu chiamata Aaleth, Costei ingenerò sette figliuoli: i sei maschi e una femmina; li maschi che doveano essere tutti monaci, e la femmina monaca. Sì tosto com'ella partorìa il fanciullo, con le sue propie mani l'offeriva al Segnore: non volea che fossero nutriti d'altro petto che del suo, credendo quasi col latte materiale dare loro la natura del bene materiale. Quando il fanciullo fu cresciuto, quanto tempo ella l'ebbe a sua mano, maggiormente nutricava a l'eremo e lui e gli altri ch'ella non facea a la corte secolaresca, pascendoli di cibi grossi e comunali, quasi com'elli dovesse mandare ratto a l'ermo. Quando ebbe ingenerato il terzo figliuolo, cioè Bernardo, portandolo ella ancora nel ventre, vidde un sogno, ch'era profezia di quelle cose che doveano essere di lui, cioè un catello bianco, e nel dosso tutto cotale come rosso, e latrante parea ch'ella avesse nel ventre. La quale cosa quando ella ebbe detta ad uno santo uomo, quelli, quasi profetando, le rispuose: "D'uno ottimo catello sarai madre, il quale sarà guardiano de la casa di Dio, e abbaierà grandemente contra li nemici, e saràe un nobile predicatore, e molti ne guarrà con la grazia di Dio, con la sua lingua medicinale". Essendo dunque Bernardo ancora molto fanciullo, e avendo gran duolo nel capo, venne una femminella a lui per mitigarli il duolo co' suoi incantamenti, ed elli con grande ira sì la caccia via da sé, gridandole addosso. Sì che al fanciullo di buon zelo non venne meno la misericordia di Dio, ma, levandosi incontanente, conobbe ched elli era liberato. Ne la santissima notte de la nativitade del Signore, aspettando il fanciullo Bernardo l'officio del mattutino ne la chiesa, desiderando di sapere a quale ora de la notte il Signore fosse nato, apparveli il fanciullo Jesù, quasi un'altra volta dinanzi a gli occhi suoi nascente del ventre de la madre. Onde, mentre che visse, sempre pensò che questa fosse l'ora che il Signore nacque. Sì che da quell'ora innanzi, in quello che s'appartiene a quello sacramento, gli fu dato il sentire più profondo, e il parlare più copioso, onde poi a laude de la 'ngeneratrice de' suoi trattati, compuose quella solenne operetta, ne la quale ispianòe quella lezione del Vangelio: "Mandato fu l'angelo Gabriello". Vedendo l'antico nemico che il fanciullo avea così buono proponimento, ebbe invidia al proponimento de la sua castità, e contrappuoseli molti lacciuoli de la tentazione carnale. Ché abbiendo elli alcuna volta tenuti gli occhi fissi a guardare ad una femmina per alquanto tempo, vergognossi incontanente di se medesimo, e, faccendone di sé crudele vendetta, gittossi entro un'acqua agghiacciata, e tanto vi stette entro, che diventòe poco meno morto, sì che per la grazia di Dio rifrigeròe tutto dal calore de la concupiscenzia de la carne. Intorno a quello tempo per opera del diavolo, dormendo elli nel letto, sì si trovò a lato una pulcella ignuda, la quale elli sentendo, con tutta pace e silenzio, le lasciò quella parte del letto ch'ella aveva preso, e rivolsesi a dormire ne l'altro lato. Ma quella cattiva, sostegnendo e aspettando alcuno spazio di tempo, poscia toccandolo e puntellandolo, a la perfine vedendo che pure stava fermo, quella, avvegna che fosse isvergognatissima, sì ebbe un poco di vergogna, e, per lo grande errore e maraviglia, sì si levò di letto e fuggìo. Albergando lui in casa d'una donna, quella vedendolo un giovane bello a vedere, fu presa fortemente di lui e, abbiendoli fatto acconciare uno letto ispartito da gli altri, ella isvergognatamente e quietamente si levò la notte e andò a lui. Quando elli l'ebbe sentita, incontanente gridò e disse: "Al ladro, al ladro!". A la quale voce la femmina fuggì. La famiglia si leva, e la lucerna fu accesa, e cercarono per lo ladro; ma non fu trovato. Tornando tutti a dormire, gli altri si posarono, ma quella misera non si posava, ma lievasi un'altra volta per assalire il letto del giovane, ma elli gridò ancora: "Al ladro! Al ladro!". Cercarono del ladro ancora, ma quelli solo che 'l sapeva non lo volle dimostrare. E anche la terza volta la ria femmina fu così cacciata. A la perfine vinta o per paura o per disperazione, appena si rimase. Il seguente die camminando lui, i compagni il ripresono, e domandavallo perché tante volte aveva sognati i ladroni. A i quali elli disse: "Veramente questa notte abbo sostenuto agguati di ladroni, però che l'oste nostra si sforzava di torrermi il tesoro de la castità, che non si puote ricoverare". Veggendo dunque che non era sicura cosa abitare col serpente, cominciò a pensare di fuggire, e da quell' ora sì fermò d'entrare ne l'Ordine di Cestella. La quale cosa saputa da' fratelli, e ritraendolo a loro podere di questo proponimento, tanta grazia gli diede Domenedio, che non solamente non era ritratto da' fratelli, ma elli li guadagnò tutti a Domenedio a religione, e molti altri. Ma Gerardo, suo fratello, pro' cavaliere, pensava che fossero vane queste parole del fratello, e al postutto si gittava di dietro i suoi ammonimenti. Allora Bernardo, già acceso ne la fede e per zelo disopra, in ispirito, in maraviglioso modo disse a lui: "Io so, fratello mio, io so che sola turbazione darà intendimento a l'udire". E ponendoli il dito al costato, disse: "E verràe die, e tostamente verrà, quando la lancia forerà questo costato, e darà via al cuore tuo al consiglio che tu caccia via". Sì che da ivi a pochi dì Gherardo fu preso da' nemici, e in quello luogo dove il fratello avea posto il dito, gli fu dato d'una lancia, e con essa ne fu menato e messo in pregione. E Bernardo andò a lui e, non essendo lasciato parlarli, gridò a lui e disse: "Sappi, fratello Gherardo, che di corto dovemo andare a entrare nel monasterio". In quella notte li caddero le bove de le gambe, e, aperto l'uscio per se medesimo, fuggì lietamente, e dimostrò che aveva mutato proponimento, e volevasi fare monaco. Sì che ne l'anno de la 'ncarnazione del Signore MCXII anni, ne l'anno da la costituzione de la casa di Cestella XV, il servo di Dio Bernardo, essendo di XXII anni, entrò ne l'Ordine di Cestella con più di XXX compagni. Ed uscendo Bernardo co' fratelli suoi di casa del padre, Guido, il maggiore de' figliuoli di tempo, veggendo il suo fratello più minore Nevardo, giuocare ne la piazza con gli altri fanciulli, sì li disse: "Ai, fratello Nevardo, a te solamente rimane tutta la terra de la nostra possessione!" Al quale rispuose il fanciullo, ma non fanciullescamente: "Dunque avete voi il cielo, e a me solamente lasciate la terra? Questa divisione non è fatta per iguale parte". Sì che poco tempo rimase col padre, e poi seguitòe li fratelli. Entrato dunque ne l'Ordine il servo di Dio Bernardo, in tale maniera fue tutto mutato in ispirito e dato del tutto a Domenedio, che già non parea che avesse sentimenti di corpo. Quando ebbe già compiuto l'anno ne la cella de' novizi, non sapeva ancora se la casa avesse volta. Molto tempo entrando ne la chiesa e uscendo, nel capo, dove erano tre finestre, pensava che fosse pure una. Sì che l'abbate di Cestella mandò due frati ad edificare la casa di Chiaravalle, e puose sopra loro Bernardo per loro abbate. I quali abitavano là molto tempo in molta povertà, sì che spesse volte facevano la cucina di foglie di faggio e manicavano pane d'orzo e di veccia. E vegghiava il servo di Dio oltra podere umano, però che neun tempo dicea di perdere più che quello che elli dormìa, e riputava assai sufficiente comparazione del sonno e de la morte, che così paiono quelli che dormono morti appo gli uomini, come appo Dio quelli che sono morti pare che dormano. Onde se per avventura udisse che alcuno ruttasse duramente, o giacesse men che compostamente, in pazienzia nol potea sostenere, ma ponea che quello cotale dormisse carnalemente e secolaremente. Al mangiare non era tratto mai per diletto d'appetito, ma per sola paura di non venire meno; così andava a prendere il cibo, com'elli andasse al tormento. Dopo il cibo sempre era usato di pensare quanto mangiasse, e se per alcuna volta s'accordasse che avesse trasandata la misura, non lasciava passare sanza pena. Però che 'n tale maniera avea levato le dilettanze de la gola, che grande parte avea perduto il conoscere de' sapori; ché essendoli dato a bere l'olio per errore, sì 'l prese a bere, e non lo conobbe se non quando si trovò unte le labbra. Ancora il saime crudo offerto a lui per errore, molti dì il mangiò per butirro. Solo l'acqua diceva che gli sapea buono, in ciò che quando elli la beveva sì lo raffredava le gote e 'l gozzo. Ciò che avea apparato ne le Scritture, tutto confessava d'avere appreso ne le selve e ne le campora per meditazione, e che mai non avea avuti veruni maestri se non le querce e' faggi; così solea dire tra gli amici. A la perfine confessòe che alcuna volta meditando lui, ovvero orando, tutta la santa Scrittura apparve a lui com'ella sta, ovvero sposta. Alcuno temporale, sì come elli racconta ne' Cantici, con ciò fosse cosa che fra il parlare di queste cose che li dittava lo Spirito, pognanche con non infedele, ma pur con fidato animo, riserbasse per innanzi, per avere che dire a fare uno altro trattato, eccoti venire una voce a lui, e disseli: "Mentre che tu ti riterrai quello, non ricevera' altro". Ne le vestimenta sempre li piacea la povertade, ma le sozzure non giammai, però che dicea che le sozzure od erano per giudicare altrui, o per negligenzia, o per vanagloria di se medesimo, o per essere lodato da le persone. Onde a quello proverbio avea elli sempre in bocca e spesso in cuore: "Chi fa quello che non fa neuno altro, tutti si maravigliano". Onde molti anni portò il cilicio, e tennelo celato tanto quanto poteo; ma sì tosto come ebbe sentito che era saputo, incontanente il lasciò, e prese le cose comunali. Non rise mai, che non gli convenisse fare anzi forza a ridere che a ristringersi del ridere, e al ridere suo poneva piuttosto puntura che freno. Solea dire, quando era domandato, che tre parti sono quelle de la pazienzia, cioè ingiuria di parole, danni di cose e offensioni di corpi. Tutte queste cose provò d'avere in sé per questi essempli. Abbiendo elli mandato una lettera ad uno vescovo, ammonendolo amichevolemente, quelli, fortemente desdegnato, riscrisse a lui una amarissima lettera, dicendo così nel principio: "Salute e non spirito di biastemmia", come se quello santo gli avesse scritto da spirito di biastemmia. A la quale cosa rispuose il santo: "Io no mi credo avere spirito di biastemmia, né avere maladetto persona veruna, e né soe ch'io mi voglia avere maladetto massimamente il prencipe del popolo mio". Uno abbate gli mandò DC marchi d'ariento per far fare uno monasterio, ma tutta la pecunia fu rubata da' ladroni, quando era recata. Quando san Bernardo ebbe ciò udito, non disse nulla altra cosa se non: "Benedetto sia Dio, che ci ha levato questo carico d'addosso". Anche disse, che a coloro che recarono la pecunia, ne possono avere più lievemente pazienzia, sì perché la cupidigia de gli uomini la tolse da loro, e sì perché la grande pecunia misse in loro grande ardimento. Ancora uno calonaco regolare venne a lui, e pregollo con molta preseveranza, che 'l ricevesse per monaco. Al quale elli non acconsentendo, ma confortandolo che tornasse a la chiesa sua, disse quello calonaco: "Adunque perché hai tanto lodata la perfezione ne' libri tuoi, se non la vuoli dare a colui che n'ha disiderio? Ora avessi io tra mano quelli tuoi libri, ch'io al postutto gli squarciasse!" Al quale rispuose il santo: "In neuno di quelli hai letto che tu non possa essere perfetto nel tuo chiostro. Io lodo ne' libri miei che l'uomo s'ammendi de' costumi, non che muti luogo". Allora quegli, veramente pazzo, fece assalto contra al santo di Dio, e diedegli una grande mascellata, tale che diventò rossa ed enfiata. Allora que' che v'erano presenti volendo mettere mano a quello maladetto, il servo di Dio si parò loro dinanzi, gridando e scongiurandoli, per lo nome di Cristo, che per veruno modo non fosse toccato, né fattoli ingiuria veruna. A i novizî che soleano o voleano entrare, soleva così dire: "Se voi v'affrettate a le cose che sono dentro, lasciate, qui di fuori, i corpi che voi avete recati del mondo. Solo lo spirito ci entri, però che la carne non fa pro veruno". Il padre suo, perch'era rimaso solo a casa, andò al monasterio, e quivi dopo alcuno tempo morìo in buona vecchiezza. Ma la serocchia sua, maritata nel secolo, con ciò fosse cosa che ne le ricchezze e ne le dilettanze del secolo pericolasse, una volta andòe al monasterio a visitare i fratelli suoi, ed essendo venuta con compagnia e con grande pompa, elli l'ebbe in abbominio sì come rete del diavolo acconcia a prendere l'anime, né none acconsentìo per veruno modo d'uscire fuori a vederla. Veggendo quella che neuno de' fratelli non le si faceva innanzi, anzi da uno de' monaci, che era allora portinaio, fu chiamata sterco imbrattato, tutta quanta si risolvette in lagrime, e disse: "Se io sono peccatrice, per cotali morìo Cristo; e perch'io mi sento peccatrice, sì adomando i consiglio e 'l parlare de' buoni. Adunque, se il fratello mio hae a dispregio la carne mia, non abbia a schifo il servo di Dio l'anima mia; vegna e comandi, e ciò che comanderà sì adempierò". Sì che udendo il servo di Cristo questa impromessa, uscì a lei co' fratelli suoi, e però che non la poteva spartire dal marito, prima le interdisse tutta la gloria del mondo, e imponendole che seguitasse la forma de la madre, e sì la lasciò andare. Quand'ella fue tornata a casa, in tal modo si mutò, che stando nel secolo, faceva vita di romita, e tutta fu straniata dal mondo. A la perfine con molti prieghi vinse il marito e, prosciolta da lui, entrò nel monasterio. Una volta che 'l servo di Dio era infermo, quando parea già che volesse fare licenzia, cioè li sezzai tratti, fu levata la mente sua, e fu menato e presentato dinanzi a la sedia di Dio. Allora vi fu presente il diavolo da l'altra parte, accusandolo fortemente. Quando il diavolo ebbe detto ciò che volea dire, ed e' toccava a dire al servo di Dio, per la parte sua non ispaventato, ovvero turbato di nulla, disse così: "Io confesso ch'io non son degno, né posso per li miei meriti acquistare il reame di cielo; ma il Signore mio l'hae acquistato per doppia ragione, cioè per lo retaggio del suo padre, e per lo merito de la passione, sì che elli si sta contento de l'una, e dona a me l'altra; per lo cui dono, acquistandolo elli a me, di ragione non me ne vergogno". In questa parola vituperato il nemico e vinto, l'uomo di Dio fu sciolto e ritornò a sé. Di tanta astinenzia e fatica e vegghiare maceròe il corpo suo che, languendo di gravissima e quasi continua infermitàe, appena potea seguitare il convento. Una volta essendo lui infermo gravissimamente, istando i frati perseverantemente in orazione per lui, alquanto si sentì megliorato, e a' frati raunati disse così: "Perché tenete voi il misero uomo? Voi siete più forti e avete più potuto di me; or mi perdonate, pregovene, perdonatemi e lasciatemi partire". Essendo lui chiamato vescovo da molte cittadi, e massimamente da la città di Genova e di Melano, essendo adomandato e non acconsentendo, ma rifiutando, al tutto diceva così: "Io non sono mio, ma sono diputato al servigio altrui". Ed i frati, per consiglio del servo di Dio, s'avieno proveduto, ed erano bene forniti da l'autorità del Sommo Pontefice, che neuno potesse torre loro quella loro allegrezza. Adunque ad un tempo abbiendo lui visitati i frati di Cartugia, ed elli essendone molto edificati da lui in tutte cose, una cosa fue quella che mosse alquanto il priore del detto luogo: cioè che la sella, dov'elli sedeva cavalcando, era troppo anneghittita e non poco trasandava la povertà. La qualcosa il detto priore quando ebbe detta a l'uno de' tre, e quelli al servo di Dio, il servo di Dio, maravigliandosene non meno, domandava chente era la sella, però che da Chiaravalle insino a Cartugia era venuto, e pertanto non sapea chente si fosse la sella. Andando altressì lungo lago di Lausano il viaggio di tutto uno die, al postutto nol vidde, ovvero non s'accorse di vederlo. Ché quando venne la sera i compagni ragionavano di quello lago, ed elli gli domandò dove quel lago fosse, e coloro, udendo ciò, molto se ne maravigliarono. Vincea sanamente in lui il nome de l'altezza l'umiltà ch'egli avea nel cuore, né nol potea tanto tutto il mondo levare in alto, quando elli più s'abbassava solo. Per sovrano uomo era domandato da tutti; ma elli si riputava basso, e colui lo quale tutti si metteano innanzi, elli non si mettea innanzi a veruno. A la perfine, sì com'elli confessava, tra i sovrani onori e favori de' popoli gli parea essere rimutato in uno altro uomo, e maggiormente si riputava non esservi, come s'imaginasse che fosse un sogno. E quando si trovava fra i più semplici frati, sempre gli leceva usare con essi amichevole umilitade, e rallegravasi che si trovava quivi essere ritornato ne la propia persona. Sempre era trovato ad alcuni di questi esercizii orare o leggere o scrivere o pensare o edificare li frati per parole. Una volta predicando lui al popolo, veggendo che tutti stavano attenti e divoti a udire le sue parole, ne l'animo suo entrò una cotale tentazione: "Veramente predichi testeso troppo bene, e da tutti se' udito volontieri e tenuto savio da tutti". Ma l'uomo di Dio sentendosi essere menato da tale tentazione, stette fermo un poco, e cominciò a pensare s'egli andasse innanzi o s'e' facesse fine. E incontanente per l'autorio di Dio confortato, rispuose chetamente al tentatore: "Né per te incominciai, né per te lascerabbo"; e così procedette in su la predicazione infino a la fine. Un monaco il quale era stato al secolo rubaldo e giocatore, fue tentato dal nemico di volere tornare al secolo e, non potendolo san Bernardo ritenere, dimandollo di che viverebbe. Quelli disse: "Io so giucare a zara, che me ne potrò vivere". Disse il santo: "Se io ti commetto il capitale, vuo' tu tornare ogn'anno a me, e dividere meco il guadagno?" Quelli udendo ciò, sì si rallegrò, e promissegli di farlo volentieri. Sì che li fece dare XX soldi, e quelli si partì con essi. E questo faceva l'uomo di dio per poterlo richiamare ancora, sì come poscia addivenne. Quelli andò e, da che ebbe perduto ogne cosa, ritornò confuso a la porta del monasterio. Udendo ciò, l'uomo di Dio uscì fuori lieto a lui, e parò il grembo per dividere con lui il prode. E quelli disse: "Niuna cosa ho guadagnato, padre, anzi hoe perduto il capitale vostro; se volete me per quello cotale capitale, sì mi togliete". Al quale rispuose il santo benignamente: "Se così sta il fatto, meglio è che io ti riceva, che perdere l'uno e l'altro insieme". Una volta che l'uomo di Dio cavalcava una giumenta per andare in alcuno luogo, parlando con esso un villano, caddeli in forma di condolersi a lui de la mobilezza del cuore ne l'orazione. Quegli udendo ciò, incontanente il disprezzò, e disse di sé che avea il cuore fermo e stabile ne le sue orazioni. E volendolo il santo costrignere de la sua presunzione, sì li disse: "Cansati un poco, frate, da noi, e di' il Paternostro con tutta quella attendanza che puoi; e se tu il puoi dire sanz'altra vacazione di cuore insino a la fine, incontanente sanza dubbio, la giumenta dov'io seggio, sarà tua. Ma tu mi prometterai che se tu vi penserai veruna altra cosa, che tu nol mi terrai celato". L'uomo fu lieto, ché si tenea d'avere guadagnata la giumenta; e arditamente si cansa e, raccogliendo se medesimo, incominciò a dire il Paternostro. Appena ebbe compiuta di dire la metà, ed eccolti venire in cuore uno impronto pensiero di quella sella, sed e' la dovesse avere con la giumenta. Quando se ne fu accorto, tornò ratto al santo, e dimostrolli quel ch'elli avea pensato sollicitamente in quella orazione, e non ebbe poscia come prima matta presunzione di se medesimo. Frate Ruberto, monaco di san Bernardo e, secondo la carne, suo parente, ne la sua gioventudine ingannato per male conforto d'alcuni, si portò a Clunì. E 'l venerabile santo poi che si fue infinto di non saperlo alcuno temporale, manifestamente ordinòe di richiamarlo per la lettera; la quale, dittando elli a la scoperta e scrivendola un altro monaco di sua bocca, subitamente e non pensatamente venne una grande piova, e colui che scriveva cominciò a ripiegare la carta; e 'l santo li disse: "Egli è opera di Dio, none avere paura di scrivere". Sì che scrisse la lettera nel miluogo de la pioggia, e, piovendo da ogne parte, impertanto quivi non fece danno la piova scacciata da la virtù de la carità. Avendo occupato una grande moltitudine di mosche da non potere credere uno monasterio, che 'l servo di Dio aveva ordinato, in tale modo che grave noia facevano a tutti, e l'uom di Dio disse: "Io le scomunico". Sì che la mattina le trovarono tutte morte. Essendo mandato dal sommo Pontefice a Melano per riconciliare lo 'mperadore con la Chiesa, ed essendo già tornato a Pavia, uno gli menò la moglie sua indemoniata, e incontanente il demonio, per bocca di quella misera femmina, gli cominciò a dire villania, e diceva: "Non mi caccerai da l'uccellina mia, tu che mangi i porri, e divori le brasche". E l'uomo di Dio la rimandò a la chiesa di san Siro; e san Siro volle fare onore a l'ospite suo, né non le fece veruna cura di guerire; e così fu rimenata a l'uomo di Dio un'altra volta. Allora il diavolo cominciò a dire: "Non me ne caccerà Sirello, né Bernardo". E 'l servo di Dio disse: "Né Siro, né Bernardo ti caccerà, ma messere Jesù Cristo". E quando ebbe fatta l'orazione, il diavolo disse: "De! come io uscirei volentieri di questa uccellina essendo gravemente tormentato in lei! Ma non posso, perché non vuole il grande Signore Jesù Nazareno!" E 'l santo disse: "E chi è il gran Signore?" E que' rispuose: "Jesù Nazareno". E il servo di Dio disse: "Or vedestilo tu mai?" Il diavolo disse: "Maie sì". Disse il santo: "Or dove il vedesti?" Disse il demonio: "In gloria". Disse il santo: "Or fosti tu mai in gloria?" Que' disse: "Sì fui". Disse il santo: "Come n'uscisti?" Rispuose il demonio: "Con esso Lucifero ne cademmo molti". E tutte queste cose parlava il demonio con voce di pianto per bocca de la femmina vecchierella, udendolo tutti. Disse a lui l'uomo di Dio: "Or vorresti tu tornare in quella gloria?" E quelli cominciò a fare le maggiori risa del mondo, e disse: "Egli è tardi". Allora, orando il servo di Dio, il demonio uscì di quella femmina; ma quando il santo si fu partito quindi, il diavolo entrò un'altra volta in lei, e 'l marito de la femmina corse dietro al santo e contolli quello ch'era intervenuto. E quelli gli fece legare una cordellina al collo, che v'era scritto entro queste parole: "Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo, ti comando, dimonio, che tu non ardischi di toccare oggimai questa femmina". Quando ciò fue fatto, non fu ardito di tornare mai poscia a lei. In Aquitania era una femmina misera, la quale era miseramente angosciata da uno demonio lussurioso e soprastante, che sei anni l'usòe in mal modo e angosciandola d'incredibile lussuria. Veggendola elli l'uomo di Dio, il demonio minacciò fortemente la femmina che non andasse a lui, però che non le potrebbe giovare, e da che si fosse partito, se prima era stato suo amatore, diventerebbe crudelissimo perseguitatore. Ma ella andò sicuramente a l'uomo di Dio, e contolli con molto pianto quelle cose che ella patìa. E 'l santo le disse: "Tolli questo mio bastone e mettilo nel letto tuo, e se può fare nulla, sì 'l faccia". Quando ella l'ebbe fatto, e fussi posta a riposare nel letto suo, que' venne incontanente, ma non fu ardito né d'andare a l'usata opera, né pure a letto, ma minacciolla agramente che, quando il santo si partisse, si vendicherebbe crudelmente di lei. Quand'ella l'ebbe udito, il disse al santo; e elli ragunò il popolo e comandò che tutti avessero le candele accese in mano, e con tutti quelli che v'erano presenti iscomunicòe il demonio, e interdisseli che non andasse mai più a lei. E così ella fu liberata al tutto da cotale illusione. Con ciò fosse cosa che 'l santo fosse mandato per legato ne la detta provincia per pacificare il duca d'Aquitania con la Chiesa, ed elli al tutto rifiutasse la pace, il santo di Dio andò a l'altare per dire la Messa, aspettandosi il detto duca dinanzi a le regge de la chiesa, sì come uomo ch'era scomunicato. E quando ebbe detto: "Pax Domini" ne la Messa, puose il corpo di Cristo in su la patena, e portollo seco, e uscì così fuori con una faccia infiammata, con gli occhi ardenti, e assalette quello conte con terribili parole, e disse: "Noi t'abbiamo pregato assai, e tu ci hai spregiati; ecco ch'è venuto ora a te il figliuolo de la Vergine, il quale è signore de la Chiesa, la quale tu perseguiti. Egli è presente il giudice tuo nel cui nome ogne ginocchio si piega; è anche presente il Domenedio tuo a le cui mani capiterà l'anima tua. Or ispregera' Lui, come tu fai i suoi servi? Or li contasta, se tu puoi!" Incontanente il duca cadde tutto a terra e, discioltelesi tutte le membra, si gittò a' piedi suoi. Il santo il toccò col calcio, e comandolli ch'elli si levasse, e udisse la sentenzia di Dio. Quegli si levò con tremore, e ciò che 'l santo di Dio gli comandò, sì adempié incontanente. Essendo l'uomo di Dio entrato nel reame di Germania per pacificare una grande discordia, uno arcivescovo gli mandò uno venerabile cherico. E dicendoli il cherico com'egli era stato mandatoli incontro, l'uomo di Dio rispuose: "Altro segnore t'ha mandato". Quelli, maravigliandosi, affermava pure che non era mandato da altro segnore che dal suo. E da l'altra parte dicea il santo: "Tu se 'ngannato, figliuolo, tu se' ingannato! Maggiore segnore è quelli che t'ha mandato, cioè Cristo". Il cherico intendendo la parola, sì disse: "Or pensi ch'io voglia essere monaco? Non piaccia a Dio! Non l'ho pensato, né non mi viene in cuore; non ci diciamo più parola". In quello viaggio li fece lasciare il secolo, ed ebbe l'abito di monaco dal santo di Dio. Avendo lui ricevuto a l'Ordine uno cavaliere molto nobile, ed elli seguitando l'uomo di Dio alcuno tempo, cominciò a essere tentato d'una gravissima tentazione. E veggendolo uno de' frati suoi molto tristo, domandò quale fosse la cagione di tanta tristizia. E quelli li rispuose: "Io so ciò, disse, io so ch'io non sarò giammai lieto". La quale parola quando quello frate ebbe contata a l'uomo di Dio, sì pregò Domenedio per lui attentamente. Incontanente quello frate ch'era così gravemente tentato e così tristo, fu cotanto più lieto, e giocondo apparve più che gli altri quando elli era prima più tristo che gli altri. Onde quando il detto frate gli rimproverava amichevolemente la parola di tristizia che quelli avea detta, quelli disse così: "E s'io il dissi, ora dico così: che giammai non sarò tristo". Essendo santo Malachia, vescovo d'Irlanda, la cui vita piena di vertudi il santo di Dio scrisse, passato di questa vita e andatone beatamente a Cristo, offerendo per lui il santo di Dio l'ostia santa a la Messa, cognobbe, per revelazione di Dio, la gloria di colui e, spirandolo Domenedio, mutò dopo la comunione la forma de l'orazione con allegra voce, così dicendo: "Domenedio, il quale il beato Malachia hai agguagliato a le merita de' tuoi santi, preghiamti che tu ci doni che raccordando la festa de la morte sua preziosa, seguitiamo l'essemplo de la sua vita". E accennandoli il cantore ched elli errava, quelli disse: "Non ero no; ben so che mi dire". Poscia andò per basciare le sue sante pedate. Infra 'l tempo de la Quaresima essendo elli visitato da molti baroni, sì gli pregò che almeno in quelli santi dì s'astenessero de le vanitadi e de le lascivie del mondo. Coloro non acconsentendoli per veruno modo, fece mescere lo vino loro, così dicendo: "Bevete il beveraggio de l'anime". Beuto che l'ebbero, sì si partiro subitamente mutati, e quelli ch'avevano negato piccolo tempo, diedero tutto il tempo de la vita loro a Domenedio. A la perfine il santo padre, appressimandosi a la morte, disse a' frati suo': "Tre cose vi lascio ad osservare, le quali mi raccordo avere osservato nel corso de la presente vita al mio potere. A neuna persona ho voluto fare scandalo e, se alcuna volta vi sono caduto, sì l'ho pacificato al mio potere. Sempre ho creduto meno al mio senno, ch'a l'altrui. Di colui che m'offendesse, non domandai giammai vendetta. Ecco dunque che vi lascio caritade e umilitade e pazienzia". A la perfine, poi ch'ebbe fatti molti miracoli, e ordinati CLX monasterii, e composti molti libri e molti trattati, compiuto il tempo de la vita sua, nel torno di LXIII anni, ne li anni Domini MCLIII, morìo in Domenedio, tra le mani de' suoi figliuoli. E dopo la morte sua manifestò la gloria sua a molti. Ch'egli apparve ad uno abbate in alcuno monasterio, e ammunillo che 'l seguisse. E quei seguitandolo, disse a lui il santo: "Ecco che verremo al monte del Libano, e tu starai qui infermo, ma io monterò lassù". E domandato da lui a che fare volesse salire: "Sì, disse, io voglio apprendere". Quelli si maravigliò, e disse: "Or che vuoli imprendere, padre, al quale non crediamo che veruno sia dopo te in iscienzia?" E 'l santo rispuose: "Niuna scienzia e qui, e niuno conoscimento di verità, ma là suso è la plenitudine de la scienzia, là suso è il conoscimento de la verità". E detta questa parola, isparve. Colui che vidde questa visione notòe il die, e trovò che allora san Bernardo era uscito del corpo. Molti altri miracoli, e quasi sanza numero, fece Domenedio per lo servo suo santo Bernardo.
cap. 116, S. Timoteo Timoteo essendo gravemente tormentato dal prefetto di Roma, e poi essendo sparta la calcina viva sopra le piaghe sue, ed egli in queste cose rendendo grazie a Domenedio, due angeli gli stettero dinanzi, e sì li dissero: "Leva su il capo, e poni mente il cielo". E, ragguardando, vidde il cielo aperto e Jesù Cristo che tenea una corona di gemme in mano, e diceva a lui: "Questa riceverai tu di mia mano". La qualcosa veggendo, uno uomo che avea nome Apollinari, fecesi battezzare. Laonde il prefetto gli fece decapitare abendue, perseverando loro ne la confessione del nome di Jesù Cristo, intorno a gli anni Domini LVII.
cap. 117, S. SinforianoSinforiano nato ne la città d'Agosta, essendo ancora giovane, risplendeva di tanta gravezza di costumi, che pareva che trasandasse la vita de' più vecchi. Faccendo dunque i pagani la festa da Venus, e portandolo l'idolo suo dinanzi ad Eraclio prefetto, Sinforiano vi fu presente e, non volendo adorare, fu battuto lungamente e messo in prigione. Essendo poi tratto di pregione e costretto a sacrificare e promessogli molti doni, sì disse: "Lo Dio nostro secondamente ched elli sae rimunerare i meriti, e così sa punire i peccati; adunque la vita che noi siamo tenuti di rendere a Cristo per lo debito, rendiamogliele per desiderio. Tardo pentimento è sotto giudicio avere temuto il cospetto. I doni vostri, che testeso paiono coloriti, mischiati di dolcezza di mele, a le mal crudeli menti parturiscono veleno. La cupidezza vostra abbiendo tutto, possiede nulla; però che è obbligata da l'arti del diavolo e temuta da i legami del misero guadagno, e le vostre allegrezze a simiglianza del vetro, quando cominciano a risplendere, sì si spezzano". Allora il giudice, ripieno d'ira e data la sentenzia, comandò che fosse morto. Il quale essendo menato al luogo del martirio, la madre sua gridando dal muro, sì le disse: "Va, figliuolo mio, nel reame di vita eterna; ragguarda suso, e vedi colui che regna nel cielo; a te non è tolta la vita, ma etti migliorata". Sì che tosto come fu dicollato, fu tolto il corpo suo da' cristiani, e seppellito onorevolemente. Al cui sepolcro tanti miracoli si facevano, che eziandio da' pagani era avuto in grande reverenzia. Racconta Gregorio Turonese che di quello luogo dove il sangue suo fu sparto, uno cristiano ne tolse tre petruzze, ch'erano imbagnate nel sangue suo, e ripuosele in una cassa d'argento innasserata di fuori di legname. La quale cassetta abbiendo allogata in uno castello, e quello castello fu consumato per fuoco, ma del mezzo del fuoco fu tratta la cassa intera e sana. E fu passionato intorno a gli anni Domini CCLXX.
cap. 118, S. BartolomeoDe la sua sapienza dice così san Dionisio ne la Figurativa Divinità: "Il divino Bartolomeo dice che la Teologia è molta e poca, e che 'l Vangelio è lato e grande e che 'l corso sia tagliato. E vuole san Bartolomeo mostrare, seguitando la 'ntenzione di san Dionisio, che per una considerazione si possono tutte le cose affermare di Dio, ovvero per altra considerazione si possono tutte le cose più propiamente negare di lui, levato da l'amore del mondo. Bartolomeo apostolo vegnendo a l'India, la quale è ne la fine del mondo, entròe in un tempio dov'era l'idolo ch'avea nome Ascaroth, e cominciò a starvi entro come uno pellegrino, in questo tempo. E uno demonio abitava in questo idolo, il quale diceva che guarìa l'infermi; ma non sovvenìa sanandoli, ma rimanendosi da l'offenderli. Essendo il tempio pieno d'infermi, e non potendo avere riposta veruna da l'idolo, andarono ad un'altra cittade, dove s'adorava uno altro idolo, che avea nome Berith, e domandollo perché Ascaroth non li dava loro risposta. Rispuose Berith: "Il domenedio nostro è costretto di catene di fuoco, sì che non può fiatare, né parlare da l'ora innanzi che l'apostolo di Dio, Bartolomeo, entrò ne la città di Sion". Coloro: "Chi è questo Bartolomeo?" Disse il demonio: "Egli è amico di Dio onnipotente, e però è venuto in questa provincia per votarla di tutti gli dei de l'India". Dissero coloro: "Dicci i segnali di lui, che noi il possiamo trovare". E 'l demonio disse loro: "I capelli suoi sono neri e crespi, e la carne bianca, gli occhi grandi, le nari iguali e diritte, la barba lunga con pochi; peli canuti; la statura è iguale; è vestito d'un diaspo bianco con chiovi di porpora lavorato; è vestito d'uno mantello bianco che ad ogne cantone hae gemme di porpora. Ventisei anni sono che le vestimenta sue e le pianelle non sono invecchiate, né sozzate; cento volte il die con le ginocchia in terra e cento volte la notte fa orazione. Gli angioli di Dio vanno sempre con lui che non lasciano mai né affaticare, né avere fame. Sempre sta d'un modo allegro nel volto e ne l'animo; tutte le cose vede dinanzi, tutte le cose sa bene, di tutte le genti sa le lingue e intende, e sa già che io parlo con voi. E quando cercherete di lui, se vorrà, sì si lascerà trovare, e, se non vorrà, non si lascerà trovare. E priegovi quando voi l'avrete trovato, che voi il preghiate che non ci vegna, acciò che i suoi angeli non facciano quello a me, ch'elli hanno fatto già al compagno mio". Con ciò dunque fosse cosa che cercassono due dì sollicitamente per lui e non lo trovarono, un die gridava uno indemoniato, e diceva: "Apostolo di Dio Bartolomeo, me incendono l'orazioni tue". Disse a lui l'apostolo: "Sta mutolo, e esci da lui". E incontanente fu liberato. Udendo ciò Polimio, re di quella contrada, avendo la figliuola, la qual'era lunatica, mandò pregando l'apostolo che venisse a lui a sanare la sua figliuola. Essendo l'apostolo venuto a lei, e vedendola legata con catene, per ciò che chiunque andava a lei mordea fortemente,comandò ch'ella fosse sciolta, e, none essendo arditi i ministri d'andarle presso, l'apostolo disse loro: "Il dimonio, il quale era in lei, tegno io già legato, e voi temete?" E incontanente fu sciolta e liberata. Allora il re fece caricare molti cammelli d'oro e d'ariento e di pietre preziose, e fece cercare per l'apostolo, e in niuna maniera fu trovato. Ma la mattina seguente apparve l'apostolo al re, stando ne la camera solo, e disse a lui: "Perché mai m'hai tu fatto andare tutto dì caendo con oro e con argento? Questi doni sono necessari a coloro che vanno caendo le cose terrene, ma io non disidero neuna cosa terrena, né di carne". Allora san Bartolomeo il cominciò ad ammaestrare molto del modo del nostro ricomperamento; mostrandoli infra l'altre cose, come Cristo vinse il diavolo per mirabile convegnenza, potenzia, giustizia e sapienzia. Imperò che convonevole cosa fue che colui il quale avea vinto il figliuolo de la vergine, ciò era Adamo fatto di terra, essendo ella ancora vergine, fosse vinto dal Figliuolo de la Vergine. E potentemente il vinse, quando de la sua signoria il cacciò potentemente, la quale il diavolo s'avea presa per lo discagimento del primo uomo. E sì come il vincitore d'alcuno tiranno manda i suoi compagni ad esaltare in ogne parte i suoi titoli e abbassare quelli del tiranno, così Cristo vincitore manda in tutte parti i messaggi, che anneentiscono l'onore del diavolo, e ordini quello di Cristo. Ancora giustamente, acciò che colui il quale, vincendo l'uomo mangiante, sì 'l tenea preso, essendo vinto da l'uomo digiunante, non tenesse più l'uomo. Ancora saviamente, quando il diavolo usòe questa arte, che come lo sparviere prende l'uccello nel diserto, così elli credette prendere Cristo nel diserto; in questo modo che seguitando non avesse fame, sanza dubbio sarebbe Dio, ma se avesser fame, così vincerebbe lui per cibo, come avea vinto il primo uomo. Ma non potette essere conosciuto per Domenedio, però ch'ebbe fame; né vinto non potette essere, perché non diede luogo a la tentazione di colui. Avendo dunque l'apostolo predicato il re de' sagramenti de la fede, sì li disse che se si volesse battezzare, sì li mosterrebbe il domenedio suo legato con catene. Sì che il seguente die sagrificando i pontefici a l'idolo, per volontà del re, il demonio cominciò a gridare, e a dire: "Rimanetevi, cattivi, di sacrificare a noi, acciò che non sostegnate peggio di me, che sono rilegato con catene di fuoco da li angeli di Jesù Cristo, il quale i giuderi crucifissono, pensando loro che fosse tenuto da la morte. Ma elli empregionò quella morte, quella ch'è nostra reina, e legòe con le mani co' legami di fuoco quello nostro prencipe, autore di morte". E incontanente missero le funi per mandare a terra l'idolo, ma non poterono. E l'apostolo comandò al demonio che uscisse de l'idolo e tutto lo stritolasse; il quale n'uscì incontanente e, per se medesimo, spezzò e ruppe tutti l'idoli del tempio. E poi fatta l'orazione de l'apostolo, tutti gl'infermi furono incontanente guariti. Allora l'apostolo consegròe il tempio a Domenedio, e al demonio comandò che se ne andasse nel diserto. Allora l'angelo di v'apparve e, volando intorno al tempio, a le quattro cantora scolpìo la croce col dito suo, così dicendo: "Questo dice il Signore: Sì come io v'ho tutti gueriti da le infermitadi vostre, così questo tempio sarà purgato da ogne sozzura e da l'abitatore suo, lo quale l'apostolo comandò che andasse in diserto luogo. Ma io sì lui mosterrabbo, lo quale veggendo voi non temiate di nulla, ma fatevi ne le fronti cotale segno chente i' hoe scolpito in queste pietre". Allora mostrò loro uno saracino più nero che la fuliggine, con la faccia aguta e con la barba lunga e con la capegliatura infino a' piedi, con gli occhi infiammati come ferro rovente, che mandavano fuori faville, e per la bocca e per gli occhi soffiava fiamme di solfo, e avea legate le mani di drieto con catene di fuoco. Al quale disse l'angelo: "Imperò che tu hai udito il comandamento de l'apostolo, e spezzasti tutti gl'idoli del tempio, io sì ti scioglierò, e va in tale luogo dove neuno uomo stea, e ivi sta di qui al die del giudicio". Quando quegli fu sciolto, con grande strepito e urlamento sì disparve, e l'angelo di Dio volòe in cielo, veggendolo tutti. Allora il re si battezzò con la moglie e co' figliuoli e con tutto il popolo e, lasciando il regname, diventòe discepolo de l'apostolo. Allora tutti i pontefici de' tempî si ragunarono ad Astrage re, fratello di colui, e lamentarsi a lui del perdimento de li dei suoi e del sovvolgimento del tempio e del re ch'era ingannato per arte di demoni; e tutto questo opponeano a l'apostolo. Sì che il re Astrage, adirato, mandò mille uomini armati a prendere l'apostolo. Il quale essendoli menato dinanzi, disse il re a lui: "Or se' tu quelli che hai pervertito il mio fratello?" Disse l'apostolo: "Io non l'ho pervertito, ma convertito". Al quale disse il re: "Sì come tu hai fatto lasciare al fratello mio il Domenedio suo e credere al tuo, così io ti farò abbandonare il tuo Domenedio e sacrificare al mio". Al quale disse l'apostolo: "Io abbo legato il Domenedio che 'l tuo fratello adorava, e hollo mostrato legato, e sì 'l costrinsi di spezzare l'idolo; se tu potrai così fare al mio Domenedio, tu mi potrai trarre a l'idolo tuo, e se non, io ti atterrerrabbo gli dei tuoi, e tu credi al Domenedio mio". Dicendo lui queste cose fu dinunziato al re che il Domenedio suo Baldac era caduto e minuzzato. Udendo ciò il re, sì si stracciò la porpora che avea indosso, e comandò che l'apostolo fosse battuto con bastoni e scorticato vivo. Allora i cristiani tolsero il corpo suo e seppellirollo onorevolemente. E 'l re Astrage e' pontefici de' tempî furono presi da le demonia, e morirono. E 'l re Polimio fu fatto vescovo, e resse la chiesa XX anni laudabilemente, e poi morì in santa pace, pieno di virtudi. Del modo de la passione di questo apostolo sono diverse openioni, però che santo Doroteo dice ched e' fue crocefisso; e dice così: "Bartolomeo predicò a l'Indiani, e diede loro il Vangelio secondo Matteo ne la loro propia lingua, e morìo ne la città Albana de l'Armenia maggiore, e fu crocifisso col capo disotto". Ma san Teodoro dice ched e' fu scorticato; e in alcuni altri libri si legge che e' fue pure dicapitato. Questa contrarietà sì si scioglie in questo modo: diremo che prima fue crocifisso, poscia, anzi che morisse, fue disposto de la croce e, per maggiore tormento, fu scorticato; a la perfine gli fu tagliata la testa. De gli anni Domini di Jesù Cristo CCCXXXI li saracini andavano assalendo la Sicilia, guastando l'isola Liparitana, là dove era il corpo di san Bartolomeo; e spezzarono il sepolcro suo, e spanderono l'ossa sue. A questa isola si racconta che 'l corpo suo venne de l'India in questo modo. Udendo li pagani per molti miracoli essere riverito molto il corpo suo, adirati di ciò, lo missero in una cassa di piombo e gittarolo in mare; il quale per volontà di Dio capitò a la detta isola. Sì che quando i saracini ebbero sparte qua e là l'ossa, da che si partìano, apparve l'apostolo ad uno monaco, e sì li disse: "Leva su, e ricogli l'ossa mie, che sono sparte". Disse il monaco: "Per quale ragione le dobbiamo noi raccogliere, e farti onore veruno, ché ci hai lasciati perire e dileguare, né non ci hai dato aiuto neuno?" E 'l santo rispuose, e disse: "Molto spazio di tempo ha Domenedio perdonato a questo popolo per li miei meriti, ma multiplicando i loro peccati, e gridando insino al cielo, non ho potuto accattare loro più perdonanza". E dicendo il monaco a lui: "Come conoscerò io l'ossa tue fra cotante, e l'ossa altrui?", l'apostolo disse: "Anderai di notte a raccoglierle, e quelle che tu vederai risplendere come fuoco, sì le ricoglierai". Quegli trovando ogne cosa come l'apostolo avea detto, tolse l'ossa sue ed entrando in una nave e trasportandole a Benevento, città di Puglia. Avendo una femmina recato uno vasello pieno d'olio per mettere ne la lampana de l'apostolo, quantunque ella inchinasse il vasello sopra la lampana, non usciva nulla; Mettendo le dita nel vasello, e cercando, e trovando che l'olio era molle, incominciò uno allora a gridare, e disse: "Io mi credo che questo olio non piace molto a l'apostolo ched e' si metta in sua lampana!" Sì tosto come l'ebbe detto, l'olio n'uscì fuori. San Teodoro abbate e grande dottore, tra l'altre cose dice così di questo apostolo: "L'apostolo di Dio Bartolomeo primieramente predicò in Liconia, poscia in India, a la perfine ne la città d'Albana de l'Armenia maggiore, là dove prima fu scorticato, e poi tagliatoli la testa, e seppellito in quella terra. Il quale essendo mandato a predicare dal Signore, udì questo, ciò mi penso: "Va, discepolo mio, a predicare, e esci fuori a la battaglia, apparecchiati a i pericoli. Io compietti l'opera del mio padre, e diventai primo testimonio de la verità, e voi adempiete quello ch'è mestiere. Seguita il maestro tuo, seguita il Signore tuo, da' il sangue al sangue per noi, la carne per la carne, e patisci quello che ho patito io per te. Abbi questa arme: la benignità ne' sudori, la mansuetudine tra ' malfacenti, la pazienza in quelle cose che periscono". Non contradisse l'apostolo a queste cose, ma come fedele servo consentette al comandamento di Dio: ne va allegro sì come luce del mondo per alluminare gl'intenebrati, sì come sale di terra per insalare gli scipidi uomini e femmine, sì come lavoratore per compiere lo spirituale lavorìo. Piero apostolo ammaestra le genti, ma Bartolomeo dopo lui va cercando i vizii; Piero adopera gran fatti, ma Bartolomeo fa miracoli forti; Piero è crocifisso col capo disotto, Bartolomeo, poi ched è scorticato vivo, sì gli è tagliato la testa. A quanti ministerii prendere volle san Piero, a cotanti vale trapassare basta Bartolomeo; igualmente come san Piero, riempie costui la chiesa; per iguali bilancia ebbe anche gli altri doni da Dio. Costui, del divino novero di dodici, in mezzo da l'una e da l'altra parte dà il suono del sermonare di Dio; ché sì come ne la cetera tutte le corde danno suono d'armonia, così gli apostoli, dividendo fra loro tutto il mondo e fatti banditori del sommo re, diedero suono d'armonia in tutte parti. A costui fu dato in parte il maggiore luogo de l'Armenia, d'Ejulat infino a Gabaot. Vedilo dunque andare faccendo i solchi per le ville con l'aratro ragionevole de la lingua, andare ripognendo la parole della fede nel profondo del cuore, andare piantando il paradiso e la vigna del Signore in tutte parti, andare medicinando e dando rimedio ad ogne infermità, andare divellendo le spine sanza intendimento, andare tagliando le selve de la impietade in tutte parti e andare compognendo le siepe domestiche. Ma chente meriti ricevette per tutte queste cose! Cercò per onore disonore, per benedizione maladizione, per doni pene, per vita di riposo morte d'amaritudine. Ché poi che questo beato apostolo ebbe sostenuto tormento da non potere patire, sì fu scorticato da coloro; né ancora, poi che fu partito di questo mondo, anneghiettìo i micidiali di sé, ma invitava co' miracoli coloro che gli erano perduti, e attraeva con maraviglie coloro che gli erano contradi. Ma non era nulla che costrignesse le menti bestiali, niuna cosa era che li riavesse dal male. E che fecero più innanzi? Intorno a quel santo corpo incrudeliscono, l'infermi risucitati il medico cacciano via, colui che guida il mondo i ciechi cacciano via, e ' rotti nel mare cacciano via il guidatore e 'l governatore, i morti cacciano via il risucitatore. E questo come? Ché gittano nel pelago il corpo santo. Mossesi dunque con grande impeto de le contrade d'Armenia l'arca con altre quattro d'altri martiri, le quali, per simigliante modo e faccendo maraviglie, furono gittate in mare; e per tanto spazio di mare andarono innanzi queste quattro arche, ed essendo quasi come servigiali che facessero per uno cotale modo servigio a l'apostolo, sì vennero ne le parti d'Asia e di Sicilia, in una isola che si chiama Liparis, sì come revelato fue al vescovo d'Ostia, il quale v'era allora presente. Venne dunque a la contrada poverella il tesoro ricchissimo, venne a la non nobile la preziosissima margherita, venne a l'oscuro luogo lo splendentissimo luminare. Andando dunque l'altre quattro arche a diverse terre, lasciarono il santo apostolo ne l'isola predetta; e 'l santo apostolo, lasciandosi indietro i quattro martiri, l'uno ch'avea nome Papino, sì mandò in una città di Sicilia, l'altro ch'avea nome Luciano, sì mandò a Messina, e gli altri due sì mandò ne la terra di Calavra, i' uno, cioè Gregorio, ne la città c'ha nome Colonna, e l'altro, cioè Acazio, ne la città che si chiama Cale, ovvero Scalea, la quale insino al dì d'oggi è splendiente del suo aiuto. Sì che fu ricevuto l'apostolo con molti inni e laude e con assai candele, e fugli fatta una magnifica chiesa. E 'l monte che a lato ha l'isola di Vulcano suole essere nocevole con li abitanti in ciò che mettea fuoco, incontanente quasi per sette stadia si dilungòe invisibilemente, e sta sospeso intorno al mare, sì che insino al die d'oggi a coloro che 'l veggiono appare quasi figura di fuggente fuoco. Or ti salvi Iddio, ottimo Bartolomeo tre volte beato, il quale se 'splendore de la divina luce, pescatore de la santa Chiesa e prenditore di pesci ragionevoli, dolce frutto, vivo tralce, piagatore del diavolo piagante il mondo con suo ladroneccio; rallegrisi il sole de la ritondità de la terra ch'allumina tutte le cose, bocca di Dio, lingua infiammata, sapienzia manifestante, fontana che continovamente rampolla sanitadi; il quale santificasti il mare con maravigliosi andamenti, il quale facesti la terra imporporata del tuo sangue, il quale passasti il cielo là dove tu se' risplendente nel mezzo de la divina schiera ne lo splendore de la incorruttibile gloria, in allegrezza de la insaziabile gioconditade rallegrandoti, eccetera". Queste cose disse Teodoro.
cap. 119, S. Agostino La sua vita compuose Possidio vescovo di Calome, come dice Cassiodoro nel libro che fece di Nobili Uomini. Augustino, dottore nobile, nacque ne la provincia d'Africa, ne la città di Cartagine, di molto onesti parenti ingenerato, di padre ch'ebbe nome Patricio e di madre ch'ebbe nome Monica. Ne l'arti liberali fue sufficentemente ammaestrato, s' ch'era tenuto sommo filosofo e maestro alluminatissimo. Però che i libri d'Aristotile e tutti i libri de l'arti liberali, quantunque poteo avere, per se medesimo gli apparò e intese, sì come elli medesimo dice nel libro de le Confessioni: "Tutt'i libri de l'arti che si chiamano liberali, essendo allora reissimo e servo de le rie cupidezze, per me medesimo gli lessi e 'ntesi, qualunque io potei leggere". Anche dice in quello medesimo libro: "Ciò ch'è de l'arte di parlare e di quistionare, ciò ch'è de l'arte del misurare de le figure e del canto e de' numeri, sanza grande malagevolezza e sanza ammaestramento di veruno uomo sì lo 'ntesi. Tu sai, Signore mio Domenedio, che la vaccenza de lo intendere e l'aguzzamento de lo 'mprendere, sì è tuo dono, ma io non te ne sacrificava, Messere; ma imperò che la scienzia sanza la caritade giammai non edifica, ma enfia, caddi ne l'errore de' Manicei i quali affermavano che Cristo ebbe corpo fantastico, e negano che noi dobbiamo risucitare in carne. E in quello errore istetti nove anni, stando ancora giovane". E in tante beffe venne che, quando era colto il fico o la foglia da l'albore, dicea che quello cotale arbore piangea. Essendo dunque di XIX anni e leggendo uno libro d'alcuno filosafo, nel quale era scritto come la vanità del mondo era da disprezzare e la filosofia da desiderare, in ciò gli pacque molto quello libro; ma perché il nome di Jesù Cristo, lo quale elli avea udito da la madre, non v'era scritto, cominciossene forte a turbare; e la madre piagnea molto per lui, e sforzavasi di riducerlo a l'unitade de la fede. Sì che una volta, come si legge nel libro [III] de le Confessioni, la madre sua si vidde stare in un filare, avvegnadio che trista e dolorosa, e uno bellissimo giovane le stette innanzi, e dimandolle perché fosse cotanto trista. Quella dicendo che piangeva il perdimento del figliuolo suo Agustino, quelli rispuose: "Sta sicuramente, ché colà dove se' tu, sarà elli". Incontanente ecco che si vidde stare a lato il figliuolo suo. Quella raccontando queste cose al figliuolo Agustino, questi disse: "Tu se' ingannata, madre mia, non ti fu così detto, ma, dove sono io, sarai tu". Quella pure dicea contra: "Non, figliuolo mio, non mi fu detto: "Là dove elli è, sarai tu", ma: "Dove tu se', sarà elli". Pregava dunque la madre continua, quasi con improntezza, uno vescovo, sì come si legge in quello libro de le Confessioni, che degnasse di pregare Domenedio per lo figliuolo suo. E quelli in cotale modo vinto da tanta improntitudine, con voce di profezia sì disse: "Va sicura, ché impossibile cosa è che 'l figliuolo di tante lagrime si perda". Abbiendo lui letto molti anni la rettorica a la città di Cartagine e ammaestratola, celatamente, sanza saputa de la madre, se n'andò a Roma e raunovvi molti discepoli. A questi tempi dimandaro i Melanesi da Simmaco, prefetto de' romani, che mandasse loro uno maestro in rettorica. Or v'era allotta arcivescovo santo Ambruosio, uomo di Dio, e a' prieghi de' Melanesi fu mandato là Agustino. E la madre sua non possendo posare, con molta malagevolezza venne a lui, e trovollo già che non eraveramente maniceo, né veramente cattolico. E cominciò Agustino ad accostarsi a santo Ambruogio, e udire spesso le sue prediche. Or istava molto sospeso ne la predicazione, che veruna cosa non fosse detta contra quella eresia de' Manicei, ovver per quella eresia. Sì che una volta santo Ambruogio disputò lungamente contra quella resia, e vituperolla per tanti ragioni e autoritadi, sì che al postutto quello errore fu scacciato dal cuore d'Agostino. Ma quello che l'intervenisse dopo queste cose, e' medesimo il mostra nel libro de le Confessioni, così dicendo: "Quando io t'ebbi cognosciuto da prima, Signore, tu ribattesti la 'nfermità del mio guardamento, radiando in me fortemente, onde io tremai per l'amore e per lo errore, e trova'mi essere di lungi da te ne la contrada de la dissimiglianza, sì com'io udissi la tua boce da cielo: "Io son cibo de' grandi, cresci e manichera'mi, né tu mi muterai in te come cibo de la carne tua, ma tu ti muterai in me". E con ciò fosse cosa, sì com'elli dice in quel medesimo libro, che la via di Cristo gli piacesse, ma ancora gli rincrescesse d'andare per cose strette, misseli il Segnore in cuore d'andare a Simpliciano, nel quale era la grazia di Cristo, acciò che ragionandosi con lui gli contasse i fervori suoi, e imprendesse quale fosse aperto modo di vivere ad andare ne la via di Dio, per la quale altri andava così e altri così. Però che a lui dispiaceva ciò che facea nel mondo per la dolcezza di Dio e per la bellezza de la casa sua, la quale amava. E Simpliciano il cominciò a confortare, e elli cominciò a confortare se medesimo, e diceva: "Quanti fanciulli e fanciulle servono a Dio entro la Chiesa sua! Or non potrai tu tanto quanto questi e queste? Ma questi e queste possono tanto in loro medesimi, anzi non maggiormente nel Domenedio loro? Perché stai in te, e non stai in Lui? Gittati in Domenedio, ed elli ti riceverà e sanicheratti". Fra questi ragionamenti venne loro in memoria il fatto di Vittorino; onde rallegrandosi, Simpliciano raccontòe come quegli, essendo ancora pagano, per la sua sapienzia e ragione avea meritato d'avere statua a Roma, la qualcosa era tenuta a quel tempo un gran fatto, e come spesse volte diceva ch'era cristiano. E dicendoli Simpliciano: "Non credo nulla, mentre che non ti veggio ne la chiesa"; quelli dice a così per giuoco: "Or fanno le pareti l'uomo cristiano?" A la perfine, quando fu venuto a la chiesa, e dando a lui sì come a vergognoso celatamente il libro dov'era scritto il "Credo in Dio", egli montò ad alti, e pronunziollo ad alta boce. Allora venne d'Africa anche uno amico d'Agustino, il quale avea nome Ponziano, e raccontolli la vita e ' miracoli di quello grande Antonio, il quale era morto nuovamente ne l'Egitto al tempo di Costantino imperadore. Per li essempli di costui Agostino fu fortemente acceso in tal modo che, turbatosi ne la mente come nel volto, assalette il compagno suo Alipio, e gridò fortemente: "Che patiamo, che udiamo noi? E lievansi cotali sciocconi e rapiscono il cielo, e noi con le nostre dottrine profondiamo nel ninferno; or è vergogna a seguitare costoro perché ci siano entrati innanzi, e non è vergogna non seguirli?" E correndo in uno orto, gittossi sotto uno fico, sì come elli ricorda nel detto libro de le Confessioni, e piangendo amarissimamente metteva guai di lamento, e diceva: "Quanto tempo? Quanto tempo? Domane e domane? Se non ora, se non un poco". L'ora non avea modo e, se non poco, sì s'allungava. Di questo suo tardare se ne lamentava molto, sì come elli medesimo dice nel detto libro de le Confessioni: "Guai a me, ciò dice, come se' tu alto, Segnore Dio, ne le cose alte, e profondo ne le cose profonde, e non ti parti altrove e appena ti troviamo. Fa, Signore, adopera, destane e richiamaci. Vieni e rapisci; da' odore e addolcisciti". Così temeva d'essere spacciato da tutti gl'impedimenti com'elli è da temere d'essere impedimentito. Tardi t'ho amato, bellezza sì antica e sì novella, tardi t'ho amato, tu eri dentro e io di fuori, e qui ti cercava e lasciavami cadere in queste belle cose che facesti tu di fuori. Tu eri meco e non io teco; tu chiamasti e gridasti e rompesti la sordaggine mia, alluminasti e risplendesti e cacciaste via la cechità mia, odorasti e conchiudesti lo spirito, e sospiro a te, assaggiai e ho fame e sete di te. Tu toccasti me, e io m'accesi ne la pace tua". E piangendo lui amarissimamente, udì una voce dicente a sé: "Tolle, lege; tolle, lege". Ed incontanente aperse il libro de l'apostolo, e ragguardandol con gli occhi al primo capitolo che gli venne a le mani, gli venne trovato questa parole: "Vestitevi del Signore Gesù Cristo", e incontanente fuggirono da lui tutte le tenebre di dubitamento. Infrattanto cominciò ad essere tormentato di sì fortissimo dolore de' denti, che poco meno che non si diede a credere, sì come elli dice, l'openione di Cornelio filosofo, che puose il sommo bene de l'anima nel sapere, e 'l sommo bene del corpo in non sentire veruno dolore. E fu sì forte quello duolo che eziandio la favella ne perdette; onde, sì come dice elli in quel libro de le Confessioni, scrisse in tavolelle di cera che tutti pregassero Iddio per lui, che miticasse quello dolore. Ed elli s'inginocchiò con gli altri, e subitamente si trovò guerito. Fece dunque assapere al servo di Dio Ambruogio per lettere il disiderio suo, acciò che li mostrasse qual de' libri santi fosse più da leggere per acconciarsi meglio a la fede cristiana. E quelli li comandò che leggesse Isaia profeta, in ciò che pare più acconcio dimostratore del Vangelo e del chiamamento de' pagani. L'incominciamento del quale libro non intendendolo Agostino, credendosi che tutto il libro fosse cosìe fatto, indugiossi di leggerlo insino a tanto ched elli fosse più esercitato ne' libri santi. Approssimandosi dunque il tempo de la Pasqua, Agustino, essendo di XXX anni, col suo figliuolo Diodato, fanciullo molto ingegnoso, lo quale Agostino in sua gioventudine avea ingenerato essendo ancora filosafo pagano, e anche con Alipio suo amico, per li meriti de la madre e per la predicazione di santo Ambruogio, ricevette il santo battesimo. Allora, sì come si racconta, santo Ambruogio sì disse: "Te Deum laudamus". E Agustino sì disse: "Te Dominum confitemur". E così abendue questo inno, l'uno dicendo l'uno verso, e l'altro l'altro, insino a la fine il cantarono. Ed incontanente confermato mirabilemente ne la fede, abbandonò ogne speranza ch'egli avea nel secolo, e rinunziò le scuole de li altri de l'arti liberali. E di quanta dolcezza del divino amore elli godesse di fino allora, e' medesimo il mostra nel libro de le Confessioni, quando dice: "Avevi saettato il cuore mio tu de l'amore tuo; e portava le parole tutte trafitte ne le interiora mie; e li essempli de' santi tuoi, i quali tu avevi fatti di neri bianchi e di morti vivi, ho portati nel seno de' pensieri miei; ardeva e riceveva gran dolore e salendo de la valle del pianto, cantando canzona de' gradi, avevi dato saette agute e carboni guastatori. Né non mi saziava in que' dì: era preso da mirabile dolcezza considerando l'altezza del consiglio divino sopra la salute de la generazione umana. Quanto piansi ne gl'inni e ne' canti tuoi, commosso allegramente da le voci de la sonante e soave chiesa! Ché quelle voci entravano ne l'orecchie mie, e alliquidìa la verità tua nel cuore mio, e correvano le lagrime, ed io avea bene con esse. Però che allora ne la chiesa di Melano s'ordinò di cantare queste cose. E gridava col cuore alto del cuor mio: "O in pace, o in quel medesimo! O que' che disse: dormirò e prenderò sonno! Tu se' quello, qual medesimo, il quale non ti mute; in te riposo che si dimentica di tutte le fatiche". Io leggeva tutto quel Salmo e ardeva, il quale era istato abbaiatore amaro e cieco contra le lettere melate del cielo, del lume tuo luminoso, e sopra queste cotali scritture sì venìa meno. O Jesù Cristo, aiutatore mio, come m'è subitamente fatto soave a mancare de le soavità de le ciancie mie, e quelle dond'io avea paura di perdere, già avea letizia di lasciarle. Però che tu le cacciavi da me, il quale se' vera e somma soavitade; tu le cacciavi; entravi in luogo di quelle tu che se' più dolce d'ogni soavitade, ma non a carne e a sangue; se' più chiaro d'ogni luce, ma più addentro d'ogni segreto; se' più alto d'ogni onore, ma non a coloro che sono alti in sé". Dopo queste cose prendendo seco Nebrodio ed Enodio e la madre ritornavansi in Africa; ma quando furono ad Ostia la pietosa madre sua si morìo. Dopo la cui morte Agustino ritornò a le possessioni sue, nel quale luogo, con coloro che s'accostavano a lui, servìa a Dio in digiuni ed orazioni, scrivea libri e ammaestrava i non sapienti. La nominanza sua si spandeva in tutte parti, e in tutt'i libri suoi e ne l'opere era tenuto maraviglioso. E guardavasi d'andare ad alcuna città dove non fosse vescovo veruno, per non esservi impedimentito nel detto offizio. In quello tempo era ad Ippone uno uomo di grandi ricchezze, il quale mandò dicendo ad Agustino che s'elli andasse a lui, e elli udisse la parola de la bocca sua,rinunzierebbe al secolo. La qualcosa comunque Agustino il seppe, tanto tosto andò là a lui. E udendo Valerio vescovo d'Ippone la fama sua, sì lo ordinò prete ne la sua chiesa, avvegnadio che molto contradiasse. E alcuni interpretavano soperbiamente le lagrime sue e, quasi consolandolo e dicendo che il luogo del pretato, avvegna ch'elli fosse degno de' maggiori, impertanto s'appressimava a vescovado. E Agustino incontanente ordinò il monasterio de' cherici, e incominciò a vivere secondo la regola ordinata sotto i santi apostoli; del quale monasterio sono stati eletti diece vescovi. E perché il detto vescovo era greco e sapea meno di lingua latina e di lettere, diede la podestade ad Agustino che, contro a l'usanza de la chiesa orientale, predicasse ne la chiesa dinanzi da sé. Onde biasimandolne molti vescovi, elli non curava di ciò, purché per colui fosse fatto quello che per sé fare non si potea. A quel tempo convinse e tolse via e cacciò Fortunato, prete maniceo, e altri eretici e massimamente ribattezzatori Donatisti e Manicei. E cominciò Valerio a temere molto che Agustino non li fosse tolto e domandato per vescovo da altra cittade. Però che alcuna volta li sarebbe stato tolto se non l'avese mandato al luogo segreto, acciò che non si potesse trovare. Sì che impetròe da l'arcivescovo di Cartagine di dare luogo al vescovado e promovesse Agustino in vescovo d'Ippone. Ma ricusando Agustino queste cose, al postutto pure essendone costretto, sì si sottomisse e ricevette lo 'ncarico. La qualcosa non essendoli dovuta essere fatta che, vivendo il suo vescovo, fosse ordinato, e disselo e scrisselo per lo vietamento del Concilio generale, lo quale seppe ch'era fatto dopo l'ordinazione, e' non volle che fosse fatto a gli altri quello di che elli era dolente ch'era fatto a sé. Ma sforzavasi che nel Concilio de' vescovi s'ordinasse che tutti gli statuti de' padri, coloro ch'ordinano dovessero manifestare a coloro che si debbano ordinare. E di lui si legge che disse poscia: "In niuna cosa mi sento il Segnore così adirato come in questa che, essendo me indegno d'essere posto a reggere, sì m'ha posto a grandigia ne l'altezza de la regione de la Chiesa a reggere". Le vestimenta sue e ' calzamenti e altri ornamenti né troppo gli avea belli, né molto sozzi, ma di temperato abito. E leggesi di lui che elli disse: "Io confesso bene ch'io mi vergogno del prezioso vestimento, e però quando m'è dato, sì 'l vendo, acciò che da che 'l vestimento non può essere comunale, il prezzo sia comunale". Sempre usòe la mensa comune e sempre scarsa, e tra 'l camangiare e i legumi per li forestieri e per l'infermi, spesse volte mettea de la carne, e in quella mensa amava più la lezione o la disputazione, che non facea il mangiare, e contra la pistelenzia del dire male d'altrui avea così scritto in quella: "Qualunque persona ama il rodere la vita de' lontani con parole. Sappia che questa mensa non si fa a lui." Ed alcuna volta alcuni vescovi famigliarissimi a lui, stando con lui a la mensa e abbiendo isfrenata la lingua a dire male d'altrui, sì duramente gli riprese che disse che, se non se ne rimanessero, od elli spegnerebbe quelli versi od elli si partirebbe da la mensa. Una volta avendo invitati elli a desinare alcuni suoi famigliari, un di coloro più curioso de gli altri entrò in cucina, ed avendo trovato ogni cosa fredda, tornò ad Agostino e domandollo quello ch'elli avea apparecchiato da mangiare, elli ch'era padre de la famiglia, a coloro che doveano desinare. E Agustino, né mica curioso di cotali vivande, sì li rispuose: "E io con esso voi non lo so". Tre cose si diceva avere apparato da santo Ambruogio. L'una che ma' non domandasse di dare moglie ad altrui; la seconda che chi si volesse fare cavaliere nol ne lodava; la terza che invitato a convito non v'andasse, La cagione del primo si è acciò che non si convegnano bene insieme e bestemmiano colui; la cagione del secondo si è acciò che quelli non faccia ingiuria altrui ed altri dea la colpa a chi 'l consigliò di fare cavaliere; la cagione del terzo si è acciò che per la intemperanza del mangiare e del bere, per avventura non perdono il modo. Di tanta puritade e umiltade fue che i peccati, i quali appo noi paiono nulla o molto piccolini, sì come elli dice nel libro de le Confessioni, sì li confessava in quello dì, e accusavasene umilemente dinanzi al Segnore. Onde quiviritto s'accusa che: da ch'egli era fanciullo, giuocava a la palla quando dovea ire a la scuola; anche di ciò: che non volea leggere od imprendere, se per forza non era costretto dal maestro o da' parenti; anche di ciò: ch'elli leggea volentieri le favole de' poeti, sì come la favola d'Enea, essendo ancora fanciullo, e piagnea Didone morta per amore; anche di ciò: ch'elli imbolava del celliere de' parenti, ovvero d'alcuna mensa per dare a' fanciulli che giucavano; anche di ciò: ched elli, nel giuoco de' fanciulli adoperava inganno nel vincere; anche: che quando era di tempo di XVI anni imbolòe de le pere d'un pero, ch'era da lato a la vigna sua; anche s'accusa di quel picciolo diletto che sentiva nel mangiare alcuna volta, e dice così: "Sì m'hai insegnato, che io vada così a prendere il nudrimento come la medicina. Ma quando io per gravezza di bisogno passo il riposo del saziamento, in quel passamento mi mete guaito il lacciuolo de la concupiscenzia, però che quello passare è un diletto, e non è altro luogo per lo quale si passi, per lo quale eziandio la necessità costrigne d'andare, e con ciò sia cosa che salute sia la cagione del mangiare e del bere, aggiugnevisi come donzello la pericolosa gioconditade, e che spesse volte si sforza di precedere, cioè che si faccia per cagione di quella cosa la quale o dico o voglio fare per cagione di salute. L'ebreitade è di lungi da me; avra'mi misericordia che non s'appressimi a me. Il troppo mangiare non fu mai nel servo tuo; avraimi misericordia, acciò che sia fatto di lungi da me. E chi è quelli, Segnore, che non sia tratto alcuna volta fuori de' termini de la nicissitade? Messere, qualunque è quegli, certo egli è grande; aggrandisca il nome tuo! Ma pure io non sono cotale, però ch'io sono peccatore". Ha sì eziandio sospetto de l'odorato, quando dice: "O Segnore, al diletto de li odori non mi sforzo troppo, quando non gli sento; non gli vo cercando quando gli sento; sì gli rifiuto e sempre sto apparecchiato a non averli; così pare a me, ma forse m'inganno, però che neuno dee stare sicuro in questa vita, la quale è detta vita tentazione. Ché chi può essere di peggiore migliore, non diventi di migliore peggiore". Anche de l'udire si confessa e dice: "I dilettamenti de l'orecchie tenacemente m'aveano impacciato e sottomesso, ma tu, Signore, m'hai sciolto e liberato. Che quando m'interviene che più mi muova il canto, che non fa la cosa che si canta, penalmente mi confesso avere peccato, e allora vorrei anzi non udire colui che canta". Anche s'accusa del vedere, sì come di ciò: ch'alcuna volta vidde troppo volentieri correre il cane, e di ciò: che passando per alcuno caso per le campora puose mente volentieri il cacciatore, e di ciò: che standosi a casa ragguardòe attentamente i ragnoli pigliare le mosche ne' loro ragnateli. E però si confessa di queste cose dinanzi al Signore, sì come dice in quello libro, perché alcuna volta rimuovono altrui da' buoni pensieri e rompono l'orazioni. Anche s'accusa de l'appetire lode e del movimento de la vanagloria; e dice così a Domenedio: "Chi vuole essere lodato da gli uomini vituperandol te, non sarà difeso da gli uomini giudicandol te, né liberato dannandol te. È lodato l'uomo per alcuno dono che tu gli hai dato, e pertanto vuole essere più lodato elli che 'l dono. Noi siamo tentati continuamente di queste tentazioni sanza rimanercine; una cotidiana fornace è la nostra lingua umana. Ma io non vorrei ch'almeno m'accrescesse l'allegrezza d'alcuno bene mio l'aiuto de la bocca altrui; ma io confesso che non solamente l'accresce, ma 'l vituperare lo scema. Ed io mi contristo alcuna volta da le mie lode, quando quelle cose sono lodate in me ne le quali io dispiaccio a me medesimo, ovvero quando i piccioli beni e leggeri son più stimati che non sono da stimare". Questo santo uomo confondea fortissimamente gli eretici in tale maniera che ellino tra loro medesimi predicavano che non era peccato d'uccidere Agustino, lo quale dicevano ch'era ad uccidere come lupo, e affermavano che a gli ucciditori erano da perdonare tutti i loro peccati da Domenedio. Sì che molti agguati sostenne da loro, intanto che, quando elli andava per alcuna via, gli ponevano agguati; ma per la provvedenza di Dio ingannati de l'errore de la via non lo poteano trovare. I poveri avea sempre a la mente e dava loro diliberatamente di quello ched elli poteva, ché alcuna volta facea rompere de le vasella del Signore per li poveri e per li pregioni e faceale colare e dispensare a' poveri bisognosi. Casa o campo o villa giammai non volse comperare, e molti retaggi rifiutòe che gli erano lasciati, però che dicea che queste cotali cose si doveano anzi lasciare a' figliuoli, ovvero a' più prossimani de le persone morte. E in quelle cose che la Chiesa possedeva, non era inteso, ovvero impacciato, d'amarle, ma dì e notte pensava de le Scritture e de le cose divine. De lavorii nuovi non ebbe giammai studio, schifando d'avervi impaccio l'animo suo, lo quale volea sempre libero da ogne impaccio e da ogne gravezza corporale, acciò che liberamente potesse intendere a la continenzia e a la meditazione e a la continua lezione. Non pertanto vietava egli coloro che voleano edificare nuovi lavorii, se non li vedesse avanzare il modo; e lodava molto coloro ch'aveano disiderio di morire, e sopra ciò ponea cotali essempli di tre Vescovi. Ché essendo santo Ambruogio in su la stremità de la vita, e pregandolo i cherici suoi che s'accattasse prolungamento di vita per suoi preghieri, elli rispuose loro così: "Non sono sì vissuto che mi sia vergogna di vivere tra voi, né non temo di morire, però che noi avemo buono Segnore". Questa risposta santo Agustino la gradiva molto maravigliosamente. Dicea ancora d'un altro vescovo, al quale essendo detto ch'egli era molto necessario a la Chiesa, e dicevano che 'l Segnore il diliberrebbe, quelli disse: "S'alcuna volta mi conviene morire, or perché non ora?" E d'un altro vescovo dicea che Cipriano raccontava che, avendo una grave infermitade, pregava Iddio che gli rendesse santade. Al quale apparendo uno bellissimo giovane, con grande indegnazione pianse, e sì li disse: "De le pene di miseria non volete uscire, or che vi farò dunque?" Femmina neuna giammai non permise abitare seco, né ancora la sua serocchia carnale, ovvero le figliuole del suo fratello, le quali serviano igualmente a Domenedio. Però che dicea che se de le serocchie o de le nepoti non può nascere neuna ria sospicione, ma perché cotali persone non possono stare sanza l'altre necessarie, e verrebbono eziandio de l'altre a loro, potrebbono i più infermi o essere commossi da tentazioni umane, o infamati per rie sospecioni d'uomini. Con femmina non volea giammai parlare solo, se non fosse già alcuna cosa sagreta, o che si volesse confessare. A i parenti dava in tal modo che né ricchi fossero, né troppo abbisognassero. Rade volte volea pregare altrui per alcuno o per lettere o per parole, ricordandosi d'alcuno filosafo, il quale per accrescere sua fama, non donava molto a gli amici, e spesse volte diceva che "La podestà ch'è domandata spesse volte prieme". E quando ciò facea in tal maniera, temperava la materia in tal modo che non desse altrui carico, ma meritasse d'essere esaudito per cortesia di parlare. Volea anzi tra non conosciuti che tra gli amici udire i pianti, dicendo che fra loro potea liberamente conoscere il torto; ma tra gli amici, l'uno dovea essere sempre nemico, contra 'l quale elli desse sentenzia con ragione. Da molte chiese era invitato di predicarvi la parola di Dio, e molti ne convertìa de li eretici. Alcuna volta usava ne la predicazione partirsi da la proposta, e allora diceva che Dio l'avea ordinato a utilitade de la salute d'alcuno, secondamente ch'apparve in uno mercatante de' Manicei, il quale si convertìo ad una predicazione di santo Agustino, ne la quale, partendosi da la proposta, avea predicato contra questo errore. In quello tempo avendo i Goti presa Roma, coloro ch'adoravano gl'idoli e gl'infedeli dicevano molta villania a li cristiani di ciò che patiano cotali cose da i pagani; per la qualcosa santo Agustino compuose il libro de la Città di Dio, nel quale libro mostròe che i giusti doveano essere premuti in questa vita, e i rei doveano fiorire. Nel quale libro tratta de le due cittadi, cioè di Gerusalem e di Babilonia e del loro re, ché 'l re di Gerusalem si è Cristo, e 'l re di Babilonia si è il diavolo. Le quali due cittadi fanno a sé due amori, sì come elli dice in quel luogo; ché la città del diavolo sì si fa l'amore di se medesimo crescente infino a lo spregio di Dio, e la città di Cristo sì si fa l'amore di Dio crescente infino al dispregio di sé. E ne' dì suoi, cioè ne gli anni Domini CCCCXL, gli Guandali occuparono tutta la provincia d'Africa, non perdonando né a maschio, né a femmina, né a etade, né a ordine, né a persona veruna. Poi vennero a la città d'Ippone ad assediarla con potente forza. Sotto questa tribolazione Agustino, sopra tutti gli altri de la sua vecchiezza, menòe amarissima vita e lamentevole, e furo a lui le lagrime pane di die e di notte, vedendo altri morti, altri scacciati, le chiese spogliate de' preti, le città disfatte insino al fondamento. Ma infra cotanti mali usava per consolazione la sentenzia d'un savio, che dice così: "Non sarà grande chi pensa gran cosa, ché i legnami caggiono e le pietre, e che gli uomini muoiono, i quali naturalemente sono mortali". E chiamato ch'ebbe i frati, disse loro: "Ecco che abbo pregato il Segnore che od E' ci liberi da questi pericoli, od Elli ci dea pazienzia, od E' mi riceva di questa vita, acciò ch'io non sia costretto di vedere tante miserie". Ed ecco che, impetrata la terza domanda, che nel terzo mese de l'assedio gli venne la febbre addosso; e gittossi in sul letto; ed intendendo che s'approssimava lo sceveramento de l'anima dal corpo, fecesi scrivere i sette Salmi penitenziali, e sì li fece porre nel luogo che gli era a rimpetto ne la parete; e giacendosi nel letto sì li leggeva, e in abbondanza continovamente gittava lagrime. E acciò che potesse più liberamente intendere a Dio e la sua intenzione non potesse essere impedimentita da neuno, diece dì anzi la sua morte, non si lasciò entrare veruno in camera, se non quando entrasse il medico o fossegli portato mangiare. Uno infermo venne a lui, e pregavalo attentamente ch'elli ponesse la mano sopra lui e guarisselo de la infermitade. E 'l santo gli rispuose: "Che è quello che tu dì, figliuolo mio? Or non credi tu che s'io potessi fare cotal cosa, ch'io la facessi a me medesimo?" E quelli istava pure fermo, e diceva avuto per comandamento di venire a lui e ricevere santade. Veggendo santo Agustino la fede sua, pregò il Signore per lui e quelli ricevette santade. Molti indemoniati curòe, e molti altri miracoli fece. Nel XXII capitolo del libro de la Città di Dio racconta due miracoli fatti di sé sì come fossero fatti d'un altro, e dice così: "Io so una vergine ipponese ch'era indemoniata, la quale poi che s'ebbe unta d'olio, un prete pregò Domenedio per lei con lagrime, e incontanente fu sanata". Anche dice così nel detto libro: "So anche un vescovo che pregò una volta per un giovane, lo quale elli non avea mai veduto, ed era indemoniato; incontanente fu sgombrato". Non pare dubbio a neuno ched e' non parli di sé, ma per umiltade non volse porre il nome suo. Anche dice in quello libro che dovendosi tagliare un male ad uno infermo, e temendosi molto de la morte per la tagliatura, pregando lo 'nfermo il Segnore, con molte lagrime oròe con lui e per lui Agostino, e incontanente, sanza tagliatura veruna, si trovò guerito. A la perfine, approssimandosi a la morte, questo ne diede per ammaestramento di ricordanza: che neuno uomo, quantunque sia d'eccellente merito, debbia passare di questa vita sanza essere confessato e comunicato. E vegnendo a l'ultima ora, saldo di tutte le membra del corpo suo, con intero vedere ed udire, ne gli anni de la sua etade LXXVII, e del suo vescovado XL, dinanzi a' frati che gli erano presenti, stando loro in orazione, passò di questa vita a Domenedio. Testamento veruno non fece, però che non ebbe onde farlo il povero di Cristo. Fiorìo la vita sua intorno a gli anni Domini CCCC. Adunque Agostino lume chiaro di sapienzia, bertesca di veritade e armadura di fede, tutt'i dottori de la Chiesa vinse sì d'ingegno come di scienzia, sanza comperazione neuna fiorendo sopra gli altri, sì per esempli di vertudi come d'abbondanza d'ammaestramenti. Onde santo Remigio, ricordando san Geronimo e alcuni altri dottori, conchiude così: "Tutti costoro vinse Agostino con lo ingegno e con la scienzia sua, e avvegnadio che san Geronimo dica d'avere letto seimilia volumi di libri d'Origene, pur costui ne scrisse tanti, che non solamente scrivere il dì e le notti potrebbe alcuno, ma pure leggere non li poté". E Volusiano parla così di lui in una Pistola: "A la legge di Dio mancòe ciò che intervenne ch'Agostino non sapesse". E san Geronimo scrisse così a santo Agustino in una pistola: "A due tuoi libri ammaestratissimi e d'ogne splendore di bello parlare splendienti, non ho potuto rispondere; certamente ciò che s'è potuto dire, e prendere per ingegno, e attignere de le fonti de le Scritture, sì è posto e disputato da te; ma domando a la reverenzia tua che tu sostegni un poco ch'io lodi lo 'ngegno tuo". Ancora nel libro di XII dottori scrisse così di lui: "Agostino vescovo, volando per l'altezza de' monti come aquila e non considerando quelle cose che sono ne le radici de' monti, con chiare parole pronunzia i molti spazii de' cieli e luoghi de le terre e 'l cerchio de l'acque". A la perfine in quanta divozione e amore san Geronimo l'avesse, manifestasi per le pistole ch'elli li mandò; ne l'una de le quali dice così: "Al Segnore santo Padre e beatissimo Agostino, Geronimo. D'ogne tempo, con quello onore chente ti si fa, ho avuto in reverenza la beatitudine tua e amato in te l'abitante Segnore salvatore; ma ora, se fare si puote, aggiugnamo alcuna cosa al monticello, e compiamo pienamente, acciò che pure un'ora non lasciamo passare sanza ricordo del nome tuo". Anche dice in un'altra pistola a lui medesimo: "Di lungi sia da me ch'io sia ardito di toccare nulla de' libri de la tua beatitudine; bastimi di provare le mie cose e di non prendere l'altrui". E san Gregorio in una pistola la quale mandò ad Innocenzio, prefetto d'Africa, de' libri d'Agustino dice così: "In ciò ch'avete voluto che vi sia mandata la sposizione del libro di san Giob, del vostro studio siamo allegri, ma se voi volete ingrassarvi del dilicato pasto, leggete l'opere del vostro cittadino, beatissimo Agustino, e a comperazione di quella netta farina non andate cercando la nostra crusca". Dice anche e' medesimo nel Registro così: "Leggesi che santo Agustino non consentìo con la serocchia, dicendo: "Quelle che stanno con serocchia mia, non sono mie serocchie". Adunque la guardia del savio uomo dee essere a noi più ammaestramento". E nel Profazio di santo Ambruosio si legge così: "La magnificenzia tua adoriamo ne la mortificazione d'Agustino, adoperando la vertù tua in tutte le cose, sì che l'uomo acceso del suo spirito non fosse vinto per impromesse di lusinghe ingannevoli, per ciò che tu l'avevi sì pieno di generazione di pietade, acciò ched elli fosse a te altare e sacrificio e tempio e prete". E san Prospero dice così di lui nel libro terzo de la Vita Contemplativa: "Santo Agustino, vescovo aguto d'ingegno, soave in parlare, di mondana scienzia ammaestrato e ne le fatiche ecclesiastiche operoso, ne le cotidiane disputazioni chiaro, in ogne operazione composto, in solvere le questioni aguto, in convertire gli eretici accorto, ne la sposizione de la fede nostra cattolico, in assemplare le Scritture regolari savio". E san Bernardo scrive così di lui: "Agustino questi è fortissimo martello de li eretici". Dopo queste cose, abbiendo quella gente barberesca occupato la terra santa e vituperato le luogora sante, i fedeli cristiani presero il corpo di santo Agostino e traslatarolo in Sardigna. E passati CCLXXX anni da la morte sua, intorno a gli anni Domini DCCXVIII, Liprando, re di Longobardi, divoto uomo, udendo che la Sardigna era guasta da' Saracini, sì vi mandò solenni ambasciatori che recassero a Pavia le reliquie del dottore santo Agostino; i quali, datone grande prezzo, tolsero lo corpo suo e portarolo infino a Genova. Udendo ciò il devoto re andolli infino là incontro con grande allegrezza, e ricevendolo reverentemente. E volendone la mattina portare via il corpo, non se ne poté muovere per neuno modo, mentre che 'l re non ebbe fatto boto che, se se ne lasciasse menare quindi, farebbe quiritto una chiesa a suo nome. E quando ebbe fatto il boto, incontanente sanza neuna malagevolezza ne fu portato. E 'l re comandò che fosse fatta la chiesa, sì come elli avea fatto il boto; la quale fece venire a compimento ad onore del santo. Simigliante miracolo addivenne il seguente die in una villa, che si chiama le Castelle, del vescovado Tridonese; e per lo detto modo il detto re vi fece una chiesa ad onore del santo. Ancora quella villa con tutte le sue pendice donòe in possessione perpetuale a coloro che servissono a la detta chiesa. E perché vidde che piacea al santo che, dovunque il corpo stava la notte, ivi facesse la chiesa, sì fece che in ogni luogo dove albergasse la notte col corpo facesse la chiesa al suo onore, però che temea molto che non si eleggesse luogo altrove che a Pavia. Adunque con grande onore fu menato a Pavia e posto onorevolemente ne la chiesa di san Piero, la quale è detta Cieloro. Uno mugnaio, che avea speziale divozione in santo Agostino, avendo ne la gamba una grande infermitade, la quale si dice flemma salsa, chiamava il santo nel suo aiuto. Al quale santo Agustino apparve in visione e, toccandoli la gamba con la sua mano, rendelli incontanente piena santade. Il quale quando fu isvegliato trovossi guerito, e rendette grazie a Dio e al santo. Uno fanciullo il quale avea il male de la pietra, e dovendosi tagliare per consiglio de' medici, la madre, temendo il pericolo de la morte sua, chiamò devotamente santo Agostino in aiuto del suo figliuolo. Incontanente, fatta l'orazione, il fanciullo gittò la pietra con l'orina e ricevette piena santade. Nel monastero che si dice Lemosina un monaco, ne la villa di santo Agustino rapito in ispirito, vidde una nuvola splendiente venuta da cielo, ed Agostino sedea sopra quella adornato di vestimenti vescovili; gli occhi del quale come due razzuoli del sole alluminavano tutta quella chiesa e venivavi grande odore. San Bernardo, stando una volta al mattutino, addormentossi ne la chiesa, le lezioni d'alcuno trattato di santo Agustino leggendosi, vidde un giovane bellissimo stare quiveritto, de la cui bocca usciva tanto scorso d'acque abbondanti, che parea che tutta la chiesa se ne empiesse. Ed egli non dubitò che quelli fosse Agustino, il quale de la fontana de la dottrina ha bagnata tutta la Chiesa. Uno ch'amava molto santo Agostino, andossene ad uno monaco ch'era guardiano de la chiesa e del corpo suo, e promiseli moneta s'elli li desse uno de' diti di santo Agustino. E 'l monaco tolse la moneta e andò, e sì li diede un dito d'un'altra persona morta, inviluppato in zendado, mostrandogli per infignimento che fosse il dito di santo Agostino. E quelli il tolse reverentemente, adorandolo sempre devotissimamente, e ponealsi a la bocca e a gli occhi e spesse volte lo si strignea al petto. E Domenedio, vedendo la fede sua, gittò via quel dito, e maravigliosamente gli diede tutto un dito di santo Agostino. Il quale uomo quando fu ritornato ne la terra sua, questo dito facea là molti miracoli, onde la nominanza n'andò infino a Pavia. Ma dicendo quel monaco che quello dito era d'uno morto, andaro ad aprire il sepolcro, e trovarono che v'era meno uno di quelli dita; onde l'abbate riconosciuto ch'ebbe la malizia, rimosse il monaco da quello officio e afflisselo gravemente. In Borgogna ad uno manasterio che si dice Fontaneto, era uno monaco ch'avea nome Ugo, molto devoto di santo Agostino; il quale con maraviglioso disiderio era pasciuto ne le scritture sue, e avealo pregato spesse volte che non lasciasse passare di questa vita se none il die de la sua santissima solennitade. Sì che XV anzi la sua festa cominciossi a riscaldarsi di sì dure febbri, che ne la vilia sua il puosero in terra come persona che morisse. Ed eccoti entrare in quello monasterio molti belli e splendienti uomini, vestiti a bianco, e seguitavali uno venerabile vescovo, adornato vescovilmente. E uno monaco stando ne la chiesa e vedendo questo, sì si maravigliò e domandò chi fossero o dove andassero. E l'uno di loro li disse ch'era santo Agustino co' suoi calonaci che va al devoto suo che si muore, per portare l'anima sua a gloria. Dopo queste cose quella venerabile processione entrò ne la infermeria,dove quando fu stato alquanto, quella santa anima si partìo dal corpo, la quale il dolce amico fece sicura da gli agguati de' nemici, e menolla ne l'allegrezza del cielo. Leggesi che vivendo santo Agostino ancora in carne e rileggendo alcune cose, viddesi valicare dinanzi uno demonio che portava libro in collo. E quegli lo scongiurò che li manifestasse quelle cose che v'erano scritte entro. Que' disse che v'erano scritti entro e' peccati de li uomini, ch'e' va raccogliendo da ogne parte e ripolli iventro. Allora gli comandò che li mostrasse se v'avesse scritto alcuno de' peccati suoi. Mostratoli dunque il luogo, neuna cosa vi trovò scritta di sé, altro che d'una compieta ch'elli avea lasciata per dimenticanza. E comandando al diavolo ch'aspettasse la sua tornata, entrò ne la chiesa e disse devotamente la compieta e compiette l'usate orazioni; e, tornato che fu, disse al demonio che li mostrasse quel luogo che volea rileggere un'altra volta. Quelli ravvolgendo spesso le carte e a la perfine avendo trovato voito quel luogo, adirato il demonio di ciò disse al santo: "Tu m'hai ingannato, io mi pento ch'io ti mostrai il libro mio, per ciò che tu hai spento il tuo peccato con la vertude de le tue orazioni". E, dette queste cose, così vituperato sparve. Sostenendo ingiuria una femmina da alquanti maliziosi uomini, quella se n'andò a santo Agostino per chiedere consiglio da lui. Quella trovandolo studiare e salutandolo reverentemente, egli non le puose mente, né rispuosele a nulla. Quella pensando che forse per troppa storpia, non volea ragguardare in faccia di femmina, andò di dietro, e spianolli diligentemente il fatto suo. Ma elli né non si rivolse a lei, né non le rispuose a nulla, onde quella si partì con molta tristizia. L'altro die cantando santo Agustino la Messa ed essendovi la detta donna, dopo la levata del corpo di Cristo, rapita in ispirito, viddesi posta dinanzi a la sedia de la santissima Trinitade, là dove vidde Agustino con la faccia chinata disputare attentissimamente e sottilissimamente de la gloria de la Trinitade. E venne la voce a lei, e sì le disse: "Ieri quando tu andasti ad Agustino, elli disputava così attentissimamente de la gloria de la Trinitade, e però non s'accorse al postutto che tu vi fossi; ma ritorna sicuramente a lui, però che tu il troverrai pietoso e daratti sano consiglio". E così fue. Dicesi anche che uno uomo rapito in ispirito, veggendo i santi ne la gloria e non veggendovi Agustino, domandò uno de' santi là dove Agustino fosse. E quelli rispuose: "Agustino sta in alto, là dove disputa de la gloria de l'eccellentissima Trinitade". Essendo tenuti in pregione alcuni Pavigiani dal marchese de' Malespini, fu interdetto loro al postutto ogne beveraggio, per potere scuotere da loro grande avere. Onde molti di loro erano già trafelati, e molti beveano l'orina sua. E avea tra loro un giovane che avea grande divozione in santo Agustino, e chiamavalo in suo aiuto. Allora santo Agostino gli apparve entro la mezzanotte, e prendendolo per la mano ritta, sì 'l menò infino al fiume Gravelon, e bagnato che l'ebbe quivi ne l'acqua, una foglia di vite in tale modo refrigerò la lingua sua; con che quegli che disiderava di bere l'orina sua, già non curava di bere stelladia. Il proposto d'una chiesa, il quale avea grande divozione di santo Agustino, essendo caduto in una grande infermitade per tre anni, intanto che del letto non si potea levare, sì che veggendo la festa di santo Agostino, quando sonava la vilia al vespro, con tutta devozione si misse a pregare il santo per sé. Al quale apparendo santo Agustino in vestimento bianco, tre volte il chiamò del propio nome, e sì li disse: "Eccomi presente tante volte da te chiamato, levati dunque tosto e dira'mi il vespro". Quegli si levò sano e, maravigliandosi tutti, entrò in chiesa, e disse divotamente il vespro. Essendo nato ad un pastore tra i vitelli un malore molto crudele, intanto venne crescendo quello malore, che già gli era venuto meno tutta la forza. Pregando costui il santo che l'aiutasse, sì gli apparve in visione, e ponendo la mano sopra il male, e sì lo sanò perfettamente. Questo medesimo uomo per innanzi perdette il lume de li occhi, e pregando continuamente il santo, sì gli apparve un die entro la meriggia e, forbendogli gli occhi con le mani, sì li rendeo la santade di prima. Intorno a gli anni Domini DCCCCXII alcuni uomini gravemente infermi, ch'erano più di XL di Germania e di Francia, andavano a Roma a visitare gli apostoli. De' quali v'avea altri che si portavano in catini chinati per terra; altri s'andavano appoggiando a' bastoni; altri ch'aveano meno gli occhi, si tiravano dietro a gli altri; altri andavano abbiendo le mani e' piedi attratti. I quali, passando i monti, giunsero ad uno luogo che si dice la Carbonaia. Essendo presso che venuti ad uno luogo, che vi si dice la Cana, ch'è di lungi a Pavia a tre miglia, santo Agostino vestito d'abito vescovile, uscendo d'una chiesa fatta ad onore di san Cosma e Damiano, sì apparve loro, e salutandoli sì gli domandòdove andavano. Coloro abbiendoli risposto, il santo disse: "Andate a Pavia, e domandate del monasterio di san Piero, il quale è detto Cieloro, e là troverrete la misericordia che voi andate cercando". Coloro lo domandarono del nome, e quelli disse: "I' ho nome Agustino, di quandrieto vescovo d'Ippone". E tosto sparve da gli occhi loro. Coloro, andando a Pavia, quando furono venuti al detto monasterio ed ebbero saputo che là entro era il corpo di santo Agustino, incominciarono tutti insieme a gridare ad una boce: "Santo Agustino, aiutaci!" Al quale grido i cittadini e ' monaci commossi correvano a avedere questa cosa; ed eccoti per lo distendere de le nerbora, cominciò a scorrere molto sangue, intanto che de l'entrata del monasterio infino al sepolcro del santo, tutta la terra parea bagnata di sangue. E quando furono giunti al sepolcro, tutti interamente furono sanati come se mai non avessero avuto veruno male le loro corpora. Allora incominciò a crescere la loro fama di santo Agustino, e venire la moltitudine de l'infermi al sepolcro suo, i quali riportandone i benefici de la santade, lasciavano il pegno de la loro salute; e così avvenne che tanta moltitudine de' detti pegni v'erano ragunati, che tutto l'oratorio di santo Agostino e 'l portico n'erano pieni, sì che grande impedimento davano d'andare e di reddire. Per la qualcosa li monaci, costretti per necessitade, sì li ne fecero rimuovere. Da notare, è con ciò sia cosa che tre cose siano quelle che s'appetiscono da gli uomini del mondo, cioè ricchezze, diletti ed onori, questo uomo santo fu di tanta perfezione che disprezzò le ricchezze, rifiutò gli onori ed ebbe in abbominazione i diletti. Che ciò fosse ched elli dispregiasse le ricchezze, elli medesimo il dice nel libro del Soleloquio, dove la ragione il domanda e dice: "Disideri tu verune ricchezze?" Agostino risponde: "Io non le rifiuto or di prima, però che essendo io già di trenta anni, egli è presso che XIV anni che io mi rimasi di volere queste cose, né non v'ho cercato altro che la necessità del vivere; un solo libro di Cicerone mi confortòe che per neuno modo erano da appetire le ricchezze". E con ciò fosse cosa che sì rifiutasse gli onori, in quello medesimo libro il dice là dove la ragione adomanda: "Che di' tu de gli onori?" Agustino risponde: "Io confesso che ora, o poco meno a questi dì, mi sono rimaso di desiderarli". Li diletti e le dilicatezze sprezzòe, e quanto al giacere e quanto al mangiare. Quanto al primo il domanda la ragione: "Che di' di moglie? Or non ti diletta s'ell'è bella e casta e bene costumata e ricca, e massimamente se tu se' certo di non sostenere veruna gravezza da lei?" Ed Agustino risponde: "Quantunque tu vuogli dipignere e ornarla di buoni costumi, niuna cosa m'ho fermato così da fuggire, come la corruzione". Disse la ragione: "Io non vo caendo quello che tu t'hai fermato, ma se tu ti diletti in cotali cose". E Agustino risponde: "Niuna cosa al postutto vo caendo in queste cotali cose, niuna ne disidero; ma con gravezza e errore e con spregio me ne ricorda". Quanto a la seconda cosa il domanda la ragione e dice: "Che mi di' de' cibi?" Rispuose Agustino: "O vuoli di mangiare o di bere o di bagnora o d'altri diletti del corpo non me ne domandare; però che in queste cose domando pure tanto quanto mi può essere donato ad aiuto de la santade".
cap. 120, Decollaz. Giov. Battista La decollazione di san Giovanni Batista per quattro ragioni pare che fosse ordinata, come si truova scritto nel Mitrale de Offizio. La prima per la sua decollazione, la seconda per l'arsura de l'ossa sue e per lo raccoglimento, la terza per lo trovamento del capo suo, la quarta per lo traslatamento del dito suo, e per la sagra de la chiesa. E secondo ciò questa festa s'appella da alcuni in diversi modi, cioè dicollazione, raccoglimento, trovamento e sagra. Imprima dunque si fa questa festa per la dicollazione sua, la quale fue in questo modo. Dicono le Storie Scolastiche che Erode Antipas, figliuolo del grande Erode, andando a Roma, e faccendo passamento per le terre del suo fratello Filippo, fece patto con Erodiade, moglie di Filippo e, secondo il detto di Gioseffo, serocchia d'Erode Agrippa, che a la tornata sua caccerebbe la moglie e prenderebbe lei per sua moglie. La qualcosa non fu celata a la moglie sua, cioè Darete figliuola del re di Damasco. Onde non aspettando la tornata del marito, il più tosto che poté tornò al padre. Ritornardo dunque Erode, tolse Erodiade a Filippo, e recossi a nemici Areta re e Agrippa e Filippo; e Joanni Batista lo riprendea di ciò perché, secondo la legge ch'elli avea ricevuta, non gli era licito d'avere la moglie altrui, cioè del fratello suo, vivendo lui. Veggendo dunque Erode che Joanni il riprendea sì duramente, e che per lo battesimo e per la predicazione, secondo il detto di Gioseffo, ragunava grande popolo, e sì 'l fece mettere in pregione, volendo piacere a la moglie e temendo il danno del popolo che seguitava Giovanni. E volselo uccidere; se non che temette il popolo. Disiderando dunque Erode insieme con Erodia di trovare cagione per la quale potessero uccidere Joanni, pare che tra loro medesimi insieme dicessero che Erode facesse festa del die del suo natale dinanzi a' maggiorenti di Galilea, e che fermasse di dare sotto giuramento alla fanciulla che saltasse, figliuola d'Erodiada, ciò ch'ella domandasse; ed ella richiedendo il capo di Giovanni Batista, lo quale converrebbe ch'elli le desse per lo giuramento fatto, ma ch'elli s'infignesse d'esserne tristo e dolente del giuramento fatto. E che questa malizia e infignimento avesse, pare che si dimostri ne le Storie Scolastiche, là ove dice così: "Creditoia cosa è che Erode sotto questa cagione trattasse prima sagretamente de la morte di Joanni come si dovesse fare". Anche dice san Geronimo ne la Chiosa: "Per ciò forse giurò per trovare cagione d'uccidere; ché se colei avesse chiesta la morte del padre o de la madre, Erode non l'avrebbe acconsentito". Ordinato dunque il convito, la fanciulla saltò dinanzi a tutti, piacque a tutti, e 'l re le giurò di dare tutto ciò ch'ella domandasse; e quella, ammaestrata dinanzi da la madre, domandò il capo di Giovanni. Ma il malizioso Erode s'infinse d'essere contristato per lo saramento, però che, come dice Rabano, mattamente avrebbe giurato quello che gli convenisse fare. Ma mostravasi tristo ne la faccia, con ciò sia cosa che s'allegrasse ne la mente; iscusa la follia col giuramento, acciò che diventasse crudele sotto cagione di misericordia. Fue dunque mandato il giustiziere e, tagliato il capo di Giovanni, fu dato a la fanciulla, e da la fanciulla fu presentato a la madre adoltera. Santo Agostino per cagione di questo giuramento narra nel sermone che fece de la dicollazione di Giovanni Batista un cotale essemplo: "Un uomo, ciò dice, fue innocente e fedele persona, dal quale io udii quel ch'io narro; che negandoli uno quelli ch'elli gli avea prestato, commosso quegli sì l'accese a giurare. Sì che quegli sì pergiurò che non gli dovea dare nulla, e questi perdette il suo. Or dicea costui che in quella notte fu menato al giudice e dimandato da lui per queste parole: "Perché facesti tu giurare l'uomo, da che tu sapevi che dovea giurare falso?" E quelli disse: "Elli mi disdisse il mio". Disse il giudice: "Meglio ti venìa a perdere il tuo, che uccidere l'anima sua con falsa ragione". Sì che l'uomo fu messo in terra e fugli dato tante battiture che, da che si fue isvegliato, appareano le segni de le battiture in sul dosso. Ma fugli perdonato da che si fue ammendato". Insino qui dice Agustino. Ma in questo die Joanni non fue dicollato, ma intorno a la Pasqua, l'anno dinanzi a la Passione di Cristo. Convenne dunque per li sacramenti del Signore, che 'l minore desse luogo al maggiore. Quinci grida Grisostomo, e dice: "Giovanni, scuola di virtudi, ma esercizio di vita, forma di santitade, regola di giustizia, specchio di verginitade, titolo di pudicizia, essempro di castitade, via di penitenzia, perdonanza di peccati, disciplina de la fede; Giovanni, maggiore uomo iguale a gli angeli, somma de la legge, stanziamento del Vangelio, voce de gli apostoli, acchetamento de' profeti, lucerna del mondo, precursore del giudice e mezzo di tutta la Trinitade. E costui ch'è cotale uomo, è dato al peccatore, è conceduto a l'adoltera, è messo in mano de la ballatrice". Ma Erode non andò impunito, ma fu condannato a bando. Ché, come si truova ne le Storie Scolastiche, l'altro Erode Agrippa essendo uno valentre uomo, ma povero, disperandosi per la troppa povertade, entròe in una torre per morirvi entro di fame. Abbiendo ciò udito Erodiada, sua serocchia, pregò il marito suo, ciò fue Erode Antipas, Tetrarca, che 'l nel traesse fuori. Quando quegli ebbe ciò fatto, mangiando una volta abendue insieme, Erode Tetrarca, da che fu bene riscaldato di vino, rimproveròe ad Erode Agrippa che l'avea campato da la pistilenza de la fame; laonde quegli si dolse fortemente e, andandone a Roma, fu tanto innalzato da Gaio Cesare, che gli diede due tetrarchie, cioè quella di Lisania e quella d'Abilina, e mandollo per re in Giudea, posta che gli ebbe la corona in capo. Veggendo Erodiade che 'l fratello suo avea nome di re, con molto molestevoli prieghi sollecitava il marito suo che andasse a Roma e comperassesi nome di re. Ma egli, abbondando di molte ricchezze, si voleva riposare, più amando l'ozio che l'onore. Il quale con fatica finalmente vinto per li prieghi de la moglie, andò a Roma con esso lei. Udendo ciò Agrippa, mandò lettere a Cesare significandoli che Erode ha fatto amistade col re de' Parti e ha intendimento di ribellarsi a lo 'mperio di Roma; e in argomento di ciò sì li significò che ne le cittadi sue avea tante arme che basterebbero a LXX milia d'armati. Sì che Cesare quando ebbe letta la lettera, cominciandosi quasi altronde, domandòe Erode de lo stato suo, e, fra l'altre cose, il domandòe sed e' fosse tanta abbondanza d'arme ne le città sue, quanta avìa udito che vi era. E quegli non lo negò. Allora Gaio, credendo che fosse vero quello che Agrippa gli avea scritto, sì 'l mandò a' confini, e a la moglie, perch'era serocchia d'Agrippa, lo quale spezialmente amava, sì diede di potere ritornare ne la terra sua. Ma ella volse anzi accompagnarsi al marito suo a' confini, dicendo che colui col quale avea partecipato ne le prosperitadi, participerebbe simigliantemente ne l'avversitadi. Furono adunque portati a Leone sopra Rodano, e là finito la vita loro in molta miseria. Queste cose sono ne le Storie Scolastiche. La seconda ragione sì è per l'ardimento de le sue ossa e per lo raccoglimento, le quali in questo die furono arse, come vogliono dire alcuni, e parte ne furono raccolte. Onde sostenne quasi il secondo martirio quando ne le sue ossa fu arso; e però fa la Chiesa questa festa come il secondo martirio suo. Che così si legge nel XII libro de le Storie Ecclesiastiche: "Avendo i discepoli di Joanni Batista seppellito il corpo suo a Sebaste, cittade di Palestina, in mezzo tra Eliseo ed Abdia, e faccendosi molti miracoli a l'avello suo, per comandamento di Giuliano apostata li gentili sparsero l'ossa sue; e non rimanendosi i miracoli, quell' ossa furono raccolte ed arse nel fuoco e tornate in polvere e ventolate per le campora. Così si legge ne le Storie Scolastiche. E Beda dice ne la Cronica sua che quell'ossa per alcuno modo raccolte, sì si sparsero più distesamente, e così pare che sostenesse il secondo martirio. Questa festa rappresentano coloro che non sanno, i quali ne la sua nativitade ardono l'ossa da ogne parte raccolte. E mentre che le si raccoglievano per ardere, come dicono le Storie Scolastiche e Beda ne testimonia, vennero monaci di Gerusalem e mischiaronsi celatamente tra loro che raccoglievano, e tolserne gran parte di quelle ossa, e portarle a Filippo vescovo di Gerusalem, il quale le mandò poscia a santo Atanasio, vescovo d'Alessandria. E poi Teofilo, vescovo di quella cittade, sì le ripuose nel tempio di Serapis, purgato da le suzzure, e consacrollo per chiesa di santo Giovanni. Queste cose sono in Beda e ne la Storia Scolastica. Ma poi furono traslatate a Genova, là ove devotamente sono riverite, sì come Alessandro terzo e Innocenzio quarto, saputa la veritade del fatto, approvarono con loro privilegii. E secondamente che Erode, il quale fece tagliare il capo di Giovanni, patìo pene de le sue fellonie, così Giuliano apostata, il quale comandò che s'ardessono l'ossa sue, fu percosso da la divina vendetta. Ma di ciò è detto più su ne la leggenda di san Giuliano, che seguita dopo la conversione di san Paulo. Di questo Giuliano apostata siamo ammaestrati pienamente ne la Storia Tripertita, e quanto al nascimento e quanto a lo 'mperio e a la crudeltade e a la morte. Ché Costanzio, fratello del grande Costantino, d'uno medesimo padre, sì ebbe due figliuoli, Gallo e Giuliano. Morto Costantino, Costanzio suo figliuolo, fece Gallo Cesare e poscia l'uccise. E Giuliano temendo di ciò, diventò monaco, e cominciò ad avere consiglio con gl'incantatori se potesse essere ancora imperadore. Dopo queste cose Costanzio fece Giuliano Cesare, e mandollo in Francia, là dove ebbe molte vettorie. E una corona d'alloro stando appiattata tra due colonne, ruppesi la funicella, e caddeli in capo passando quind'oltre, e incoronollo molto acconciamente, gridando tutti che questo era segnale d'imperio. E sendo chiamato da' cavalieri Augusto, e non essendovi ancora corona con la quale fosse incoronato, fu uno che tolse un fregio ch'avea a collo e puoselo in capo a Giuliano; e così fu fatto imperadore da loro. Allora gittò via il componimento d'essere cristiano, e aprendo le chiese de l'idoli e sacrificando a loro, chiamavasi pontefice de' pagani e disfaceva il segno de la Croce dovunque si trovasse. Una volta gli cadde sopra capo e sopra le vestimenta di lui, e de gli altri ch'erano con lui, la rugiada, e ogni gocciola si trasformò in segnale di Croce. E volendo piacere a tutta gente, morto Costanzio, volse che catuno a qualunque Dio più gli piacesse, a quello servisse, e de la corte sua cacciò fuori castrati e barbieri e cuochi. Castrati, però che la moglie era morta, poi ch'altra non avea menata; cuochi, perch'elli usava grossi cibi; barbieri, perché diceva che uno bastava a molti. Molti libri dittòe nei quali lacerò tutti i prencipi dinanzi a sé. In ciò che cacciò tutt'i cuochi, e' barbieri, fece opera di filosofo, ma non d'imperadore; in ciò che biasimò e lodòe i prencipi, non fece come filosafo, né come imperadore. Sacrificando alcuna volta Giuliano a l'idoli, ne le interiora de la pecora sacrificata gli fu mostrato il segnale de la Croce attorniato di corona. La qualcosa veggendo i ministri ebbero grande paura, e interpretarono che la Croce dovea avere veritade e vettoria e non dovea avere né termine, né fine. E Giuliano gli confortò e disse che questo era segno che la dottrina cristiana dovea essere costretta, e non si dovea stendere fuori del cerchio. Sacrificando Giuliano in Costantinopoli a la Fortuna del mare, il vescovo di Calcidonia, il quale per vecchiezza avea perduto il vedere, sì andò a lui, e appellollo sanza Dio e crudele e apostata. Al quale Giuliano disse: "Né il Galileo tuo non t'ha potuto guerire". E quelli disse: "Di ciò fo io grazie al Segnore mio, ched E' m'ha tolto il lume, acciò ch'io non ti veggia uomo sanza pietade". E Giuliano non rispondendogli altro, sì si partìo. E andonne in Antiochia, e raccolse i vaselli santi e le paramenta, e gittandole in terra vi sedette suso, e disse molta villania e aggiunse vergogne; e incontanente in que' luoghi cominciarono a uscire fuori i vermini, e rodevalli le carni; dal quale male non poté essere liberato mentre che visse. E Giuliano prefetto, abbiendo al comandamento di Giuliano imperadore tolti i vasi de le chiese, pisciandovi suso sì disse: "Ecco in che vaselli si serve al figliuolo di Maria". E subitamente la bocca gli si convertì in culo, e diventòe la bocca membro di gittare fuori. Entrando Giuliano Apostata ne' tempii de la Fortuna, e spargendo i ministri del tempio l'acqua perché fossero mondi coloro che intravano, Valentiano vidde una gocciola di quello spargimento in sul mantello, e adirato di ciò, diede un gran pugno al ministro che spargea, dicendo ch'elli era quindi anzi macchiato, che mondato. Vedendo ciò lo 'mperadore, comandò che fosse messo in pregione e mandato a l'ermo, però ch'egli era cristiano, il quale per guiderdone meritò d'essere poi imperadore. Ancora per odio de' cristiani fece Giuliano riconciliare il tempio di giuderi, dando a' detti giudei le spese a la larga; ma quando ebbero apparecchiato una grande abbondanza di calcina trita, subitamente venne uno gran vento, e tutta la sparse qua e là; poscia venne uno grande terremuoto; poscia eccoti uscire un fuoco dal fondamento, il quale n'arse molti. E l'altro die apparve il segnale de la Croce in cielo, e le vestimenta de' Giuderi furono ripiene di croci di colore nero. Andando lui in Persia e venuto a la città di Ctisifonte, puosesi ad assediare il re; e il re gli proferse parte del suo paese se si partisse da lui; ma egli non v'acconsentìo per veruno modo, però che si credea, secondo il detto di Pitagora e la sentenzia di Platone, per mutamento de' corpi avere l'anima d'Alessandro, ovvero essere maggiormente in un altro corpo un altro Alessandro. Ma subitamente venne una lancia e dargli per lo fianco entro, per la quale piaga ne ricevette il termine de la vita. Ma chi si fosse colui che diè la fedita non si sa, perché adrieto altri dicono che fu uno di quelli che non si veggiono, altri dicono che fu uno de' pastori Ismaeliti, altri che fu un cavaliere affaticato di fame e d'andare. Ma o uomo o angelo che fosse, cosa palese è, ch'elli ubbidìo al comandamento di Dio. Ma Calisto suo famigliare dice che fue percosso dal demonio. Queste cose sono ne la Storia Tripertita. La terza ragione è per lo ritrovamento del capo suo. Però che in questo die vogliono dire alcuni che fu trovato il capo suo; ché, sì come dice ne l'XI libro de la Storia Ecclesiastica, Giovanni fue in uno castello d'Arabia, c'ha nome Macheronta, legato in pregione e tagliatali la testa, ed Erodia fece portare il capo suo in Gerusalem, e guardingamente il fece seppellire a lato al sepolcro d'Erode, temendo che non risucitasse profeta se col corpo fosse seppellito il capo. E al tempo di Marziano prencipe ne l'anno Domini CCCLIII Joanni revelò il capo suo a due monaci che veniano in Gerusalem, come dice la Storia Scolastica; i quali monaci andando al palazzo che era stato d'Erode, trovarono il capo di Giovanni inviluppato in cilicio; credo che fossero le vestimenta di che era vestito nel diserto. I quali ritornando con quello capo a le contrade loro, uno de la cittade d'Imissena, il quale fuggiva povertade, s'accompagnò a loro. E portando costui la tasca col capo santissimo, ammonito di notte da san Giovanni, fuggì costoro e entròe ne la città d'Imissena col santo capo; sì che mentre che visse tegnendo il detto capo in una spelonca con molta reverenza, in molta prosperitade ne venne. E morendo lui sì 'l manifestòe ad una sua serocchia sotto fede, e secondo quello modo tra loro medesimi fecero i successori loro. E dopo molto tempo san Giovanni rivelòe il capo suo a san Marcello, abitante monaco ne la detta spelonca, in questo modo. Ché gli apparea dormendosi che molte turbe andassero cantando e dicendo: "Ecco san Giovanni Batista che ne viene!" Poscia vide san Giovanni che 'l guidava da man ritta, e un altro da mano manca, e tutti veniano a lui, e elli il benedicea. E quando Marcello fu venuto a lui, si levò ritto e preselo per lo mento, dandoli bascio di pace. Allora Marcello il domandò e disse: "Segnore mio, onde se' tu venuto a noi?" E quelli rispuose: "Son venuto di Sebasten". Sì che quando Marcello fu isvegliato, e maravigliatosi molto di questa visione, un'altra notte venne uno a lui quando e' dormìa, e sì 'l destò e, destato lui, ed elli vidde una stella splendiente stare ne l'uscio de la celletta. E quelli levandosi per volerla toccare, subitamente si trasportòe in altra parte. Elli cominciò andare dopo lei infino che la stella stette nel luogo dov'era il capo di Giovanni Batista; e cavando quivi, trovovvi uno vasello, e iventro il capo santo. E uno non credendo ciò, puose la mano al vasello, ma la mano diventòe incontanente arida e secca; e orando i compagni suoi, trasse a sé la mano, ma la mano rimase inferma. E santo Giovanni gli apparve e disse: "Quando il capo mio fia diposto ne la chiesa, toccherai il vasello e riceverai sanitade". E quegli il fece e ricevette sanitade perfetta. Quando Marcello ebbe questo fatto indicato a Giuliano, vescovo di quella città, ambedue tolsero il capo, e portarlo ne la città. E da quell'ora innanzi cominciò in quello die a farsi festa de la dicollazione di santo Giovanni ne la detta cittade, sì come dicono le Storie Scolastiche, cioè in quel die che 'l capo fu levato. Il quale fu poi traslatato a Costantinopoli. Ché sì come dice la Storia Tripertita, avendo comandato Valente imperadore che 'l santo capo si ponesse nel carro, e portassesi in Costantinopoli, quando furono venuti intorno a Calcedonia, il carro per veruno modo si potea tirare, quantunque i buoi fossero puntecchiati con ferruzzi; e per ciò furono costretti di porlo in terra. Ma poi volendolo Teodogio levare quindi, ed abbiendo trovato una donna vergine diputata a la guardia di quel capo, sì la pregò iveritto che lasciasse portare via quello corpo santo; e ella consentìo, credendo che non si lasciasse rimuovere quindi, come avea fatto al tempo di Valente imperadore. Allora il divoto imperadore abbracciando il capo con la porpore sua, si trasportòe in Costantinopoli, ed ivi li fece una bellissima chiesa. Queste cose sono ne la Storia Tripertita. E quindi fu poscia traslatato in Francia a Pitavia, al tempo del re Pipino; nel quale luogo per li suoi meriti molti morti sono risucitati. E secondamente che fu punito Erode, che fece dicollare Giovanni, e Giuliano apostata, che arse l'ossa sue, così fu punita Erodiada, che confortò la fanciulla che domandasse il capo, e anche la fanciulla medesima che 'l domandò. Dicono alcuni che Erodiada non fu condannata a bando, né non vi morìo, ma tenendosi in mano il capo di Joanni e rallegrandosi ad esso e dicendoli rimprovero molto, per volontà di Dio quello capo le soffiò nel volto, e quella cadde morta incontanente. Questo si dice volgaremente; ma più è vero quello che detto è: ched ella morì a' confini con Erode in molta miseria, però che i santi il dicono ne le Croniche, e così par che sia da tenere. E la figliuola sua andò su per lo ghiaccio; sott'essa il ghiaccio sì si strusse, e quella affogòe incontanente ne l'acqua. Ma ne la Cronica dice che la terra la 'nghiottì viva. Ma questo si puote intendere come di quelli d'Egitto, i quali affogarono con Faraone nel Mare Rosso, che si dice che la terra gli divoròe. La quarta ragione si è per lo traslatamento del dito suo e per la sagra de la chiesa. Ché il dito suo col quale egli mostrò Cristo, come dicono alcuni, non si poté ardere, onde quello dito fu trovato da' detti monaci; lo quale dito, come dicono le Storie Scolastiche, santa Tecla il portòe poi ne l'Alpe, e puoselo ne la chiesa di santo Marino. Questo dice anche il maestro Joanni Beleth, che quello dito non poté ardere, santa Tecla il portò d'oltre mare in Romania, e ivi fece la chiesa ad onore di san Giovanni, la quale chiesa, sì come dice nel detto libro, alcuni dicono ch'ella è oggi sagrata. Onde da messere lo Papa fu ordinato che questo dì fosse avuto per grande festa in tutto il mondo per lo suo onore. In una città di Francia, la quale ha nome Maurien, una donna v'avea ch'era grande devota di san Giovanni Batista e pregava Iddio perseverantemente che le donasse alcuna cosa de le reliquie sue. E veggendo che non le giovava nulla il pregare, strinsesi a giuramento che, s'ella non avesse quello ch'ella domandava, da indi innanzi non mangerebbe. E avendo digiunato alcuni dì, vidde in su l'altare un dito grosso, maravigliosamente bianco, e ella allegra ricevette il dono di Dio. E tre vescovi correndo là, catuno volea partire quello dito, e ellino videro tre gocciole di sangue stillare in sul panno che v'era sotto, e catuno s'allegrò d'avere guadagnato la sua gocciola. Teodolina, reina de' Longobardi, fece una nobile chiesa ad onore di santo Giovanni Batista presso a Melano in uno luogo che si chiama Modice, e sì le fece gran dote. Sì che passato alcuno temporale, come dice Paulo ne la Storia di Longobardi, Costantino imperadore, volendo liberare Italia da' Longobardi, dimandò un santo uomo ch'avea spirito di profezia, che fine dovesse avere la battaglia. Il quale stette la notte in orazione, e la mattina rispuose a Costantino, e disse: "La reina di Longobardi fece la chiesa di san Giovanni Batista, e però egli prega continuamente per loro, e però non possono essere vinti; ma verrà tempo che in quel luogo fia disprezzato, e allora saranno vinti". La qualcosa avvenne al tempo di Carlo. Avea uno di grande vertude, come dice Gregorio nel Dialago, il quale avea nome Santolo; il quale, abbiendo ricevuto in guardia uno diacono preso da' Longobardi a cotale patto che, s'egli fuggisse, elli sosterrebbe per lui la sentenzia del capo, costrinse dunque il detto Santolo quello diacono che fuggisse e liberassesi. Per la qualcosa Santolo era menato a essere dicollato; e a ciò fare fue eletto uno fortissimo giustiziere, del quale non era dubbio che 'n uno colpo gli tagliasse il capo. E disteso il collo, quando quello giustiziere ebbe levata alta la spada con grande forza per dare il colpo, e Santolo disse: "San Giovanni ricevila!" Incontanente il braccio del percotitore perché il vigore e, stando la spada levata inverso il cielo, stette fermo che non si potea torcere. E fatto saramento che giammai non percoterebbe veruno cristiano, l'uomo di Dio fece orazione per lui, e quegli incontanente puose il braccio a terra e fu sanato e libero.
cap. 121, Ss. Felice e AdauttoFelice prete e 'l fratello, ch'avea simigliantemente nome Felice, prete, furono menati dinanzi a Diocliziano e Massimiano. L'uno de' quali, il più vecchio, essendo menato al tempio di Serapis per farlo sacrificare, soffiò ne la faccia de l'idolo, e incontanente cadde. Fu menato simigliantemente a l'idolo di Mercurio; e anche vi soffiò entro, e tosto cadde. Fu menato la terza volta a l'idolo de la Diana, e fece il somigliante. Quando fu tormentato a la colla, fu menato la quarta volta a l'albore consegrata al demonio per farlovi sacrificare; e elli puose le ginocchia in terra e, soffiando ne l'albore, enabissolla infino a le radici, e sminuzzò l'idolo con l'altare e col tempio e con l'albero caggente. La quale cosa avendo udito il prefetto, comandò che quivi fosse dicollato e lasciatovi il corpo a' cani e a' lupi. Allora si levò subitamente uno nel mezzo di tutti, e confessò liberamente ch'egli era cristiano. Sì che basciandosi insieme, abendue simigliantemente furono dicollati; e li cristiani non sappiendo il nome di colui, sì li puosero nome Adaucto, cioè a dire Aggiunto, però che s'aggiunse a san Felice a ricevere la corona del martirio. I quali furono seppelliti da' cristiani entro la fossa che l'albore avea fatta; ma i pagani vogliendolne scavare, incontanente furono presi dal diavolo. E furono martirizzati costoro intorno a gli anni Domini CCLXXXVII.
cap. 122, Ss. Saviano e SavinaSaviano e Savina furono figliuoli di Savino, uomo nobilissimo, ma pagano, il quale ingenerò de la prima moglie Saviano, e de la seconda ingenerò Savina, e ambedue gli chiamòe del nome suo. Leggendo Saviano quello verso che dice: "Adsperges me, Domine, yssopo et mundabor", domandava che ciò fosse, ma non 'l potea intendere. Onde entrando ne la camera puosesi a giacere in cennere e cilicio, e dicea che volea anzi morire che none intendere il senno de la parola. Al quale apparendo l'angelo, sì li disse: "Non t'affliggere infino a la morte, però che tu t'hai trovata la grazia di Dio, e comunque tu sarai battezzato, sarai più candido che la neve, e allora intenderai quello che tu ora tu vai caendo". Partendosi l'angelo, costui diventò allegro; e non vogliendo da quinci innanzi adorare gl'idoli, era molto rampognato dal padre. Sì che dicendoli il padre spesse volte: "Meglio è, da che tu non adori gli dei, che tu solo muoia innanzi che tu c'invogli tutti insieme ne la morte tua, fuggìo nascostamente e capitòe a la città di Treci. E quando fu venuto sopra il fiume Secana, pregò Domenedio d'essere battezzato. Dissegli il Segnore: "Ora hai tu trovato quella cosa per la quale cercando tanto ti se' affaticato". E incontanente ficcò il bastone dinanzi a molti ch'erano ivi presenti e, fatta l'orazione, il bastone menòe frondi e fiori, sì che MCVIII uomini credettero in Domenedio. Udendo queste cose lo 'mperadore Aureliano, mandò molti cavalieri per prenderlo, i quali trovandolo stare in orazione ebbero temenzia d'andare a lui; onde lo 'mperadore ve ne mandò più che quelli di prima, i quali vegnendo tutti insieme in orazione stetteno con lui; e levandosi lui da l'orazione, sì li dissero: "Lo 'mperadore t'ha voglia di vedere". Il quale ed essendo venuto a lo 'mperadore e non vogliendo sacrificare, sì gli fece legare le mani e' piedi e batterlo con catenacci di ferro. Al quale disse Saviano: "Arrogi tormenti, se puoi". Allora comandò che fosse legato sopra una scranna nel mezzo de la cittade e messovi de le legne sotto, e sparto de l'olio sopra, e così fosse arso in questo fuoco. E ponendo mente il re, viddelo nel miluogo de la fiamma stare ritto e orare; sì che isbigottito cadde ne la faccia sua, e levandosi poi disse a lui: "Fiera pessima, or non ti bastano l'anime che tu hai ingannate, se tu non ti sforzi d'ingannare noi per arte di demoni?" Al quale rispuose Saviano: "Ancora debbono molt'anime, e tu medesimo, credere per me". Udendo ciò, lo 'mperadore bestemmiò il nome del Signore, e l'altro dì comandò che fosse legato ad uno legno e fosse saettato; e le saette pendevano in aere da parte ritta e da manca, e non li fece male veruno. L'altro die venne lo imperadore a lui, e sì li disse: "Ov'è il Domenedio tuo? Ora vegna dunque, ora sì ti liberi di queste saette!" Incontanente volòe una di quelle saette e diede ne l'occhio al re, sì che in tutto l'accecò. Adirato il re, comandò che fosse messo in pregione e 'l seguente die fosse dicollato. E 'l seguente die Saviano pregò Iddio che 'l trasportasse al luogo là dove era stato battezzato. Incontanente si ruppero le catene, e aperonsi l'uscia, e venne là passando per lo mezzo de' cavalieri. Udendo ciò lo 'mperadore, comandò che fosse giunto là e tagliatoli la testa là. Veggendo Saviano i cavalieri che 'l perseguitavano, andò sopra l'acqua come sopra pietra, infino che venne al luogo del suo battesimo. Sì che quando i cavalieri valicavano, temendo che quelli non perisse, elli disse loro: "Sicuramente mi percotete, e del sangue mio portate a lo 'mperadore, acciò che riceva il lume e cognosca la virtù di Dio". Quando fu percosso, tolse il capo suo di terra e portollo XLIX passi. E quando lo 'mperadore ebbe unto gli occhi di quello sangue e fue guerito, incontanente sì disse: "Veramente è buono e grande il Domenedio de' cristiani!". Udendo ciò uno ch'era fatto cieco XL anni, fecesi portare a quel luogo e, fatta l'orazione, incontanente riebbe il vedere del lume. E fu martirizzato i X dì uscente gennaio intorno a gli anni Domini CCLXXIX. Ma però si pone qui, per congiugnerla questa storia a quella de la serocchia de la quale si fa questa festa. Or dice che questa sua serocchia piagnea tutto dì questo suo fratello, e pregava gl'idoli per lui; a la perfine dormendo lei, l'angelo di Dio l'apparve e disse: "Savina, non piagnere, ma lascia stare ciò che tu hai, e troverrai il fratello tuo posto in grande onore". Quella si svegliò e disse a la balia sua: "Amica mia, or sentisti tu nulla?" Quella rispuose: "Ma sì, madonna; io viddi uno uomo parlare teco, ma non so che si dicea". Savina disse: "Non mi accusare tu!" La balia disse: "Non piaccia Dio, madonna; fa ciò che tu vuogli, non t'uccidere tu". E così si partirono ambedue l'altra mattina. Con ciò dunque fosse cosa che 'l padre n'avesse fatto cercare gran tempo e non l'avesse trovata, levò le mani al cielo e disse: "Se tu se' Domenedio potente nel cielo, ispezza gl'idoli miei, che non hanno potuto salvare i miei figliuoli". Allora mandò Domenedio uno tuono, e spezzò tutti gl'idoli; udendo ciò molta gente credettero in Domenedio. E vegnendo santa Savina a Roma fu battezzata da Eusebio papa e, sanandovi due ciechi e due attratti, cinque anni vi stette e, dormendo lei, l'angelo l'apparve e disse a lei: "Savina che è quello che tu fai, che hai lasciate le divizie tue, e staiti ora qui in dilizie? Leva su, e fa che vadi ne la città di Treci, e troverrai il fratello tuo". Sì ch'ella disse a la fante sua: "Non ci conviene stare più qui". E quella disse: "Ora dove ne vuo' tu ire, madonna? Ecco che qui t'amano tutti assai, e tu hai voglia d'andare e di morire?" E quella disse: "Iddio ci provvedrà". E togliendo uno pane d'orzo, capitòe a la città di Ravenna, e vegnendo a casa d'uno ricco uomo, la cui figliuola si piagnea come per morta, domandava a la fante de la casa d'esservi ricevuta ad albergo. E quella rispuose: "Madonna mia, come puo' tu albergare qui che si muore la figliuola de la donna mia, e tutti stanno in grande afflizione?" E la santa disse: "Per me non morrà ella". Sì che entrando ne la casa prese per mano la fanciulla, e levolla da giacere sana e lieta; e vogliendola coloro ritenere, non v'acconsentìo per veruno modo. Essendo dunque venuta presso a Treci a uno miglio, disse a la fante sua: "Riposiamci un poco". Ed eccoti venire un gentile uomo de la città, il quale avea nome Licerio, e disse a coloro: "Onde siete voi?" E Savina rispuose: "Noi siamo quinci di questa cittade". E quelli disse: "Perché mentisti tu? Il parlare tuo mostra che tu se' pellegrina". E quella rispuose: "Messere, veramente sono pellegrina, e vo caendo il mio fratello Saviano, già fa lungo tempo ismarrito". E quelli disse: "Quell'uomo cui tu vai caendo, è poco tempo che fu dicollato per Cristo, e seppellito in cotale luogo". Allora si gittò quella in orazione, e disse: "O Segnore, che m'hai sempre conservata in castità, non mi lasciare più affaticare in crudeli viaggi, né muovere più il corpo mio di questo luogo! Io ti raccomando la fante mia, la quale ha sostenuto cotanto per tuo amore, e fammi degna di vedere il fratello mio nel regno tuo, da che io non l'ho potuto vedere qui". E, finita l'orazione, passò di questa vita: al Segnore suo se n'andò. Veggendo ciò la sua fante incominciò a piagnere, però che non v'avea quelle cose che faceano bisogno a seppellire. E 'l detto cavaliere mandò un banditore per la terra, che tutti venissono a seppellire la femmina pellegrina. I quali vennero e seppellirla onorevolemente. In questo medesimo dì si fa festa di santa Sabina, che fu moglie di Valentino cavaliere, la quale, non volendo sacrificare a l'idoli, fu dicollata sotto la signoria d'Adriano imperadore.
cap. 123, S. LupoLupo d'Orlies, nato de la schiatta del re, risplendendo di tutte le virtudi, fu eletto arcivescovo di Senso. Il quale dando ogni cosa quasi a' poveri, un die invitòe molta gente a convito, e udendo che 'l vino vi mancava, rispuose così al servidore: "Io credo che Domenedio, il quale pasce gli uccelli, compierà la nostra caritade". E detto questo, ed eccoti uno messaggio che disse che a la porta erano recate cento moggia di vino. Con ciò fosse cosa che tutti quelli de la corte dicessero male di lui, ched elli amava troppo e fuori di misura la vergine di Dio, figliuola de l'antecessore suo, dinanzi a coloro che 'l ne biasimavano prese quella vergine e dielle un bascio, così dicendo: "Neuno nocimento fanno l'altrui parole a l'uomo, il quale la propia coscienzia non macola". Ché perch'elli l'avea conosciuta ardente ne l'amore di Dio, sì l'amava con purissima mente. Essendo entrato il re di Francia, il quale avea nome Clotario, in Borgogna, mandò il siniscalco suo contra Senso per assediare la cittade. Vedendo ciò santo Lupo entrò ne la chiesa di santo Stefano, e incominciò a sonare la campana; la quale udendo i nimici, tanta paura gli prese, che fuggirono tutti, e non si pensarono di potere campare da morte. A la perfine avuto il reame di Borgogna, quando il re ebbe mandato un altro siniscalco a Senso, perché santo Lupo non gli si fece incontro con donamenti, se n'adiròe sì malamente ched elli infamòe tanto appo il re, che 'l re gli mandòe a' confini; il quale risplendette nel detto luogo in dottrina e in miracoli. Infrattanto quelli di Senso uccisero un vescovo che s'avea preso il luogo di santo Lupo, e pregarono il re che ribandisse santo Lupo da i confini. Il quale, quando l'ebber fatto ritornare, veggendolo infiebolito, in tale maniera fu mutato da Dio, che si gittò in terra dinanzi da lui per chiederli perdonanza, e rendello a la sua cittade accresciuto di molti donamenti. E ritornando a Parigi, una grande turba d'incarcerati gli venne incontro con l'uscia aperta e co' ferri sciolti. Un die di domenica dicendo lui la Messa, da cielo venne una gemma nel suo santo calice; la quale gemma il re la ripuose tra le sue sante reliquie. Il re Clotario, udendo che la campana di santo Stefano aveva nel sonare una mirabile dolcezza, mandò che fosse portata a Parigi, acciò che l'udisse più spesso; ma essendo ciò dispiaciuto a santo Lupo, sì tosto come fu tratta de la città di Senso, sì perdette la dolcezza del suono suo. Udendo ciò, il re comandò che incontanente fosse renduta e, renduta che fue, riebbe il suono, che sette miglia s'udìa dilungi da la città, sì che santo Lupo l'andò incontro, e ricevette con onore quello ch'egli avea perduto con dolore. Una notte orando lui, per operazione del diavolo avendo una grande setata, comandò che li fosse recata acqua fredda. E intendendo che era inganno del nimico, puose il piumaccio suo sopra il vasello, e quivi rinchiuse il diavolo, il quale non fece tutta notte altro che urlare. E venuta la mattina quegli ch'era venuto per tentare, sì si partìo con vergogna il die. Una notte faccendo lui la cerca per le chiese de la città com'era usato, tornando a casa, udì i cherici rampognarsi insieme di ciò che voleano peccare con femmine. Ed egli entrando in chiesa fece orazione per loro, e incontanente ogne tentazione si partìo da loro e, venendo innanzi lui, domandarono perdonanza. A la perfine egli, chiaro di molte vertudi, morìo in pace, e fue intorno a gli anni Domini DCX, al tempo d'Eraclio.
cap. 124, S. Mamertino Mamertino imprima pagano, adorando una volta gl'idoli perdette l'uno occhio e seccollisi l'una mano. Il quale pensandosi d'avere offeso gli dei, e andando al tempio per adorare là gli dei, incontrossi in uno religioso che avea nome Savino, il quale il domandò onde tanta infermità gli fosse incontrata. Ed elli disse: "Io abbo offeso li miei iddei, e però gli vado a pregare che quello che m'hanno tolto con ira, sì mi rendano con misericordia". Al quale disse Savino: "Tu erri, frate, tu erri se tu credi che le demonia siano dei, ma vattene a san Germano, vescovo d'Altissiedoro, e se tu t'atterrai al suo consiglio, incontanente sarai sano". E costui si misse la via tra ' piedi, e vennesene al sepolcro di santo Amadore vescovo e di molti santi vescovi, e cansossi per la piova quella notte a la cella, ch'era sopra l'avello di san Concordio. Essendovisi addormentato, sì li apparve una mirabile visione: che uno uomo venne a l'uscio di quella cella, e chiamò santo Concordio che venisse a la festa che faceano san Pellegrino e santo Amadore con gli altri vescovi. Al quale rispuose colui de l'avello: "Io non posso venire ora, però che mi conviene guardare uno ospite che non sia roso da' serpenti, ch'abitano qui". Quegli andò, e disse quello che avea udito, e ritornato disse: "O santo Concordio, leva su e vieni, e mena teco Viviano suddiacano e Juniano accolito, ché facciano l'ufficio, e Alessandro guardi l'ospite tuo". E apparve a Mamertino che san Concordio il prendesse per la mano e menasselo seco; ed essendo venuti a lui, disse santo Amadore a santo Concordio: "Chi è costui, che è entrato teco?" E quelli rispuose: "Egli è l'ospite mio". E quelli disse: "Caccialo via però ch'egli è sozzo, e non può stare con esso noi". Il quale quando era cacciato, gittossi in terra dinanzi a loro, e impetrò grazia da santo Amadore, il quale gli comandò ch'andasse tosto a san Germano. Sì che isvegliandosi venne a san Germano, e gittossi in terra dinanzi a lui, chiedendoli perdonanza. E narrogli quelle cose che gli erano intervenute, e andarono abendue a l'avello di san Concordio; e levata una lapida che v'era, viddervi serpenti entro, ch'erano lunghi più di dieci piedi l'uno e, fuggendo tutti, san Germano comandò loro ch'andassero in tale luogo, ché "da quinci innanzi non nociate a persona veruna". E così Mamertino fu battezzato e sanato, e diventòe monaco del monasterio di san Germano, nel quale luogo fue abbate dopo santo Allodio. Al cui tempo, cioè di Mamertino, fue nel suo monasterio santo Marino, la cui ubbidienza volendo Mamertino provare, sì li commise il più vile officio del monasterio, ché 'l fece pastore de le bufole. Sì che guardando lui volentieri in una selva i buoi e le vacche, di tanta santità era che eziandio gli uccelli salvatichi che veniano a lui, sì li nutricava con la sua propia mano. E ancora il porco salvatico, il quale era fuggito a la sua cella, sì 'l liberòe da' cani, e fecelo partire sicuro. Alcuni scherani abbiendolo spogliato, partendosi da lui col vestire suo che ne portavano seco, solo il mantello gli lasciaro; il quale gridòe incontanente dopo loro, e disse: "Ritornate, signori miei, io abbo trovato uno danaio legato nel mantelluccio mio, lo quale danaio vi sarà forse bisogno". Coloro ritornando sì li tolsero il mantello con esso il danaio, e lasciarollo al tutto ignudo; e andandosene in fretta a le loro cavernelle, tutta notte andando, in quella sera tardi sì si ritrovarono a la celletta di lui. I quali egli salutò, e ricevetteli benignamente ne la cella, e lavò loro i piedi, e apparecchiò loro quanto potette di quelle cose ch'erano necessarie. I quali stupiditi, si dolsono di quello ch'aveano fatto, e convertirsi a la fede. Una volta che alcuni monaci che stavano con lui, i quali erano più giovani, aveano tesi lacciuoli ad un'orsa che mettea guato a le pecore, e l'orsa in quella notte era caduta nel lacciuolo e presa. La quale cosa sentendo san Marino levossi del letto, e trovandola disse a lei: "Che fai tu misera? leva su e fuggi, acciò che tu non sia presa". E sciolsela e lasciolla andare. E quando fu passato di questa vita, volendolo portare il corpo suo in Altissiodoro, quando furono in una villa, per veruno modo nol poterono muovere, infino a tanto ch'uno incarcerato non uscì di pregione co' ferri rotti subitamente e venne al corpo suo. E portaronlo infino a la cittade con gli altri, e là fu seppellito onorevolemente ne la chiesa di san Germano.
cap. 125, S. EgidioEgidio d'Atenia fu ingenerato di schiatta reale, e ammaestrato da piccolino de le sante Lettere, e andando lui un die a la chiesa, diede la gonnella sua a uno infermo che si giaceva ne la piazza e domandava limosina. La quale gonnella quando lo 'nfermo la s'ebbe messa indosso, incontanente fu sano perfettamente. Dopo questo, essendo morto il padre e la madre in pace, del patrimonio suo fece reda Cristo. Tornando questo santo uomo un die da la chiesa, iscontrossi in uno uomo ch'era stato morso dal serpente, ma fatta l'orazione, incontanente cacciò via ogne veleno. Anche sanòe una indemoniata che si stava ne la chiesa e con sue grida conturbava i cristiani ch'erano con lei. Ma temendo il pericolo del favore de li uomini, nascosamente se n'andò a la riva del mare, e vedendo alcuni nocchieri che pericolavano in mare, fece orazione per loro, e acquetòe la tempesta, e non ebbero mal veruno. E arrivando i nocchieri, e udendo che costui voleva andare a Roma, rendendoli grazie ch'erano liberati per li suoi meriti, e' promisergli di portarlo seco in dono. Essendo dunque venuto il santo di Dio ad Arelate, stette là due anni con san Cesario, vescovo di quella città, e sanovvi uno che tre anni avea avuta la febbre; poi disiderando l'ermo, partissi celatamente e stette lungo tempo con Veredonio romito, famoso di santità; nel quale luogo cacciò via la sterilità de la terra per li suoi meriti. Faccendo dunque l'uno e l'altro miracolo, temendo il pericolo de la loda de gli uomini, lasciò colui e passò più addentro per lo diserto. Nel quale luogo trovando una spelonca e una fontanella e anche una cerbia apparecchiata da Dio, sì v'ebbe per nutrice, quale a certe stagioni li dava nudrimento del latte. Ma cacciando per quella contrada i donzelli del re, da ch'ebbero veduta questa cerbia, lasciarono stare l'altre bestie e tennero dietro a questa cerbia con i cani; da i quali essendo fortemente costretta, fuggìo a' piedi del suo balio. E quegli maravigliandosi perché la cerbia mugghiava fuori di sua usata, uscì fuori e vidde i cacciatori. Allora pregò il Signore che gli guardasse la nudrice, ch'elli gli avea data. De' cani non fu niuno ardito d'appressimarvesi ad una gittata di pietra, ma con grande urlato ritornavano a' cacciatori. Sopravvegnendo dunque la notte, tornarono a casa, e l'altro die ritornando colà, indarno tornarono anche a casa. Udito ciò il re, ebbe sospezzone come il fatto stesse, e andò là col vescovo e con la moltitudine di cacciatori; ma non essendo i cani arditi d'andare là come di prima, anzi tornavano tutti adrieto urlando, e' cacciatori col signore e con tutta la gente attornearono il giro di quello luogo che non vi si potea accedere per la moltitudine de' pruni; e uno cavaliere dirizzò una saetta non saviamente per cacciare quindi la cerbia, e diede una grave fedita al servo di Dio che pregava Iddio per la cerbia. Ma i cavalieri vennero faccendo una viottola con i ferri, e capitarono a la spelonca di costui; e vedendo il vecchio vestito de l'abito monacile, e per la canutezza e per l'etade parea uomo di reverenza, vedendo ancora la cerbia che gli stava tra le ginocchia, solo il vescovo e 'l re andarono a lui a piede, comandando a gli altri che stessono adrieto. Sì che 'l domandarono chi e' fosse e donde venuto fosse e perché fosse entrato così adentro nel diserto, e chi fosse stato ardito di fedirlo così gravemente. Il quale abbiendo risposto a catuna di quelle cose, ed eglino abbiendo domandato perdonanza da lui, umilemente promissergli i medici per sanare la piaga, e offersonli molti donamenti; ma elli né non volle medici, né non ragguardò a' donamenti, anzi gli ebbe in dispregio; ché sappiendo che la vertù è perfetta ne la infermità, pregò il Segnore che nol facesse mai sano a sua vita, com'egli era prima. Ma visitandolo il re spesse volte, e ricevendo da lui nudrimento di salute, sì gli offerse ismisurate ricchezze, ma egli al postutto le rifiutò di ricevere, ma sì lo ne ammonìo che n'ordinasse uno monasterio nel quale s'osservasse la vita e la disciplina de l'ordine monacile. La qualcosa abbiendo fatta il re, san Gidio vinto per lagrime e per priego, poi ch'ebbe molto rifiutato, ricevette la cura di quello monasterio. Quando il re Carlo ebbe udito la nominanza di costui, impetrato ch'ebbe il suo avvenimento, sì lo ricevette reverentemente e, infra gli altri ragionamenti ch'elli ebbe con lui di salute d'anima, il re il pregò che degnasse di pregare Domenedio per lui, però ch'elli avea commesso uno sozzo peccato che none ardirebbe di confessarlo mai a neuno, neanche al detto santo. Sì che la seguente domenica, dicendo san Gidio la Messa e pregando Domenedio per lo re, l'angelo di messere Domenedio apparve al santo, e puose una cedola sopra l'altare, ne la quale cedola era scritto per ordine il peccato del re, e come gli era già perdonato per li prieghi di san Gidio, a tale che, pentuto e confesso di quello peccato e de gli altri, s'astenesse da quello peccato da quindi innanzi. Ed era così aggiunto ne la fine, che chiunque chiamasse san Gidio per alcuno peccato commesso, qualunque peccato fosse, se si rimanesse da quello cotale peccato, non dubitasse che li fosse perdonato per li meriti suoi. Mostrata dunque la cedola al re, il re da ch'ebbe conosciuto il peccato suo, domandonne perdonanza umilemente, e san Gidio ritornando con onore a la città di Nerimas, risuscitò il figliuolo del prencipe che era morto. Allora, dopo alquanto tempo, previdde san Gidio che il monasterio suo non starebbe molto che sarebbe tramazzato da i nemici. Allora andò a Roma e accattò dal Papa privilegi a la chiesa sua, e due uscia d'arcipresso, là dove erano scolpite le imagini de li apostoli; ed elli puose quelle uscia nel Tevere e accomandolle al governamento di Dio. E ritornando al monasterio rendeo l'andamento a uno attratto a Teverone. E quando fue al monasterio trovòe le dette uscia al porto e, rendendo grazie a Dio, che le avea conservate sanza danno fra tanti pericoli di mare, sì le rizzò ne le reggiuole de la chiesa sua, ad onore e a tenimento del patto de la sedia romana. A la perfine il Segnore gli rivelò per Ispirito Santo che gli era presso il dì de la sua morte; la quale cosa dicendo elli a' frati e confortatili che pregassono per lui, morì in Domenedio beatamente. Nel quale luogo testimoniaron molti d'avere udito i cori de li angeli portarne l'anima sua in cielo; e fu ne gli anni Domini DCC.
cap. 126, Natività Maria La natività de la gloriosa Vergine Maria ebbe nascimento de la ischiatta di Juda e de la schiatta del re David. San Matteo e santo Luca scrissero non la generazione de la Vergine, ma quella di Gioseppo, il quale de la concezione di Cristo fu al postutto straniero; però ch'è usanza di compilare non le generazioni de le femmine, ma de gli uomini. Ma pertanto fu verisimile che la beata Vergine discese de la reale ischiatta di David, che manifesto è, e certo secondo la Scrittura, ch'ella discese del seme di David. Ma Cristo prese carne solamente de la Vergine, adunque di David discese la madre Vergine, e ciò de la catena di Nathan. David fra gli altri figliuoli n'ebbe due, ciò furono Nathan e Salamone. De la catena di Nathan, come dice Jovanni Damasceno, furono questi figliuoli di David; ché Levi ingenerò Melchi e Pantar; Pantar ingenerò Barpantar; Barpantar ingenerò Joachim; Joachim ingenerò la Vergine Maria. De la catena di Salamone Nathan ebbe moglie, de la quale ingenerò Jacob; e, morto Nathan, Melchi discese de la schiatta di Nathan, il quale, come detto è, fu figliuolo di Levi e fratello di Pantar; prese per moglie la moglie che rimase di Nathan, la madre di Jacob, e ingenerò di lei Eli. Fatti son dunque fratelli d'un corpo Jacob e Eli, Jacob de la catena di Salamone, e Eli de la catena di Nathan. Morto Eli sanza figliuoli, Jacob, suo fratello, tolse la moglie, e suscitò seme al fratello suo, e ingenerò Joseph. Joseph nacque così secondo natura figliuolo di Jacob del discendimento di Salamone, ma secondo la legge fue figliuolo di Eli che discese di Nathan. Però che il figlio che nasceva per natura era del generante, ma secondo la legge del morto. Queste cose dice il Damasceno. Nel primo modo scrive santo Matteo la sua generazione, nel secondo modo santo Luca. Adunque la vergine Maria fu figliuola di David per Nathan, ma Joseph, secondo natura, discese di Salamone e, secondo legge, di Nathan. Ma sì come dice la Storia Ecclesiastica, e Beda il testimonia ne la sua Cronica, con ciò sia cosa che tutte le generazioni de li ebrei e de li stranieri si conservassero ne le più segrete armari del tempio, Erode le fe' tutte incendere, pensandone parere nobile se vegnendo meno le pruove, la schiatta sua si credesse che si appartenesse al Israel. Ma furono alcuni ch'erano chiamati Domenichi per lo parentado di Cristo, i quali furono da Nazaret; i quali insegnavano l'ordine de la generazione di Cristo, parte come aveano saputo da' bisavoli, e parte come avevano avuto da alcuni libri, i quali aveano a casa, quantunque potevano sì lo insegnavano. Che Joachin prese per moglie Anna, la quale ebbe serocchia ch'avea nome Ismeria. Questa Ismeria ingenerò Eliud ed Elisabeth, la quale Elisabeth ingenerò Giovanni Batista. D'Eliud nacque Eminen, d'Eminen nacque santo Servasio, il cui corpo è nel castello di Tragetto sopra il fiume di Mosari, nel vescovado di Leodicen. D'Anna si dice ch'avesse tre mariti, ciò furono Joachino e Cleofa e Salomè. Del primo marito, cioè di Joachino, s'ingenerò la vergine Maria, Madre di Dio, la quale diede per moglie a Joseph, la quale ingenerò Cristo Signore. Morto Joachino, maritossi a Cleofa, fratello di Joseph, e di lui ebbe un'altra figliuola, che la chiamò anche Maria, e poscia si rimaritò ad Alfeo, la quale ingenerò di lui quattro figliuoli, cioè Jacopo minore, Joseppo giusto, il quale fu chiamato per altro nome Barsaba, e Simone e Giuda. Morto Cleofa, Anna si maritò a Salomè, del quale ingenerò un'altra figliuola, la quale chiamò anche Maria, e diella per moglie e Zebedeo, del quale ebbe due figliuoli, cioè Jacopo maggiore e Giovanni Vangelista. Onde di ciò son versi: Anna solet dici tres concepisse Marias. Quas genuere viri Joachim. Cleophas Salomeque. Has duxere viri Joseph, Alpheus, Zebedaeus. Prima parit Christum, Jacobum secunda minorem. Et Joseph justum peperit cum Symone Judam. Tertia malorem Jacobum volucremque Johannem. Ma pare maraviglia come la santa Vergine poté essere parente d'Elisabeth, madre di Giovanni Batista, come detto è disopra; però che manifesta cosa è che, Elisabetta, come detto è disopra, sì fu moglie di Zacheria, il quale era de la ischiatta e de la famiglia di Levi, e, secondo la legge, ciascuno dovea torre moglie de la sua schiatta e famiglia; e santo Luca dice che questa Elisabetta fu de le figliuole d'Aron. Ma Anna fu secondo Geronimo di Betleem, che era tribù di Giuda. Ma da sapere è che quello Aron e Joiada, sommo sacerdote, ambedue menarono mogli de la ischiatta di Giuda; onde la schiatta de' sacerdoti e de' re pruovasi che simigliante furon congiunte insieme per parentado. Potesi anche, come dice Beda, questo congiugnimento fare a più novel tempo, date a marito le femmine di schiatta in schiatta, acciò che fosse manifesto che la vergine Maria, la quale discese che la reale schiatta, avesse avuto parentado con la schiatta de' sacerdoti. E così la beata Vergine era da l'una e da l'altra schiatta; sì che per l'una fu madre e per l'altra padre. Volle Domenedio che queste schiatte privilegiate si mischiassero per lo grande misterio, però che di quelle doveva nascere il Segnore, il quale dovea essere veramente re e sacerdote, acciò perch'elli era prete, offerese se medesimo per noi, e perch'era re reggesse e' suoi fedeli combattenti ne la cavalleria di questa vita, e dopo la vettoria di questo mondo, sì li incoronasse. La quale cosa eziandio si dimostra per lo nome di Cristo, lo quale è detto unto, però che solamente i sacerdoti, e ' re, e ' profeti s'ugnevano ne la vecchia legge, onde noi siamo detti cristiani da Cristo, e siamo appellati generazione eletta e reale sacerdozio. Ma quello che si dicea che le femmine si congiugnevano pure a gli uomini de la sua schiatta, manifesta cosa è che ciò fosse, acciò che la distribuzione de le sorti non si confondesse. E perché la schiatta di Levi non avea veruna sorte tra l'altre schiatte, le femmine di quella schiatta si poteano maritare a cui volevano. Ma la storia de la nativitade de la beatissima Madre di Dio san Geronimo, sì come dice nel Prolago, essendo ancora giovanetto, sì la lesse in uno libricciolo; ma dopo molto tempo, pregato di traslatarla, sì la scrisse come si ricordòe ch'avea letto in quello libricciuolo. Jovachino di Galilea e de la città di Nazarette, tolse per moglie santa Anna de la città di Betleem. Ambedue costoro erano giusti e andavano per la via de' comandamenti di Dio sanza riprensione, ché ogne loro possessione sì divideano in tre parti: l'una parte al tempio e a' servitori del tempio; l'altra parte davano a' pellegrini e a' poveri; la terza la riserbavano a sé e a la loro famiglia per loro uso. Stando dunque insieme XX anni sanza avere figliuoli, fecero voto a Dio che s'elli desse loro figliuolo veruno, che 'l metterebboro al servigio di Dio. Per la qualcosa andando per tutti gli anni in Gerusalem per le tre feste principali, ne la festa de la sagra Jovachino montòe in Gerusalem con quelli de la schiatta sua, e andando a l'altare con gli altri, volse offerere l'offerta sua. Veggendolo il sacerdote sì lo cacciò via con grande turbazione, e ripreselo perch'elli avea avuto ardimento d'andare a l'altare, affermandoli che non era convonevole cosa che colui che avea avuta la maladizione de la legge, offeresse offerta al Segnore de la legge, né stesse tra coloro che menavano figliuoli, colui che non ha cresciuto il popolo di Dio. Sì che Jovachino, veggendosi così vituperato, per la vergogna non volse ritornare a casa, acciò che non patisse cotanto disonore simigliantemente da' parenti suoi, i quali aveano udito queste cose. Cansandosi dunque, andossene a' pastori suoi; essendovi stato alquanto, un die, stando solo, l'angelo di Dio gli apparve con grande chiaritade e, turbato de la visione de l'angelo, s' l'ammonìo che non temesse dicendo a lui: "Io sono l'angelo di Dio mandato a te per annunziarti ch'e' prieghi tuoi sono esauditi, e le limosine tue sono salite nel cospetto di Dio, però ch'io abbo veduta la vergogna tua e udito il brobbio de la tua sterilitade apposto a te non con ragione; però che Dio fa vendetta del peccato, e non de la natura, ché quando Iddio chiude il ventre d'alcuna, però il fa, acciò che poscia appara quello un'altra volta più maravigliosamente, e che non sia di lussuria quello che nasce, ma conoscasi che sia da dono di Dio. Però che la prima femmina de la nostra gente, Sara, or non sostenne ella il brobbio de la sterilitade infino al novantesimo anno, e pertanto ingenerò Isaac, al quale era ripromessa la benedizione di tutte le genti? Anche Rachel or non stette grande tempo sterile, e pertanto ingenerò Joseph, il quale ebbe la signoria di tutto l'Egitto? Chi fu più forte di Sansone, o più santo che Samuel? E pertanto le madri di costoro furono sterili. Adunque credi a la ragione e a li essempli, ché concepimenti lungo tempo indugiati e parturimenti de le sterili sogliono essere più maravigliosi. Onde Anna, tua moglie, ti partorirà una figlia la quale chiamerai Maria. Costei, come tu hai promesso, fia da piccolina consegrata al Segnore, e, stando ancora nel ventre de la madre sua, sarà piena di Spirito Santo, né non dimorerà di fuori fra i popolari, ma nel tempio di Dio, acciò che non si pensi di lei cosa disdicevole. E sì come ella nascerà di sterile madre, così sarà ingenerato maravigliosamente di lei il figliuolo de l'Altissimo, il cui nome sarà Jesù, imperò che per lui saran salvate tutte le genti. E questo ti sia per segnale, che quando tu perverrai a l'aurina porta in Gerusalem, sì ti verrà incontro anna tua moglie, la quale essendo ora sollicita del tuo tardare, allora si rallegrerà nel cospetto tuo". E dette queste cose l'angelo si partì da lui; e Anna piagnendo amaramente e non sappiendo dove il marito si fosse andato, il detto angelo apparve a lei e manifestolle quelle medesime cose, come avea detto al marito suo, dicendole ancora per segnale, che di ciò andasse in Gerusalem a la porta aurina, e ella sì si iscontrerebbe nel marito suo ritornante. Adunque appresso il comandamento de l'angelo, iscontrandosi ambedue insieme, rallegraronsi del vedersi insieme e, sicurati de la promissione fatta loro, adorato ch'ebbero il Segnore, ritornarono a casa, e aspettavano allegramente la promessa di Dio. Sì che Anna concepette e parturì figliuola la quale chiamòe Maria. Compiuti dunque li tre anni, cioè quando l'ebbero del latte levata, menarolla la Vergine benedetta al tempio di Dio con esse l'offerte. Ora avea il tempio XV gradi, secondo XV Salmi graduali, che, perché il tempio era posto in monte, a l'altare del sagrificio che era di fuori non potea neuno andare se non per quelli XV gradi. E posa la vergine Reina nel primaio scaglione di questi, sì gli salì in tal maniera tutti sanza aiuto di persona, come s'ella fosse d'etade compiuta. Fatta dunque l'offerta, lasciaro la beata figliuola nel tempio con l'altre vergini, e tornaro a casa. E la Vergine graziosa a Dio andava sempre di bene in meglio in tutta santitade, e godevasi cotidianamente de la visione di Dio. Allegrati dunque, allegrati, e anche t'allegra, degnissima sopra tutte le criature ordinata, e a ricevere sì grandissimi doni anzi che fosse criato il mondo, e noi tuoi servigiali raccomanda al tuo amantissimo figliuolo! E 'l quartodecimo anno de la sua etade, ovvero il duodecimo, il pontefice dinunziò piuvicamente che le vergini che s'ammaestravano nel tempio e avevano compiuto il tempo de la loro etade, ritornassero a casa loro e maritassersi legittimamente. Al cui comandamento avendo tutti ubbidito, solo la vergine nettissima rispuose che non potea ciò fare, sì perché i parenti suoi l'aveano messa al servigio di Dio, e sì perch'ella avea fatto voto a Dio de la sua verginitade. Allora il pontefice angosciato ne fue, di ciò che non volea rompere la Scrittura, che dice: "Fate voto e rendete"; né non era ardito di recare a la gente costume non usato. Vegnendo dunque la festa di giuderi, ebbe ragionamento di ciò e co' più antichi, e tutti diedero sentenzia che in cosa così dubbiosa fosse domandato il consiglio di Dio. Stando dunque in orazione, ed essendo andato il pontefice a consigliarsi con Domenedio, incontanente del luogo de l'orazione, cioè de l'oratorio, udendo tutti quelli ch'erano presenti, venne una voce e disse che qualunque de la casa di David acconci da fare matrimonio non fossero ammogliati, catuno con la sua verga in mano, sì le portassero a l'altare, e la cui verga fiorisse e ne la vetta, secondo la profezia d'Isaia, si posasse lo Spirito Santo in ispezie di colomba, quegli sanza dubbio fosse colui al quale la vergine dovea essere isposata. Or v'era tra gli altri de la casa di David uno ch'avea nome Gioseppo, al quale con ciò fosse cosa che paresse sconvonevole uomo di tanto tempo togliesse per moglie una così tenera vergine, portando tutti gli altri la verga loro, elli solo sottrasse la sua verga. Onde non apparendo neuna cosa che si concordasse a la voce di Dio, il pontefice andò un'altra volta a consigliarsi con Domenedio; il quale rispuose che solo quegli che non portò la verga sua, era colui al quale la vergine dovea essere disposata. Adunque il detto Gioseppo da poi ch'ebbe portata la verga sua, ed ella ebbe messi i fiori, e ne la sua vetta fue discesa la colomba e riposatavisi suso, apertamente fu manifesto a tutti che a lui dovea essere disposata la vergine. Disposata a Gioseppo la Donna del mondo, ritornossi Gioseppo ne la sua cittade di Betleem a ordinare la casa sua, e a provvedere de le cose ch'erano necessarie a le nozze; e la Vergine beata tornòe a Nazaret a casa i parenti suoi, accompagnata da sette vergini di quella medesima etade e nutricate insieme, le quali ella avea ricevute dal Sommo sacerdote per dimostramento del miracolo. E stando la beata Vergine a casa sua in quel dì, orando lei, sì l'apparve l'angelo Gabriello, e annunziolle che 'l figliuolo di Dio dovea nascere di lei. Il dì del nascimento de la Donna nostra fu celato alquanto tempo a i cristiani. Intervenne che, sì come rapporta Joanni Beleth, un santo uomo, stando in continua contemplazione, ogne anno stando lui in orazione otto dì fra settembre, audìa gli angeli che faceano grandissima solennitade; e domandando lui divotissimamente che li fosse revelato perché ciascheduno anno solamente in quel die e non in altro udisse questo, ebbe risposta da Dio che la Vergine gloriosa in cotale die era stata nata nel mondo, e però manifestasse questo a la Chiesa, acciò che siano concordevoli in questa festività de la celestiale corte. E abbiendo annunziato ciò al Papa e a gli altri, eglino si diedero a digiuni e orazioni; e avendo saputo e trovata per le Scritture e per le testimonanze de l'antichitadi de la veritade, ordinaro che questo dì fosse da guardare in onore de la natività de la beatissima Vergine, per tutto il mondo universalemente. Ma l'ottava di questa natività non si solea già fare, se none che l'ordinòe messere Innocenzio quarto, natìo di Genova, e ciò fece per questa cagione. Morto papa Gregorio nono, i cardinali di Roma si rinchiusero in una camera per provvedere più tosto a la Chiesa di buono pastore; ma non potendosi per più dì accordare, e sostenendo molte noie da li romani, botaronsi a la Reina del cielo che, se per li suoi meriti s'accordassero per potersi partire liberi,ordinerebbero che da indi innanzi si celebrasse l'ottava de la nativitade sua, lungo tempo anneghiettita. E così s'accordarono in messere Celestino. A la perfine morto lui, infra alquanti dì è eletto Innocenzio quarto; per lui compiettero i cardinali il boto loro. Adunque nota che di tre nativitadi fa solennità la Chiesa, cioè di Cristo, di santa Maria e di santo Giovanni Batista; le quali tre significano tre nativitadi spirituali, e sono queste: con Giovanni rinasciamo ne l'acqua per lo battesimo, con Maria ne la penitenzia, e con Cristo ne la gloria. Con ciò dunque sia cosa che la contrizione convegna che vada innanzi a la nativitade del battesimo, e simigliantemente a quella de la gloriosa gloria ne gli uomini d'etade, per ciò hanno quelle degnamente vigilie; ma con ciò sia cosa che la penitenzia sia tutta per vigilia, non convenne che la nativitade de la Vergine avesse vigilia; ma tutte hanno ottava, per ciò che tutte s'aspettano a la gloria de la resurressione. Uno cavaliere molto valentre e gran devoto de la beatissima Vergine, andando a la giostra, entròe primieramente in uno monasterio che trovò nel viaggio, lo quale era edificato ad onore de la vergine Maria, per udire Messa. Sì che dicendosi dopo l'una Messa l'altra, ed elli non volendone lasciare veruna per onore de la Vergine, a la perfine uscendo del monasterio andava ratto al luogo determinato. Ed eccoti coloro che ne tornavano lo scontrarono, raccontandoli com'elli s'era portato valentrissimamente; e ciò affermavano tutti coloro che v'erano stati, profferendosi ancora a lui alcuni, che diceano ch'erano stati presi da lui. Accorsesi il discreto uomo che la Reina cortese l'avea onorato cortesemente per cortese modo, e allora dinanzi a tutti disse quello che gli era intervenuto, e ritornando al monasterio, da indi innanzi fu cavaliere del figliuolo de la Vergine. Uno vescovo, il quale avea in grande divozione la vergine Maria, andava per divozione una notte ad una chiesa de la nostra Donna entro la mezzanotte; ed eccoti la Vergine de le vergini, accompagnata da tutto il coro de le vergini, venire incontro a l'uomo che venìa a la chiesa sua e, ricevutolo con grande onore, cominciò a menarlo a la chiesa là ov'elli andava, cantando innanzi due donzelle del coro de le vergini e dicendo; Cantiamo al Segnore, compagne, cantiamo onore, Il dolce amore di Cristo risuoni ne la pietosa bocca. I quali versi tutto l'altro coro de le vergini ripigliava cantando. E le dette due cantatrici seguitavano, per ordine, due altri versi che seguitano qui: Il primo superbo cadde a basso de la grande luce, E così il primo uomo quando enfiòe per la superbia, sì cadde a basso. E in questo modo menaro l'uomo di Dio con cotale processione infino a la chiesa, cominciando sempre le due dinanzi, e rispondendo l'altre. Una femmina abbandonata dal sollazzo di suo marito, avea un suo figliuolo, lo quale amava molto teneramente. Una volta questo suo figliuolo fu preso da' nemici e legato in prigione. Quella udendo ciò, piagneva sanza veruno racconsolamento, e pregava la beatissima madre di Dio, a la quale ella era molto devoto, che le liberasse il fanciullo suo, con importuni prieghi. Finalmente veggendo che non giovava nulla, così entròe solanata ne la chiesa ne la quale era scolpita la imagine de la donna, e stando ritta dinanzi a la imagine, sì le parlò in questo modo e disse: "Vergine beata, io t'ho pregata spesse volte perché tu liberi il figliuolo mio, e ancora non hai soccorso a la misera madre. Abbo domandato il tuo aiutorio per lo figliuolo mio, e ancora non ho sentito veruno frutto. Adunque sì come il mio figliuolo m'è tolto, così ti torrò io il tuo, e porrollo in guardia per stadico del mio figliuolo". E dicendo ciò andò più dappresso, e levando quindi la imagine del fanciullo che la beata Vergine portava in grembo, andossene a casa, e tolse quella cotale imagine del fanciullo, e sì lo involse in uno mondissimo panno, e ripuoselo ne la cassa, serrandola diligentemente con la chiave, rallegrandosi d'avere buono pegno per lo figliuolo suo, e guardando quello pegno diligentemente. Ed eccoti la seguente notte la beata Vergine apparve al giovane e, aprendo la porta de la pregione, comandolli che n'uscisse fuori, e sì li disse: "Figliuolo, dirai a tua madre che mi renda il mio figliuolo, da che io l'ho renduto il suo". Quegli uscì fuori, e venne a la madre, e contolle come la Reina del mondo l'avea liberato. E quella, rallegrandosi molto, andò e tolse l'imagine del fanciullo, e andò a la chiesa con esso, e sì 'l rendeo a la gloriosissima Vergine, così dicendo: "Grazie vi rendo, Madonna, che m'avete renduto il mio solo figliuolo; ora vi rendo io il vostro figliuolo per ciò che io confesso d'avere riavuto il mio". Fue un ladro che spesse volte facea ladronecci, ma avea molto in divozione la venerabile Madre di Cristo, e salutavala spesse volte. Sì che una volta, togliendo lui alcune cose per furto, fu preso e condannato a le forche. E stando impiccato la santissima Madre gli venne innanzi incontanente e, standovi su tre dì, pareali ch'ella il sostenesse con le sue sante mani, sì che neuno male sentìo. E coloro che l'aveano impiccato, passando quindi per avvenimento, sì 'l trovarono vivo e col volto allegro, e pensando che non gli avessono stretta bene la gola col capestro, isforzaronsi d'ucciderlo col coltello; ma la santissima Vergine ponea la mano al coltello del percotitore, sì che coloro non gli potevano nuocere in veruna cosa. Conoscendo dunque per lo raccontamento di lui che la pietosa Donna l'aiutava cosìe, maravigliandosi molto di lui, sì 'l puosero abbasso, e lasciarollo andare sano e sicuro per amore de la beata madre di Dio. Quegli andò ed entrò in uno monasterio e, mentre che visse, perseverò nel servigio de la Madre di Dio. Fue uno cherico il quale amava molto la Donna nostra e diceva continuamente l'ore sue. Sì che morendo il padre e la madre sua, e non avendo altra reda, lasciarolli una grandissima ereditade. Sì che costretto da gli amici che togliesse moglie e governasse la casa sua, un die andando lui per fare le nozze, tro una chiesa ne la via e, ricordandosi del servigio che soleva fare a la Reina del paradiso, entrò ne la detta chiesa, e incominciò a dire l'ore sue. Ed eccoti la Donna del mondo apparire a lui, e quasi aspramente gli disse: "O misleale e stolto, or perché lasci tu me, tua amica e sposa, e mettimi innanzi altra femmina?" Quegli udendo ciò fu contrito, e tornando a i compagni, e non mostrando loro nulla di questo fatto, compiette le nozze, e poi entro la mezzanotte fuggìo abbandonatamente, e abbandonòe tutte le cose, e entròe nel monasterio, e servìo divotamente a la vergine Maria. Un prete d'una cappella, il quale era d'onesta vita, non sapeva dire veruna Messa altra che de la vergine Maria, la quale al suo onore diceva continuamente. Sì che costui accusato al suo vescovo, fu tostamente citato da lui, e confessando dinanzi da lui di non sapere dire veruna altra Messa, il vescovo, lo riprese quasi per ingannatore e duramente, e sospeselo de l'Officio, interdicendolo che non sia più ardito da quinci innanzi di dire Messa. Sì che la seguente notte la sagratissima Madre di Dio apparendo al vescovo, sì lo riprese molto, e dimandollo per quale cagione avea così male trattato il suo cancelliere, e aggiunsegli che in capo di XXX morrebbe se non lo ristituisse ne l'Officio suo. Allora il vescovo intrementito, fecesi venire lo prete, e domandolli perdonanza, e sì li comandò che neuna altra Messa debbia dire che quella che sapeva di santa Maria. Uno cherico era il quale era molto vano e carnale, ma molto amava la madre di Dio e diceva li suoi Offici santi divotamente e allegramente, sì che una notte in visione viddesi dinanzi a la sedia di Dio, e lo Signore diceva a coloro che stavano d'intorno: "Di colui che vi guata così, di che giudicio sia degno, voi medesimi il dichiarate, lo quale io ho cotanto tempo sostenuto, e non ho trovato veruno segnale di correzione". Allora il Segnore diede la sentenzia sopra lui, che fosse dannato, approvandola tutti; ed eccoti venire la Madre di tutta pietade e disse al figliuolo suo: "Per costui priego io la tua misericordia, pietoso figliuolo, che tu rivochi sopra lui la sentenzia de la dannazione. Priegoti, dolcissimo figliuolo, ched elli viva per lo mio amore, il quale per li proprii meriti è giudicato a la morte". E 'l Signore le disse: "Madre pietosa, io il dono a le tue petizioni, s'almeno io vedrò che si correggia ora". Sì che la santa Vergine rivolta a l'uomo, sì li disse: "Va e non volere più peccare, acciò che non ti intervenga peggio". Isvegliato dunque, colui mutòe vita ed entrò in religione e finìo in buone operazioni. Ne gli anni Domini DXXXVII in Sicilia fue uno uomo che avea nome Teofilo, vice cancelliere d'un vescovo, ciò dice Fulberto vescovo di Carnote; il quale Teofilo dispensava sì saviamente sotto il vescovo le cose de la Chiesa che, morto il vescovo, tutto il popolo gridava ch'egli era degno del vescovado. Ma elli contento de l'officio ch'avea, volle anzi che un altro fosse ordinato per vescovo. Finalmente disposto da quello officio a mala sua voglia da quel vescovo, in tanta impazienzia ne venne che, a ricoverare quella dignitade, ad uno giudeo che facea malie n'adomandò consiglio; sì che quelli chiamò il diavolo. Chiamato, venne a lui ratto. Teofilo per comandamento del demonio rinnegò Cristo e la sua Madre e rinunziò il battesimo, e del detto rinnegamento e rinunziamento scrisse la carta con il suo propio sangue; e, scritta la suggellò col suo anello, e così suggellata, la diede al diavolo e diputossi al suo servigio. Sì che l'altro die procurò il diavolo tanto che Teofilo fu ricevuto in grazia del vescovo e rimesso ne la dignità del suo officio. A la perfine ritornato in se medesimo, piange molto di quello ch'avea fatto e, con tutta divozione de la mente, ricorse a la Madre di Dio e di misericordia che li fosse in aiuto. E la pietosa madre sì li apparve in visione, e ripreselo di ciò che fatto aveva, e comandolli che rinunciasse al diavolo, e fecelo confessare Cristo figliuolo di Dio, e ogne proponimento di Cristianesimo. E così lo ricevette in sua grazia e del figliuolo, e a dimostranza de la conceduta perdonanza, apparendo un'altra volta, sì li rendéo la carta ch'elli avea fatta al diavolo, e puoselile al petto, acciò che non temesse che fosse servo del diavolo, ma rallegrandosi d'essere liberato da la vergine Maria. E Teofilo da ch'ebbe riavuta la carta, rallegrossi fortemente, e dinanzi al vescovo e a tutto il popolo raccontò quello che gli era intervenuto. E maravigliandosi tutti e lodando la Vergine gloriosa, egli dopo il terzo die morìo in pace. Uno uomo e una sua moglie avendo una sola figliuola, sì la diedero per moglie ad uno giovane, e per amore de la loro figliuola sì si tenevano il genero in casa loro. E la madre de la fanciulla amava tanto diligentemente il genero per amore de la figliuola, che non era maggiore l'amore de la fanciulla al giovane, che de la suocera al genero. Infra queste cose i maliziosi cominciarono a dire che ciò non facea per amore de la figliuola, ma che ella si mischiava a lui per la figliuola. Con ciò dunque fosse cosa che tanta falsitade avesse commosso l'animo de la donna, temendo d'essere infamata fra la gente, parlò segretamente a due villani, a' quali promisse di dare XX soldi a catuno sed e' volessono occultamente strangolare il genero. Sì che un die rinchiudendoli ne la cella que' villani, mandò ingegnosamente il marito suo ad alcuno luogo, e anche la figliuola mandò altrove. Allora il giovane per comandamento de la donna sua entrò ne la cella per attignere del vino, ma incontanente lo strangolarono quelli assessini. Allora la suocera il portò nel letto de la figliuola sua e, come dormisse, sì 'l coperse con panni. Tornando dunque il marito e la figliuola, e posti a mensa, la madre disse a la figliuola che andasse a destare lo marito, e che 'l chiamasse a manicare. Quella trovandolo morto, e raccontando ciò tostamente, tutta la famiglia si commosse a pianto, e la femmina micidiale, quasi come si dolesse, piagnea con gli altri. A la perfine la femmina fu dolorosa del commesso peccato, e confessòe ogni cosa per ordine al prete suo. Dopo alquanto tempo nacque una tencione tra la femmina e 'l prete, e dal prete le fu apposto il micidio del genero. Udendo ciò i parenti del giovane, trassono a la Corte, e la femmina fu sentenziata ad essere arsa. Allora quella, vedendo che s'appressimava la sua fine, convertissi a la Madre di misericordia, ed entrando ne la sua chiesa, gittossi in orazione con lagrime. Poco stante fu costretta d'uscirne e, gittata nel gran fuoco, tutti quanti la videro stare entro con gli occhi loro allegra e sanza offendimento veruno di suo corpo. Ed e' parenti del giovane, credendo che quello fosse piccolo fuoco, ricorsero a' sermenti e gittarollivi entro. Vedendo dunque che né per questo modo fosse danneggiata, cominciaronle a saettare de le lance e de' dardi. Allora il giudice, il quale era presente, si maravigliò fortemente, e ristrinse coloro da farle più battaglia, e considerando diligentemente colei, non trovò in lei veruno segno d'arsura se non solamente le fedite de le lance. E con ciò fosse cosa che i parenti di lei la se ne menassero a casa e recreasserla con unguenti e con bagnora, non vogliendo Dio ch'ella fosse avuta più in sospecione, dopo il terzo die perseverando lei ne le lode de la vergine Maria, sì la chiamò di questa vita. Adunque con tutte le midolle del cuore amiamo questa Donna del mondo, uscita di schiatta reale, la quale si è madre e figliuola del sommo Dio, gloria de gli angeli e corona di tutti i santi, perdonanza de' peccatori, letizia de' giusti e pietosissima avogada di tutti; e ricerchiamla con puri affetti ed onoriamla come potemo con degne lode, però che questa è quella Vergine che tritòe il capo de l'antico serpente, questa è quella Vergine che con le beate mani ha sostentato i lacciuoli sospesi ne le forche. Questa è la Vergine la quale gli uomini smozzicati con le coltelle ha riserbati a penitenzia, né non gli ha lasciati passare di questa vita sanza penitenzia. Questa è la Vergine la quale coloro ch'erano già morti e sentenziati già al fuoco de lo 'nferno vuole siano già fatti ristituire a vita e accattato loro grazia di pentersi. Questo dico a la santa Vergine, la quale gli uomini disperati, fatti servi del diavolo, rinnegati di Cristo figliuolo di Dio, vuole sia loro riparata la fede in grazia, e liberatili de le mani del diavolo. Quale dunque fia quelli che non ami così benigna Donna? Chi non servirà a così buona avvocata? Chi non si farà servo di così alta reina? Solo quelli s'astenga da le sue lode che, chiamandola ne le tribulazioni, non sarà esaudito da lei. Onde dice san Bernardo: "O qualunque setta che ti intendi tempestare ne l'allogamento di questo mondo, tra l'onde del mare, anzi ch'andare per terra, non rimuovere gli occhi da lo splendore di questa stella, se tu non vuogli affondare ne l'onde. Se tu dunque se' commosso da l'onde de la soperbia o de l'ambizione o de la detrazione, ragguarda la stella chiamata Maria, però ch'ella è quella che dà la via nel mare e tra l'onde fermissimo sentiere e sicuro d'ogni porto".
cap. 127, S. AdrianoAdriano sostenne martirio da Massimiano imperadore. Ché sacrificando a l'idoli il detto Massimiano ne la città di Nicomedia, fatto il comandamento di cercare per li cristiani, altri per paura di pena, altri per amore de la pecunia impromessa, traevano al tormento l'uno vicino l'altro, e l'uno pressimano a l'altro; intra quali, presi XXXIII da coloro che andavano cercando, furono menati dinanzi dal re. A i quali il re disse: "Non avete voi udito che pena sia imposta contra li cristiani?" Coloro rispuosero: "Noi l'aviamo udito, e aviamo schernito il comandamento de la tua stoltizia". Allora il re adirato comandò che fossero battuti con crudeli nerbi e scatuzate le loro bocche con le pietre e, fatto scrivere la confessione di ciascheduno, comandò che fossero inferriati e messi in pregione. Veggendo la loro fermezza Adriano, priore de l'Officio de la cavalleria, disse a loro: "Io vi scongiuro per lo Domenedio vostro, che voi mi diciate qual è il guiderdonamento che voi aspettate per questi tormenti". E li santi dissero: "Occhio non vidde mai, né orecchie udìo, né non salìo in cuore d'uomo, quelle cose che Dio hae apparecchiate a coloro che l'amano". Allora Adriano si gittò nel mezzo di costoro, e disse: "Scrivetemi con costoro, però ch'io sono cristiano". Avendo ciò udito lo 'mperadore, e veggendo che quelli non volea sacrificare, inferriollo e misselo in pregione. E Natalia, sua moglie, udendo che 'l marito suo era incarcerato, stracciò le vestimenta sue, piangendo e urlando molto. Ma quando ebbe apparato che ciò era per la fede di Cristo, ripiena d'allegrezza, corse a la pregione, e cominciò a basciare i legami del marito suo e de gli altri, però ch'ella era cristiana, ma non s'era palesata per la persecuzione. Disse dunque al marito suo: "Beato se' tu, signore mio, però che tu hai trovato tali ricchezze, le quali non ti lasciarono i parenti tuoi, de le quali abbisognano coloro che posseggiono molte cose. Queste sono le veraci ricchezze che aiutano l'uomo allor che non sarà tempo di prestare ad usura, né di torre in prestanza, quando niuno liberrà l'altro di pena, né il padre lo figliuolo, né la madre la figliuola, né il servo lo signore, né l'uno amico l'altro, né le ricchezze del mondo il loro possessore". E quando l'ebbe ammonito che dispregiasse tutta la gloria terrena e gli amici e' parenti, e avesse sempre il cuore a le cose del cielo, disse a lei Adriano: "Vanne, serocchia mia; al tempo de la passione nostra manderabbo per te, acciò che tu veggia la mia fine". E così raccomandando il marito a gli altri compagni, cioè che 'l confortassono, ritornò a casa sua. Udendo poscia Adriano che 'l die de la sua passione era presente, dando i doni a le guardie e i santi ch'erano con seco per mallevadori, andòe a casa per chiamare Natalia, sì come elli avea promesso a lei con giuramento, ched ella fosse presente al loro martirio. Uno che 'l vidde corse ratto innanzi, e disse a Natalia: "Assoluto è Adriano, ed eccolo che ne viene". Quella udendo queste parole, non le credea, ma disse: "E chi 'l poté assolvere da i legami? Non mi intervenga ched elli sia assoluto da' legami e sceverato da li santi!" E parlando lei queste cose, eccoti venire un fanciullo, domestico di lei, e sì le disse: "Ecco il Signore mio ch'è lasciato!" Quella credendo che avesse fuggito il martirio, piagnea amarissimamente; e quando l'ebbe veduto levossi ratto e andolli a serrare l'uscio, e disse: "Di lungi sia fatto da me quelli ch'è caduto da Domenedio; non m'addivegna ch'io parli a quella bocca, la quale ha negato il Signore suo". E rivolgendosi ella a lui, sì li disse: "O disavventurato e misero sanza Dio, chi ti costrinse di prendere quello che tu non hai potuto compiere? Chi t'ha sceverato da li santi? Ovvero chi t'ha ingannato, che tu ti partissi dal convento di pace? Dimmi perché fuggisti prima che fosse la battaglia? Perché prima che tu vedessi chi ti contrastesse? Come se' tu piagato, non essendo ancora scoccato il balestro? Ed io mi maravigliava se di gente sanza Dio veruno fosse martire! Oi me, sciagurata e misera me, che sono congiunta a costui de la schiatta de' rei! Non m'è conceduto spazio pure d'un'ora che io fossi chiamata moglie di martire, ma ora sarabbo detta moglie di trasgressore; certo un poco di tempo mi fue allegrezza, ed ecco che sarò vituperata per tutti i secoli!" Udendo Adriano queste cose fortemente si rallegrava, maravigliandosi d'una femmina giovanetta nobile e bella, e prima a XIV mesi maritata, come potesse parlare cotali cose. Onde per questo, diventato più fervente al martirio, udiva molto volentieri le parole sue; ma vedendola così affliggere, disse a lei: "Aprimi, donna mia, non credere tu ch'io abbia fuggito il martirio, ma sonti venuto a chiamare, com'io ti promissi". Ma quella non credendolo, sì li disse: "Vedi come mi crede ingannare il trasgressore, come mente l'altro Juda! Fuggi da me, misero, già m'ucciderò, perché tu ti sazi". Dimorando dunque molto ad aprire, sì le disse più apertamente: "Ecco che me n'andrò, e non mi vedrai più innanzi, e poscia piagnerai perché tu non m'hai veduto anzi ch'io muoia. I' ho dato per mallevadore i santi martiri, e se i berrovieri m'andranno caendo e non mi troveranno, i santi sosterranno i loro tormenti insieme con noi". Udendo queste cose Natalia, sì li aperse, e gittaronsi in terra abindue ad un'otta, e poi vanno insieme a la carcere. Sì che Natalia stette VII dì che non fece altro che forbire le piaghe de' santi martiri con preziosi panni di lino. E 'l die che era ordinato, comandò lo 'mperadore che li fossero menati dinanzi. I quali, risoluti per le pene, erano portati da i cavalieri, però che non potevano andare per loro medesimi, e Adriano gli seguitava con le mani legati dietro. Poscia fu presentato Adriano a Cesare, portandosi a sé il tormento, e Natalia s'accostava a lui e dicea: "Vedi, signore mio, or non avere temenza quando tu vederrai li tormenti che tu patirai poco ora, ma incontanente ti rallegrerai eternalmente con gli angeli". Sì che Adriano non vogliente sacrificare, fu battuto gravissimamente; e correndo Natalia con allegrezza a i santi ch'erano ne la carcere, dicea loro: "Ecco che 'l Segnore mio ha incominciato il martirio". E ammonendolo il re che non biastemmiasse li dei, quelli disse: "Se io sono così tormentato per biastemmiare coloro che non sono dei, come sarai tormentato tu, il quale biastemmi Iddio vivo?" Al quale disse il re: "Queste parole t'hanno insegnate quelli ingannatori". Disse Adriano: "Perché gli chiami tu ingannatori, i quali sono dottori di vita eterna?" Allora corse Natalia per annunziare con allegrezza a gli altri queste risposte del marito suo. Allora il re lo fece battere gravissimamente a quattro fortissimi uomini, e tutte le pene e le domande e le risposte rapportava Natalia a gli altri martiri, ch'erano ne le carcere. E intanto fu battuto Adriano che le sue interiora si spandevano. Allora fu inferriato e rinchiuso ne la carcere con gli altri. Ed era Adriano un giovane molto dilicato e piacevole di ventotto anni. Veggendo Natalia il suo marito giacere rivescione in terra e tutto lacero, misseli la mano sotto il capo, e dicea: "Beato sei, signore mio, il quale se' fatto degno de la compagnia de' santi; beato se', lume mio, che tu sostenga per colui, il quale sostenne per te! Va testeso, dolce mio, a vedere la gloria di colui che t'ha fatto!" Ma udendo lo 'mperadore che molte donne serviano a' martiri ne la carcere, comandò che non fossero lasciate entrare a loro. La qualcosa intendendo Natalia tondette se medesima, e prese abito d'uomo per servire a' santi ne la carcere; e ancora col suo essemplo indusse l'altre a ciò fare. E pregò il marito che, quando fosse ne la gloria, facesse cotale priego per lei che la guardasse da ogne mal toccamento, e chiamassela tosto di questa vita. E udendo il re ciò che le donne aveano fatto, fece portare una ancudine, acciò che, spezzatevi suso le gambe de' santi, più tosto morissono. Ma temendo Natalia che il marito suo si spaventasse per li tormenti de gli altri, pregòe i ministri che si cominciassero da lui. Mozzateli dunque i piedi, e rottogli le gambe, pregollo Natalia che si lasciasse mozzare la mano, acciò ch'egli fosse iguale a gli altri santi, i quali avevano sostenuto più cose. Fatto ciò, Adriano rendette lo spirito a Dio, e gli altri procedendo i piedi innanzi, passarono di questa vita a Domenedio. E 'l re comandò che le loro corpora fossono arse, ma Natalia nascose nel seno suo la mano del suo marito. E gittandosi nel fuoco le corpora de' santi, Natalia si volle gittare nel fuoco con esso loro; ma subitamente venne una grandissima piova e, spegnendo il fuoco, conservò i corpi de' santi sanza veruna lesione. E li cristiani fatto ch'ebbero consiglio, fecero trasportare le loro corpora in Costantinopoli, insino a tanto che renduta pace a la Chiesa ne fossero riportati con onore. E furono martirizzati intorno a gli anno Domini CCLXXX. Ma Natalia, rimanendosi a casa, ritenne a sé la mano del marito suo, la quale si tenea sempre a capo del letto per sollazzo de la vita sua e per consolazione. Dopo queste cose il tribuno, veggendo Natalia così bella e così ricca e nobile, di volontà de lo 'mperadore mandò a lei oneste donne per farla consentire in suo maritaggio. A le quali cose disse Natalia: "Chi mi potea dare tanta grazia, ch'io fosse congiunta a così fatto uomo? Ma io domando tre giorni d'indugio per potere fare mio apparecchiamento". Questo diceva, acciò potesse fuggire. Con ciò dunque fosse cosa che questo spazio di tempo ella pregasse il Signore che la conservasse netta, subitamente s'addormentò, Ed eccoti apparire a lei uno martire e, consolandola dolcemente, comandolle che vegna al luogo dov'erano i corpo de' martiri. Sì che isvegliandosi dal sonno, e togliendo seco solo la mano d'Adriano, con molti cristiani entrò ne la nave. Udendo ciò il tribuno, sì le tenne dietro per nave con molti cavalieri; ma levandosi il vento contradio, molti di loro ne fece pericolare, e a la perfine gli costrinse di tornare indietro. Ed entro la mezzanotte il diavolo in forma d'uno nocchiero, con una nave fantastica, apparve a coloro ch'erano con Natalia, e quasi con voce di nocchiere disse a loro: "Onde venite, o dove andate?" E que' risposero: "Noi vegnamo di Niccodemia, e andiamo in Costantinopoli". E quelli disse a loro: "Voi avete errata la via; tenete a mano manca per andare più diritto". Questo diceva elli acciò che si mettessero nel pelago e perissono. E, mutando loro le vele, subitamente apparve loro Adriano seggente ne la navicella, il quale gli ammunì che navigassero come di prima, e che il diavolo era suto quegli ch'avea loro parlato; e ponendosi innanzi loro, sì andava loro innanzi e mostrava loro la via. E vedendo Natalia che Adriano andava innanzi, fu ripiena di grande allegrezza, e così giunsero in Costantinopoli anzi che fosse die chiaro. Ed essendo entrata Natalia ne la casa dove erano i corpi de' martiri, ed avendo posta la mano d'Adriano al suo corpo, e addormentata dopo l'orazione, Adriano l'apparve e, salutandola, sì le comandò ch'andasse seco ne l'eternale pace. Quella quando fu svegliata ed ebbe raccontato il sogno a coloro ch'erano ivi presenti, e accomiatatosi da tutti, rendette lo spirito a Domenedio, e li cristiani tolsero il corpo suo, e puoserlo a lato a' corpi de' martiri e del suo marito.
cap. 128, Ss. Gorgonio e DoroteoGorgonio e Doroteo a la città di Niccomedia, i maggiorenti nel palazzo di Diocleziano imperadore, rinunziaro a la cavalleria antica per seguire più liberamente Cristo loro re, e con manifesta voce confessano d'essere cristiani. Udendo ciò lo imperadore, angosciavasene molto, avendo molto a noia di perdere cotali uomini, li quali nudriti nel palazzo, di gentilezza di costumi e di sangue erano adornati. Non movendosi dunque dal loro proponimento né per minacce, né per lusinghe, furono messi al tormento, e squarciato tutto il corpo con correggiati e con unghiali, e fu gittato l'aceto e 'l sale ne le loro interiora poco meno che scoperte; e con ciò fosse cosa ch'ellino sostenessono allegramente queste cose, sì furono arrostiti ne la graticola, là dove parea loro stare come in uno letto di fiori, e non sentire mal veruno. Poi, per comandamento de lo imperadore, furono impiccati e lasciati i corpi loro a i cani e a' lupi; ma non essendo tocchi da loro, furono ricolti da' cristiani. E furono martirizzati intorno a gli anni Domini CCLXXX. Dopo molti anni il corpo di santo Gorgonio fu traslatato a Roma; ma ne li anni Domini DCCLXIII il vescovo di Meta, nepote del re Pipino, sì 'l traslatòe in Francia, e allogollo nel monasterio di Giorgense per sua divozione.
cap. 129, Ss. Proto e GiacintoProto e Giacinto furono donzelli e compagni a lo studio de la filosofia d'Eugenia, figliuola di Filippo, nobilissima romana. Il quale Filippo fu fatto dal senato di Roma prefetto d'Alessandria, e làe menòe seco Claudia sua moglie, e Avito e Sergio suoi figliuoli, e Eugenia sua figliuola. Sì che Eugenia era ammaestrata perfettamente ne l'arti liberali in tutte. E con lei aveano studiato Proto e Giacinto, ed erano pervenuti a perfezione di tutte le scienze. Sì che Eugenia, stando in etade di XV anni, fu domandata per moglie da Aquilino, figliuolo d'Aquilino console. E quella disse: "Marito non si dee eleggere da grande legnaggio, ma da grandi costumi". Or le venne a le mani la dottrina di san Paulo, e cominciò ad essere ne l'animo cristiana. Ed era permesso a' cristiani d'abitare presso ad Alessandria, onde quella, quasi sollazzandosi, andava a la villa, e passando per una contrada udìo cristiani che cantavano questo verso: "Tutti gli dei de' pagani sono demonia, ma il Signore ha fatto i cieli". Allora disse a' donzelli suoi, cioè a Proto e a Giacinto, ch'aveano studiato seco: "Con scrupoloso studio siamo andati per questi sillogismi de' filosofi, ma gli argomenti d'Aristotile, e l'idea di Platone, e gli ammonimenti di Socrate, e, brievemente, ciò che canta il poeta, ciò che dice il savio Tullio, e ciò che 'nsegna il filosafo in questa sentenzia si raccoglie; la presa podestà m'ha fatto a voi donna, ma la sapienzia m'ha fatta a voi sorella; siamo adunque fratelli, e seguitiamo Cristo". Piacque a tutti il consiglio, ed ella prese abito d'uomo, e venne a uno monasterio del quale era abbate uno santo uomo, che avea nome Eleno, che non si lasciava venire neuna femmina. Il quale ancora disputando con uno eretico una volta, e non potendo sostenere la forza de gli argomenti, fece accendere uno grande fuoco, acciò che chi v'entrasse e non ardesse, fosse provato d'avere la verace fede. Acceso dunque il fuoco, egli fu il primaio che v'entrò entro, e uscinne fuori sanza danno; e l'eretico non vogliendovi entrare, fu cacciato via da tutti. Essendo adunque venuta a costui Eugenia, e dicendosi d'essere uomo, disse: "Dici giusto, imperò che essendo femmina, fai opere d'uomo". Poi che la sua condizione gli fu revelata da Dio. E da lui ricevette l'abito monachile insieme con Proto e con Jacinto, e fecesi chiamare da tutti frate Eugenio. Veggendo il padre e la madre il carro d'Eugenia essere tornato a casa così voito, piangendo e dolorando fecero cercare per la loro figliuola; ma neente la poterono trovare. A la perfine domandono gl'indovini quello che fosse fatto de la loro figliuola; i quali dissero che li dei l'aveano trasportata in cielo, fra le stelle. Laonde il padre fece fare una imagine de la figliuola, e comandò che fosse adorata da tutti; ma ella co' compagni rimase nel timore di Dio, e, morto l'abbate, fu fatto abbate ella. Ora avea a quello tempo in Alessandria una gentile donna e ricca, ch'avea nome Melanzia, la quale santa Eugenia unse d'olio e curolla da la febbre quartana nel nome di Jesù Cristo, ond'ella le mandò molti presenti, ma non ricevette nulla. Sì che la detta donna, credendo che frate Eugenio fosse uomo, sì 'l vicitava spesse volte. Veggendo dunque la piacevolezza de la gioventudine e la bellezza del corpo, fu fortemente presa del suo amore, e cominciò a pensare angosciata per quale modo potesse avere a fare con lei. E infignendosi d'essere ammalata, mandò dicendo che venisse a lei. Quando quella fu venuta, costei le disse com'ella era presa del suo amore, e come disiderava in tutto di giacere con essa, pregandola che si dovesse congiugnere insieme carnalmente. E incontanente la prese ad abbracciare e basciare e confortare a peccato. Lo quale fatto Eugenia ebbe in abbominazione, e sì le disse: "Direttamente se' chiamata Melanzia, imperciò che tu, ripiena di retade di nerezza, se' nera ed oscura figliuola de le tenebre, amica del diavolo, e guidatrice di corrompimento, fomento di lussuria, sirocchia di perpetuale angoscia e figliuola di morte sempiternale". Sì che quella trovandosi ingannata, e temendo che nol manifestasse altrui, volle ella prima scoprire il fatto, e incominciò a gridare ch'Eugenio la volea sforzare. Andossene dunque a Filippo prefetto e, richiamandose a lui, sì li disse: "Un giovine, perfido cristiano, entrato a me per cagione di medicarmi, gittandomisi addosso, svergognatamente m'ha voluto corrompere, e se non m'avesse aiutata una de le ancelle ch'era dentro in camera, avrebbe fatto di me la sua volontade". Udendo queste cose il prefetto fue infiammato d'ira, e mandòe una grande moltitudine di scorridori, e fecesi menare legata con ferri Eugenia e gli altri servi di Cristo, e puose un die nel quale dovessono essere dati a mangiare a le bestie. E fattilisi venire dinanzi, disse ad Eugenia: "Dicci, scelleratissimo, avvi insegnato Cristo queste cose, che voi diate opera a le corruzioni, e corrompiate le gentili donne con isfacciata mattezza?" Allora Eugenia, stando con la faccia chinata per non essere conosciuta, sì li disse: "Il Signore nostro n'ha insegnato di mantenere la castitade, e a coloro che mantengono verginitade ha promesso vita eterna. Ma questa Melanzia possiamo mostrare che sia falsa testimonia, ma meglio è che noi patiamo pena, che da poi ch'ella fosse convinta, fosse punita, e così perderemmo il frutto de la nostra pazienzia. Ma faccia venire qua quella ancella, ch'ella dice che testimonierà la nostra fellonia, acciò che de la sua bocca possano essere comprese le bugie". Quando l'ancella fu venuta, come la donna l'aveva ammaestrata, costantemente l'appuose che quelli volea corrompere la donna sua, e affermando quello medesimo fatto tutti quelli de la sua famiglia, sì come quelli che n'erano ingannati, Eugenia disse: "Egli è passato il tempo da tacere, ed è venuto il tempo da parlare; io non voglio che la non casta impogna peccato a' servi di Cristo e poscia si glorii de la bugia; acciò dunque che la verità soperchi la bugia, e 'l sapere vinca la malizia, io mostrerabbo la veritade, non per vantamento, ma per la gloria di Dio". E dicendo queste cose isquarciossi i panni dal capo infino a' piedi, e apparve d'essere femmina, e disse al prefetto: "Tu se' mio padre, e Claudia è mia madre, e questi due che seggiono teco sono miei fratelli, Avito e Sergio; io sono Eugenia, tua figliuola, questi due che sono meco, sì è Proto e Jacinto". La quale cosa udendo il padre e cominciando a riconoscere la figliuola, egli e la madre le si gittarono in braccio, e cominciarono a spandere molte lagrime; sì che Eugenia fue immantanente vestita di vestimenti dorati e levata in alto, e venne il fuoco da cielo e consumò Melanzia con tutti i suoi. Allora convertìo Eugenia a la fede di Cristo il padre e la madre e tutta la famiglia, per la qualcosa il padre fu disposto de la prefettoria e fatto vescovo da li cristiani; onde li pagani l'uccisero stando lui in orazione, e Claudia si ritornò a Roma co' figliuoli e con Eugenia, e là ne convertiano molti a Cristo. Onde a Eugenia per comandamento di Cesare le fu legato uno grande sasso al collo e gittata nel Tevere; ma il legame si ruppe, e andava sopra l'acqua sana ed allegra. Allora fu gittata in una fornace ardente; ma sì tosto com'ella vi fu entro, si spense la fiamma e avevasi rifrigerio. Poi fu rinchiusa ne la carcere tenebrosa; ma uno splendidissimo lume vi fu veduto risplendere dentro, ed essendovi stata diece dì sanza cibo, il Salvatore sì l'apparve e, porgendole uno pane bianchissimo, sì le disse: "Prendi 'l cibo di mia mano, però ch'io sono il Salvatore tuo, lo quale tu hai amato con tutta la intenzione de la mente; e in tale die ti riceverò io a me, il quale io discesi a terra". Sì che nel die del nascimento del Signore, il giustiziere le tagliò il capo. La quale apparve poi a la madre, e predissele che 'l dì de la comunità la seguiterebbe. Vegnendo adunque quella domenica, Claudia, posta in orazione, rendette lo spirito a Domenedio; ma Proto e Jacinto essendo tirati al tempio, fatta l'orazione, abbatterono l'idolo e, non volendo sacrificare, per mozzatura de le teste compierono il martirio. E furono martirizzati sotto Valentiano e Galieno, ne li anni Domini CCLVI.
cap. 130, Esaltazione CroceL'esaltazione de la santa Croce si è detta perché in cotale die la fede e la santa Croce fu molto esaltata. È anche da notarsi che innanzi la passione del Signore il legno de la Croce fue legno di viltade, però che si apparecchiava di legni vili; anche era legno sanza frutto, per ciò che quantunque fosse piantato nel monte di Calvaria, non facea frutto veruno; anche fue legno di bassezza, però ch'era tormento di ladroni; anche fue legno d'oscuritade, però ch'era sanza ogne bellezza; anche fue legno di morte, però che gli uomini v'erano dati a morire; anche fue legno di puzza, però ch'era piantato nel mezzo de' corpi morti. Ma dopo la passione di Cristo fue per molti modi esaltata, ché la viltade è trapassata in preziositade, onde dice santo Andrea: "Dio ti salvi Croce preziosa!" Anche la sterelitade era passata in abbondanza, come dice la Cantica, nel settimo capitolo: "Io monterò in su la palma, e prenderò de' frutti suoi". Anche la bruttezza in altezza, onde santo Agostino: "La Croce, ch'era tormento de' ladroni, trapassa a le fronti de li imperadori". Anche la scuritade in chiaritade, onde dice Grisostomo: "La Croce e le margini di Cristo saranno al die giudicio più chiarite che i razzi del sole". Anche la morte in perpetuitade di vita, onde si canta ne la Messa: "Acciò che donde la morte nascerà, quindi si rilevasse la vita". Anche la puzza in suavitade d'odore, onde dice la Cantica: "Essendo il re nel dormire suo, l'erba mia nardo, cioè la santa Croce, diede soavitade d'odore sovrano". L'esaltazione de la santa Croce solennemente si celebra da la chiesa, però che la fede fu molto esaltata in quella; ché ne gli anni Domini DCXV, permettendo Cristo flagellare il popolo suo per la crudelezza de' pagani, Cosdroe, re di Persia, sottomisse al suo imperio tutti i reami de la terra; ma vegnendo in Gerusalem, spaventato del sepolcro di Cristo, tornò indietro, ma pure ne portòe via la parte de la santa Croce, che santa Elena v'aveva lasciata. E volendo essere onorato da tutti come Dio, edificò una torre d'oro e d'argento e di gemme tralucenti, e allogovvi entro le imagini del sole e de la luna e de le stelle, e per sottili e celati fori ordinò condotti d'acqua, e parea che piovesse acqua, come Domenedio; e in una spelonca sotterrata andavano cavalli che traevano carri a quattro ruote d'intorno a la torre, e vi infignevano romore quasi di truono. Avendo dunque dato il reame al figliuolo suo, esso maladetto si puose a sedere in così fatto luogo, e ponendosi a lato il legno de la Croce di Cristo, comandò che tutti il chiamassero Domenedio, e sì come si legge nel libro Mitrale, che sedendo elli ne la sedia, sì come padre, puosesi al lato diritto il legno de la Croce, in luogo del figliuolo, e 'l gallo dal lato manco in luogo de lo Spirito Santo, e comandò che tutti l'appellassono padre. Allora Eraclio imperadore ragunò grande oste, e venne a combattere contra 'l figliuolo di Cosdroe, a lato al fiume di Danubio. E quindi piacque a l'uno ed a l'altro prencipe ch'ambedue combattessero insieme in sul ponte, e quale fosse vincitore, quello cotale si togliesse lo 'mperio, sanza danno da l'una oste e da l'altra. Ancora fu messo il bando che quale fosse colui ch'ardisse d'aiutare il principe suo, sì li fossero tagliate le braccia e le gambe, e gittato incontanente nel fiume. Allora Eraclio si diede tutto a Domenedio, e raccomandossi a la santa Croce con tutta quella divozione che poté. Sì che durando abendue ne la battaglia, diede Domenedio la vettoria ad Eraclio, e sottomisse tutto l'oste al suo imperio, intanto che tutto il popolo di Cosdroe si sottomisse a la fede cristiana, e ricevettero il santo battesimo. Ma Cosdroe non sapea nulla de l'uscita de la battaglia, però che essendo odiato da tutti, non gliele fece assapere persona. Ma Eraclio venne a lui, e trovandolo sedere in sedia d'oro, sì li disse: "Per ciò che tu hai onorato il legno de la santa Croce secondo il tuo modo, se tu vuogli ricevere la fede di Cristo e 'l battesimo, potrai ancora ricoverare la vita e reame per pochi stadichi che tu mi dea; ma se tu spregerai d'aempiere ciò, io ti ucciderò col mio coltello". Non volendo dunque quelli acconsentire, trasse fuori il coltello, e tagliogli incontanente la testa; e per ciò ch'era stato re, comandò che fosse seppellito, e uno suo figliuolo di X anni, lo quale elli trovò con lui, sì 'l fece battezzare, e ricevettelo de le sante fonti, e lasciogli il regno del padre. E facendo disfare la torre di colui, diede l'argento per preda a l'oste, e l'oro e le gemme riserbò a racconciare le chiese, che quello tiranno avea distrutte. Togliendo dunque la santa Croce, sì la ne riportò in Gerusalem, e scendendo lui di monte Uliveto, e volendo entrare col cavallo reale e con gli ornamenti imperiali vestito, per la porta, onde il Signore era entrato andando a la passione, subitamente le pietre de la porta discesero, e congiunsersi insieme come una parete. E maravigliandosi tutti sopra questo cotal fatto, l'angelo di Dio apparve sopra la porta tegnendo il segnale de la Croce in mano, e disse: "Quando il re del cielo entrava per questa porta per andare a la passione, non entrò con ornamento reale, ma cavalcando l'umile asinello, lasciò l'assemplo de l'umilitade a tutt'i suoi seguaci". E, dette queste parole, l'angelo salìo in cielo. Allora lo 'mperadore bagnato di lagrime, iscalzòe se medesimo, e spogliossi le vestimenta infino a la camicia e, togliendo la croce del Signore, sì la portò infino a la porta umilemente. Ed incontanente la durezza de le pietre sentìo il comandamento dal cielo, e la porta tostamente si levò in su e fece libera entrata e tratta a coloro che voleano entrare. E 'l suavissimo odore che s'era partito da la Croce in quel die e in quel punto che Cosdroe l'avea tolta, si ritornò allora, e saziolli tutti di maravigliosa soavitade. E 'l re devotissimo misse mano a laudare la Croce in questo modo: "O Croce, più splendiente che tutte le stelle del mondo, solenne a gli uomini, molto amabole, più santa di tutte l'altre, la quale sola fosti degna di portare il talento del mondo, dolce legno, dolce spada, dolce lancia che portasti i dolci chiavelli e ' dolci pesi, salva la presente compagnia raunata oggi a le tue lode e segnata de tuo gonfalone!" E così fu riposta nel suo luogo la preziosa Croce, e rinnovellarsi gli antichi miracoli, però che allora risucitòe uno morto, e quattro paralitici furono guariti, e dieci lebbrosi mondati, quindici ciechi alluminati, cacciate le demonia, e liberati molti da diverse infermitadi. Riparando adunque lo 'mperadore le chiese e dotandole di reali donamenti ritornò a casa. Ma ne le croniche si racconta questo fatto per altro modo. Ché vi si dice che, occupando Cosdroe tutta Gerusalem, avendo preso Zaccaria patriarca e 'l legno de la Croce, e volendo Eraclio far pace con lui, giuròe che non farebbe pace con li romani mentre che non rinnegassero il Crocefisso e adorassero lui solo. Allora Eraclio armato del zelo di Dio, commosse l' esercito contro a lui, e per molte battaglie andò guastando la Persia, e costrinse Cosdroe di fuggire insino a Tessifonte. A la perfine Cosdroe cadde nel male del sangue disotto, e volse incoronare Medasa, suo figliuolo, in re. Udendo ciò Sirois, suo figliuolo primogenito, fece patto con Eraclio e, perseguitando il padre co' nobili, sì 'l misse in pregione, e sustentandolo col pane de la tribulazione e con l'acqua de l'angoscia, a la perfine il fece saettare e uccidere. Poscia mandò ad Eraclio tutti gl'incantatori col patriarca e col legno de la Croce, e quegli portò il prezioso legno de la Croce in Gerusalem, e poscia nel portò in Costantinopoli. Queste cose si leggono in molte Croniche. Di questo legno de la Croce dice così la Sibilla appo i pagani, sì come dice la Storia Tripertita: "Adora il beato legno nel quale Iddio fu disteso e confitto". In Costantinopoli fue uno giudeo, il quale entrò ne la chiesa di santa Sofia, là dove vidde una imagine di Cristo. Il quale giudeo vedendovisi entro solo, die' di mano ad uno coltello, e approssimossi a la imagine, e percosse Cristo ne la gola. Incontanente n'uscì il sangue e immollò il capo e la faccia del giudeo. Colui spaventato, prese la imagine e gittolla nel pozzo, e incominciò a fuggire. Uno cristiano il vide fuggire, e sì li disse: "Donde vieni tu, giudeo? Tu hai morto alcuno uomo!" Quelli disse: "Non è vero". Disse il cristiano: "Veramente tu hai morto uomo, e però se' bagnato di sangue". Disse il giudeo: "Veramente il Domenedio di cristiani è grande, e per tutto si pruova che la sua fede è ferma; neente ho percosso uomo ma la imagine di Cristo, e incontanente n'uscì il sangue de la sua gola". E menollo al pozzo, e trassene fuori la santa imagine; e trovarono la piaga ne la gola di Cristo, la quale si vede insino al dì d'oggi come disse il giudeo, e diventò cristiano. In Suria, ne la città di Berich, uno cristiano tolto uno albergo a pigione, nel quale aveva acconcia la imagine del Crocifisso ne la parete contra la faccia del letto, ed ivi faceva continovamente le sue orazioni. Compiuto l'anno, tolse un'altra casa e, tramutando là le cose, lasciò per dimenticanza la detta imagine ne la prima casa; e uno giudeo la ritolse a pigione, e non s'accorse de la imagine. Sì che un die invitò a mangiare uno de la sua gente, il quale, fra 'l mangiare, vide quella imagine e, acceso d'ira contro a colui che l'avea invitato, sì 'l riprese, perch'egli era tanto adirato, di tenere la imagine del Nazareno. Ma non avendo colui ancora veduto la detta imagine, affermava con quelli sacramenti ched elli potea, che non sapea al postutto come quella vi si era. Allora quegli infingendosi appagato, accomiatossi da costui, e andossene a li prencipi de la gente sua, e accusòe quello giudeo de la imagine. Sì che ragunòe gli giudei a casa di colui e, veduta la imagine, afflissero colui con molti tormenti, e cacciaronlo per mezzo morto fuori de la sinagoga e, iscalpitando la imagine con i piedi, tutti i vituperi de la passione di Cristo rinnovellarono in quella. E quando vennero a forare il costato con la lancia, incontanente uscì fuori sangue e acqua abbondevolmente, e empiessene il vasello postovi sotto. Li giudei stupiditi di ciò, portarono quel sangue a le sinagoghe, e tutti gl'infermi che v'erano tocchi incontanente erano sani. Allora i giudei narrarono tutte queste cose per ordine al vescovo de la cittade, e ricevettero tutti ad uno animo il battesimo e la fede di Cristo. E 'l vescovo conservòe quello sangue in ampolle di cristallo e di vetro, e fecesi venire quello cristiano, e domandollo chi avea composto così bella imagine. E colui disse: "Niccodemo la compuose, il quale vegnendo a morte la lasciò a Gamaleel, Gamaleel a Zaccheo, e Zaccheo a Jacopo, e Jacopo a Simone, e così stette in Gerusalem infino a tanto ch'ella fu distrutta; poscia, di quindi fu portata da' cristiani nel reame d'Agrippa, e quindi fue recata al paese mio da' parenti miei; a me e vennemi per ragione di retaggio. Fatte furono tutte queste cose ne gli anni Domini DCCL. Allora gli giudei tutti consegrarono le loro sinagoghe in chiese e, da quell'ora innanzi, crebbe questa usanza di consecrare le chiese, però che prima si consegravano solamente gli altari. Per questo miracolo ordinò la Chiesa che quattro dì uscente novembre sì si facesse memoria de la passione del Signore. In altro luogo si legge VIIIentrante novembre. Onde a Roma è una chiesa consecrata ad onore del Salvatore, ne la quale si conserva una ampolla con quello cotale sangue, e favvisi solenne festa in quel die. Ancora si dicerne che la vertù de la Croce è grandissima appo gl'infedeli, ché, come Gregorio santissimo dice nel terzo libro del Dialago, Andrea, vescovo de la città di Fonda, permettendo abitare seco una donna monaca, confidandosi de la santitade sua e di lei, l'antico nemico cominciò a mettere in piacere ne gli occhi di colui la bellezza de la femmina in tal maniera che nel letto già pensava male. Sì che un die vegnendo uno giudeo a Roma, e veggendo che 'l die venìa meno, e non trovando dove potere albergare, missesi a posare in uno tempio de' pagani. E temendo molto di starvi, avvegnadio che non avesse la fede di Cristo, pure si fece il segno de la santa Croce. E isvegliandosi entro la mezzanotte, vidde una grande gente di maligni spiriti, ch'andavano innanzi quasi in servizio d'una podestade, e colui ch'era sopra tutti si puose a sedere nel mezzo di loro, e cominciò ad esaminare l'opere e le cagioni di ciascheduno spirito di quelli ch'erano al suo servigio, per trovare sino a quanto avesse operato male ciascuno. Ma il modo di questa disaminazione san Gregorio se ne passa brievemente, ma puossi sapere per uno cotale essemplo simigliante che si pone in vita di santi Padri. Ché essendo entrato uno in un tempio d'idoli, vidde Satana sedere, nel cospetto suo stare tutta la sua cavalleria. E vegnendo uno de li spiriti, sì lo adorò. Al quale disse il demonio maggiore: "Onde vien tu?" Quelli rispuose: "In cotale provincia sono stato, là dove sucitai molte battaglie, e feci molte perturbazioni, e sparsi assai sangue, e ora sono venuto per dirloti". Disse Satana: "In quanto tempo il facesti?" E quelli disse: "In XXX dì". Disse Satana: "Perché vi mettesti tanto tempo?" Poi disse a quelli ch'erano presenti: "Andate, e sì lo battete duramente". Venne il secondo, lo adorò e disse: "Messere, io era nel mare, e commossi molte tempeste, e feci perire molte navi, e abbovi fatto perire molti uomini". Disse Satana: "In quanto tempo l'hai tu fatto?" E quelli rispuose: "In XX dì". E comandò simigliatamente che costui fosse bene battuto, così dicendo: "In sì piccolo fatto hai lavorato cotanto tempo?" E venne il terzo e disse: "In una città fui, e commossi briga in uno paio di nozze, e molto sangue v'ho sparto, e quello sposo uccisi, e sono venuto per dirloti". Disse Satana: "In quanto tempo l'hai fatto?" E quelli rispuose: "In X dì". Disse Satana: "Non hai fatto più cose in cotanti dì?" E comandò che fosse battuto come gli altri. Venne un altro, e disse: "Io sono stato ne l'ermo XL anni, e sommi affaticato contra uno monaco, e a grande pena il feci ieri cadere in peccato di carne". Udendo ciò Satana levossi de la sedia, e cominciollo a basciare tutto quanto e, levandosi la corona di capo, e sì la puose in capo a colui, e fecelosi sedere a lato, così dicendo: "Grande cosa hai fatta, fortemente ti se' portato, e più hai lavorato che tutti costoro". Sì che questo poté essere lo modo di quella disaminazione che san Gregorio lascia andare. Che raccontando ciascuno spirito quello che avea fatto, levossi uno nel mezzo e sì disse in quanta communcione di carne avea messo l'animo del vescovo Andrea, aggiungendo che ieri nel vespro il fece venire a tanto che, per lusinga, diede de la mano in sul dosso a quella femmina. Allora il diavolo confortò colui che mettesse ad esecuzione quello che avea incominciato, acciò che per la ruina di colui tenesse simigliante vittoria infra gli altri, e comandò che cercassero qual fosse colui ch'era ardito di giacere nel tempio predetto. E con ciò fosse cosa che quelli temesse più fortemente, e gli spiriti il vedessono segnato del segno de la Croce, spaventati di ciò, cominciarono a gridare: "Guai, guai! è vasello voito, ma segnato". A la quale voce tutta quella turba di maligni spiriti isparve, e quello giudeo venne ratto al vescovo, e contolli tutte queste cose per ordine. La qualcosa quegli udendo, pianse fortemente, e sceverò da sé incontanente ogni compagnia di femmina, e battezzò quello giudeo. Racconta ancora san Gregorio, nel libro del Dialago, ch'una monaca entrando ne l'orto e vedendovi una lattuga, sì ne inghiottornio, e dimenticandosi di benedirla col segno de la santa Croce, sì la prese a mordere disiderosamente; ma il diavolo sì la imperversòe e cadde. Ed essendo venuto a lei santo Equizio, il diavolo cominciò a gridare: "Che abbo io fatto? Che abbo io fatto? Io mi sedeva in su la lattuga, quella venne, e sì mi morse". Ma al comandamento del detto santo uomo uscì tosto da lei, e fu liberata.
cap. 131, S. Giovanni CrisostomoGiovanni, il cui sopranome è Grisostomo d'Antiochia, fu figliuolo di Secondo e d'Anthura, nobili persone; la cui vita e generazione e conversazione e persecuzione si dichiara pienamente ne la Storia Tripertita. Il quale essendo dato a lo studio de la filosofia, finalmente lasciandolo, intendea a leggere le divine cose. Il quale, essendo ordinato prete, per zelo de la castitade era tenuto più crudele, e servìa più al furore che a la mansuetudine e, per la dirittura de la vita disavveduto, non sapea ragguardare a quelle cose che doveano venire. Nel ragionamento era creduto che fosse arrogante da coloro che nol conoscevano, in ammaestramento era specialissimo, in isposizione valente, in costrignere li rei costumi ottimo. Regnando dunque Arcadio ed Onorio imperadori, essendo ne la romana sedia Damaso papa, fu fatto vescovo. Il quale volendo di subito correggere la vita de' cherici, tutti gl'infiammò in odio di sé, e tutti il fuggivano come persona furiosa, e a tutti dicevano male di lui; e perché none invitava mai niuno a desinare, né non volea essere invitato, eglino sì diceano ch'egli il facea perché mangiava bruttamente. Altri predicavano ched egli il faceva per l'eccellente e squisito uso de' cibi, e certo per l'astinenzia spesse volte si dolea de lo stomaco e de la testa, e però schifava le vivande de' desinari. Ma il popolo l'amava molto per li belli sermoni ch'egli faceva ne la chiesa, e per nulla avea tutto ciò che l'invidiosi parlassono di lui o contra lui. Missesi ancora a riprendere alcuni di nobili, e però fu accesa maggiore invidia contra lui. Ancora fece altro che commosse molto tutti. Ciò fu che Eutropio, proposto de lo 'mperadore, il quale avea la dignità di consolo, volendosi vendicare in alcuni che fuggìano a la chiesa, studiossi che lo 'mperadore ponesse tal legge che niuno fuggisse a la chiesa; anzi, che coloro i quali vi fossero fuggiti per adrieto ne fossero tratti fuori. Da ivi a pochi dì, avendo Eutropio offeso il re, fuggì tosto a la chiesa, e 'l vescovo udendo ciò andò a lui che stava nascoso sotto l'altare, e faccendo omelia di riprensione contro a lui, sì 'l riprese durissimamente. Laonde n'offese molti in ciò, che a uomo disavventurato non solamente non volesse fare misericordia, ma sopra tutto questo non si rimase di riprenderlo. Sì che lo 'mperadore prese Eutropio e tagliolli il capo. Adunque per diverse cagioni riprendea con maggiore fidanza molti uomini, e però era odiato da molti. E Teofilo, vescovo d'Alessandria, voleva disporre Giovanni, e disiderava di mettervi un prete che avea nome Isidoro, e però cercava diligentemente le cagioni da disporlo. Ma il popolo difendeva Giovanni, e pascevasi de la sua dottrina con mirabile disiderio. E costrignea Giovanni i preti che vivessono secondo gli ordinamenti ecclesiastici, dicendo che non dovea usare onore di pretatico chi dispregiasse di seguitare la loro vita. E non solamente governava la città di Costantinopoli valorosamente, ma eziandio più province d'intorno ordinava con l'autorità de lo 'mperio per savie leggi; e avendo saputo che ne la città di Fenice sì si faceano ancora sacrificii a le demonia, mandò là cherici e monaci, e fece disfare tutti i tempii de gli idoli. A quello tempo era uno che avea nome Gaimas, celtico di nazione, barbaro di consiglio, fortemente rigoglioso di studio di tiranno, maliziato de la resia d'Ario, ma pertanto era fatto maestro di cavalieri. Costui pregò lo 'mperadore che dentro a la città desse una chiesa a sé e a' suoi. Quegli avendola promessa, pregò Giovanni che li concedesse una chiesa, acciò che in questo modo rifrenasse la sua tirannidezza. E Giovanni, fortissimo ne la virtude e tutto infiammato di zelo, disse: "Non volere, imperadore, permettere queste cose, né dare la santa cosa a' cani; e non temere questo barbero, ma comanda ch'ambedue noi siamo chiamati dinanzi a te, e quetamente odi quelle cose che si diranno tra noi. Però ch'io raffrenerò in tal modo la sua lingua, che non ardirà a domandare queste cose". Udendo ciò lo 'mperadore fu allegro, e l'altro die fece chiamare l'uno e l'altro. E domandando Gaimas uno oratorio per sé, disse Giovanni: "A te è aperta la casa di Dio in modo che neuno ti vieta d'adorarvi". E quelli disse: "Io sono d'un'altra setta, e uno tempio adomando d'avere con loro. Io ho prese molte fatiche per lo comune di Roma, e però non debbo essere spregiato ne la mia adomandazione". Al quale rispuose Giovanni: "Tu hai ricevuti molti donamenti, e che trasandono le tue battaglie; tu se' fatto maestro de' cavalieri, e sopra tutto questo se' adornato de la guarnaccia di consolo, e però sì ti conviene considerare quello che tu se' stato per adrieto, e quello che tu se' veduto ora, che povertà di prima e che ricchezza ora, che vestimenti tu usavi e di che tu t'adorni ora. Adunque perché poche sono le fatiche che t'hanno fatto grandi guiderdoni, non essere sconoscente a colui che ti fa onore". Per queste parole gli chiuse la bocca, e costrinselo che tacesse. Governando dunque Giovanni la città di Costantinopoli valentremente, il detto Gaimas disiderando lo 'mperio, da che di die non poteva fare nulla, di notte mandò gente barbaresca che ardessono il palazzo de lo imperadore. Allora fue mostrato apertamente come san Giovanni guardava la cittade; però che a' barberi apparve una grande moltitudine d'angeli armati, i quali aveano grande corpo, e cacciarono via quelli barbari incontanente. La qualcosa abbiendo coloro nunziato al Signore, diessene grande maraviglia, sappiendo che l'esercito de' cavalieri era sparto per altre cittadi. Sì che rimandandoli anche la seguente notte, furono simigliantemente spaventati da la visione de li angeli. A la perfine uscì fuori egli e, vedendo il miracolo, sì fuggìo e pensossi che cavalieri stessono celati di die, e la notte guardassono la città. Uscito dunque indi, andonne a Tracia, e ragunata grande oste, ogne cosa andava guastando, temendo tutti la crudelezza de' barbari. Sì che lo 'mperadore impuose lo 'ncarico de la legagione al santissimo Giovanni, ed egli, dimenticando la nimistade, andò allegramente. Sì che Gaimas conoscendo la fidanza di colui, per petade ricevuta, lunga via gli venne incontro, e a' suoi propii occhi puose intorno la mano diritta di colui, e comandò che i suoi figliuoli baciassero le sante ginocchia di colui. Però che Giovanni ebbe tale vertude che, coloro che erano molto terribili e aspri, sì costrinse d'umiliarsi e di temere. In quello tempo si mosse una quistione se Dio avesse corpo; de la quale quistione si levarono contenzioni e battaglie. Altri dicevano questo, e altri dicevano quello, ma spezialmente la gente de' monaci semplici fu ingannata, dicendo che Dio fosse distinto in forma corporale. Ma Teofilo, vescovo d'Alessandria, sentìa il contradio, sì che spregiava ne la chiesa coloro ch'affermavano che Dio avesse forma corporale, e predicava che Dio fosse sanza corpo. La qualcosa conoscendo i monaci de l'Egitto, abbandonarono le loro abitazioni, e vennero in Alessandria commovendo grande rumore di popolo contra Teofilo, sì che isforzavano d'ucciderlo. Quegli conoscendo e temendo ciò, disse a loro: "Così veggio voi come vedesse il volto di Dio". E coloro dissero: "Se vero è quello che tu di' che han volto di Dio, e che pare a te così, or sì iscomunica i libri d'Origene, che contradicono a la nostra openione; e se tu nol farai, sanza dubbio sosterrai da noi quello che si confà a' rubelli de l'imperadori e a' rubelli di Dio". E quelli rispuose: "Non incrudelire contra di me, io fo quelle cose che vi piaccono". E così trasse i monaci dal loro furore. Ma gli essercitati e perfetti monaci non furono ingannati in questo; ma li semplici, per l'ardore de la fede, si levarono contra i frati che sentivano il contrario, e fecerne molti uccidere. Facendo dunque queste cose ne l'Egitto, Giovanni fioriva di dottrina in Costantinopoli, ed era tenuto maraviglioso da tutti. Ma rampollando molto gli ariani, ed abbiendo chiesa fuori de la cittade, il sabato e la domenica si raunavano dentro a le porte e a' portichi de la cittade, e cantavano la notte gl'inni e l'antefane, e la mattina per tempo uscivano per le porte, passando per lo mezzo de la cittade con quelle antefane, e ritornavano a la loro chiesa. E non rimagnendosi di ciò fare a vituperio de la fede cattolica, cantando spesse volte: "Ove son quelli che dicono uno in tre virtudi?" Giovanni temendo che i semplici non fossero tratti per questi cotali che cantavano, ordinò che 'l popolo de' fedeli soprastesse a gl'inni de la notte, acciò che l'opera di coloro fosse intenebrita, e la confessione di fedeli fosse ferma; e fece croci d'argento, che si portavano con ceri d'argento. Allora gli ariani, accesi di zelo d'invidia, sì si levarono infino a la morte; sì che una notte fu percosso Brison, donzello de lo 'mperadore, il quale era disputato da Giovanni a cantare gl'inni; ma ancora ne furono morti parecchi e da l'un parte e da l'altra. Per queste cose si mosse lo 'mperadore, e vietòe coloro che cantavano gl'inni palesamente, cioè gli ariani. A quello tempo venne in Costantinopoli Severiano, vescovo di Gabale, onorevole appo molti baroni, e molto amato da quello imperadore e da la imperadrice, e fue ricevuto da Giovanni graziosamente e, con ciò fosse cosa che Giovanni fosse andato in Asia, raccomandò la chiesa sua a colui. E quegli non fedelmente commendava Giovanni, ma commendava se medesimo al popolo. Serapione, cherico di Giovanni, si brigò di farlo assapere a Giovanni. Passando Severiano per la via non gli si levò Serapione; quegli disdegnandosene gridò e disse: "Se Serapione cherico non fia morto, Cristo in umana natura non è nato". Udendo Giovanni queste cose, ritornò e cacciollo fuori de la città come bestemmiatore. La qual cosa dispiacque molto a lo 'mperadore, e fecelo richiamare, pregando san Giovanni che lo riconciliasse a sé. In quello medesimo tempo Teofilo, vescovo d'Alessandria, cacciò via ingiustamente Dioscoro, uomo santissimo, e Isidoro prima molto suo grande amico. I quali erano in Costantinopoli per contare al prencipe e a Giovanni i fatti di colui; e Giovanni facea loro onore, ma innanzi che conoscesse la cagione non volea partecipare con loro. Ma una falsa novella andò a Teofilo, che Giovanni comunicava con loro, e dava loro aiuto. E Teofilo disdegnato di ciò, non solamente s'armava di fare vendetta contra loro, ma ancora fortemente di disporre Giovanni. Celando dunque la intenzione sua, mandò dicendo a' vescovi di ciascuna città ched e' volea dannare i libri d'Origene; e mandollo a dire ad Epifanio vescovo di Cipri, uomo santissimo, e innamicossi colui, pregandolo che elli simigliantemente dannasse i libri d'Origine. Epifanio per la santità sua non attendendo le fallace di colui, ragunò i vescovi suoi in Cipri, e interdisse la lezione d'Origene, pregando Giovanni per sue lettere che si sospendesse de la lezione di questi cotali libri e confermasse quello ch'era ordinato. Ma Giovanni, avendo a schifo queste cose, lavorava ne la dottrina de la Chiesa, e fioriva in essa, non curando nulla cosa di quelle che si pensavano contra di lui. Finalmente Teofilo manifestòe l'odio celato, e mostròe che voleva disporre Giovanni. Incontanente i nimici di Giovanni e molti cherici e baroni del palazzo, veggendo il tempo apparecchiato a ciò, isforzavasi che contra Giovanni si facesse consiglio a Costantinopoli. Dopo queste cose venne Epifanio a Costantinopoli, e recò seco la dannazione de' libri d'Origene, e fuggìo la 'nvitata di Giovanni per cagione di Teofilo. E alcuni per la riverenza d'Epifanio soscriveano a la dannagione de' libri d'Origene, e molti ricusavano di farlo; de' quali fu l'uno Teotino, vescovo di Siria, uomo nominatissimo di dirittura, il quale rispuose così, e disse: "O Epifanio, io non sostegno igualmente le ingiurie di quella cosa che per adrieto è bene stata riposata, né non presumo di tentare cosa che biastemmi; domando quelle cose che i nostri antecessori non hanno voluto rifiutare, né io non veggio veruna mala dottrina ne i libri di colui. Coloro che a queste cose fanno ingiurie, non conoscono lor medesimi". E Atanasio, difenditore del concilio di Nocea, appella questo uomo testimonio de la sua fede contra gli ariani, e congiugne i libri di colui a' suoi, e dice così: "Il maraviglioso e affaticatissimo Origene dae questa testimonianza del figliuolo di Dio, affermandolo insieme eternale al Padre". Ma Giovanni non s'indegnòe perché Epifanio avea sanza regole fatto ordinazione ne la chiesa sua; ma pertanto sì 'l pregava che tra ' vescovi stesse con lui. Ma quegli rispuose di non stare con lui, né orare con lui, se non cacciasse via Dioscoro, e non soscrivesse a la dannazione de libri d'Origene. Non vogliendo ciò fare Giovanni, gl'invidiosi suoi commossero Epifanio contra lui. Onde Epifanio dannò e' libri d'Origene e sentenziò Dioscoro, e cominciò a biasimare Giovanni sì come difenditore di costoro. Al quale mandò a dire Giovanni: "Contra molte regole hai fatto, o Epifanio; primieramente perché tu facesti ordinazione ne la chiesa, ch'era sotto mia ragione, poscia perché per tua propia autorità vi dicesti la Messa; ancora perché tu, essendo invitato, non volesti venire, e ora anche perché ti confidi in te medesimo; per la qualcosa ti guarda che non si lievi romore nel popolo, e tu riceva pericolo di questo fatto". Udendo queste cose Epifanio partissi e, dovendo ritornare in Cipri, mandò così dicendo a Giovanni: "Io abbo speranza che tu non morrai vescovo". E Giovanni gli rimandò dicendo: "Io abbo speranza che tu non tornerai al tuo paese". E così intervenne; ché Epifanio morì nel viaggio, e Giovanni, poi disposto del vescovado, finìo la vita sua a i confini. Al sepolcro di questo Epifanio, uomo santissimo, sono cacciate le demonia. E fue uomo di maravigliosa cortesia a' poveri; il quale abbiendo una volta data tutta la pecunia de la chiesa a' poveri, e non sendogli rimaso nulla, venne uno subitamente, e sì gli offerse uno sacchetto di molta pecunia, e partissi; né non fu saputo né donde venisse, né onde andasse. Volendo una volta ingannare alcuni poveri che elli desse loro alcuna cosa, l'uno di coloro si gettò rivescione in terra, e l'altro gli stava addosso, e piagnealo per morto, e gridava con lamentevoli voci che none avea onde sotterarlo. Sì che Epifanio sopravvenne, e pregò Domenedio che quegli morisse in pace, e diede quello ch'era necessario a la sepoltura. E da ch'ebbe racconsolato quell'uomo, partissi, ma quelli bussava e diceva: "Leva su tosto, oggi godiamo de le fatiche tue". Quando l'ebbe assai bussato, ed ebbe conosciuto ch'egli era morto, corse ad Epifanio e contogli ciò che gli era intervenuto e cominciò a pregarlo che lo resuscitasse. Egli con bontà lo consolò; ma nol volse risucitare, acciò che non si facesse leggermente schernie de' servi di Domenedio. Quando Epifanio si fu partito, rapportato fu a Giovanni che la imperadrice Eudogia avea commosso Epifanio contra di lui. E infiammato Giovanni per solo zelo, fece un sermone al popolo, il quale contenea in sé vituperamento di tutte le femmine, in tutt'i modi. Questo sermone fu ricevuto da tutti, quasi come fosse detto contra la 'mperadrice. Quand'ella l'ebbe saputo, condolsesene a lo 'mperadore, e disse che la ingiuria fatta a la moglie tornava maggiormente a lui. Mosso lo 'mperadore a queste cose, ordinò concilio del chericato contra Giovanni; e Teofilo ragunò in grande fretta i vescovi; e traevano allegramente i nemici di Giovanni chiamandolo superbo ed empio. Essendo dunque tutti i vescovi in Costantinopoli, non trattavano già de' libri d'Origene, ma levavansi manifestamente contra Giovanni. Mandando dunque per Giovanni, sì 'l citarono; il quale gli vietò come aperti nemici, e gridòe che si facesse universale chericato; e coloro il citarono anche quattro volte; il quale, rifuggendoli e gridando che si facesse il chericato, sì 'l condannarono, non incolpandolo d'altro, se non che essendo citato, non volse ubbidire. Udendo ciò il popolo levossi a romore, e nol lasciava trarre de la chiesa, ma gridava che questo tornasse a maggiore concilio. E 'l comandamento del prencipe costrignea che ne fosse tosto cacciato fuori, e mandato a' confini. Giovanni temendo che non nascesse scandalo nel popolo, sanza saputa del popolo, diede se medesimo ad essere mandato a' confini. Quando il popolo l'ebbe saputo, uno scandalo da non potere sostenere ne nacque, sì che ancora molti de' nemici di Giovanni, movendosi a misericordia, diceano che a lui era fatta ingiuria, lo quale poco di prima disideravano di verderlo disposto. E Severiano, del quale parlato è disopra, biasimava Giovanni ne la chiesa, così dicendo: "Pognamo che non avesse veruno altro peccato, pur la sua superbia era sofficente cagione di disporlo". Nata dunque tra lo 'mperadore e contra vescovi grande sturbagione nel popolo, la 'mperadrice pregò lo 'mperadore che facesse rimenare Giovanni da' confini. Ancora assalette un grandissimo tremuoto la città, dicendo tutti che ciò intervenìa per la ingiustizia e non giusta cagione de lo scacciamento di Giovanni. Sì che furono mandati ambasciadori a Giovanni, pregandolo che tosto tornasse. e con le sue orazioni succorresse la città che periva, e pacificasse il romore levato nel popolo. Ed altri ambasciadori furono mandati dopo coloro, e anche altri che 'l costrignessero di tornare tosto. Il quale non vogliente tornare, fu rimenato a casa sua, faccendolisi incontro tutto il popolo con ceri e con luminari. Ma elli non voleva stare ne la sedia vescovile, dicendo che ciò si convenia fare per sentenzia del chericato, e che coloro che l'aveano condannato ritrattassero da loro sentenzia. Ma il popolo s'accendeva con maraviglioso modo di verderlo sedere ne la sedia vescovile e udire le parole del dottore. Ebbe dunque vettoria il popolo, e fu costretto di fare sermone al popolo, e sedere ne la sedia cattedrale. E Teofilo fuggìo quindi, il quale essendo venuto in Jerapoli, morìo il vescovo di quella città, e fue eletto Giulamen, santissimo monaco. Ma elli l'andava pur fuggendo, e Teofilo il confortava che consentisse a la sua elezione. Allora il monaco promisse così, e disse: "Domane sarà fatto quello che piace al Signore". Sì che quel domane venne Teofilo a la cella di costui a pregarlo che ricevesse il vescovado. E que' disse: "Oriamo prima a Domenedio". Ed orando il monaco, incontanente con quella orazione ricevette il termine de la sua vita. Sì che Giovanni soprastava ad ammaestrare continuamente. In quello tempo era ordinata ne la piazza, lungo la chiesa di santa Sofia, una statuta d'argento, attorniata d'uno mantello, ad onore di Eudogia imperadrice; nel quale luogo i cavalieri e ' nobili faceano palesi giuochi e trastulli. La qualcosa dispiacea molto a Giovanni, con ciò fosse cosa che questo si pertenesse ad ingiuria de la chiesa. Prendendo Giovanni l'usata fidanza, armòe anche la lingua sua; e quando gli convenìa inchinare i principi con parole di preghiero, che si rimanessero da cotale giuoco, nol fece, ma con l'impeto de l'uso del suo parlare lacerava coloro che comandavano di fare cotali cose. E ancora la 'mperadrice il si recava a noia, e un'altra volta si brigava di fare raunare il chericato contra di lui. Sentendo ciò Giovanni, pronunziòe ne la chiesa quella famosissima omelia, che comincia così: "Ancora s'angoscia Erodia, ancora si turba, un'altra volta salta, un'altra volta disidera d'avere in talliere il capo di Giovanni". La quale cosa commosse più ad ira la 'mperadrice. E volendo uno uccidere Giovanni, fu preso dal popolo e dato a giudicare, ma fu liberato da quel santo, acciò ched elli non fosse morto. Ancora un fante d'un prete, faccendo assalto contra lui, sì si sforzò d'ucciderlo; il quale essendo tenuto da uno, percosse colui che 'l tenea, e un altro che si stavi ivi presente, e anche il terzo. Allora per lo grido che vi fue, correndovene molti, sì uccise molte persone. Da quello tempo innanzi il popolo guardava Giovanni, armando la casa sua di die e di notte. Sì che per conforto de la 'mperadrice, li vescovi si ragunarono in Costantinopoli, e gli accusatori di Giovanni cominciarono a soprastare fortemente. Ed essendo sopravvenuta la festa del Natale, lo 'mperadore mandò a Giovanni che, se prima non si spogliasse de' peccati, non dovesse comunicare con lui. E li vescovi non trovarono nulla in lui, se non che dopo il disporre suo era stato presuntuoso di sedere ne la sedia vescovile sanza dicreto di concilio, e in questo modo di condannarono. Appressimandosi a la perfine la solennità de la Pasqua, mandolli a dire lo 'mperadore che non potea stare con lui ne la chiesa, con ciò fosse cosa che due concilii l'avessono condannato. Sì che Giovanni si cessava, e non discendeva ne la chiesa. Coloro ch'erano in aiuto a Giovanni, sì erano chiamati Giovanniti. Dopo queste cose fecelo lo 'mperadore cacciare fuori de la cittade, e menare a' confini in una piccola cittadella, dove sono i termini di Ponto e de lo 'mperio de' romani, i quali luoghi sono prossimani a' crudeli barbari. Ma il piatoso Iddio non lasciò lungo tempo dimorare il cavaliere suo in cotali luoghi. Udendo queste cose papa Innocenzio, sì 'l si recava a noia, e volendo fare concilio, scrisse al chericato di Costantinopoli che non ordinassono alcuno che fosse successore a Giovanni. Andando dunque Giovanni al concilio, essendo affaticato per lungo viaggio, e tormentato fortemente del capo del suo duolo, non sostenendo ancora lo 'mportabile ardore del sole, quella santa anima si partì dal corpo ne la città di Cumana, XIV dì di Settembre. Morto lui, una forte gragnuola venne in Costantinopoli e in tutte le villate intorno, dicendo tutti che ciò era fatto per l'ira di Dio, di ciò che Giovanni era stato ingiustamente condannato. A le quali parole fece fede la morte de la 'mperadrice, che venne dietro, però che quattro dì dopo la gragnuola, morìo quella. Morto dunque il dottore di tutte le terre, li vescovi d'Occidente non volsero per neuno modo comunicare con quelli d'Oriente, infino a tanto che non puosono il nome di quello santissimo uomo tra i vescovi. Ma Teodoro, cristianissimo figliuolo del detto Arcadio, il quale avea il nome e la pietade de l'avolo suo, fece trasportare le sante reliquie di questo dottore ne la cittade reale, del mese di Gennaio; e 'l fedelissimo popolo li si fece incontro con ceri e con lampane. E Teodogio adorò umilemente le sue reliquie, e pregollo per Arcadio e per Eudogia, suoi padre e madre, che perdonasse loro, i quali aveano fallato contra lui per ignoranza. Però che già erano morti questo suo padre e sua madre. Questo Teodogio fu pietosissimo intanto che non giudicava mai a morte neuno che l'offendesse, anzi diceva così: "Volesselo Dio ch'a me fosse possibile di rivocare a vita eziandio coloro che sono morti!" La sua corte parea monasterio, levavasi la notte a dire mattutino, leggea i libri santi. Questi avea moglie ch'avea nome Eudogia, la quale fece versi eroici, [ms.: di Gerico] ed ebbe una figliuola ch'ebbe nome Eudogia, la quale diede per moglie a Valentiniano, lo quale elli avea fatto imperadore. Tutte queste cose son fatte e tratte de la storia Tripertita. Morìo intorno a gli anni Domini CCCC.
cap. 132, Ss. Cornelio e CiprianoCornelio papa, successore di san Fabiano, fu mandato co' suoi cherici a' confini de Decio imperadore, e là ricevette lettere di conforto da san Cipriano, vescovo di Cartagine. A la perfine levato da' confini e presentato a Decio, stando bene fermo ne la fede, sì 'l fece battere con piombati, e comandò che fosse menato al tempio di Marte, acciò o ched elli sacrificasse quivi, od elli ricevesse la sentenza de la testa. Essendo dunque menato là, uno cavaliere il pregò che venisse a casa sua e facesse orazione per la sua moglie Sallustia, la quale giaceva cinque anni paralitica. La quale essendo sanata a l'orazione di costui, XX cavalieri con lei e col marito suo, credettoro in Dio; i quali, per comandamento di Decio, tutti furono menati al tempio di Marte e, sputando ne l'idolo, furono dicollati con santo Cornelio. E fue martirizzato a gli anni Domini CCLIII. E san Cirpiano, vescovo di Cartagine, ne la detta città fu presentato dinanzi a Paterno proconsolo. Il quale non potendo essere rimutato da la fede, fu mandato a' confini, e ribandito di là da Galerio proconsolo, il quale era socceduto a Paterno, ricevette sentenzia de la testa. E letta la sentenzia disse Cipriano: "Io credo grazie a Dio". Ed essendo venuto al luogo del martirio comandò a' suoi che dessero XV fiorini d'oro al giustiziere per la fatica sua, e tolse un panno e fasciossi con la sua mano gli occhi, e in questo modo ebbe la corona. E fu martirizzato intorno a gli anni Domini CCLVI.
cap. 133, S. EufemiaEufemia, figliuola del senatore, al tempo di Diocliziano veggendo sì duramente i cristiani tormentare, andonne al giudice Prisco, e confessando Cristo pubblicamente, confortava eziandio gli animi de gli uomini con l'essemplo e con la 'mprontitudine de la sua fortezza. Con ciò dunque fosse cosa che 'l giudice uccidesse così per ordine li cristiani, facea stare gli altri presenti, acciò ch'almeno spaventati per le pene sacrificassero, veggendo così crudelmente isquarciare gli altri. Veggendo dunque Eufemia così agramente isvembrare i santi, infiammata più per la loro costanzia, gridava che sostenea ingiuria dal giudice. Allora il giudice s'allegrò credendo ch'ella volesse sacrificare. Onde da che l'ebbe domandata che ingiuria le facesse, quella disse: "Con ciò sia cosa ch'io sia di nobile generazione, perché mi metti tu innanzi gli uomini non conosciuti e avveniticci, e fai li primai aggiugnere a Cristo e pervenire a la gloria?" E 'l giudice le disse: "Io mi credea che tu fossi tornata a la mente, e rallegravami che ti fossi ricordata de la tua gentilezza, ovvero de la tua chiaritade". Rimenata dunque ne la carcere, e menata poi il seguente die sanza i ferri con gli altri pregioni dinanzi al giudice, ancora si lamentò gravissimamente perché contra le leggi de li 'mperadori a lei sola erano perdonati i legami. Allora le furono date dimolte e grande gotate, e poi rinchiusa ne la carcere. E 'l giudice ingannato di lussuria la volse oppriemere, ma, contrastando ella vigorosamente, la vertù de l'Altissimo contrasse la mano di colui. Allora le mandò il proposto de la casa, promettendoli molte cose se la facesse consentire. E quelli non potette per veruno modo aprire la carcera serrata, né con chiavi, né con le scuri spezzare, tanto che 'l demonio il prese, e gridando e squarciando se medesimo, appena scampòe. Poscia ne fu tratta fuori, e posta sopra una ruota, i cui serragli erano pieni di carboni; e l'artefice di quella ruota diede un tale segnale a coloro che la menavano dentro a la ruota che, quando ella facesse suono, tutti insieme menassero, e così uscendo il fuoco, i serragli gustaterebboro il corpo de la vergine. Ma per volontà di Dio il serramento col quale si temperava, caggendoli di mano, fece suono, e incontanente menando coloro la ruota, si spezzò tutta insieme con l'artefice, e Eufemia stando sopra quella rimase sanza danno. Allora i parenti de l'artefice lamentandosi, missero fuoco sotto la ruota e volserla ardere con lei insieme; ma arsa la ruota e isciolta Eufemia da l'Angelo, fu veduta stare in uno luogo alto, sana ed allegra. Sì che Appelliano giudice disse: "La vertù de' cristiani non si vince se non con ferro, onde io vi consiglio che la facciate dicollare". Sì che rizzate le scale, volendo uno mettere la mano per prenderla, incontanente tutto dissoluto di parlasia, a gran pena ne fu levato mezzo vivo. Un altro ch'avea nome Sostenese, saliendovi su, incontanente mutato da lei, domandolle perdonanza, e col coltello isguainato, gridòe al giudice che più volentieri ucciderebbe sé che lei, la quale gli angeli difendevano che non la toccasse. A la perfine per sua volontade rimossa quindi, il giudice disse al cancelliere suo che facesse venire a lei tutti i lussuriosi, i quali tanto la straziassero che per fatica venisse meno. Ma quegli entrando a lei, e veggendo molte vergini splendentissime orare d'intorno a lei, per gli ammonimenti suoi incontanente diventòe cristiano. E 'l preside fece impiccare la vergine per li capelli, ma stando lei pur ferma ne la fede, la fece mettere in pregione, e comandando che non le sia dato nulla da mangiare, acciò 'l settimo die fosse istretta e macinata tra quattro grandi sassi come uliva. Ma ella cotidianamente accompagnata da l'angelo, essendo nel settimo die posta tra durissimi sassi, a l'orazione di colei i sassi furono convertiti in sottilissima cennere. Onde il preside vergognandosi d'essere così vinto da una fanciulla, s' la fe' gittare in una fossa, là dov' erano tre bestie tanto feroci che ogni uomo inghiottivano. E quelle incontanente ischerzando, corsono a la vergine e, raggiugnendo insieme quasi le code loro, sì le diedero quasi una caffera da sedere, laonde fecero più vergognar il giudice che vedeva queste cose. Per la qualcosa il giudice morendo poco meno de l'angoscia, il giustiziere si gittò entro la fossa, e per vendicare l'onta del signore suo e, mettendole uno coltello per lo fianco, sì la fece martire. E 'l giudice gliele rendette quello merito, che 'l vestìo d'un zendado con fregio d'oro tutto intorno; ma uscendo lui de la fossa così addobbato, fu preso da leone, e in uno punto quasi divorato. Onde li parenti suoi cercando lungo tempo per lui, appena ritrovarono poco de le sue ossa col vestimento stracciato e col fregio de l'oro. E il giudice Prisco, mangiando se stesso, fu trovato morto. E santa Eufemia fue con onore seppellita in Calcedonia, e credettono in Cristo per li suoi meriti tutti i giudei e ' pagani di Calcedonia. E fu martirizzato intorno a gli anni Domini CCCLXXX. Santo Ambruogio dice nel Profazio così di questa vergine: "La vergine santa triunfatrice Eufemia, ritegnendo la mitera de la verginitade, meritòe d'essere coronata di passione, per li cui prieghi il nemico è vinto, il preside avversario è soperchiato, dal fuoco de la fornace è tratto l'uomo sano, le dure pietre si convertirono in polvere, le fiere salvatiche diventarono mansuete e sottomettono il collo, e tutt'i tormenti de le pene per la sua orazione sono soperchiati. A la perfine forata con la punta del coltello, lasciando la chiusura del corpo, allegra si congiunse al coro celestiale. Questa santa vergine, Segnore Dio, raccomandi a te la Chiesa tua; questa interceda per noi peccatori; questa, come verga fresca, doni a te i nostri desiderii che siano non corrotti".
cap. 134, S. LambertoLamberto di nobile legnaggio, ma più nobile per santità di vita, da principio de l'etade sua ammaestrato di lettera, era tanto amato da tutti per la sua santità, che meritòe d'essere fatto vescovo di Tresi dopo la morte del vescovo Teodardo, suo maestro. E 'l re Childerigo l'amava molto, e tenealo sempre caro sopra tutt' i vescovi. Ma crescendo la malizia de l'invidiosi, cacciandolo via gli empi uomini, sì 'l privarono del debito onore sanza cagione, e missero Feramondo ne la sua sedia. E Lamberto entrò in uno monasterio e sette anni vi conversòe in santa vita. Sì che una notte levandosi ad orazione, per ignoranza fece suono ne lo smalto; udendo ciò l'abbate sì disse: "Qualunque fece questo suono, vada ratto a la Croce". Allora Lamberto a piedi scalzi corse incontanente a la Croce vestito di cilicio, e tanto vi stette fiso ne la neve e nel ghiaccio, infin che riscaldandosi i frati dopo il mattotino, l'abbate seppe che non v'era presente. E udendo da un frate che quegli era suto ch'era andato a la Croce, sì lo fece mettere dentro, e domandolli l'abbate perdonanza con esso i monaci. Ed egli non solamente perdonò loro misericordevolemente, ma predicolli del bene de la pazienzia molto altamente. Passati sette anni Feramondo fu cacciato, e san Lamberto per comandamento del re Pipino fu rimesso ne la sua sedia. E risplendendo come di prima per parole e per essempli, due maligni si levarono contra di lui, e cominciarollo gravemente a perseguitare, i quali gli amici del pontefice uccisero sì come ne furono degni. In quel tempo Lamberto riprese il re Pepino d'una meretrice ch'elli tenea; ed uno ch'avea nome Dodo, parente di coloro ch'erano stati morti, fratello de la meretrice, famigliare de la magione del re, ragunò una grande oste, ed ebbe assediata la casa del vescovo da ogne parte, vogliendo vendicare la morte di coloro in santo Lamberto. Con ciò dunque fosse cosa che uno fanciullo l'avesse annunziato questo fatto al santo uomo posto in orazione, elli confidandosi in Domenedio di convincerli, misse mano ad uno spuntone; ma ritornandosi in se medesimo, gittò il coltello di mano, giudicando che meglio fosse a vincere sostegnendo e morendo, che macchiare le sagrate mani del sangue de li empii. Allora l'uomo di Dio ammonette i suoi che confessassero i peccati loro, e sostenessero la morte pazientemente. E quellino incontanente gli corsono addosso e uccisero il santo posto in orazione e, partendosi coloro, alcuni de' suoi frati scampando tolsero il corpo suo nascosamente, e portarollo a la chiesa maggiore, e con molta tristizia de la cittade sì 'l missero ne la sepoltura, intorno a gli anni Domini DCXX.
cap. 135, S. MatteoMatteo è detto apostolo. Predicando in Etiopia in una città che si dice Nadaber d'Etiopia, sì vi trovò due magi, ch'avea nome l'uno Zaroes e l'altro Arfasat, i quali con loro arti ismentavano sì gli uomini, che a chiunque volevano, parea che tollessero l'offizio de le membra e la santade; ed erano divenuti in tanta superbia che si faceano adorare quasi per due dei da tutti. Sì che Matteo apostolo, entrato ne la città e capitato ad albergo a casa d'un donzello de la reina Candace, che san Filippo avea battezzato, iscopriasi gl'inganni di questi magi, che ciò che quelli faceano a gli uomini in lor morte, tutto il facea tornare in lor salute. E dimandando il donzello l'apostolo come parlasse cotante lingue e intendesse, l'apostolo gli rispuose come, discendendo lo Spirito Santo sopra loro, aveano ricevuto il conoscere di tutte le lingue, acciò che secondamente che quelli che per superbia voleano edificare la torre infino al cielo, per la confusione de le lingue si rimasero de l'edificare; così gli apostoli per lo conoscere di tutte le lingue faceano torre non di pietra, ma di vertudi, per la qual torre tutti i credente salgono in cielo. Allora venne uno che dicea che quelli magi erano venuti con due dragoni, i quali mettendo fuoco di solfo per la bocca e per le nari, uccideano gli uomini; e l'apostolo, armandosi col segno de la Croce, uscì fuori sicuramente a loro. E sì tosto come i dragoni l'ebbero veduto, incontanente gli si gittarono a' piedi e dormirono. Disse l'apostolo a li magi: "Dove è l'arte vostra? Detestateli, se voi potete: ma se io non avessi pregato Domenedio, quello che voi avete pensato da fare a me, sì avrebbero fatto a voi". Ed essendo ragunato il popolo, nel nome di Jesù l'apostolo comandò a' dragoni che si dovessono partire, e così si partirono incontanente, senza far male a persona. Allora cominciò l'apostolo a fare un lungo sermone al popol, predicando de la gloria del paradiso terrestro, come quel luogo è più alto che tutti i monti e prossimano al cielo, che non v'aveva spine né pruni, ammaestrando che quivi non infracidavano né rose né gigli, e che mai non v'aveva vecchiezza, ma sempre vi stava l'uomo giovane, che sempre vi suonano gli organi, gli uccelli chiamati incontanente ubbidiscono là. Di questo paradiso terrestro disse che l'uomo era cacciato fuori, ma per lo nascimento di Cristo era richiamato al paradiso celesto. Perseguendo dunque questa materia, eccoti levare uno grande romore; ché si piagnea uno morto, lo figliuolo d'uno re, lo quale non potendo i magi risucitare, confortavano il re ched egli era rapito a la compagnia de li dei, e però convenìa ch'elli fosse fatto l'idolo e 'l tempio. E 'l detto donzello, faccendo guardare li magi, chiamò l'apostolo e, fatta l'orazione, incontanente risucitò quel morto. Per la qualcosa il re Egippo, il quale avea così nome, veduto ciò, mandò dicendo per tutte le sue province che venissero a vedere Domenedio, ch'era in simiglianza d'uomo; sì che vennero con corone d'oro e con diverse maniere di sacrificii per volerli sacrificare. I quali l'apostolo costrinse, così dicendo: "Uomini, che fate voi? Io non sono Domenedio, ma sono servo del Signore Jesù Cristo". Sì che quellino de l'oro e de l'argento che avevano recato, per suo comandamento fecero una grande chiesa, la quale compiettero fra spazio di XXX dì, ne la qual chiesa l'apostolo fu vescovo XXXIII anni, e convertìo tutto l'Egitto e la fede di Jesù Cristo. Il re Egippo dunque fu battezzato con la moglie, e con tutto il popolo, e Efigenia, la figliuola del re, sì fece priora sopra più di trecento vergini. Dopo queste cose Irtaco succedette al re, e invaghito de la detta vergine promisse a l'apostolo la metà del reame se la facesse consentire in suo maritaggio. Al quale l'apostolo disse che, secondo 'l mondo de l'antecessoro suo, venisse la domenica a la chiesa in presenza d'Ifigenia con l'altre vergini, e udirebbe come siano buoni i giusti matrimonii. Sì che il re s'affrettò d'andare là con allegrezza, pensando che quelli volesse confortare Efigenia di maritaggio. Adunque san Matteo, da poi ch'ebbe ragunato tutto il popolo e le vergini, e parlato lungamente del bene del matrimonio, fu molto lodato dal re, credendo che dicesse queste cose per sé e per Ifigenia. Poscia che fu comandato che ogni persona stesse in silenzio, l'apostolo ripetette il sermone, e disse: "Buono è il matrimonio se s'attiene salvo il peccato; ma s'alcuno de' servi ardisse di prendere la sposa del re, non solamente incorrerebbe ne l'offesa del re, ma eziandio sarebbe degno di morte; non perché quelli menasse moglie, ma perché togliendo la sposa del signore suo, sì si conviene d'avere rotto il suo matrimonio; e così tu, re, sappiendo che Ifigenia è diventata sposa del re eternale e consegrata dal santo velo, come potrai tu torre la sposa del più potente di te congiugnerla al tuo matrimonio?" Da che il re ebbe udito questo, impazzòe de l'ira, e partissi molto furioso; ma l'apostolo rimase fermo e sanza paura, e confortò tutta la gente a pazienzia e a costanzia di mente, e benedisse Efigenia con l'altre vergini de la paura abbattuta in terra dinanzi da lui. E dopo la solennità de le Messe, il re mandò un giustiziere; il quale trovando l'apostolo stare appresso l'altare in orazione con le mani stese al cielo, misseli un coltello per le spalle di dietro, e fecelo martire a Cristo. Udendo ciò il popolo, correa ratto al palagio del re per ardere ogni cosa, ma fu rattenuto con gran pena da' preti e da' diaconi, e del martiro de l'apostolo fu fatto solennità con allegrezza. E 'l re non potendo mutare l'animo d'Efigenia, né per grande donne mandate a lei, né per li magi in veruno modo, fece accendere un gran fuoco d'intorno a la casa di colei, acciò che l'ardesse con tutte le vergini. Ma l'apostolo apparendo a lei, rimosse tutto il fuoco de la sua casa; il quale fuoco dirompendosi assalette al palazzo del re, e consumòe ogne cosa, scampandone a grande pena il re con un solo figliuolo. E subito il figliuolo fu compreso dal demonio, e confessando i peccati del padre, andò ratto al sepolcro de l'apostolo; e 'l padre diventato un sozzissimo lebbroso, non potendo essere curato con la sua propia mano, s'uccise col coltello. E 'l popolo fece re il fratello d'Efigenia, battezzato da l'apostolo, il quale regnò LXX anni, e sustituendo in suo luogo lo suo figliuolo, dilatò molto la fede di Cristo, e riempiette tutta la provincia d'Etiopia de le chiese di Cristo. Ma Zaroes e Arfasat, da quello die innanzi che l'apostolo risucitò il figliuolo del re, sì si fuggirono in Persida, ma i santi apostoli san Simone e san Taddeo sì li vinsero là. Nota che in san Matteo si considerano quattro cose. Principalmente la prima si è affrettamento d'ubbidienza, però che, sì tosto come Cristo il chiamò, lasciò stare il bando da tenere ragione, e non solamente non temendo i segnori suoi lasciò non compiute le ragioni de' passaggi, ma accostossi a Cristo perfettamente. Per questo affrettamento d'ubbidienzia presero alcuni a sé cagione d'errore, come dice san Geronimo ne l'Originale sopra quel luogo; e dice così: "Riprendono in questo luogo Porfirio e Giuliano imperadori il poco savere de lo storiale che menta, ovvero la stoltizia di coloro che tostamente seguirono il Salvatore, quasi irragionevolemente seguitassero ciascuno uomo che chiamasse. Con ciò fosse cosa che cotante vertudi e cotanti segnali andassero innanzi, le quali non è dubbio che gli apostoli vedessero innanzi che credessono. Anche quello splendore e la maestade occultata de la divinitade che risplendea ne l'umana faccia di Cristo, poté nel primo sguardo trarre a sé coloro che venìano. Che se la pietra magnete hae questa vertude, come si dice che trae e congiugne a sé gli anelli e le festuche, quanto maggiormente il signore di tutte le criature poté trarre a sé cui E' voleva!" Insino qui dice san Geronimo. La seconda cosa fue la sua cortesia, imperò che incontanente fece uno grande convito in casa sua. Avvegnadio che quello convito fosse così grande non solamente per lo grande apparecchiamento, ma fu grande primieramente per l'affetto, però che con grande affetto e disiderio il ricevette. Secondariamente fue grande per ragione del misterio, però che quel convito fu dimostrativo di grande misterio. Lo quale misterio si spone ne la Chiosa sopra il Vangelo di santo Luca; e dice la Chiosa: "Chi riceve Cristo ne la casellina dentro, è pasciuto di grandissimi diletti, di traboccanti dilettanze". Nel terzo luogo fu grande per ragione de li ammaestramenti, però che quivi ammaestrò gran cose, come quando disse: "Misericordia voglio e non sacrificio", e: "Non hanno bisogno e' sani di medico, ma coloro che hanno male". Nel quarto luogo fu grande per ragione de l'invitati, imperò che 'l gran signore, cioè Cristo, co' suoi discepoli fue invitato. La terza cosa fue la sua umiltade, la quale apparve in due cose. L'una si è che si manifestòe d'essere stato pubblicano. Gli altri Vangelisti, come dice la Chiosa, non pongono per la vergogna e per onore del Vangelista, il suo volgare nome; ma elli sì, secondamente che dice la Scrittura: "Il giusto nel cominciamento è accusatore di se medesimo". Sì si chiama Matteo pubblicano a mostrare che niuno convertito si disperi de la salute, con ciò sia cosa che di pubblicano fu fatto subitamente apostolo e vangelista. La seconda cosa fu in ciò che mostrò e manifestò chi era stato paziente de le ingiurie a lui fatte, però che mormorando li farisei che 'l Signore s'era inchinato ad un uomo peccatore, potrebbe avere detto loro san Matteo: "Voi maggiormente siete miseri e peccatori, i quali, credendovi essere giusti, fuggite il medico; ma io non posso già essere detto peggiore, il quale ricorro al medico de la salute, e non gli nascondo la mia propia fedita". La quarta cosa lo spesseggiamento del suo Vangelio ne la Chiesa; però che 'l suo Vangelio, tra gli altri Vangeli, sì spesseggia ne la Chiesa, sì come i Salmi di David e l'Epistole di san Paulo sopra l'altre scritture si raccontano ne la Chiesa. La ragione di ciò è questa, imperò che, come dice san Giacomo, tre sono le generazioni di peccati, a' quali si riducono tutt' i mali, però che ciò ch'è nel mondo o è concupiscenza di carne, o è concupiscenzia d'occhi, o è superbia di vita. Del peccato de la superbia peccò Paulo, onde elli per superbia sopra modo perseguitava le Chiesa di Dio. Del peccato de la lussuria peccò David, il quale commise avolterio, e per quello uccise il fedelissimo cavaliere Uria. Del peccato de l'avarizia peccò Matteo, per ciò che per avarizia intendea a' guadagni temporali. Adunque avvegnadio che questi fossono peccatori, pure la loro penitenzia piacque tanto a Demenedio che non solamente che perdonasse loro le loro colpe, ma elli multiplicòe i doni suoi in loro; però che del crudelissimo persecutore fece fedelissimo redictore, de l'adolterio e micidiale fece profeta e salmista, del passaggere fece Vangelista ed apostolo. Però dunque ci si raccontano spesse volte a noi detti di questi tre, acciò che veruno, il quale si voglia convertire, non si disperi del perdono, quando che così grandi peccatori ricevettono cotanta grazia. Da notare è ancora, secondo il detto di santo Ambruogio, che intorno al convertimento di santo Matteo, alcune cose si possono considerare da la parte del medico, alcune da la parte de lo 'nfermo sanato, alcune da la parte del modo del sanare. Nel medico furono tre cose, cioè savere, per lo quale conobbe la radice de la infermità; bontade, per la quale diede la medicina; e potenzia, con la quale sì subitamente il mutòe. Di queste tre cose parla santo Ambruogio in persona di san Matteo, e dice così: "Costui puote torre via il dolore del cuore mio e la pallidezza de l'anima, il quale conosce le cose occulte". Ecco la prima. "Ho trovato medico che abita in cielo, ed espande le medicine in terra". Ecco la seconda. "Questi solo può sanare le piaghe mie, il quale non conosce le sue". Ecco la terza. In quello infermo sanato, cioè in san Matteo, si possono considerare simigliantemente tre cose, le quali il detto santo Ambruogio mostra: ched egli si spogliò perfettamente de la 'nfermità e fu conoscente del medico, e ne la infermità ricevuta sempre si conservò puro. Onde dice santo Ambruogio: "San Matteo seguitava già lieto e avea allegrezza dentro così dicendo: Già non pubblicano porto i pubblichi fatti, già non porto Levi, io m'ho spogliato Levi, da poi che io mi vestìo Cristo". Ecco la prima cosa. "Io abbo in odio la schiatta mia, fuggo la vita mia, solo te seguito, Signore Jesù, il quale sanichi le piaghe mie". Ecco la seconda cosa. "Chi partirà me da l'amore di Dio, il quale è in me? Trubulazione? No. Angoscia? No. Fame? No". Ecco la terza cosa. E 'l modo del sanare, secondo che dice santo Ambruogio, fue in tre maniere. Imprima il legò Cristo co' suoi legami, secondariamente lo 'ncese, nel terzo luogo il purgò da ogne sozzura. Onde santo Ambruogio in persona de l'apostolo dice così: "Legato sono con li chiovi de la fede e con le buone bove de l'amore; tolli via, Segnore Jesù, le sozzure de' miei peccati, da che tu mi tieni stretto de' legami de l'amore; taglia ciò che tu truovi vizioso". Questo è quanto al primo. "Ogne tuo comandamento terrabbo come ferro impresso in me; e se arde lo 'ncendio del comandamento, impertanto consuma la putredine de la carne, acciò che non si lievi appiccamento; e se la medicina pugne, impertanto rimuove il vizio del malore". Questo è quanto al secondo. "Vien tosto, Signore, e taglia l'occulte e isvariate passioni, apri la piaga acciò che non sia soperchiante il nocevole omore, purga ciò ch'è sozzo col pellegrino lavamento". Questo è quanto al terzo. Il suo Vangelio ch'elli scrisse di sua mano fue trovato con l'ossa di san Barnaba ne gli anni Domini D; lo quale Vangelio san Barnaba portava seco, e ponendolo sopra gl'infermi, tutti gli guariva incontanente, sì per la fede di san Barnaba, come per li meriti di san Matteo.
cap. 136, S. MaurizioMaurizio è detto che fu capitano ne la sagratissima schiera la quale fu detta Tebaida; e furono detti Tebei da la città loro, che si chiama Tebea. È questa contrada ne le parti d'oriente, oltr'a' confini de la Arabia, la qual contrada è piena di ricchezze, abbondevole de' frutti e dilettevole d'arbori. E gli abitanti di quella contrada son detti d'essere grandi del corpo e valentri d'arme, fortissimi in battaglia, scalteriti d'ingegno, pieni di sapienzia. Quella città ebbe C porte, e fu ordinata sopra il fiume Nile, che esce di Paradiso ed è detto Gyon. De la qual città dice questo verso: Ecco la vecchia Tebea che giace ruvinata di cento porte". A questa gente predicò santo Jacopo minore, e ammaestrolli perfettamente de la fede di Cristo. Ma Diocliziano e Massimiano, che regnarono ne l'anno Domini CCLXXVII, voglienti al postutto spegnere la fede di Cristo, mandaro così fatte lettere per tutte le province, là dov'erano li cristiani: "Se si convenisse determinare o sapere alcuna cosa, e tutto il mondo fosse da una parte, e sola Roma rimanesse, ne la quale è il lume de la scienzia, sì si starebbe a quella Roma che la difinisse. Perché dunque voi, picciolo popoletto, le contrastate e li suoi comandamenti e insuperbite così mattamente contra li statuti suoi? Adunque, o voi riceverete la fede de li dei non mortali, o e' sarà data di voi sentenzia non mutevole". E li cristiani ricevendo queste lettere, rimandarono i messaggi voiti. Allora Diocliziano e Massimiano commossi da ira, mandarono per tutte le province dicendo che venissero a Roma uomini con arme da combattere, acconci a ciò per soggiogare tutt'i rubelli de lo imperio di Roma. Sì che le lettere de li 'mperadori furono portate al popolo de' Tebei; i quali, secondo il comandamento di Dio, volendo rendere quelle che sono di Dio a Dio, e quelle che sono di Cesare a Cesare, ragunaro la scelta legione di cavalieri, ciò furono sei milia LXVI, e mandarli tutti a lo 'mperadore, che l'aiutassero ne le battaglie giuste, ma contro a i cristiani non movessero arme, ma maggiormente li difendesseno. Di questa sagratissima legione era capitano il glorioso uomo Maurizio; gonfalonieri n'erano Candido, Innocenzio, Essuperio, Vittore e Costantino. Sì che Diocliziano prese Massimiano, lo quale elli avea tolto per compagno de lo 'mperio, e mandollo con infinita oste contra Francia, e accompagnogli la legione Tebea. Costoro furono ammaestrati da san Marcellino papa che anzi si lasciassero uccidere con le coltella, ched ellino rompessero la fede di Cristo, ch'ellino aveano ricevuta. Abbiendo dunque tutta l'oste passate le montagne de l'Alpe, e essendo giunti ad Ottodoro lo 'mperadore fe' comandamento che tutti quelli che erano seco sacrificassero a l'idole, e facessono insieme congiurazione contra rubelli e massimamente contra i cristiani. Vedendo ciò i santi cavalieri cansaronsi da costoro per ispazio d'otto miglia di lungi da l'oste, e puosersi in uno luogo dilettevole detto Agano sopra Rodano. Udendo ciò Massimiano mandò là i cavalieri, comandando a quegli che s'affrettassero di venire a' sacrifici de li dei con gli altri compagni. I quali rispuosono che nel poteano fare, come quelli che aveano la fede di Cristo. Allora lo 'mperadore infiammato d'ira disse: "È giunta al mio dispetto la 'ngiuria del cielo, e meco è spregiata la romana religione; senta il contumace cavaliere che non solamente a me, ma a' miei dei posso dare vendetta". Allora lo imperadore mandò loro, comandando pe' suoi cavalieri che o ellino li costrignessoro di sacrificare, od ellino dicollassero incontanente d'ogne diece uno. Sì che i santi con allegrezza paravano il collo loro, e l'uno si sforzava d'andare innanzi a l'altro, e di venire prima a la morte. Allora santo Maurizio infra l'altre cose arringòe in questa maniera: "Io mi rallegro a voi, però che siete apparecchiati di morire tutti per la fede di Cristo; li vostri compagni ho patito che sieno morti, perch'io vi vidi apparecchiati a la passione per Cristo. Ancora ho servato il comandamento del Signore, il quale disse a san Piero: "Rimetti il coltello tuo ne la guaina"; per ciò dunque che noi siamo attorneati de le corpora de nostri compagni, e abbiamo bagnate le vestimenta del sangue de' compagni seguitiamo noi loro al martirio. Adunque, se vi piace, rimandiamo cotale risposta a lo 'mperadore: "Imperadore, noi siamo tuoi cavalieri, e avemo prese l'armi per difender le repubblica; non è in noi tradimento, non paura; ma la fede di Cristo per veruno modo non lasceremo". Abbiendo il tiranno udito ciò, comandò che anche uccidessero de' diece l'uno Fatto ciò Essuperio gonfaloniere, prendendo il gonfalone e stando ritto tra i cavalieri, sì disse: "Il glorioso capitano nostro Maurizio ha parlato de la gloria de' nostri cavalieri, né per ciò Essuperio, vostro gonfaloniere, ha preso queste arme per contrastare noi a così fatte persone; gettino via le nostre mani diritte queste arme carnali, acciò che v'armiate di vertudi; e se piace a voi rimandiamo cotali risposte a lo 'mperadore: "Cavalieri siamo, o imperadore, tuoi, ma servi anche, i quali liberamente ci confessiamo di Cristo. A te dovemo cavalleria, a lui innocenzia; da te avemo ricevuto il soldo de la fatica, da Colui il prencipio de la vita; tutt' i tormenti siamo apparecchiati di ricevere per Lui, e mai non ci partiemo da la sua fede". Allora l'empio imperadore comandò che l'oste sua attorneasse tutta quella legione, sì che uno solo non ne potesse scampare. Furono dunque i cavalieri di Cristo assediati da li cavalieri del diavolo e tagliati tutti a pezzi da le scomunicate mani, scalpitati da' piedi de' cavalli e consegrati a Cristo preziosi martiri. E furono passionati intorno a gli anni Domini CCLXXX. Ma per volontà di Dio molti ne scamparono e, vegnenti ad altre contrade, predicarono il nome di Cristo, ed ebbero gloriosa battaglia in altri luoghi. De' quali si dice che fue Aventore, Solutore e Ottavio a Taurino, Alessandro a Pergamo, Sotulo ovver Secondo a Ventimilio, e ancora san Costanzio e Vittore e Urso e molti altri. E dividendo i carnifici la preda, e mangiando insieme, un vecchio ch'avea nome Vittore, il quale per avventura passava in d'oltre, sì lo 'nvitarono a mangiare seco. Ma elli cominciò a dimandare come fra cotante migliaia d'uomini morti potessono con allegrezza mangiare. Ed avendo inteso da uno che quelli erano morti per la fede di Cristo, suspirando elli fortemente cominciò a piagnere, gridando sé beato se con coloro fosse stato morto. Ed avendo saputo che quelli era cristiano, fecero assalto contra di lui, e sì lo uccisero. Dopo queste cose Massimiano a Melano, e Diocliziano a Niccomedia, in uno die finirono la vita loro per fare vita privata, e li più giovani, cioè Costanzio e Massimo e Galerio, i quali elli aveano fatti Cesari, furono imperadori. Ma volendo Massimiano regnare a modo di tiranno, fu perseguitato da Costanzio, suo genero, e finìo la vita sua impeso per la gola. A la perfine il corpo di santo Innocenzio di questa legione, gittato ne l'acqua de' Rodano e poi ritrovato da Domiziano Genavese, da Agrato Augustano e da Protasio, vescovi di quella contrada, fu seppellito con altri ne la chiesa loro. Ne la cui opera era uno lavorante pagano, il quale lavorava solo in quella opera, faccendo festa gli altri. Al quale apparve l'esercito de' santi, e fu rapito, battuto e ripreso ched elli come scomunicato lavorava il dì de la Domenica, e quando elli dovea intendere a le cose di Dio si dava a lavorii di mani. E così gastigato corse a la chiesa, e domandò d'essere fatta cristiano. Una femmina diede un suo figliuolo a l'abbate del monasterio, dove i corpi di questi santi erano riposti, per istruirlo; e poco vi stette ched elli morìo, lo quale la madre piagnea sanza veruno rimedio. A la quale san Maurizio apparve, e domandolla perché piagnea il figliuolo suo. Quella disse che mentre che vivesse non cesserebbe di piagnere. E 'l santo le rispuose: "Nol piagnere come morto, ma sappi ch'elli abita con esso noi; la qualcosa se provare lo vuoli, domani e per tutto il tempo de la tua vita, quando tu ti leverai a mattutino, potrai udire la boce sua tra quelle de' monaci che cantano". Quella il fece sempre, e udìo la voce del figliuolo, discernendola bene da l'altre. Il re di Gaturania, avendo abbandonato tutte le pompe del mondo e dato tutti i tesori suoi a' poveri e a le chiese, mandò uno prete che gli apportasse de le reliquie di costoro. Il quale essendo con le reliquie nel mare entro in una nave, nacque una tempesta, e perìa ne l'onde del mare. Allora quegli contrappuose la cassa con le reliquie a l'onde del mare, e seguinne incontanente grande bonaccia. Ne gli anni Domini DCCCLXIII alcuni monaci avuta la licenzia da Carlo, avendo impetrato da papa Niccolaio i corpi di santo Urbano papa e santo Tiburtino martire, ritornando loro a casa, visitarono la chiesa di questi santi martiri, e impetrarono da l'abbate e da' monaci di trasportare il corpo di san Maurizio e 'l capo di santo Innocenzio ad Altissiodoro, ne la chiesa la quale san Germano per adrieto aveva consecrata a' detti martiri. Racconta Pietro Damiano che in Borgogna era un cherico superbo e ambizioso, il quale s'aveva arrappata una chiesa di san Maurizio per l'aiuto d'uno molto potente cavaliere. Sì che cantandosi un die la Messa, e dicendosi ne la fine del Vangelio: "Ogn'uomo che s'esalta sarà umiliato, e chi si aumilia e' sarà esaltato", schernìo quello misero quella parola, e disse: "Falsa parola è, ché se io mi fossi aumiliato a' miei nemici, non averei oggi tante ricchezze". Ed eccoti immantinente venire una saetta folgore a modo di coltello, ed entròe ne la bocca di colui che avea dette le parole di biastemmia, e subitamente l'uccise.
cap. 137, S. GiustinaGiustina vergine de la città d'Antiochia, figliuola del sacerdote de l'idole, seggendo cotidianamente a la finestra, udìa Proclo diacono leggere il Vangelio, del quale finalmente fu convertita. La quale cosa avendo raccontata la madre al padre nel letto, ed essendo addormentati abendue, Cristo con gli angeli apparve loro, e disse: "Venite a me, darovvi il reame del cielo". I quali isvegliandosi incontanente, si fecero battezzare con la figliuola loro. Sì che Justina vergine, molestata molto da Cipriano, finalmente ella il convertìo a la fede. Copriano da sua fanciullezza era stato mago, però che in sette anni fu consecrato a' demoni dal padre e da la madre. Questi adunque servìa a l'arte de' demonii, e parea che convertisse le donne in bestie, e molte cotali maladizioni usava. Infiammato dunque in amore di Giustina vergine, diedesi ad usare in ciò l'arte de demoni per poterla avere o per sé, o per un altro ch'avea nome Acladio, il quale era simigliantemente infiammato ne l'amore di colei. Sì che chiama il demonio che vegna a lui e per lo demonio possa avere colei. Venne il demonio, e sì li disse: "Perché m'hai chiamato?" Que' rispuose: "Io amo la vergine de' galilei; potresti tu fare ch'io l'avessi e compiessi la volontà mia con lei?" E 'l dimonio disse: "Io che cacciai l'uomo di Paradiso, e feci che Caino uccise il suo fratello, e io procurai d'ucciderlo e feci uccidere da i giudei Cristo e perturbai li uomini, non potrò io fare che tu abbi una fanciulla e usila al tuo piacere? Piglia questo unguento, e spandilo intorno a la casa sua di fuori, e io sopravvegnendo, accenderò il cuore suo in amore di te, e farollati consentire". Sì che la seguente notte il demonio venne a lei, e sforzossi di movere l'animo suo ad amore non lecito. Quella sentendo ciò, accomandossi devotamente a Domenedio, e armò tutto il corpo suo col segno de la Croce tre volte. Al qual segno il diavolo fuggìo spaventato, e venne a Cipriano, e stette dinanzi da lui. Al quale Cipriano disse: "Perché non la m'hai tu menata?" E 'l demonio disse: "Io viddi in lei un segnale ch'io n'ebbi paura, e ogni mia forza mi venne meno". Sì che Cipriano lasciò stare costui, e chiamò uno più forte demonio. E 'l dimonio gli disse: "Io abbo udito il comandamento tuo, e ho veduto il non potere del compagno nostro, ma io amenderabbo e compierabbo la volontà tua; io uscirò fuori, e piagherabbo il cuore suo d'amore di lussuria, acciò che tu l'abbia al tuo piacere". Entrando dunque a lei il diavolo, sì si forzava di confortarla e d'infiammare il cuore suo ad amore non licito. E quella raccomandandosi a Domenedio divotamente, col segno de la Croce cacciò via ogne tentazione e, soffiando nel demonio, incontanente il cacciò via, e 'l demonio si partì confuso, e stette innanzi a Cipriano. Al quale Cirpiano disse: "E ove è la vergine a la quale io ti mandai?" E 'l demonio disse: "Io mi tegno vinto, e 'l come ho paura di dire, però ch'io viddi in lei un cotale segno terribile, e tosto perdetti ogni forza". Allora Cipriano si fece beffe di lui e lasciollo stare, e missesi a chiamare il principe di demoni. E quando fu venuto, disse a lui: "Che virtude è la vostra così piccola, che vi lasciate vincere a una fanciulla?" E 'l dimonio li disse: "Eccome che uscirò fuori, e conturberolla di diverse febbri, e infiammerò ardentemente in amore l'animo suo, e rispargerò tutto il corpo suo di forte ardore, e farolla diventare farnetica, e poi le mostrerrò divisate fantasie, e ne la mezzanotte la ti menerabbo". Allora il diavolo si trasfigurò in forma d'una vergine e, vegnendo a lei, sì le disse: "Ecco ch'io vegno a te perch'io ho disiderio di vivere teco in castità, ma io ti priego che tu mi debbia dire che merito noi averemo de la nostra battaglia?" E la vergine li disse: "Il merito fia molto, la fatica fia piccola". E 'l dimonio disse: "Che è quello che Demenedio comandò: "Crescete e multiplicate e riempiete la terra?" Sì che io temo, o buona compagna, che se noi permarremo in verginitade, faremo vana la parola di Dio e, come spregianti e disubbidienti, e cadremo in grave giudicio, e colà onde noi dovavamo aspettare guidardone cadremo in grave tormento". Allora si cominciò il cuore de la vergine a commuovere di rei pensieri, e infiammarsi fortemente d'ardore di carne, intanto che già levando sì si volea andare via. Allora la santa vergine per la divina grazia tornò a sé, ed intendendo chi fosse quelli che parlava con lei, armossi incontanente col segno de la Croce e, soffiando nel demonio, sì 'l colòe a modo di cera, e incontanente si sentì liberata da ogne tentazione. Dopo queste cose il diavolo si trasfigurò in forma d'uno bellissimo giovane, ed entrando ne la camera sua, missesi nel letto con lei isvergognatamente e volsela abbracciare. Quella vedendo ciò e conoscendo che era il diavolo, fecesi incontanente il segno de la santa Croce, e fecelo colare come cera. Allora il diavolo per permissione di Dio affaticandola di febbre, e uccidendo molti uomini con le sue gregge ed armenti, predicea per bocca de l'indemoniati che grande mortalità dovea venire in tutta Antiochia se Justina non consentisse in matrimonio. Per la qualcosa tutta la cittade infermata si ragunò a la porta de' parenti di Giustina, gridando che maritassono Giustina e liberassono la città da cotanto pericolo. Ma non consentendo quella per veruno modo, e annunziandole la morte per questa cosa, nel settimo anno de la mortalità ella pregò per loro, e cacciò via da loro ogne pestilenzia. Vedendo dunque il diavolo che per tutto questo non giovava nulla, sì si trasformò in forma di Justina per sozzare la fama di lei, e per ischernire Cipriano, vantandosi d'averli menata Justina. Andò dunque il diavolo in forma di Justina a Cipriano, e corse a lui, e volselo basciare quasimente come languisse del suo amore. E quegli veggendola, e credendo che fosse Justina, fu ripieno d'allegrezza, e disse a lei: "Bene sia venuta, Justina, più bella di tutte le femmine!" Sì tosto come Cipriano ebbe nominato Justina, il diavolo non poté patire d'udire quello nome, ma come fummo sparve immantanente. Sì che Cipriano vedendosi beffato rimase tristo; onde maggioremente acceso ne l'amore di colei, vegghiò lungo tempo a l'uscio di lei, e trasformandosi per arte magica talora in femmina, talora in uccello, come parea, e vegnendo cosìe mutato infino a l'uscio de la vergine, quando era là non pare femmina né uccello, ma pure Cipriano. E Acladio per arte magica così mutato in passera, quando fue volato a la finestra di Justina, sì tosto come la vergine l'ebbe veduto, none apparve che fosse passera, ma fosse Acladio. Elli cominciò ad angosciarsi molto ed a tremare, però che né fuggire potea, né saltare. Temendo dunque Justina ched e' non cadesse e crepasse, sì 'l fece collare giù per una scala, ammonendolo ched e' si rimanesse de la sua mattezza, acciò che secondo le leggi non fosse punito come malfattore. Sì che il diavolo essendo vinto per tutto, tornò a Cirpiano e stette confuso dinanzi da lui. E quelli li disse: "Or se' tu vinto? Or che virtude è la vostra, miseri, che non potete vincere una fanciulla, né avere potenzia inverso di lei, ma ella per contra vince voi, e abbattevi così miserabilemente? Ma io ti scongiuro che tu mi dica in che sta la grande vertude sua". E 'l dimonio disse: "Se tu mi giurerai di non mai partirti da me, io ti manifesterò la virtù de la vittoria di colei". E Cripriano disse: "Per cui vuoli ch'io il ti giuro?" Disse il demonio: "Giuralomi per le virtudi mie grandi, che tu non ti partirai giammai da me". E Cipriano disse: "Io ti giuro per le virtudi tue grandi, che giammai non mi partirò da te". Allora il diavolo quasi sicuro di lui, sì li disse: "Quella fanciulla sì si fece il segno del Crucifisso, ed io partii incontanente, e perdetti ogni mia virtude; e come fa le cera dinanzi dal fuoco, così venni meno". E Cipriano disse: "Dunque il Crucifisso è maggiore di te?" Disse il dimonio: "Certo sì ch'egli è maggiore di tutti; e noi e tutti quelli che inganniamo qui la gente, metterà ad essere tormentati nel fuoco da mai non espegnere". E Cipriano disse: "Dunque voglio io diventare amico del Crucifisso, acciò ch'io non caggia mai in tanta pena". E 'l diavolo gli disse: "Tu m'hai giurato per le virtù del mio esercito che mai non ti partirai da me, per le quali virtù neuna persona si può spergiurare". E Cipriano disse: "Io spregio te e tutte le tue virtudi affumicati, e rinunzio te e tutte le tue virtudi e le tue demonia, e armomi del salutevole segno del Crucifisso". E incontanente il diavolo si partì confuso e vinto da lui. Allora Cipriano se n'andò al vescovo. Veggendolo il vescovo, e credendo che fosse venuto per mettere li cristiani in errore, sì li disse: "Bastinti quelli che sono di fuori; non potrai niente contra la Chiesa di Dio, però che la vertù di Cristo non si può vincere". E Cipriano disse: "Sono sicuro che la virtù di Cristo non si può vincere". Sì che Cipriano narrò al vescovo tutto quello che gli era intervenuto, e fecesi battezzare da lui; e poi megliorandosi in iscienzia come in vita, morto il vescovo, fu fatto vescovo egli, e puose quella vergine Justina in monasterio, e fecela quivi badessa sopra molte sante vergini. E mandava san Cipriano le pistole spesse volte a' martiri, e confortavagli ne la battaglia. Ma il conte di quella contrada udendo la fama di Cirpiano e Justina, sì li si fece appresentare innanzi, e richieseli se volessono sacrificare. I quali stando fermi ne la fede di Cristo, comandò che fossero messi in una caldaia piena di pece e di cera e di sugna, la quale diede loro grandissimo rifrigero, né non fece loro veruno tormento. E 'l prete de l'idole disse al prefetto: "Comanda ch'io stea dinanzi a la caldaia, e incontanente vincerabbo tutta la loro vertude". Essendo dunque venuto presso a la caldaia, sì disse: "Grande se è il Domenedio Ercules, e 'l padre de li Dei Jupiter!" Ed eccoti incontanente uscire il fuoco, e al tutto il consumòe. Allora Cipriano e Justina furono tratti de la caldaia e, data la sentenzia, furono dicollati ambedue. Ed essendo lasciate le corpora loro a i cani per sei dì, furono portate poi a Roma; ma ora si riposano ne la città di Patera. E furono martirizzati VII dì uscente settembre, ne gli anni Domini CCLXXX sotto Diocleziano.
cap. 138, Ss. Cosma e DamianoCosma e Damiano, fratelli carnali, furono nati ne la città d'Egea di religiosa madre, ch'avea nome Teodota. Questi ammaestrati ne l'arte de la medicina, tanta grazia ebbero da lo Spirito Santo, che tutte le 'nfertadi cacciavano non solamente da gli uomini, ma eziandio da le bestie, faccendo tutto in dono. Una donna ch'avea nome Palladia, avendo consumato tutto in medicine, vennesene a i santi di Dio, e ricevette santade da loro pienamente. Allora quella mandò un presente a san Damiano, e quelli non volendolo togliere, ella lo scongiuròe con sagramenti terribili che 'l dovesse togliere. E così quelli il tolse non per amore del dono, ma per la devozione del donante, e perché non paresse che avesse a schifo il nome del Signore per lo quale egli si vedea così scongiurare. La qualcosa quando san Cosma ebbe inteso, comandò che 'l corpo di colui non fosse insieme riposto col suo; ma la seguente notte apparve il Signore a san Cosma, e scusòe lo fratello del dono che avea ricevuto. Udendo la fama loro il proconsolo Lisia, sì li si fece venire innanzi, ed incominciogli ad adomandare de' loro nomi e del paese e de la ventura loro. I santi dissero: "I nomi nostri sono Cosma e Damiano, ed altri tre fratelli abbiamo, c'hanno nome Antimo, Leonzio, Euprepio; il nostro paese sì è Arabia; da l'altra parte, ventura non sanno i cristiani che si sia". Sì che il proconsolo comandò che e' menassero i fratelli loro, e simigliantemente sacrificassero a l'idole; ma non volendo al postutto sacrificare, comandò che fossero duramente tormentati ne le mani e ne' piedi. E faccendo i santi schernie de' suoi tormenti, comandò che fossero legati con una catena e gittati in mare; ma tosto furono da l'angelo liberati del mare e poi menati dinanzi al preside. I quali il preside considerando, sì disse: "Per li dei grandi vincete con le malie, però che voi spregiati i tormenti e acquetate il mare. Insegnate dunque a me queste cose, ed io vi seguiterò nel nome del mio Iddio Adriano". Detta questa parola vennero tosto due demoni, e batterollo entro la faccia. Quegli gridò e disse: "Io vi priego, buoni uomini, che voi oriate per me al Domenedio vostro". E orando i santi, li demoni sì si partirono. E 'l preside disse: "Or vedete come gli dei miei sono indegnati contra di me, perch'io pensava d'abbandonarli; già dunque non sosterrò io che voi biastemmiate gli dei miei". Allora comandò che fossero gittati in uno grande fuoco; ma non fece loro male veruno, anzi saltòe la fiamma fuori e uccise molti di quelli ch'erano presenti. Furono dunque fatti mettere al tormento, ma guardandoli l'angelo, affaticati molti i servigiali nel tormentare, furono posti giù i santi sanza verun male dinanzi al preside. Sì che il preside fece i tre fratelli mettere in carcere, e Cosma e Damiano fece crucifiggere e lapidare al popolo, ma le pietre tornavano tutte sopra coloro che le gittavano e fedianne molti. Allora il preside ripieno di furore, fece trarre di pregione gli altre tre fratelli, e stare a lato a la Croci, e comandò che Cosma e Damiano, stando in su le croci, fossero saettati da quattro cavalieri; ma le saette tornavano tutte adrieto, e fedienne molti, ma a' santi non faceano male veruno. Vedendosi dunque il preside in tutto confuso e angosciato infino a la morte, tutti e cinque fratelli fece insieme dicollare. E ricordandosi li cristiani de la parola che santo Cosma avea detta, che non fossero seppelliti insieme, pensavano in che modo o in che luogo i santi martiri volessono essere seppelliti, ed eccoti subitamente venire uno cammello e, gridando con boce d'uomo, comandò che i santi fossero seppelliti in uno luogo. Martirizzati furono intorno a gli anni Domini CCLXXXVII sotto lo 'mperio di Diocliziano. Uno villano standosi nel campo dopo la fatica de la mietitura e dormendo a bocca aperta, un serpente gli entrò nel ventre. E isvegliandosi costui e non sentendo nulla, tornò a casa. Venuta la sera sentissi gravissimamente dolorare, sì che mandava grandi strida, e chiamava san Cosma e Damiano in suo aiuto. Ma crescendo sempre ancora il dolore, ricorse a la chiesa di questi santi, e, dormendovi lui subitamente, come il serpente gli era entrato per la bocca, così n'uscìo. Uno uomo volendo andare a lungi, raccomandò la moglie a san Cosma e Damiano, dandole alcuno segno al quale incontanente dovesse assentire, eziandio se per alcuno la chiamasse a sé. Sappiendo poi il diavolo il segno che 'l marito l'avea dato, sì si trasfigurò in uno uomo, e mostrando a la moglie il segnale del marito, sì le disse: "Il marito tuo m'ha mandato da quella cittade, che io ti meni a lui". Sì che quella avendo ancora paura d'andare, sì li disse: "Io conosco bene il segno, ma però ch'io sono accomandata a santo Cosmè e Damiano, giura sopra l'altare loro, che tu mi menerai sicura, e così verrò teco". Colui giurò incontanente come quella domandòe, sì che andò sicuramente con lui. Ed essendo venuti ad un luogo segreto, il diavolo la volse far cadere a terra de la bestia per ucciderla. Ma quella sentendo ciò, cominciò a gridare e disse: "O Iddio di san Cosmè e Damiano aiutami! Io credetti a voi, e tennemi dietro a costui". Incontanente v'apparirono con moltitudine d'imbiaccati e liberarla, e 'l diavolo sparve incontanente, e dissero a lei: "Noi siamo Cosma e Damiano, al cui giuramento tu credesti, e però ci affrettammo di venirti in aiuto". Felice papa, bisarcavolo di san Gregorio papa, fece fare una nobile chiesa ad onore di santo Cosmè e Damiano in Roma. In questa chiesa servìa a' santi uno uomo al quale era già consumata tutta la gamba per lo male del granchio. Ed eccoti dormendo lui, i santi gli apparvero come a uno loro divoto, e portarono seco unguenti e ferramenti; e diceva l'uno a l'altro: "Onde torremo noi buone carni, per rimettere nel luogo voito, onde noi trarremo la puzzolente?" Allora disse l'altro: "Nel cimiterio di san Piero ad Vincola è seppellito oggi di fresco uno saracino; va, recane di colui per riempiere il luogo". E così andò a quello cimiterio, e reconne la coscia di quello saracino e, tagliando la coscia de lo 'nfermo, innestarono la coscia di quello saracino nel detto luogo e, ugnendo la piaga, diligentemente riportarono la coscia de lo 'nfermo al corpo del saracino morto. Quando colui si svegliò dal sonno, sentendosi sanza dolore, puose la mano a la coscia, e non vi trovò male veruno, e alluminandovi con la candela e non vedendo male veruno ne la gamba, pensava sed elli fosse quel medesimo che era, o se fosse altri. E tornando a se medesimo, per la letizia saltò fuori del letto, e narrò a tutti quello che avea veduto in sonno, e come era stato sanato. E mandarono tosto a lo avello del saracino, e trovarne levata la coscia sua, e riposta in quello luogo la coscia inferma di colui.
cap. 139, S. ForeseoForeseo vescovo, la cui storia si crede che Beda scrivesse, essendo splendiente d'ogne vertude e bontade, quando fu venuto a l'ultima ora, passò di questo mondo. E vide due angeli venire e portarne l'anima sua, e un altro terzo ne vidde andare innanzi a sé, armato con uno scudo bianco e con uno coltello di folgore; [ms.: di solfo] poscia udìo gridare le demonia e dire: "Andiamli innanzi, e moviamo battaglie contra di lui". Ed essendosi messi loro innanzi, rivolgeansi e gittavano saette di fuoco contra lui, ma l'angelo che gli andava innanzi sì le ricevea entro lo scudo e spegnevale incontanente. Allora i demoni appuosero a gli angeli, e dissero: "Costui disse spesso parole oziose, e però non ne dee andare così impunito in vita beata". E l'angelo rispuose loro: "Se voi non apporrete contra lui i principali vizii, per li minimi non periràe". E 'l diavolo disse: "Se Domenedio è giusto, questo uomo non si salverà; però che la Scrittura dice: "Se voi non vi convertirete come pargoli, non interrete nel reame del cielo". E l'angiolo scusandolo, disse al demonio: "Egli ebbe l'umiltade nel cuore, ma tenne l'usanza di fuori de la sua gente". E 'l dimonio disse: "Secondamente ch'elli fece il male per usanza, così ne riceva la vendetta dal giudice disopra". E l'angelo disse: "Siamo al giudicio dinanzi da Dio". Combattendo dunque l'angelo furo contriti gli avversari. Allora disse il demonio: "Il servo che sa il voler del signore suo e non l'adopera, sarà battuto di molte piaghe". E l'angelo gli disse: "Qual cosa non adempiéo costui del volere del signore suo?" E 'l demonio disse: "Ricevette i doni de' rei uomini". E l'angelo li disse: "Elli credette che catuno di loro avesse fatto penitenzia". E 'l demonio disse: "Prima dovea elli provare la perseveranza de la penitenzia, e così ricevere i frutti". L'angelo rispuose: "Sianne el giudicio dinanzi da Dio". Ma il demonio fu vinto. Ancora si levò a combattere e disse: "Infino ad ora credavamo noi che Dio fosse verace, perché ogne peccato che non si purga promisse di punirlo eternalmente, sì che questo uomo ricevette una vesta d'uno usuraio e non è stato punito; dunque dov'è la giustizia di Dio?" E l'angelo gli disse: "State cheti che voi non conoscete gli occulti giudici di Dio; però che per quanto tempo s'hae speranza di pentere, tanto accompagna l'uomo la misericordia di Dio". E 'l demonio disse: "Non è qui luogo di pentimento". E l'angelo disse: "Voi non sapete nulla de la profondità de' giudicii di Dio". Allora il diavolo il percosse sì gravemente che poi, ritornato a vita, sempre ritenne la 'nsegna di quella percossura. E questa percossa permisse Iddio dare a colui per questa vesta che ricevette. Ma l'altro demonio disse: "Ancora li rimane una stretta porta, per la quale noi vinceremo: ama il prossimo tuo come te medesimo". E l'angelo gli disse: "Questo uomo hae adoperato beni inverso prossimi". Disse il diavolo: "Non basta questo, sed elli non l'ama come sé". E l'angelo li disse: "Il frutto de l'amore si è adoperare bene, però che Domenedio rende a ciascuno secondo l'opere sue". E 'l diavolo disse: "Ma perch' elli non ha adempiuta la parola de l'amore, sì è da essere dannato". Sì che combattendo la turba maladetta, i santi angeli rimasono vincitori. Disse ancora il demonio: "Se Domenedio non è malvagio e 'l trapassamento de la sua parola li dispiace, questo uomo non camperà netto de le pene; però che promisse di rinunziare al secolo, ma elli per contradio hae amato il secolo contro a quello che dice la scrittura: "Non amate il mondo, né quelle cose che sono nel mondo". E l'angelo li disse: "Elli non amòe a sé le cose che sono di questo mondo, ma amolle di dispensare a le persone bisognose". E 'l diavolo disse: "In cheunque modo elle sono amate, è contra 'l comandamento di Dio". Sì che vinto in ciò l'avversario diavolo, diè di mano a scaltrite accuse, e disse così: "Egli è scritto: "Se tu non annunzierai al malvagio la malvagità sua, io richiederò il sangue suo di tua mano; ma costui non annunziò degnamente la penitenzia a coloro che peccano". E l'angelo li disse: "Quando gli uditori ispregiano la parola di Dio, la lingua del predicatore s'impedisce, quando vede che la predicazione udita è spregiata; onde il savio: Quando non è tempo da sapere, sì è da tacere". Ma in tutta la contradizione de' demoni fue una forte battaglia infino a tanto che per sentenzia del Signore vincenti gli angeli e soperchiati gli avversari, da grande chiaritade fue attorneato l'uomo di Dio. Allora disse a lui un de gli angeli, sì come dice Beda: "Ragguarda il mondo". E quegli ragguardando, vidde una valle tenebrosa e quattro fuochi in aria dilungi alquanto l'uno da l'altro. E l'angelo li disse: "Questi sono quattro fuochi che ardono il mondo. L'uno è il fuoco de la bugia, quando quello che gli uomini hanno promesso di rinunziare al diavolo e a tutte le pompe sue nel battesimo non lo servono. Il secondo fuoco è quello de l'avarizia, quando le ricchezze del mondo si mettono innanzi a l'amore de le cose celestiali. Il terzo fuoco si è quello de la discordia, quando non temono d'offendere gli animi de' prossimi ne le cose sopravane. Il quarto fuoco si è quello de l'empiezza, quando coloro che sono più deboli hanno per neente di spogliarli e d'ingannarli". Poscia quelli fuochi s'approssimano insieme, e tornarono in uno, e appressimavansi a lui. E quelli temendo disse a l'angelo: "Messere, il fuoco s'appressa inverso di me". E l'angelo disse: "Quello che tu non accendesti, non arderà in te, però che questo fuoco disamina secondo i meriti di ciascuno l'opere loro; che sì come il corpo arde per diletto non licito, così arderà per debita pena". Finalmente l'uomo fu rimenato al propio corpo, piagnendolo i parenti, che lo stimavano per morto. E quelli sopravvisse poi alquanto tempo e finìo la vita sua laudabilemente in buone operazioni.
cap. 140, S. MicheleMichele è interpretato: chi è come Dio, e per quante volte, come dice san Gregorio, quando alcuna cosa si fa da maravigliosa vertude, dicesi che Michele vi si mette, acciò che per quella operazione e per lo nome sia dato a 'ntendere che neuno puote fare quello che può fare esso Dio; e per ciò ad esso Michele sono attribuite quelle cose che soni di maravigliosa vertude. Imperò ched elli, sì come afferma Daniel, nel tempo d'Anticristo si leverà e, come difensore, starà per combattitore per gli eletti. Egli combattéo col dragone e con gli angeli suoi, e cacciollo di cielo con esso i suoi, e fece grande vettoria. Egli contese col diavolo del corpo di Moisé, di ciò che 'l diavolo volea manifestare il corpo suo perché gli giudei l'adorassono per Domenedio. Egli ricevé l'anime de' santi, e menallene nel paradiso d'allegrezza; egli fu anticamente prencipe de la sinagoga de' giudei, ma ora è prencipe de la chiesa de' cristiani. Di lui si dice ched elli diede le piaghe a quelli d'Egitto, e divise il mare rosso, e menòe il popolo per lo diserto, e misselo in terra di promessione. Egli è gonfaloniere tra le schiere de gli angeli; egli al comandamento di Cristo ucciderà Anticristo potentemente, stando lui nel monte Uliveto. Ancora a la voce di questo arcangelo Michele li morti si rileveranno; egli nel dì del giudicio appresenterà la Croce, e ' chiavelli e la lancia, e la corona de le spine, e le ferze. La santa solennitade de l'arcangelo san Nichele sì è detta apparizione, vettoria, sagra e memoria. L'apparizione sua è in molte guise. La prima si è come apparve nel monte Gargano. In Puglia si ha un monte che si dice Gargano presso a la città che si chiama Siponto. Sì che ne gli anni Domini CCCXC avea in Siponto uno uomo ch'avea nome Gargano, dal quale il detto monte avea preso il nome, ovvero, secondo alcuni libri, elli avea preso il nome da quello monte; il quale uomo possedea infinita moltitudine di pecore e di buoi. E con ciò sia cosa che le gregge passassero intorno a le latora del detto monte, intervenne che un toro lasciò stare gli altri, e salìo in su la vetta di quello monte. Non essendo dunque tornato a casa da che li altri tornavano, il signore suo raccolse la moltitudine de' servigiali, e ricercandolo per fuori di vie, sì lo ritrovò ne la vetta del monte a lato a l'uscio d'una spelonca. Sì che mosso ad ira perché 'l vedea così andare vagando, solo misse mano a saettarli una saetta avvelenata, ma incontanente la saetta, come fosse ritorta dal vento, rimbalzò e percosse colui che l'avea mandata. Conturbati sopra ciò li cittadini, vannosene al vescovo e richeggiolo sopra sì maraviglioso fatto; e quegli impuose loro a digiunare tre dì, e ammaestrolli che ne domandassero consiglio da Dio. Allora venne una boce e disse: "Sappiate che quello uomo è stato così percosso da la sua saetta per mio volere, però ch'io sono Michele arcangelo, il quale m'ho tolto ad abitare in questo luogo in terra, e di guardarlo sicuro, e questo ho voluto provare per dimostramento che io sono ragguardatore e guardiano del detto luogo". Allora incontanente il vescovo e' cittadini andarono a quello luogo con processione grande, e non essendo arditi d'entrarvi dentro, istavansi in orazione dinanzi a l'uscio. La seconda apparizione è quella che si dice che venne intorno a gli anni Domini DCCX, in luogo che si dice la Tomba, presso al mare, dilungi sei miglia da Benevento. San Michele apparve al vescovo de la detta cittade, e comandolli che v'ordinasse una chiesa nel detto luogo e, secondamente che si fa nel monte Gargano, così si facesse in memoria di lui. E 'l vescovo dubitando del luogo dove dovesse ordinare la chiesa, fue ammaestrato da lui che la facesse colà dove trovasse un toro appiattato da' ladroni; e dubitando ancora de la larghezza del luogo, comandolli che prendesse il modo in ampiezza de la statura, tanto quanto vedesse che 'l toro avesse iscalpitato co' piedi in giro. Or v'avea due grandi sassi, i quali per vertù d'uomo in veruno modo si poteano muovere quindi. Allora san Michele apparve a uno uomo e comandolli che andasse al detto luogo e movesse quelli grandi sassi. Quelli andò, e mosse sì leggermente quelli sassi, che non parea che avessero peso veruno. Sì ch' edificata quivi la chiesa, recaronvi dal monte Gargano parte del panno che san Michele avea posto in su l'altare, e parte del marmo sopra il quale era stato. Ed avendo quindi grande povertà d'acqua, per ammonizione de l'angelo fecero una fossa in uno sasso, e tanta abbondanza n'uscìo incontanente che infino ad ora ne sono per suo beneficio sostentati d'acqua abbondevolemente. E di questa apparizione si fa solenne festa nel detto luogo, XVIentrante ottobre. Nel detto luogo si dice che venne un grande miracolo degno di ricordanza. Ché quello monte sì è attorniato tutto dal mare maggiore, ma due volte il dì di san Michel s'apre per dare via al popolo. Andando dunque la grande gente a la chiesa, intervenne che una femmina gravida e prossimana al parto andò insieme con loro; ed eccoti con grande romore ritornare l'acqua, e tutta la gente commossa di paura fuggirono a la riva; ma sola la femmina pregna non poté fuggire, ma fu presa da l'onde del mare. E san Michele arcangiolo la guardò sanza danno, sì che nel mezzo del pelago partorìo il figliuolo e, ricevendolo in braccio, sì l'allattòe, e dandole via il mare, sì n'uscì fuori lieta. La terza apparizione è quella che si legge che avvenne a Roma al tempo di san Gregorio papa. Ché faccendo la processione con le Letane maggiori il detto san Gregorio per la pistolenza de l'anguinaia, e pregando divotamente per lo popolo, vidde sopra il castello, che si chiamava per adrieto Memoria Adriani, l'angelo di Dio che forbìa una spada insanguinata e rimetteala ne la guaina. Onde san Gregorio, intendendo per questo che i suoi prieghi erano esauditi da Dio, sì fece quiviritta una chiesa ad onore de gli angioli; onde quello castello insino al dì d'oggi si chiama castello Santangiolo. E questa apparizione, con l'altra che li apparve nel monte Gargano e con quella di Siponto che diede vittoria, sì se ne fa festa VIII dì di maggio. La quarta apparizione si è quella che permane ne le gerarchie di quelli angeli; ché la prima gerarchia è detta apparizione disopra, la mezzana apparizione di mezzo, quella disotto apparizione disotto. E ciascuna gerarchia contiene tre ordini; quella disopra contiene Serafini, Cherubini e Troni; quella di mezzo, secondo Dionisio, contiene le Dominazioni e le Vertudi e le Podestadi; l'ultima, secondo ch'assegna quello medesimo, contiene i Principati e gli Arcangeli e gli Angeli. E l'ordinamento e la disposizione di costoro si può vedere per simiglianza ne li signori del mondo; però che i ministri che sono sotto il re, alcuni adoperano sanza mezzo intorno a la persona del re, come sono camerieri, consiglieri e assensori. A costoro sono assimigliati gli angeli de la prima gerarchia. Alcuni hanno officii a reggere tutto il reame in comune, non diputati a questa provincia o a quella, come sono li signori de la corte del re, baroni, cavalieri e giudici de la corte. A costoro sono simiglianti gli angeli de la gerarchia di mezzo. Alcuni sono soprapposti a reggere alcuna parte del reame, come sono proposti, balii e cotali minori ufficiali. E a costoro sono simiglianti li angeli de la gerarchia disotto. Sì che in tre ordini de la gerarchia disopra sì si prendono secondo ciò che sempre stanno dinanzi da Dio, e a lui si convertiscono. E a queste tre cose sono necessarie, cioè: sommo amore, appresso 'l quale si piglia l'ordine de' Serafini, i quali sono interpretati plenitudine di scienzia; perpetuale comprendimento, ovvero usamento, appresso del quale si piglia l'ordine de' Troni, che sono detti sedie, però che in essi siede Iddio e riposavisi, mentre che loro fa riposare in se medesimo. E li tre ordini de la gerarchia di mezzo sì si prendono in quanto hanno a soprastare e reggere l'università de gli uomini in comune. E questo reggimento sta in tre cose: primieramente in soprastare, ovvero comandare; questo s'appartiene a le Dominazioni, a le quali s'appartiene di soprastare a tutti quelli disotto, e di rizzarli in tutt'i ministerii divini, e comandare a colore tutte le cose; la qualcosa si mostra in Zaccaria V capitolo, dove dice che uno angelo comandò a un altro: "Corri tosto e parla a questo garzone, e dira'li così e così". Secondariamente in operare, e questo s'appartiene a l'ordine de le Virtudi, a li quali niuna cosa è loro impossibile mandare ad esecuzione, che sia loro comandata, però che a loro è dato da potere sopra tutte le cose malagevoli che si appartengono al misterio di Dio; e però è attribuito a coloro di fare miracoli. Nel terzo luogo in costrignere, cioè che quelle cose che deano briga o impedimento sì siano costrette, e questo s'appartiene a le Podestadi, a le quali s'appartiene di costrignere le contradie Podestadi; la qualcosa fu significata in Tobia VIII capitolo, dove dice che Raffael rilegòe il demonio nel diserto de l'Egitto disopra. E li tre ordini de la gerarchia disotto sì si pigliano secondo che hanno raggimento determinato e limitato. Ché alcuni di loro soprastanno ad una provincia; e questi sono de l'ordine de' Principati, sì come era il prencipe di Persia che soprastava a la provincia di Persia, come si legge in Daniel, decimo capitolo. Alcuni sono diputati al reggimento di moltitudine, sì come d'una città, e questi sono detti Arcangeli. Ed alcuni sono diputati a reggere singulari persone, e questi sono detti Angeli. Onde si dice che annunziano maggiore cose, però che 'l bene de la moltitudine è più nobile che 'l bene d'uno uomo. Ma ne l'assegnamento de gli ordini de la prima gerarchia, san Gregorio e san Bernardo se n'accordano con san Dionisio, però che si piglia appresso il loro godimento, il quale stae nel fervente amore quanto a i Serafini, nel profondo conoscimento quanto a' Cherubini, nel perpetuale ritenimento quanto a' Troni. Ma nel dire che fanno de la mezzana e de l'ultima gerarchia, pare che si scordino in due ordini, cioè nel Principato e ne la Virtude. Ma san Gregorio e san Bernardo altra condizione ebbero, cioè secondamente che la gerarchia di mezzo si prende appresso la prelazione ultima e appresso la ministragione. La prelazione ne li Angeli si è in tre modi, però che angeli soprastanno a li spiriti angelici, e questi sono chiamati Dominazioni; soprastanno ancora a gli uomini buoni, e questi sono detti Principati; e soprastanno a' demoni, e questi sono detti Podestati. E l'ordine e 'l grado de le dignitadi si manifesta in queste cose. Il loro misterio è in tre modi; alcuno è in operare, alcuno in ammaestrare, e in ammaestrare o sono cose maggiori, ovvero minori. Il primo è de le Virtudi, il secondo è de li Arcangeli, e 'l terzo è de gli angeli. La quinta apparizione è quella de la quale si legge ne la Storia Tripertita, che presso a Costantinopoli è uno luogo dove si solea fare riverenza a la dea Vesta, ma ora v'è fatta una chiesa ad onore di san Michele; il quale luogo è anche chiamato Michelio. Essendo dunque uno uomo, ch'avea nome Aquilino, gravato da ardentissima febbre mossa da colori vermigli, a costui diedero i medici un beveraggio, stando in grande ardore; lo quale beveraggio lo 'nfermo non ritenne, intanto che tutto ciò che mangiava e bevea poscia non ritenea nulla. Approssimato dunque a la morte, fecesi menare a questo luogo, credendosi quiviritto o morire o scampare. Al quale san Michele apparve, e sì li disse che si facesse un beveraggio confezionato di mèle e di vino e di pepe, e ogne cosa da manicare v'intignesse entro, e in questo modo riceverebbe santade perfettamente. Quegli quando ebbe ciò fatto, fue liberato pienamente, con ciò sia cosa impertanto che, secondo ragione di medicina, pare che sia cosa contraria a dare beveraggi caldi a' collerici. Questo è ne la Storia Tripertita. Nel secondo luogo è detta questa festa vettoria. E trovasi in molte maniere vittoria di san Michele agnolo, e de gli altri angeli. La prima si è quella che fece a i Sipontini in questo modo che, poco tempo dopo il trovamento di quello luogo, i napoletani essendo ancora pagani, ordinarono una oste e cominciarono a combattere contra a' Sipontini e ' Beneventani, che sono dilungi da Siponto cinquanta miglia. I quali per consiglio del vescovo domandarono tre dì d'indugio, acciò che digiunassero que' tre dì, e chiamassero in loro aiuto il loro padrone san Michele arcagnolo. La terza notte apparve san Michele al vescovo, e disse che i preghieri erano esauditi, e promisse che avrebbero vettoria, e comandò che ne la quarta ora del die dovessero andare contra nemici. E andando loro incontra, il monte Gargano si commosse da gran triemito, saette folgore volavano spesso, e una tenebrosa scurità comprese la sommità di tutto il monte in tale modo, che secento uomini morirono de' nemici tra di ferro e di saette di fuoco, e li rimanenti veggendo la vertude e la possanza de l'arcangelo, abbandonarono l'errore de l'idolatria, e sottomissero i colli loro a la fede di Cristo. La seconda vettoria è quella che san Michele ebbe quando cacciò di cielo il dragone Lucifero con tutt'i suoi seguaci. Del quale cacciamento si spiana quello ch'è scritto ne l'Apocalissi: "Fatta è grande battaglia in cielo; Michele e gli angeli suoi combatteano col dragone, e 'l dragone combatteano a gli angioli suoi, e non ebbero valore, né fu trovato da indi innanzi il loro luogo in cielo". Ché disiderando Lucifero essere iguale a Dio, l'arcangelo Michele, gonfaloniere de l'oste celestiale, si mosse incontanente, e cacciò via quello Lucifero con tutti i suoi seguaci, e rinchiusegli infino la die del giudicio in quest'aere tenebroso. Non furon lasciati stare in cielo, ovvero ne la parte disopra de l'aere, perch'egli è luogo chiaro e dilettevole; né furono lasciati stare in terra tra noi, acciò che non ci molestassero troppo; ma ne l'aere tra 'l cielo e la terra, acciò che pognendo mente in suso e veggendo la gloria c'hanno perduta, sì se ne dogliano; e pognendo mente in giuso, e veggendo gli uomini salire là suso, là ond' ellino sono caduti, sì n'abbiano grande tormento d'invidia. Ma bene scendono spesse volte per dispensazione di Dio a nostro esercizio, onde secondamente ch'è mostrato ad alcuni santi uomini, spesse volte volano appresso di noi come le mosche. Però che sono sanza novero quasi e come mosche, riempiettoro tutta l'aere, onde dice Haimo: "Sì come i filosofi dissero, e' nostri dottori ne sono in quella openione che questa aere è così piena di demoni come el razzo del sole è pieno di minutissimi polverelli". E avvegnadio che siano tanti, secondo la sentenzia d'Origene, la loro congregazione menimiamo quando noi gli vinciamo, in tal maniera che chi è vinto d'alcuno santo uomo, da indi innanzi non può più tentare di quello vizio del quale elli è vinto. La terza vettoria è quella che gli angeli hanno continuamente de le demonia, e spezialmente san Michele, quando combattono cotidianamente per noi contra di loro, e diliberanci da la loro tentazione. E questo fanno in tre modi. L'uno modo si è di raffrenando la podestà del demonio, com'è scritto ne l'Apocalisso, ventesimo capitolo, de l'angelo che legòe il demonio, e mandollo in abisso, e nel Tobia, VIII capitolo, del diavolo rilegato nel diserto disopra. Però che questo cotale rilegamento non è altro che raffrenamento de la sua podestà. Il secondo modo si è rifrigerando la concupiscenzia; e questo è significato nel Genesis nel XXXII capitolo, là dove si dice che l'angelo toccòe il nerbo del costato di Jacob, e incontanente infracidòe. Il terzo modo si è mettendo ne li nostri cuori la memoria de la passione di Cristo; e ciò è significato ne l'Apocalisso nel VII capitolo, dove si dice che l'angelo disse: "Non vogliate nuocere a la terra, né al mare, né a gli albori, infino a tanto che noi segnamo i servi del nostro Dio ne le fronti loro". Anche dice l'Ezechiel nel IX capitolo: "Fa il segnale del Tau sopra le fronti de gli uomini che piangono". Tau si è una lettera fatta a modo di croce, de la quale coloro che non sono segnati non temono l'angelo percossente. Onde in quello libro è scritto: "Sopra chiunque voi vedrete il Tau, non l'uccidete". La quarta vittoria è quella che san Michele avrà d'Anticristo, quando l'ucciderà. "Allora, come dice il Daniel nel XII capitolo, Michele, principe grande, si leverà per gli eletti, e sì come combattitore e difensore starà fortemente contra Anticristo". Poscia Anticristo, - come dice la Chiosa de l'Apocalisso nel XII capitolo, sopra quella parola che dice: "Viddi uno de' capi suoi morto" - elli s'infignerà per morto, nascondendosi tre dì, poscia apparirà dicendose risucitato da morte, e monterà in aere, portandolo le demonia con l'arte magica e, maravigliandosi tutti, sì l'adoreranno. A la perfine saliendo nel monte d'Oliveto, come dice san Paolo ne la seconda Pistola a' Tessalonicesi, nel secondo capitolo che "Dio l'ucciderà con lo spirito de la bocca sua", dice la Chiosa sopra quella parola, che stando lui nel padiglione e ne la sedia sua, in quel luogo contra 'l quale Cristo salette in cielo, verrà san Michele e ucciderallo. De la quale battaglia con vettoria, secondo il detto di san Gregorio si pone quella parola de l'Apocalisso: "Fatta è la battaglia grande in cielo". E spónesi questa parola di tre maniere: battaglia di san Michele, cioè de la battaglia ch'ebbe con Lucifero quando il cacciò di cielo; e de la battaglia continua che ha con le demonia che ci molestano; e de la battaglia di cui qui si tratta che avrà con Anticristo a la fine del mondo. Nel terzo luogo questa solennità è detta sagra, in ciò che questo die rivelato fue da l'arcangelo Michele, che 'l detto luogo nel monte Gargano era sagrato da lui. Però che ritornando quegli di Siponto de la battaglia de li avversari, e avuta così magnifica vittoria, cominciaro ancora a dubitare se dovessono entrare nel detto luogo o sagrarlo. Allora il vescovo ordinò che se n'avesse consiglio dal Papa sopra queste cose, ed era a quel tempo papa Pelagio. E' mandò così rispondendo: "Se uomo dee sagrare quella cotale chiesa, vorrebbesi fare in questo grande die che s'ebbe la vettoria, ovver che, se piace altrementi a l'arcangelo san Michele, da richiederne è da colui il suo volere sopra ciò". Stando dunque il papa e 'l vescovo con li cittadini in digiuno tre dì, san Michele apparve il terzo dì al vescovo, e sì li disse: "Non vi fa mestiere di sagrare a voi la chiesa, la quale io abbo edificata, però che io, che la mi feci, sì la mi sagrai io stesso". E comandolli che 'l seguente die entri in quel luogo col popolo, e visitilo spesso con preghieri, e sentissenlo per loro speziale padrone; e diedeli il segnale de la detta consegrazione, cioè che salissono da la parte d'oriente per la postierla, e ivi troverrebboro le pedate d'uomo fatte in sul marmo. Sì che la mattina venne il vescovo e tutto il popolo al luogo, ed entrandovi dentro la gran volta trovaronvi tre altari, i due de' quali erano posti ne la parte d'aquilone, e il terzo ne la parte d'oriente, coperto intorno intorno d'un drappo onorevole e vermiglio. Cantata dunque ivi la Messa solennemente, e comunicatosi ciascuno, tornarono tutti a casa loro con grande allegrezza, e 'l vescovo vi lasciò preti e cherici che vi facessono continuamente l'ufficio di Dio. E ne la detta spelonca rampolla un'acqua chiara e molto dolce, de la quale bee il popolo dopo la comunione, e diverse infermitadi ne sono guerite. Allora messere lo Papa udendo queste cose, ordinò che si guardasse questo dì ad onore di san Michele e di tutti gli angeli, universalmente per tutto il mondo. Nel quarto luogo questa solennità è detta memoria san Michele, però che in questa solennità noi facciamo memoria di tutti gli angeli, massimamente del beatissimo san Michele, e tutti gli onoriamo come noi potemo. E conviensi a noi di fare loro onore per molte ragioni: e di lodarli, però che sono nostri guardiani; e di lodarli, però che sono nostri servidori, e nostri fratelli, e insieme cittadini portatori de le nostre anime in cielo, e rappresentatori de le nostre orazioni appo Dio, nobilissimi cavalieri del re eternale e consolatori de' tribulanti. Dobbiamli dunque primieramente onorare perché sono nostre guardie. A ciascheduno uomo sono dati due angeli, uno angiolo rio ad esercitarlo, e uno buono a guardarlo. La guardia del buono angiolo è diputata a l'uomo incontanente e nel nascere e nel ventre e ne l'uscire del ventre, e sempre è con l'uomo già cresciuto. Però che in questi tre stati è necessaria a l'uomo la guardia de l'angelo: mentre ch'egli è piccolino stando ancora nel ventre de la madre, per ciò che iv'entro potrebbe essere morto e dannato; e anche mentre che è fuori del ventre, innanzi che sia battezzato, però che allora potrebbe essere impedimentito dal battesimo; e anche ne l'etade accresciuta, però che allora potrebbe essere trascinato a' peccati. Però che 'l diavolo ne l'uomo cresciuto inganna la ragione per scaltrimenti, alletta la volontade per lusinghe, e abbatte la vertù per violenze. E però fu mestiere che 'l buono angelo li fosse dato in guardia per ammaestrarlo, e per dirizzarlo contra lo 'nganno del diavolo, e per sollecitarlo e commuoverlo a bene contra le lusinghe, e per difenderlo da l'abbattimento contra la violenza. L'effetto de la guardia de l'angelo ne l'uomo si puote assegnare che sia in quattro maniere. Il primo effetto si è, acciò che l'anima diventi migliore ne la grazia. E questo fa l'angelo ne l'anima in tre modi: primieramente rimovendoli ogni impedimento dal bene; e questo è significato ne l'Esodo, XII capitolo, ove dice che l'angelo percosse tutti i primogeniti de l'Egitto. Secondamente destando la pigrizia, e ciò è significato in Zaccaria, IV capitolo, là ove dice: "L'angelo di Dio mi destòe come uomo ch'è isvegliato dal sonno". Ne la terza parte menandolo ne la via de la penitenzia e rimenandolo, e ciò è significato in Tobia, V capitolo, ne l'angelo che 'l menòe e rimenòe. Il secondo effetto si è che il sostenta, acciò che non caggia nel male de la colpa, e questo fa l'angelo in tre modi. Primieramente impedimentendo il peccato che farebbe l'uomo che nol faccia; e ciò è significato nel libro del Numero, XXII capitolo, ove dice che l'angelo impedimentirà Balaam che non maladicesse il popolo d'Israel. Secondariamente riprendendolo del passato, acciò ch'altri si parta da quello; e ciò è significato nel libro de' Giudici, secondo capitolo, ove dice che l'angelo riprese il trapassamento del popolo, e elli levarono la voce in alto e piansero. Nel terzo modo faccendoli forza per liberarlo dal peccato presente, e ciò è significato ne lo sforzato trarre che fece l'angelo a Lotto e a la moglie di Sodoma, cioè de la consuetudine del peccato. Il terzo effetto si è che se l'uomo pur cade, di farlo rilevare poi, e questo fa l'angelo in tre modi: l'uno si è movendolo a contrizione, e ciò è significato in Tobia XI capitolo, là dove dice che a l'ammaestramento de l'angelo Tobia unse gli occhi del padre, cioè quelli del cuore, col fiele, per lo quale s'intende contrizione. Il secondo si è purgando le labbra a la confessione, la quale cosa è significata in Isaia, VI capitolo, dove per mano de l'angelo furon purgate le labbra di Isaia. Il terzo insieme allegrandosi a la satisfazione, e ciò dice santo Luca nel XV capitolo: "Allegranza maggiore hanno gli angeli disopra per i peccatori convertiti, ecc.". Il quarto effetto si è ched elli non caggia tante volte, né in tanti mali, quante volte ovvero quali mali il diavolo ne commuove; e questo fa in tre modi, cioè raffrenando la podestà del diavolo, indebolendo la concupiscenzia, e mettendo la passione di Cristo ne le nostre menti; de le quali cose detto è disopra. Ne la seconda parte dovemo onorare gli angeli, però che sono nostri servidori, sì come dice san Paulo a li Ebrei, in primo capitolo: "Tutti gli Angeli sono spiriti servitori". Però che tutti quanti sono mandati per noi, però che quelli disopra son mandati a quelli di mezzo, e quelli di mezzo a quelli disotto, e quelli disotto a noi; e questo mandamento si confàe a la bontà di Dio. In ciò si manifesta la divina bontà quanto elli ama la nostra salute, da ch'elli i nobilissimi spiriti, i quali sono congiunti a lui d'intima caritade, manda a procurare la nostra salute. Nel secondo luogo questo mandamento si confà ne la carità de gli angeli; però che con ciò sia cosa che da ardente caritade vegna a disiderare la salute de gli altri, per lo quale Isaia disse: "Eccome, messere, mandami". E gli angeli ci possono aiutare pertanto quanto elli ci veggiono che noi abbiamo bisogno del loro aiuto, e noi essere combattuti per li mali angeli, sì che acciò ched elli siano mandati a noi, sì 'l domanda la legge de la caritade de li angeli. Nel terzo luogo si è utile al bisogno umano, però che sono mandati gli angeli per infiammare l'affetto ad amore, onde in figura di ciò sì si legge che furon mandati in carro di fuoco. Secondariamente ad alluminare lo 'ntendimento a conoscere, e ciò è significato ne l'Apocalisso, decimo capitolo, ne l'angelo, che avea il libro aperto ne la mano sua. Nel terzo luogo a fortificare in noi ogne cosa che non è perfetta infino a la fine, e ciò è significato nel terzo libro de' Re, XIX capitolo, ove dice che l'angelo portò a Elia uno pane cotto sotto la cennere, e uno vasello d'acqua; e seguita poi come Elia mangiò, e andò, per fortezza di quello pasto, infino al monte di Dio Oreb. Ne la terza parte sono da onorare, però che sono fratelli e insieme cittadini con esso noi; però che tutti gli eletti sono ricevuti a gli ordini de li angeli, altri a que' disopra, altri a que' di mezzo, altri a que' disotto, secondo la diversità di loro meriti, avvegnadio che la santissima Madre di Dio non sia d'ordine veruno, ma sia sopra tutti. La qualcosa san Gregorio pare che voglia dire ne l'omelia, che, sì come elli dice: "E sono alcuni che prendono le piccole cose, ma pertanto non si rimangono d'annunciarle a' loro prossimi: questi cotali corrono nel novero de gli Angeli. E sono alcuni che le somme cose de' secreti del cielo e possonle prendere e annunziare a li altri; e questi cotali stanno con gli Arcangeli. E sono alcuni che fanno maravigliosi segni, e operano manifestamente, e questi cotali stanno con le Virtudi. E sono alcuni che con la vertù de la orazione cacciano le demonia, e questi cotali stanno con le Podestadi. E sono alcuni che avendo le Virtudi, trascendano i meriti de li eletti, e segnoreggiano i frati eletti, e costoro acquistano merito con li Principati. E sono alcuni che segnoreggiano sì a tutt' i vizî in loro medesimi, che, per ragione di mondizia, son chiamati Dei tra li uomini; onde a Moisé fu detto: "Ecco che t'ho fatto Domenedio di Faraone", e costoro hanno luogo con le Dominazioni. E sono alcuni ne' quali Dio risedendo come in sua sedia, disamina i fatti de gli altri, per li quali reggendosi la santa Chiesa, spesse volte d'alcune loro basse operazioni tutti gli eletti sono giudicati, e costoro hanno luogo con l'ordine de' Troni. E sono alcuni che sono pieni di chiaritade di scienzia, e costoro hanno preso la parte de' loro meriti fra 'l numero de' Cherubini, per ciò Cherubini son detti pienitudine di scienza, e san Paulo dice: "Pienitudine de la legge è la carità". E sono altri i quali accesi d'amore di contemplazione disopra, nel solo desiderio del loro Creatore inferventiscono, niuna cosa disiderano in questo mondo, di solo amore de l'eternitade sono pasciuti, tutte cose terrene spregiano, tutte cose temporali li trasandano con la mente, amano e ardono e trovano pace nel loro stesso ardore, amando ardono, parlando accendono, e chiunque toccano di parole, incontanente il fanno ardere ne l'amore di Dio. E costoro hanno presa la parte del loro chiamamento fra 'l numero de li Serafini". Infino qui dice san Gregorio. Nel quarto luogo sono da onorare, però che sono portatori de le nostre anime in cielo; e questo fanno ellino per tre maniere. La prima apparecchiando la via, sì come dice Malachia profeta, terzo capitolo: "Ecco io mando l'angelo mio, il quale apparecchierà la via tua dinanzi a la faccia mia". La seconda si è portandola in cielo per la via apparecchiata, sì come egli è scritto ne l'Esodo XXIII capitolo: "Ecco io mando l'angiolo mio che ti vada innanzi, e guarditi ne la via, e meniti ne la terra la quale io promissi a' padri tuoi". La terza maniera si è allogandola in cielo, però dice santo Luca nel XVI capitolo: "Addivenne che morìo il mendico e fu portato da gli angeli nel seno d'Abraam". Da la quinta parte gli dobbiamo onorare, però che sono appresentatori de le nostre orazioni dinanzi da Dio. Ché elli primieramente appresentano l'orazioni nostre dinanzi da Dio, come scritto è in Tobia, nel XII capitolo, che l'angelo gli disse: "Quando tu oravi con lagrime e soppellivi i morti, io offeretti l'orazione tua al Segnore". Secondariamente allogano lassù per noi, come dice Job nel XXXIIII capitolo: "Se fia per lui angelo che parli una de le somiglianti cose che annunzi la dirittura de l'uomo, sì avrà misericordia di lui". Anche dice Zacaria nel primo capitolo: "E rispuose l'angelo di Dio, e disse: "Segnore Iddio de li eserciti, infino a quando non avrai tu misericordia a Gerusalem, e a la città di Giudea, a le quali tu se' adirato? Or sono già LXX anni". Nel terzo luogo manifestano a noi la sentenzia di Dio, sì ch'è scritto nel Daniel, nel nono capitolo, ove dice che Gabriello angelo volòe a lui, e disseli: "Dal cominciamento de' tuoi preghieri è uscita la parola". Dice qui la Chiosa: "Cioè la sentenzia di Dio". E poi dice: "E io sono venuto per dirloti, perché tu se' uomo di disiderii". Di questi tre dice san Bernardo sopra la Cantica: "Va discorrendo l'angelo tramezzatore tra Dio e l'uomo, offerendo a Dio i nostri disiderii, portando i doni; queste cose commuove e racconcia Domenedio. Nel sesto luogo sono da onorare li angeli, però che sono nobilissimi cavalieri del re eternale, sì come scritto è nel Job, XXV capitolo: "Or hanno numero i cavalieri di Dio?" Ché sì come noi veggiamo ne li cavalieri d'alcuno re, che alcuni di loro stanno sempre ne la magione del re, e accompagnano il re, e cantano a suo onore e a suo sollazzo; e alcuni sono che guardano le cittadi e le castella; e altri sono che contastanno i nimici del re, così è tra gli angeli, però che alcuni del palazzo reale, cioè nel cielo empirio, sempre accompagnano il re de're, e al suo onore cantano canti di letizia e di gloria, dicendo: "Santo, santo, santo segnore Dio de li eserciti!" Anche dicono: "Benedizione e chiaritade e sapienzia" e molte altre cose come è scritto ne l'Apocalisso, nel settimo capitolo. Altri angeli sono che guardano le province e le cittadi e le castella, ciò sono quelli che sono diputati a nostra guardia, che guardano lo stato de le vergini, e de' continenti, e de li accompagnati, e anche le castella de le religioni; onde dice Isaia XIII capitolo: "Sopra le mura tue, Gerusalem, ho poste le guardie". Altri sono che combattono contra i nimici di Dio, ciò sono li demoni; onde dice l'Apocalisso: "Fatta è la battaglia grande in cielo, cioè ne l'Ecclesia militante. Michele e gli angeli suoi combattono col dragone". Nel settimo e l'ultimo luogo sono da onorare, però ched elli sono consolatori di tribulati, onde dice Zacaria nel primo capitolo: "E rispuose l'angelo che parlava in me parole buone, parole da consolare". E Tobia dice nel quinto capitolo: "Sarai di forte animo, però che presso è il tempo che tu sia curato da Domenedio". E queste cose fanno in tre modi. L'uno modo si è confortando e fortificando; onde dice Daniel, nel X capitolo, che essendo elli caduto, l'angelo il toccò e disse: "Non temere, pace sia a te; confortati e sie valoroso". Il secondo modo si è conservando da la impazienzia; onde dice il Salmista: "A gli angeli suoi ha comandato Domenedio di te, e porterannoti ne le loro mani, acciò che tu non incappi il piede tuo a la pietra". Il terzo modo si è rifrigerando quella tribulazione, e menovandola, e ciò è significato nel Daniello, terzo capitolo, ove dice che l'angelo di Dio discese con tre fanciulli ne la fornace, e fece il miluogo de la fornace come un vento di rugiada soffiante.
cap. 141, S. GirolamoGeronimo figliuolo d'Eusebio, nobile uomo, fue natìo da castello Stridone, che sta ne i confini tra Dalmazia e Pannonia. Essendo costui ancora fanciullo andò a Roma e fue pienamente ammaestrato di lettere grecesche ed ebree e latine. Ne la grammatica ebbe per maestro Donato, ne la rettorica ebbe Vittorino arringatore, ne le Scritture divine s'esercitava il dì e la notte, e indi trasse disiderosamente quello ch'elli sparse abbondevolmente poscia come si truova. Ad un tempo, sì come elli scrive ne la Pistola ched e' manda ad Eustochio, leggendo lui di die il Tullio e la notte Platone molto disiderosamente, però che 'l parlare disornato ne i libri de' profeti non li piacea, intorno al mezzo de la Quaresima sì subita e sì ardente febbre si prese, che raffreddando già tutto il corpo, il calore de la vita regnava nel petto solo. Apparecchiandosi adunque le cose per la morte sua, subitamente a la sedia del giudice fu tratto, e dimandato di che condizione e' fosse, rispuose ch'era cristiano. E 'l giudice li disse: "Tu mentisti, tu se' Tulliano, non cristiano: colà dove è il tesoro tuo, là è il cuore tuo". Allora Geronimo diventò come mutolo, e 'l giudice comandò incontanente che fosse battuto durissimamente. Allora gridòe e disse: "Miserere mei, Domine, miserere mei!" Allora quegli ch'erano presenti pregavano il giudice che perdonasse al giovane; ed elli cominciò a giurare per Dio, e a dire: "Messere, se io averò giammai, ovvero leggerò libri secolareschi, sì t'abbia io per ingannato". Sì che a queste parole del saramento, l'uomo si risentìo e trovossi tutto bagnato di lagrime, e delle battiture, che avea avute dinanzi a la sedia, trovossi tutte le spalle livide molto terribilemente. Ma con tanto studio lesse da indi innanzi i libri divini, con quanto non avea giammai letto i libri de' pagani. Ed avendo XXIX anni fu fatto cardinale ne la chiesa di Roma e, morto papa Liberio, Geronimo fu gridato che fosse degno del sommo sacerdozio. Ma riprendendo lui la vanitade d'alquanti cherici e monaci, indegnatine contra di lui, sì il puosera agguato, e per vestimento femminile, come dice Giovanni Beleth, villanamente lo schernirono. Ché levandosi Geronimo a mattutino, come era sua usanza, trovò il vestimento femminile a capo del letticello suo, sì come i suoi invidiosi lo v'avevano posto e, credendosi che fosse il suo, sì lo si misse indosso, e in questo modo andò ne la chiesa. E però faceano questo i suoi invidiosi, perché si credesse ch'elli avesse femmina in camera. La qualcosa quando questi ebbe veduto, diede luogo a tanta loro mattezza, ed andossene a Gregorio Nazianzeno, vescovo di Costantinopoli. E poi che ebbe apparato da lui le sante lettere, sì se ne andò ne l'ermo, nel quale luogo quante cose sostenne per l'amore di Cristo. Elli medesimo lo scrive ad Eustochio, così dicendo: "Quante volte stando ne l'ermo e in quella oscura solitudine, la quale, incende tutta per gli ardori del sole, e dava aspro abitamento a' monaci, pensava d'essere tuttavia ne le dilettanze di Roma. Erano inasprite del sacco le membra disformate, e la scura cotenna avea presa forma di carne saracina, cutidianamente le lagrime, cutidianamente i pianti, e se per alcuna volta contrastando me il sonno sopravvegnente, m'abbattesse in su la terra ignuda, ponea a giacere l'ossa mia. Del mangiare e del bere taccio, con ciò fosse cosa che eziandio i monaci infermi usassono acqua fredda, e alcuna cosa cotta appo loro era tutto riputato lussuria; e pertanto essendo compagno de li scarpioni e de le fiere bestie, spesse volte mi parea essere ne le compagnie de le donzelle, e nel freddo corpo, e ne la carne mortificata i soli incendii de la lussuria rampollavano. Sì che continuamente piagnea, e la carne contrastante sottomettea a la fame di tutta la settimana. Spesse volte congiunsi il die con la notte, né non mi rimanea da le battiture del petto prima che ritornasse la quietudine del Signore. E ancora essa mia celletta temea come la coscienzia de' pensieri, ed irato e aspro, a me medesimo solanato, forava i deserti, e Dio me ne sia testimonio che alcuna volta che dopo le molte lagrime mi parea essere tra le schiere de gli angeli". Compiuta che ebbe qui la penitenzia quattro anni, ritornò a la città di Betleem, nel quale luogo, sì come savio animale, offerse sé a dimorare a la mangiatoia del Signore. La sua biblioteca, la quale con sommo studio s'avea fatta elli, e gli altri libri leggendo, tutto il die digiunava infino a la notte. E raunando ivi molti discepoli in santo proponimento e in traslatare le Scritture sante, cinquanta anni e sei mesi s'affaticòe; e stette vergine infino a la fine de la sua vita. E avvegnadio che questa leggenda dica ched e' fosse sempre vergine, pure elli scrive così di se medesimo a Pammachio: "La verginità pognola in cielo, non perch' io l'abbo, ma perch'io mi maraviglio maggiormente che io non l'abbo". Finalmente tanto s'allassòe che, giacendo nel letto suo, avea posto una funicella a la trave, a la quale si levava con le mani rivescio, acciò, che operasse l'officio del monasterio secondamente ch'elli poteva. Un die al vespro stando Geronimo co' suoi frati a udire la santa lezione, uno leone subitamente zampicante del piede entròe nel monasterio; e veduto che fue, misse tutti i frati a la fuga. E Geronimo li si fece incontro come ad uno ospite, sì che il leone mostrando a lui il piede danneggiato, furono chiamati i frati, e comandò loro che lavassero quel piede e cercassero diligentemente de la piaga. E avendo ciò fatto, trovarono la pianta del leone impiagata da le spine, e aggiuntavi diligentemente medicina, quando il leone fue guerito, lasciando ogne salvatichezza, abitava fra loro come animale dimestico. Allora veggendo Geronimo che non tanto per la santade del suo piede, quanto per loro utilitade, Dio l'avesse mandato, col consiglio de' frati suoi, sì l'impuose cotale ufficio, cioè che esso leone menasse a la pastura, e guardasse l'asino ch'elli aveva, il quale recava la legna dal bosco. E così fue. Ché imposto che l'ebbero al leone la cura de l'asino a modo di pastore ingegnoso andando a la pastura, sempre era compagno del viaggio e, pascendo nel campo da ogne parte, era difenditore sicurissimo, e acciò che pascesse se medesimo, e l'asino compiesse l'operazione sua, sempre a l'ore debite tornava con lui a casa. Sì che una volta pascendo l'asino, e 'l leone addormentato di grave sonno, mercatanti con camelli passando per quella contrada, e veggendo che l'asino era solo, rubarlo tostamente. Sì che isvegliato il leone, non vedendo il compagno, discorreva qua e là mugghiando. A la perfine non trovandolo, ritornò a la porta del monasterio, e non fu ardito per la vergogna entrare dentro come era usato. E veggendo i frati ched elli era tornato più tardi che non soleva, e venuto sanza l'asino, pensaronsi che per costrignimento di fame s'avesse manicato l'asino, e non volendoli dare l'usata profenda, sì li dicevano: "Va, manucati lo scampolo che ti rimase, e riempi bene la tua ghiottornia". Ma dubitando che non avesse commesso questo male, andarono a la pastura, se per avventura trovassero alcuno segno di morte; e non trovandone nulla tornarono a casa, e raccontarono queste cose a san Geronimo. Allora per li ammonimenti suoi impuosero al leone l'officio de l'asino, e taglando le legne nel bosco, sì le ponevano a portare al leone. E sostenendo ciò il leone pazientemente, un die compiuta l'opera uscì fuori discorrendo di qua e di là, per volere sapere che fosse intervenuto del compagno suo, ed ecco che vidde da la lunga mercatanti venire con cammelli carichi, e l'asino andava innanzi. Usanza è di quella contrada che quando vanno a la lunga con camelli, acciò ched ellino vadano più diritti, tengono dietro ad uno asino che vada loro innanzi, e porti la funicella a collo. Sì che il leone riconosciuto ch'ebbe l'asino, con grande mugghio entrò loro addosso, e misse gli uomini al fuggire. E 'l leone mugghiando terribilemente, e percotendo la terra fortemente con la coda, missesi innanzi i cammelli così carichi com'egli erano, e costrinsegli d'andare insino al monisterio. Veggendo ciò i frati, e dicendolo a Geronimo, elli rispose: "A li ospiti nostri, fratelli carissimi, lavate i piedi, e date loro da mangiare, e sopra ciò aspettate la volontà del Signore". Allora il leone cominciò andare discorrendo per lo monasterio, com'era usato, e gittandosi in terra a' piedi di ciascuno frate, e lusingando con la coda, domandava quasi perdonanza de la colpa, la quale non avea commessa. E Geronimo sappiendo le cose che doveano venire, disse a i frati: "Andate voi, frati, e apparecchiate quello che fa bisogno a li ospiti che vegnono". Non avea ancora compiuto di dire, ed eccoti venire un messo a lui, e disse che avea ospiti a la porta, che voleano vedere l'abbate. Quando elli gli ebbe veduti, coloro gli si gittarono a' piedi, e domandano perdonanza de la loro colpa; ed elli levandosi benignamente suso, comandò loro che ricevessino il loro, e non togliessero in mal modo l'altrui. Sì ch'ellino pregarono san Geronimo che prendesse la metà de l'olio per benedizione. A li quali elli appena consentendo, a la perfine costretto, comanda pure di ricevere. E promissero di dare ogni anno a' detti frati quella medesima misura d'olio, e fecere comandamento che fosse data quella quantità da le sue rede. Con ciò fosse cosa che ne la Chiesa di qua dietro ciascuno cantasse quello che gli piacesse, dice Giovanni Beleth che Teodogio imperadore pregòe papa Damaso che ad alcuno uomo ammaestrato commettesse ad ordinare l'ufficio ecclesiastico. Sì ched elli conoscendo Geronimo uomo compiuto in lingua latina e grecesca e ebrea, e sommo in divina scienzia, sì li commisse il detto officio. Sì che Geronimo divise il Salterio per li dì de la settimana, e a ciascheduno dì assegnò il suo propio notturno, ed ordinò che si dicesse Gloria Patri ne la fine di ciascuno Salmo, sì come dice Sigeberto. Poscia ordinò le Pistole e' Vangeli da cantare per tutto l'anno, e l'altre cose che s'appartegnono a l'Officio, fuori che 'l canto. E mandò scritte queste cose d'infino di Betleem al sommo Pontefice, e fu molto approvato questo Officio e da lui e da' cardinali, e fue autenticato perpetualemente per la santa Chiesa. Dopo queste cose sì s'ordinò un monimento ne la bocca de la spelonca, ne la quale il Signore giacque, nel quale luogo compiuti novanta anni e sei mesi de la sua vita fue seppellito. In quanta reverenzia santo Agostino l'avesse, manifesto è ne le pistole che li mandò; ne l'una de le quali scrive in cotale modo, cominciando: "Al Segnore dilettissimo e da osservare e da abbracciare per coltivamento di sincerissima caritade Geronimo, Agostino salute". E in altro luogo scrive così di lui: "San Geronimo, prete ammaestrato di linguaggio latino e grecesco e ebreo, ne i luoghi santi e ne le lettere sante visse infino a l'ultima vecchiezza, del cui parlare è risplenduto a voi la lampana da l'oriente ne l'occidente, a modo di sole". E san Prospero ne le Croniche sue scrive così di lui: "Geronimo abitava in Betleem, chiarito già a tutto il mondo di nobile ingegno, servendo a lo studio de l'universale Ecclesia. E santo Isidoro nel libro de l'Etimologie dice così: "Geronimo fu ammaestrato di tre lingue, la cui interpretazione è posta innanzi a tutte l'altre, però ch'ella è più tenace che la parola, e più chiara che 'l ragguardamento, e più vera sì come fatta da interpetro cristiano". E nel Dialago di san Severo, discepolo di san Martino, il quale fue al suo tempo, si truova scritto di lui: "Jeronimo sanza il merito de la fede, e la dote de le vertudi, non solamente de le lettere latine e grecesche, ma eziandio de le ebree fu sì ammaestrato, che neuno s'ardisce assomigliare a lui in ogne scienzia, abbiendo continua battaglia contra i rei. Ebberlo in odio li eretici, però che non cessò di costrastarli ed ebbero in odio li cherici però che riprendea la loro vita e ' peccati; ma tutti i buoni si maravigliavano di lui e amavallo. E tale che pensava che fosse eretico, impazzòe. Tutto era sempre inteso a leggere, tutto a' libri, non si posava né dì, né notte, o leggea alcuna cosa, o scrivea sempre". Insino qui dice san Severo. E sì come da queste parole si manifesta, ed e' medesimo il dice in più luogora, molti persecutori e molti detrattori sostenne. I quali persecutori come allegramente sostenesse, manifestasi in ciò, che sì come elli dice ne la pistola che mandò ad Assella: "Grazie ne fòe a lo Dio mio, ché io son degno che 'l mondo m'abbia avuto in odio, che mi chiamano incantatore di demoni, ma io sono per venire al regno per mala fama e per buona". Anche: "Ora lo voglia Dio che per lo nome e per la giustizia del Signore mio, tutta la turba de li infedeli mi perseguiti! E voglia Dio che a mio vituperio si levi questo matto mondo! Pure ch'io meriti d'essere lodato da Cristo, e speri la mercede de la sua impromessa. Adunque accettevole e da desiderare è la tentazione, il cui guiderdone s'aspetta da Cristo in cielo, e la maladizione grave non è mutata per la divina loda". Morìo san Geronimo intorno a gli anni Domini CCCXCVIII. Cominciano le leggende de le feste de' Santi del mese d'Ottobre.
cap. 142, S. RemigioRemigio convertìo a Cristo il re e la gente Francesca. Il re aveva una moglie ch'avea nome Clotildina, cristianissima donna, la quale si sforzava di recare a la fede il marito suo, ma non potea. E quand'ella ebbe ingenerato un figliuolo, sì 'l volse battezzare, ma il re il dinegò al tutto; quella non potendo posare, a la perfine con grande fatica lo 'mpetròe dal re, e battezzò il figliuolo. Il quale comunque fue battezzato, incontanente morìo subitamente. Al quale il re disse: "Ora appare che Cristo è vile Domenedio, che non ha potuto conservare colui per lo quale la sua fede potea essere aggrandita". E quella gli rispuose e disse: "Anzi mi sento io per questo essere più amata dal mio Iddio, ché 'l primaio frutto del ventre mio conosco ch'abbia ricevuto, e halli donato un regno sanza fine assai migliore che 'l tuo". Ingravidòe un'altra volta e partorìo un altro figliuolo, lo quale ella fece battezzare, sì come il primaio, con molta malagevolezza; e, battezzato, infermòe subitamente sì ch'era isfidato. Disse il re a la moglie: "Veramente è debole il tuo Iddio, il quale non può conservare a vita neuno che sia battezzato nel nome suo. Ché se tu ne generassi mille, e tutti gli facesse battezzare, tutti quanti insieme morranno". Ma il fanciullo miglioròe, e ricevette santade, sì che regnòe dopo il padre suo. E la fedele donna sì si sforzava di recare il marito suo a la fede, ma elli contrastava in tutti i modi. Ma in che modo elli si convertisse detto è ne l'altra festa, dopo la Befania. E volendo il detto re Lodovico, fatto cristiano, dotare la chiesa Maggiore di censo, disse a santo Remigio che quantunque terra elli girasse mentre che 'l re dormisse ne la merigge, tutta quanta gliele donerebbe. E così fu fatto. Ma abbiendo alcuno uno mulino intra confini di san Romigi, il mugnaio, nel girare che 'l santo fece, il si cacciò con indegnazione. Al quale disse san Romigio: "Amico, non ti sia duro che noi abbiamo insieme questo mulino". Sì tosto come quelli l'ebbe cacciato, la ruota del mulino si cominciò a volgere per contradio, e andò gridando dietro al santo: "Remigio, servo di Dio, vieni, e abbiamo insieme il mulino". E quegli gli rispose: "Né io, né tu". Incontanente la terra s'aperse, e inghiottìo il mulino. Prevedendo san Remigio la fame che dovea venire, avendo raunato in una villa monticelli di biada, gli inebriati giudici schernendo il senno di questo buono vecchio, missevi entro fuoco. Questi vedendo ciò, venne là e, per lo freddo de l'etade e del tempo serotino, sì si cominciò a scaldare, e con riposato cuore disse: "Sempre è buono il fuoco, ma pertanto coloro che fecero ciò, e i loro diretani uomini, saranno crepati ne li granelli e le femmine saranno gozzute". La qualcosa così avvenne in quella villa, infin a tanto che furono dispersi per Carlo. Ed è da sapere che quella festa di santo Remigio, che si fa del mese di gennaio, sì è la festa de la sua beata morte, ma questa festa si dice ch'è de la traslazione del corpo suo. Che con ciò fosse cosa che dopo la morte sua il corpo suo si portasse a la chiesa di santo Timoteo e di santo Apullinare, a lato a la chiesa di santo Cristofano, cominciossi ad aggravare il corpo, che per niuno modo si potea muovere. Finalmente costretti, pregarono il Signore che degnasse mostrare loro se, per ventura, in quella chiesa di san Cristofano, dove non avea verune orliquie di santi, volesse essere seppellito, e incontanente sostennero il corpo leggerissimamente, e soppellirolo quivi onorevolemente. Nel quale luogo faccendosi molti miracoli, isciampiarono la chiesa e, fatto la volta dietro a l'altare, con uno monimento volendovi riporre il corpo disotterrato, nol poterono per veruno modo muovere. E vegghiando in orazione e addormentati tutti insieme entro la mezzanotte, l'altro dì vegnente, cioè il dì di calendi ottobre, trovarono il sepolcro col corpo di san Remigio portato da gli angeli in quella volta. Il quale corpo dopo lungo tempo, in quello medesimo die fue traslatato in una più bella volta con una cassa d'argento. Fiorìo questo santo uomo intorno a gli anni Domini CCCXC.
cap. 143, S. LeodegarioLeodagario essendo risplendente d'ogne vertude, ed e' meritòe d'essere fatto vescovo ne la chiesa di Verona. Il quale, morendo il re Clotario e premendosi gravemente le ragioni del reame, per volontà di Dio e per consiglio de' baroni, fece re Childerico, fratello di Clotario, un giovane molto idoneo. Ma Ebroino si sforzava di fare segnore Teodorico, fratello carnale del detto Childerico, non per l'utilitade del reame, ma 'mperò che de la signoria di colui era in tutte cose odiato, temea l'ira del re e de' baroni. Sì che temendo Ebroino, domandò licenzia da lui, ed entrò in monasterio. E concedendolo quelli, e tegnendo in pregione Teodorico, suo fratello, acciò che non si sforzasse di fare nulla contra il reame, per la santità e per lo senno del vescovo, de la pace maravigliosa tutti s'allegravano. Ma passato alcuno tempo, il re pervertito dal consiglio de' maligni, in tanto odio si mosse al servo di Dio, che cercava d'alcuna cagione e modo di farlo morire. Ma il vescovo sostegnendo ciò mansuetamente abbracciava tutti i nemici suoi come fossero amici, ordinò col re di fare la Pasqua in quella città ne la quale era segnore. Ed eccoti in quello dì fu detto a lui che ciò che quelli avea trattato de la sua morte era determinato di compiere. E quegli non temendone nulla, ma convitando in quel dì col re a la mensa, in tal modo fuggìo il perseguitatore che, servendo a Dio nel monasterio di Lussume eziandio ad Ebroino, il quale si celava nel monasterio con l'abito monachile, sì servìo per continua caritade. Poco stette che 'l re morìo, e Teodorico fu fatto re. Per la qualcosa Leodagario mosso da' prieghi e da le lagrime del popolo suo, e costretto dal comandamento de l'abbate, tornò a la sedia sua, ed Ebroino uscì del monasterio, e fu fatto siniscalco dal re. E avvegnadio che prima fosse reo, poscia diventò peggiore, e con tutto studio si sforzava d'uccidere Leodagario, e mandò cavalieri che 'l prendessono. Avendo dunque saputo ciò Leodagario, volendo dare luogo al suo furore, uscendo fuori de la città in abito vescovile, fu preso da' cavalieri, i quali gli trassono immantanente gli occhi. Passati due anni santo Leodagario col fratello suo Garino, lo quale Ebroino avea isbandito, furono menati nel palazzo del re. E rispondendo pazientemente e pacificamente a le beffe d'Ebroino, comandò quel maladetto che Garino fosse battuto con le pietre, e 'l santo vescovo fosse menato a piedi ignudi sopra agutissime pietre, per uno fiume corrente; e udendo che lodava Domenedio in questi tormenti, fecegli tagliare la lingua, e poco stante il diè in guardia ad uno, acciò che riserbasse a nuovi tormenti. Ma elli non perdette l'uso del parlare, ma intendea a la predicazione, e a l'allegrezza come potea, e predisse il tempo e 'l modo che 'l detto Ebroino passerebbe di questa vita. E una grande luce, a modo di corona, attorniò il capo suo, la quale abbiendo molti veduta, dimandarono il detto vescovo che ciò fosse. E quelli adumiliandosi in tutte le cose, rendette grazie a Domenedio, e ammonìo tutti quelli ch'erano ivi presenti che mutassono in meglio la vita loro. La qualcosa udendo Ebroino e veggendo, mandò quattro giustizieri, e fecegli tagliare il capo. E quando quegli il menavano al luogo de la giustizia, elli disse loro: "Non fa mestiere, frati, che voi v'affatichiate più lungo tempo, ma qui empiete la volontade di colui che vi mandò". A queste parole tre di coloro furono sì contriti, che gli si gittarono a' piedi, e pregavallo di perdonanza, e 'l quarto, quando l'ebbe dicollato, fu incontanente preso dal demonio e, gittato nel fuoco, finìo la vita sua in molta miseria. Compiuti li due anni, udendo Ebroino che 'l corpo del santo uomo facea molti miracoli, tormentato da miserabile invidia, mandò là uno cavaliere ch'elli sapesse se il vero fosse così. E 'l cavaliere superbo ed arrogante, quando fu venuto là, gridò dando uno calcio al corpo del santo, e disse: "Muoia chiunque crede che morto possa fare miracoli!" Incontanente fu preso dal demonio e morìo subitamente, e in questo modo con la morte sua commendò più il santo. Abbiendo udito queste cose Ebroino, era più tormentato d'invidia, sforzandosi di spegnere la nominanza del santo, ma, secondo il predicimento del santo, esso malvagio s'uccise malvagiamente col coltello. Fu morto questo santo intorno a gli anni Domini DCLXXX al tempo di Costantino quarto.
cap. 144, S. FrancescoFrancesco, servo ed amico de l'Altissimo, nato ne la città d'Ascesi, e diventato mercatante infino presso che 'l ventesimo anno de l'etade sua, consumò il tempo suo vanamente vivendo. Lo quale Domenedio percosse col flagello de la infermitade, e corresselo e trasformollo subitamente in altro uomo, sì che già cominciava ad avere spirito di profezia. Ché essendo elli un die preso da' Perugini con molti altri, e messo a dura pregione, stando dolenti gli altri, questi solo s'allegrava; ed essendone ripreso da gli altri prigioni, rispuose così loro: "Per ciò sappiate che io m'allegro perché io sarò anche adorato per santo per tutto il mondo". Andando lui una volta a Roma per divozione, spogliossi le vestimenta sue, e mettendosi indosso le vestimenta d'un povero, sedette tra i poveri innanzi a la chiesa di san Piero, e mangiòe disiderosamente con essi, come fosse uno di loro, e spesse volte avrebbe ciò fatto, se non fosse stato impedito d'essere conosciuto da' suoi conoscenti. L'antico nemico si sforzava di ritrarlo dal suo buono proponimento, e misegli in cuore una femmina di sua terra, contraffattamente scrignuta, e se non si rimane da quelle cose che ha cominciate di fare, sì il minacciava di farlo somigliante a lei. Ma elli, riconfortato dal Signore, udì questa parola: "Francesco, prendi le cose amare per le dolci, e spregia te medesimo, se tu mi vuogli conoscere". Una volta, scontrandosi elli in uno malato, con ciò fosse cosa che questi cotali uomini avesse molto a schifo di vedere il volto loro, ma ricordandosi de la parola di Dio, corse inverso lui e baciollo; e dopo queste cose quelli incontanente sparve. Per la qualcosa se n'andò colà, dove stavano i malati e, basciando devotamente le loro mani, donò loro pecunia. Entrando lui una volta ne la chiesa di san Damiano per pregare, la imagine di Cristo li parlò miracolosamente, e disse a lui: "Francesco, va e racconcia la casa mia, la quale, come tu vedi, tutta si disfà". Da quell'ora innanzi l'anima sua diventa tutta liquidita, e la compassione del Crocifisso fu mirabilemente confitta nel cuore suo. Missesi sollecitamente a racconciare la chiesa e, venduto ciò che avea, e dando la pecunia ad un prete, e quelli per la paura de' parenti rifiutandola, Francesco gliele gittò innanzi, disprezzandola come polvere; per la qualcosa, legato dal padre e preso, sì li rendette la pecunia e rassegnolli insieme il vestimento e, come ignudanato, se n'andò volando al Segnore, e vestissi di cilicio. E sopra tutto questo chiamò il servo di Dio un semplice uomo e, ricevendolo come padre, sì 'l pregò che da che 'l padre gli raddoppia le maladizioni, elli per contrario lo benediceva. Ancora il suo fratello carnale veggendo Francesco nel verno, coperto di vili pannicelli, in orazione tutto tremante, sì disse ad uno: "Di' a Francesco che del sudore suo ti venda una gonnella". E quelli udendo ciò, sì rispuose allegramente e disse: "Questa vendrò io al Segnore mio". Un die udendo lui quelle cose che 'l Signore parlò a' discepoli suoi mandateli a predicare, incontanente si mosse con tutta la vertude a servare tutte quelle cose, trassesi i calzari di piedi, una sola e vile tonica si vestìo, e per la coreggia mutòe la funicella. Nel tempo de la neve fu preso da li scherani e, andando per la selva e dimandato da loro chi fosse, rispuose che era il banditore di Dio. E quegli il presero e gittarollo ne la neve, così dicendo: "Or giaci, villano servo di Dio". Molti nobili cherici e ladici, isprezzata la pompa del secolo, s'accostarono a le vie sue, i quali il padre santo ammaestròe d'aempiere la perfezione del Vangelio, di prendere la povertade, e d'andare per la via de la santa semplicitade. Scrisse ancora la regola del Vangelio a sé e a' suoi frati, a quelli che già avea e che avrebbe per innanzi, la quale regola confermò il papa Innocenzio. E cominciò da quell'ora innanzi più perfettamente a spandere il seme de la parola di Dio, e per lo mirabile fervore cerca la città e le castella. Un frate era tra suoi che parea, quanto di fuori si vedeva, di molta caritade, ma molto era singulare persona, che con tanta strettezza tenea il silenzio che non si confessava con parole, ma con cenni. Ed essendo lodato da tutti come per uno santo, il servo di Dio andando là dov'elli era, sì disse: "Lasciate stare, frati miei, e non mi lodate in lui i componimenti del diavolo. Sia ammonito di confessarsi una volta o due la settimana, e se non lo farà, tentazione del diavolo è, e inganno frodolente". Ammonendolo i frati, puosesi il dito a la bocca, e crollando il capo fece cenno di none acconsentire per veruno modo. Non stette guari tempo che ritornò come cane al vomito, e finìo la vita sua in rie opere. Affaticato per l'andare, il servo di Dio cavalcava una volta l'asino, e 'l compagno suo, cioè frate Leonardo d'Ascesi, simigliantemente affaticato, fra se medesimo cominciò a pensare e a dire: "Non giucavano a pari i parenti di costui e ' miei". Incontanente il servo di Dio non volse cavalcare più l'asino, e scesene a terra, e disse al frate: "Non si conviene a me di cavalcare, e te andare a piede; però che tu fosti più nobile di me". Stupidito il frate gittossi a' piedi di san Francesco, e domandò perdonanza. Passando lui alcuna volta per una via, femmina gli venne intoppata, la quale andava molto ratta; per la cui lassezza e interclusi spirari, il servo di Dio mosso a compassione, sì la domandò che ella andasse cercando. E quella disse: "Priega Dio per me, padre santo, ché 'l buono proponimento ch'i' ho conceputo, non posso mandare innanzi, ché mi impedisce il mio marito, e contradiami molto nel servigio di Dio". E quegli le disse: "Va, figliuola mia, ché tosto riceverai consolazione del marito tuo, e dinunziagli da la parte di Dio onnipotente, e da la mia, che ora è tempo di salute, poscia fia di ragione". Quella dinunziando ciò al marito, subitamente li si mutò la mente, e promise castitade. Ad un villano che venìa meno di sete in uno diserto il santo con le sue orazioni impetròe da Domenedio una fonte d'acqua in quel luogo. Ad uno ch'era molto dimestico con lui disse questa credenza per ispirazione di Spirito Santo: "Oggi è alcuno servo di Dio sopra la terra per lo quale, mentre che fia vivo, non lascerà il Segnore incrudelire la fame sopra gli uomini". E così si dice che fue sanza dubbio. Ma rimosso lui, tutta la condizione si mutò in contradio, però che dopo il suo beato passamento di questa vita apparve al detto frate, così dicendo: "Ecco che ne viene già la fame, la quale, mentre che io era vivo, non lasciò Domenedio venire sopra la terra". Ne la festa de la Pasqua avendo i frati apparecchiata la mensa più ornatamente che non solevano ne l'ermo del Greccio in bianche tovaglie e in coppe di vetro, vedendo ciò il servo di Dio, ritrasse l'andamento indietro, e togliendo uno cappello ad uno villano ch'era presente, ed un bastone in mano, uscì fuori, ed aspettava a la porta. E mangiando i frati, gridava a l'uscio de la porta che per amore di Dio facessono bene al povero pellegrino. Chiamato il povero dentro, fulli porto il descuccio in terra, solanato a mangiare. E vedendo ciò e' frati furono tutti stupiditi; e quelli disse loro: "Io ho veduta la mensa apparecchiata ed ornata, e ho saputo ch'ella non è da poveri che vanno a uscio a uscio per limosina". La povertà amava tanto in se medesimo e ne gli altri, che sempre chiamava la povertà sua donna. Se ne vedea alcuno più povero di lui, incontanente gli aveva invidia e temeva d'essere da altri superato. Ché essendosi elli iscontrato un die in uno poverello, disse al compagno suo: "Grande vergogna ci ha fatto la povertà di costui, e molto hae ripreso la nostra povertà; però ch'io m'ho eletto per mie ricchezze e per mia donna la povertà, ed ecco che risplende più in costui". Passando un povero dinanzi da lui, e 'l servo di Dio essendo mosso a grande compassione di lui, disse a lui il compagno: "Per quanto questi sia povero, forse che non è in tutta la provincia uno più ricco di lui di volontà". E 'l servo di Dio gli disse: "Tosto ti spoglia la tonica, e dàlla al povero, gittatili a' piedi, e renditi in colpa a lui". E 'l fante ubbidìo immantanente. Una volta li venne incontrato in tre femmine, che ne la faccia e ne l'abito erano per tutto simiglianti; le quali il salutarono in questo modo: "Bene ne vegna, madonna povertà!" E incontanente disparvero, e non furono più vedute. Essendo andato a la città d'Arezzo, era allora la terra a romore e a battaglia tra loro medesimi, vidde il servo di Dio, stando nel borgo, le demonia sopra la terra in molto sollazzo; e chiamando il compagno, che avea nome frate Salvestro, e sì li disse: "Va a la porta de la città, e comanda a le demonia, da parte di Dio onnipotente, che escano tosto de la città". Quelli andò ratto dinanzi a la porta, e gridò valentremente, e disse: "Da la parte di Dio, e per comandamento del padre nostro san Francesco, partitivi tutte dimonia, quanti voi siete". E così tutt' i cittadini poco stante tornarono a concordia. E 'l detto Salvestro essendo ancora prete secolare, vidde in sogno uno croce d'oro, che uscìa de la bocca di santo Francesco, la cui sommitade toccava il cielo, le cui braccia distese in lato, ambo le parti del mondo abbracciando, cigneva. E 'l prete contrito lasciò incontanente il mondo, e diventò perfetto seguitatore del servo di Dio, Francesco. Stando il servo di Dio una volta in orazione, il diavolo il chiamò tre volte del suo propio nome. E quando il santo gli ebbe risposto, quegli disse: "Non è oggi peccatore nel mondo che si converta, che Dio non li perdoni, ma chiunque ucciderà se medesimo con dura penitenzia non troverrà giammai misericordia". Incontanente il servo di Dio seppe per revelazione lo 'nganno del nemico come si volle sforzare di farlo raffreddare. E veggendo l'antico nimico che per questo modo non lo avea potuto ingannare, sì li misse addosso una grave tentazione di carne; e sentendola il servo di Dio, ispogliossi; con la corda si batteo durissimamente, così dicendo: "Eia, frate asino, così ti conviene stare, così essere battuto!" Ma ritornandoli anche la tentazione e non partendosi da lui, uscì fuori ignudanato, e gittossi in una grande neve e, prendendo la neve a modo di palla, sì ne compuose sette monticelli, e ponendolesi innanzi, cominciò a favellare al corpo, e a dire: "Or ecco questa maggiore sì è la moglie tua, queste quattro sono due tuoi figliuoli e due figliuole, l'altre due sono il fante e la fancella; or ti briga di vestirli tosto, però che muoiono di freddo, e se la molta sollecitudine di loro ti fia noia, or servi sollecitamente ad un Signore". Incontanente il diavolo si partìo isvergognato da lui, e l'uomo di Dio ritornò ne la cella glorificando il Signore. Dimorando lui alquanto tempo con messere Leone, cardinale di santa Croce, pregatone da lui, una notte vegnendo le demonia a lui, sì 'l batterono durissimamente; e chiamando il compagno, manifestolli il fatto, sì li disse: "Li demoni sono castaldi del Signore nostro, e' quali E' manda a punire i falli, ma io non mi ricordo di veruno fallo, lo quale per la misericordia di Dio io non l'abbia lavato per sadisfazione; ma forse elli m'ha lasciato venire addosso i castaldi suoi perché io istò ne le corti de' grandi parlati, la quale cosa non genera forse buona sospezione a' frati miei poveri, però che per la ventura credono forse ch'io abbondi di ricchezze". La mattina per tempo si levòe e partissi da quello luogo. Stando lui in orazione alcuna volta, udìo le schiere de' demoni correre sopra il tetto de la casa con grande bussa. Quegli uscì incontanente fuori, e fecesi il segno de la Croce, e disse: "Da la parte di Dio onnipotente, dico a voi, demoni, che tutto ciò che v'è promesso che operiate nel mio corpo, il facciate; volontieri sosterrabbo ogne cosa, imperò che non avendo me maggiore nemico che 'l propio corpo, sì mi vendicherete di lui ch'è mio avversario, da che voi per mio nome farete la vendetta". Sì che le demonia con grande vergogna si dipartiro. Uno frate compagno del servo di Dio, levato in estasìa, infra l'altre sedie del cielo, sì ne vidde una molto dignitosa e splendiente di maravigliosa gloria. Il quale maravigliandosi a sui sì chiara sedia fosse serbata, udìo così dire: "Questa sedia fue d'uno di quelli, che caddero di cielo de' grandi prencipi, e ora è riserbata a l'umile Francesco". E levandosi da l'orazione domandòe il servo di Dio, e sì li disse: "Che openione hai tu di te, padre?" E quelli rispuose: "Parmi essere uno grandissimo peccatore". Incontanente lo spirito disse nel cuore del frate: "Conosci, frate, che vera fue la visione che tu vedesti, però che a la sedia perduta per la superbia, l'umiltà rileverà l'umilissimo". Il servo di Dio vidde il serafino in visione sopra se crucifisso, il quale i segnali del suo crucifiggimento suggellòe sì in lui manifestamente, che elli medesimo pareva crucifisso. Furono consegrate le mani e ' piedi e 'l lato de le piaghe de la croce, ma elli con diligente studio, le dette stimate teneva nascoste a gli occhi di tutti. Ma pure alcuni videro ciò in sua vita; ma ne la morte il videro assai. E che queste stimate fossono veraci, per molti miracoli fu dimostrato, de' quali basti di dire due ch'avennero dopo la sua morte. In Puglia uno uomo, ch'avea nome Ruggeri, stando innanzi a la imagine di san Francesco, cominciò a pensare dicendo se sarebbe vero che a costui fosse venuto cotale miracolo, o sarebbe beffa, o trovamento simulato de' suoi frati. E rivolgendo queste parole ne la mente, udìo un suono quasi come d'uno quadrello ch'uscisse del balestro, e sentissi gravemente fedito ne la mano manca; e non apparendo nel guanto ch'elli avea in quella mano, veruno male, trassesi il guanto, e videsi ne la palma de la mano una grave fedita quasi come di saetta, de la quale uscìa tanta forza d'ardore e di dolore, che de l'ardore e del dolore parea che venisse tutto quanto meno. E pentendosi lui e dicendo che veramente credea che quelle fossero le stimate di Francesco, dopo due dì orando e pregando il santo di Dio per le sue stimate, fue immantanente liberato. Nel reame di Castella andando a la compieta uno uomo divoto a san Francesco, essendo messi agguati per uccidere un altro uomo, fu manomesso questi e fedito a morte per erro, e fu lasciato per mezzo morto. E poi quello micidiale gli ficcò crudelmente uno coltello per la gola e, non potendolne trarre fuori, sì se ne partìo. Fue il romore e 'l grido grande da ogni parte, e piagnendosi per morto da tutti. E sonando la campana de' frati in mezzo a la notte al mattutino, la moglie cominciò a gridare: "Segnore mio, levati e va al mattutino, ché la campana ti chiama". Incontanente costui levò la mano, e parea che accennasse ad alcuno che li traesse il coltello de la gola; ed ecco che, veggendo tutti, il coltello saltò via a la lungi come fosse stato gittato di mano di fortissimo campione, e incontanente si rizzò perfettamente sanato, e disse: "Il beato Francesco venne a me, e le sue stimate puose in su le piaghe mie, e per la loro suavitade ammorbidìo tutte le mie piaghe, e col toccamento le saldò maravigliosamente; il quale volendosi partire, io gli accennava che traesse fuori il coltello, però che io non potea parlare altrimenti. Ed egli prendendolo, immantanente sì 'l gittò fuori con grande forza, e ponendo le stimate sue sante in su la fedita de la gola, sì la sanòe perfettamente". Ne la città di Roma quelle due chiare lumiere del mondo, cioè san Domenico e san Francesco, stavano col cardinale vescovo d'Ostia, il quale fue poscia Papa; e disse a loro il cardinale: "Perché non facciamo noi de' frati vostri vescovi e parlati, che avanzano tutti gli altri per essempli e per ammaestramenti?" Allora i santi cominciarono a fare lungo contendimento nel risponder; a la perfine vinse l'umiltà san Francesco di non porrersi innanzi, e vinse san Domenico che, rispondendo prima, ubbidisse umilemente. Disse dunque san Domenico: "Messere, i frati miei sono innalzati in buono grado s'ellino il conoscono, e al mio podere non gli lascerò venire in maggiore specchio di dignità". Poscia rispuose san Francesco, e disse: "Messere, i frati miei sono chiamati Frati minori, perché non prosumano d'essere fatti maggiori". San Francesco pieno di semplicità di colombo invitava tutte le criature ad amore del Criatore, predicava gli uccelli, era ascoltato da loro, ed ellino, toccati da lui e se non a la sua parola si ritiravano; le rondini garrenti mentre predicava, subito al suo comandamento stavano in pace. Presso a la cella sua ad Porziuncula una cicala si stava in su un fico, e cantava; e 'l servo di Dio stendendo la mano, sì la chiamò, e disse: "Serocchia mia cicala, vieni a me!" Quella ubbidendo immantanente, saltolli in su la mano, ed elli le disse: "Or canta, serocchia mia cicala, e loda il Signore tuo!" Quella cantò immantanente, e non si partì mentre ch'ella non n'ebbe la parola. Perdonava a le lucerne e a le lampane e a le candele, non vogliendo con la sua mano sozzare lo splendore. Volentieri andava riverentemente sopra le pietre per riguardo di colui il quale è detto pietra; ricoglieva i verminuzzi de la via, acciò che non fossero scalpitati da' piedi de gli uomini, e a le pecchie facea porre il mele e' buoni vini, acciò non venissero meno nel verno per lo ghiaccio; tutti gli animali chiamava per nome di frate. Di maravigliosa ed ineffabile allegrezza era pieno d'amore di carità quando poneva mente il sole e la luna e le stelle, e invitavale a l'amore del Criatore. La corona vietava che li fosse fatta, dicendo che voleva che i frati suoi semplici avessero parte nel capo suo. Uno uomo molto secolaresco avendo trovato il servo di Dio san Francesco predicare a san Severino, vidde, per revelazione di Dio, san Francesco molto risplendiente di due spade per traverso, segnato a modo di croce: le quali spade l'una trabattea dal capo a' piedi, l'altra da l'una mano a l'altra per lo petto. E non avendolo mai veduto, riconoscendolo per questo dimostramento, venneli contrizione, ed entròe ne l'Ordine ove morì felicemente. Ed essendo caduto ne la infermità de gli occhi per continuo lagrimare, confortandolo li frati che s'astenesse de le lagrime, rispuose cosìe: "Non è da cacciar via la visitazione de la eternale luce, per amore del lume che noi abbiamo a comune con le mosche". Ed essendo costretto da' frati ched e' sostenesse che e' li fosse dato rimedio a la infermitade del vedere, tegnendo il medico di cirugia il ferro rovente di fuoco ne la mano, il servo di Dio disse: "Fratello mio fuoco, io priego il Signore che ti creò, che temperi il tuo calore, e che mi sii misericordioso e cortese". E l'uomo di Dio dicendo ciò, fece sopra esso il segno de la Croce; perfondato il ferro ne la tenera carne da l'orecchia infino a le ciglia, niuno dolore sentìo, secondamente che disse. Essendo gravemente infermato il servo di Dio a l'ermo di santo Urbano, non sappiendo che quivi avesse difetto di vino, domandò bere e, non avendovi altro, fulli portata de l'acqua, e fatto il segno de la Croce sopra quella, sì la benedisse, e l'acqua si convertìo in ottimo vino. Sì che quello che la povertà del diserto luogo non poteo fare, la pietade del santo uomo impetròe da Domenedio, a l'assaggio del quale, subitamente fue guerito. Più tosto volea udire di sé vituperio che lode, e per ciò, crescendo in lui molti meriti di santitade, comandava ad alcuno de' frati che ne le sue orecchie lasciasse uscire parole che l'aviliassono e, dicendoli quello frate, avvegna che non volontaroso, che Francesco era un villano marcenaio, inatto e disutile, e 'l santo rispondea: "Benedicati Iddio ché tu parli il vero, e cotali cose mi si confà d'udire". Non volse tanto soprastare il servo di Dio, quanto sottostare, né tanto comandare come ubbidire; e per ciò, dando luogo a l'ufficio generale, addomandò guardiano a la cui volontade sottostesse per tutto. Ancora al frate col quale usava d'andare sempre promettea ubbidienza e conservava. Avendo lui trovato una grande moltitudine d'uccelli, e avendogli salutati come fossero persone ch'avessero in sé ragione, sì disse: "Fratelli miei uccelli, molto avete che lodare Domenedio, il quale vi veste di piume, e davvi penne da volare, ed havvi conceduta la purità de l'aere, e governavi sanza vostra sollecitudine". E li uccelli cominciarono a distendere i colli loro verso di lui e protendere l'ale, aprire i becchi loro e ragguardare attentamente in lui. Ed elli valicando per lo mezzo di loro con la tonica le toccava, né non se ne mosse veruna del luogo insino a tanto che, avuta la licenzia, volassono tutti insieme. Predicando lui a castello Almario, non vi potea essere inteso per lo canto che facevano insieme le rondini, che vi faceano loro nido; a le quali elli disse: "Serocchie mie rondini, già è venuto il tempo che parli io, perché voi avete detto assai, tenete silenzio infino a tanto che sia compiuta la parola di Dio". Al quale elle ubbidendo, tosto si stettono quete. Abbiendo alcuno frate fedito alcuna persona, contra la legge de l'ubbidienza, e avendo dato fuori segno di pentimento, impertanto l'uomo di Dio a volere spaventare gli altri, comandò che il cappuccio di colui fosse gittato nel fuoco. Essendo il cappuccio per tutto nel miluogo del fuoco, comandò che ne fosse tratto fuori e renduto al frate. Fue tratto il cappuccio del mezzo de la fiamma sanza veruno segno d'arsura. Andando lui una volta per le paludi di Vinegia, trovòe una grande moltitudine d'uccelli che cantavano nel palude, e disse al compagno: "Le suore augelle lodano il Criatore loro, andiamo noi, e nel mezzo di loro cantiamo l'ore nostre". Ed entrando fra esse, l'augelle non si mossono punto; ma perché per lo molto gracidare, non si potieno intendere insieme l'uno l'altro, disse san Francesco: "Suore augelle, cessatevi del cantare infin a tanto che noi rendiamo debite laude a Dio". Quelle cessarono immantanente e tacettoro. E finite l'ore del santo, diede loro licenzia di cantare, e quelle ricominciarono a cantare al modo usato. Invitato lui divotamente da uno cavaliere, sì li disse: "Frate mio oste, assenti a' miei ammonimenti, e confessati de' peccati tuoi, però che tosto mangerai altrove". Quelli assentendo immantanente, ordinò i fatti di casa sua e prese penitenzia di salute. Ed essendo entrati sani a Dio, l'oste morìo subitamente. Passando una volta il servo di Dio per la Puglia, sì li venne trovato ne la via una gran borsa piena di danari, e vendendola il compagno, volsela torre per dare a' poveri; ma il santo non gliele lasciò per veruno modo fare, e disse: "Non è licito, frate mio, di torre l'altrui". Ma contendendo quegli pur per volerla torre, san Francesco stando un poco in orazione, comandò poscia a colui che ricogliesse la borsa, la quale per danari avea in sé un serpente. Vedendo ciò il frate, cominciò a tremare, ma vogliendo adempiere il comandamento de l'ubbidienzia, prese la borsa con le mani, e incontanente ne saltò fuori uno grande serpente. E disse il santo: "La pecunia a' servi di Dio non è altro che diavolo e serpente velenoso". Essendo un frate gravemente tentato, cominciò a pensare che s'elli avesse alcuna cosa scritta di mano del padre santo, quella tentazione andrebbe via immantanente; ma non essendo ardito di manifestarli per veruno modo il fatto, una volta il servo di Dio il chiamò e disse: "Recami, figliuolo, un poco di carta e de lo inchiostro, ché voglio scrivere alcune laude di Dio". E quando l'ebbe scritte, sì li disse: "Or tieni questa carta e guardala diligentemente insino al die de la morte tua". Incontanente ogne tentazione si partìo da lui. Questo frate medesimo quando il santo giacea infermo, cominciò cosìe a pensare: "Ecco che 'l padre s'appressima a la morte; molto mi consolerei se dopo la sua morte io avessi la tonica sua". Poco istante il santo il chiamò, e disse: "Io ti do questa tonica e, dopo la morte mia, sì la t'abbia con piena ragione". Essendo il servo di Dio arrivato ad albergo in Alessandria di Lombardia a casa d'uno onesto uomo, fu pregato da lui che per l'osservanza del Vangelio mangiasse di quello che li fosse posto innanzi. E assentendo il santo a la divozione di costui, corse questi e apparecchiò da mangiare un capone di sette anni. E mangiando loro, un paterino venne in quella casa, e domandòe limosina per l'amore di Dio. Incontanente il servo di Dio udendo ricordare il nome benedetto, mandolli uno membro di cappone. Riserbòe quello misero il vembro che gli era dato, e l'altro dì, quando il santo predicava, sì 'l mostrò al popolo, così dicendo: "Ecco che carne manuca questo Francesco, lo quale voi onorate come santo. Questo mi diede elli ieri sera". Ma il vembro del cappone parendo a tutti un pesce, fu ripreso da tutti il paterino come un matto. Quando quegli l'ebbe saputo, vergognossi, e domandò perdonanza; e ritornòe la carne a la sua spezie, poi che quello peccatore fu tornato al cuore suo. E sedendo lui una volta a mensa, e ragionandosi de la povertade de la beata Vergine e del Figliuolo suo, l'uomo di Dio si levò incontanente da mensa, e mandava fuori singhiozzi dolorosi; e bagnando di lagrime in su la gnuda terra, mangiò il rimanente del pane suo. A le mani de' preti, a le quali è data potenzia di consacrare il corpo di Cristo, volea rendere molta reverenzia, onde spesse volte dicea: "Se mi venisse scontrare alcuno santo vegnente da cielo, e alcuno povero prete, più tosto mi metterei a basciare le mani del prete, e al santo dicerei: "Aspettami, san Lorenzo, però che le mani di costui contrattano la parola de la vita, e posseggono più innanzi che cosa umana". Di molti miracoli fu risplendente in sua vita, che i pani offerti a lui a benedire a molti infermi renderono santade; l'acqua convertìo in vino, e lo 'nfermo che ne bevve prima ricevette santade, e molti altri miracoli fece. E approssimandosi il dì de la sua morte, attrito da lunga infermitade, sopra la ignuda terra si fece porre, e fece tutti chiamare li frati che v'erano presenti e, ponendo le mani sopra catuno, benedisse a tutti quelli che erano ivi presenti, e a simiglianza de la cena Domini divise una fetta di pane tra tutti. Invitava, come era sua usanza, tutte le criature a laudare Iddio; ancora essa morte, la quale è così terribile e in odio a tutti, sì invitava al suo albergo, e faccendosi lietamente incontro a lei, sì dicea: "Messere, vegna la mia suora morte!" E vegnendo a l'ultima ora dormìo in pace. La cui anima vidde uno frate fatta a modo di stella, simigliante a la luna in quantità, del sole ne lo splendore. Il ministro de' frati, il quale avea nome Agustino, stando in Terra di Lavoro, posto al sezzaio punto de la morte, abbiendo già molto dinanzi perduta la favella, subitamente gridando, disse: "Aspettami, padre; aspettami, ecco che ne vegno teco!" Domandandolo i frati quel ch'egli dicesse: "Or non vedete voi il nostro Francesco, che se ne va in cielo?" E dormendo incontanente in pace, e' tenne dietro al padre. Essendo morta una donna, la quale era stata molto devota di san Francesco, faccendole l'Officio i cherici, e stando presente il popolo intorno al cataletto, la femmina si levò subitamente ritta in sul cataletto, e chiamò uno de' preti che v'erano presenti, così dicendo: "Io mi voglio confessare, padre mio, però ch'io era morta, e dovea essere messa in una crudele pregione, però che d'uno peccato ch'io ti manifesterò non m'era ancora confessata; ma pregando per me san Francesco, fummi conceduto di ritornare al corpo, acciò che manifestato quello peccato, io meriti d'avere perdonanza; e sì tosto come io il t'avrò manifestato, avveggente tutti voi, mi morrò in pace". Sì che confessata la donna e assoluta, incontanente dormìo in Domenedio. Domandando in prestanza i frati da Vicera un carro da uno loro vicino, quegli indegnato rispuose così: "Io ne scorticherei anzi due di voi con esso Francesco, che io vi prestassi il carro mio". Ma ritornato in sé, riprese se medesimo, e pentessi de la bestemmia, temendo l'ira di Dio. Incontanente il figliuolo suo infermòe e, infermato, venne al punto de la morte. Veggendo costui il figliuolo morto, voltolavasi per terra, e piagnendo chiamava san Francesco e diceva: "Io sono quegli che peccai, me dovevi flagellare; or lo rendi, santo mio, a colui che te ne priega devotamente, lo quale lo togliesti a biastemmiare spietosamente". Incontanente il figliuolo si levò ritto e, vietando il piagnere, sì disse: "Quando io era morto, san Francesco mi menò per una via lunga e oscura, e finalmente m'allogòe in un bellissimo giardino; poscia mi disse: "Ritorna al padre tuo, non ti voglio più tenere!" Un povero che dovea dare alcuna quantità di pecunia ad uno ricco, sì 'l pregava che per amore di santo Francesco gli prolungasse il termine, e quegli rispondendoli superbamente, sì li disse: "Io ti rinchiuderò in tale luogo, che né Francesco, né altri non te ne potrà aiutare". E tanto tosto il mise inferriato in una carcere tenebrosa; poco stante ed eccoti san Francesco e, spezzata la carcere e rotti i legami, rimenò l'uomo a casa sua, sano e lieto. Uno uomo ch'avea sì perduta la gamba, che per neuno modo si poteva muovere, chiamava san Francesco a cotali boce, e sì dicea: "Aiutami, san Francesco! Ricorditi de la divozione, e del servizio ch'io ti feci; ché io ti portai in collo e basciai le tue sante mani e ' piedi; e ecco che pare ch'io muoia del durissimo tormento di questo dolore!" Immantanente il santo gli apparve, e con un bastone, ch'avea il segnale del Tau, gli toccò il luogo del dolore e, rotta l'apostema, immantanente ricevette sanitade; ma sempre rimase il segnale del Tau sopra il detto luogo. Con questo segnale solea san Francesco suggellare le sue lettere. Nel castello Pomereto, ne le montagne di Puglia, essendo morta la fanciulla al padre e a la madre, che più non aveano, la madre divota di san Francesco, ripiena di molta tristizia, san Francesco l'apparve, e disse a lei: "Non piagnere, ché questo lume di lucerna che tu piagni spento, per mio priego ti dee essere renduto". Allora la madre prendendo fidanza non lasciò portare fuori il corpo morto; ma chiamando il nome di san Francesco, e prendendo per la mano la figliuola morta, sì la levò suso sana ed allegra. In Roma essendo caduto un fanciullo piccolo da le finestre del palagio e al postutto morto, per dimandare l'aiuto di san Francesco fue rimenato a la vita. Ne la città di Suessa rovinando una casa uccise un giovane, ed essendo posto nel cataletto per sotterrare, la madre chiamava san Francesco con divota orazione, quanto potea. Ed eccoti entro la mezzanotte il fanciullo isbadigliare, e levossi sano lodando Domenedio. Frate Jacopo da Rieti avendo passato un fiume in una navicella con altri frati, essendo già i compagni in su la riva, ed elli brigandosi d'uscire, ne l'uscire de la nave, si rivolse, ed elli andò in profondo del fiume. Sì che pregando i frati san Francesco che liberasse colui ch'era profondato, ed elli pregandolne anche col cuore come potea, ed eccoti il detto frate andare per lo fondo, come per terra secca, e prese la nave profondata, e venne con essa a la riva. E non si bagnò le sue vestimenta, né pure una gocciola d'acqua entrò ne la tonica sua. Rendette l'anima al nostro Signore san Francesco ne gli anni del nostro Signore [MCCXXVI].
cap. 145, S. PelagiaPelagia de le maggiorenti donne de la città d'Antiochia, piena di molte cose e di ricchezze, bellissima del corpo, superba ne l'abito, vana ne l'anima e lussuriosa del corpo, passando una volta per la città con molta ambizione, in tal maniera che sopra lei non si vedea altro se none oro ed argento e pietre preziose, sì che dovunque andava di diversi odori di spezie riempieva l'aere. Ed andavale innanzi e dietro grandissima moltitudine di donzelli e di donzelle, i quali medesimamente erano vestiti di nobili vestimenti. E veggendola uno santo padre, ch'avea nome Nonno, vescovo d'Eliopoleos, il quale luogo si chiama ora Damietta, cominciò a piagnere amarissimamente di ciò, che quella avea maggiore sollecitudine di piacere al mondo, che elli di piacere a Dio; e gittandosi per terra, entro percotevasi la faccia con la terra; e bagnando di lagrime la terra diceva: "Altissimo Dio, perdona a me peccatore, però che l'ornamento d'una meretrice per un die ha vinto lo 'ngegno di tutta la vita mia. Non mi confonda, messere, l'ornamento d'una meretrice dinanzi al cospetto de la divina maestà tua da tremare; quella s'hae abbellita con sommo studio per le cose terrene, io m'ho proposto di piacere a te, Signore non mortale e, per mia negligenzia, non l'ho adempiuto". E disse a quelli che erano seco: "In verità vi dico che Domenedio vi porrà innanzi contra di voi costei nel giudicio, però che questa s'adorna così sollicitamente per piacere a terreni amadori, e noi ci anneghittiamo di piacere al celestiale sposo". Dicendo lui queste cose ed altre simigliante, subitamente s'addormentò, e vidde in visione che una colomba nera, e molto puzzolente, volasse sopra lui dicendo la Messa. Il quale abbiendo comandato che i non battezzati si spartissono, la colomba isparve, e ritornando dopo la Messa, e attuffata dal detto vescovo in su vasello d'acqua, sì n'uscì fuori monda e bianca, e volòe tanto alto, che non poté essere veduta. Sì che isvegliandosi il vescovo e andato a la chiesa una volta per predicare, standovi presente questa Pelagia, sì le venne tanta contrizione che li mandò lettera per uno messo, così dicendo: "Al santo vescovo, discepolo di Cristo, Pelagia discepola del diavolo; se tu veramente se' provato d'essere discepolo di Cristo, il quale, come hoe udito, discese in terra per gli peccatori, degnati di ricevere me peccatrice, ma pentuta!" E quegli le rimandò dicendo: "Io ti priego che tu non tenti l'umiltà mia, però che io sono uomo peccatore, ma se tu hai disiderio di salvarti, non mi potrai vedere solo, ma vedra'mi tra gli altri". Ed essendo venuta a lui dinanzi a molti, prese i piedi suoi e, piagnendo amarissimamente, cominciò a dire: "Io sono Pelagia, pelago d'iniquitade, ondeggiante da tempeste di peccati; io sono abisso di perdizione; io, divoramento e lacciuolo de l'anime, molti ingannati hoe ingannati, la quale abbo tutte cose ora in abbominio". Allora il vescovo la domandò, e disse: "Com'hai tu nome?" E quella disse: "Dal mio nascimento son chiamata Pelagia, ma per la borbanza de le vestimenta mi chiamano tutti Margherita". Allora quegli ricevendola pietosamente, sì le impuose la penitenzia salutevole, e ammaestrolla diligentemente nel timore di Dio, e ringenerolla nel santo battesimo. E 'l diavolo gridava quivi e dicea: "O forza che m'è fatta da questo vecchio cascante! O forza! O vecchiaggine rea! Maladetto sia il die nel quale tu nascesti contradio a me, però che tu m'hai tolta la grandissima mia speranza". Una notte dormendo Pelagia, il diavolo venne a lei, e destandola sì le disse: "Madonna Margherita, che male ti fec'io mai? Or non t'abbo io ornata di ricchezze e di gloria? Io ti priego che tu mi dichi in qual cosa io ti contristai; e io sono per soddisfare. Ma io ti scongiuro che tu non m'abbandoni, acciò ch'io non diventi brobbio a' cristiani". Ma ella si fece il segno de la Croce, e soffiò contra al diavolo, e immantanente sparve. E 'l terzo die raunò ciò ch'ella avea, e diedelo a' poveri. Da ivi ad alquanti dì, sanza saputa di persona, Pelagia fuggìo quindi di notte tempo, e capitòe nel monte d'Oliveto; nel quale luogo, prendendo abito di romito, s'allogò iviritto in una piccola cella, e servìo a Domenedio in molta astinenzia. Ed era tenuta di grande nominanza, e chiamavasi frate Pelagio. Dopo questo venne un diacono, che era sotto l'ubbidienza del detto vescovo, che venìa in Gerusalem a visitare i luoghi santi; al quale disse il vescovo che poi che avesse visitate le luogora sante, andasse cercando d'uno monaco che avea nome Pelagio e vicitasselo, con ciò fosse cosa che fosse verace servo di Dio. Quando quelli ebbe ciò fatto, elli fue conosciuto da lei, ma non conobbe lei tant'era dimagrata. Al quale disse Pelagia: "Ha' tu vescovo?" E quelli disse: "Sì, messere". E quella disse: "Prieghi per me il Signore, però che veramente è apostolo di Cristo". E partendosi il cherico da lui, in capo di tre dì ritornò alla cella di lei e, picchiando a l'uscio e non rispondendoli persona, aperse la finestra, e videlo morto. Allora corse per dirlo al vescovo e al cherico; e raunarsi là con tutti quelli monaci per fare l'Officio a così santo uomo, e avendo tratto il corpo suo fuori de la cella, trovarono che era femmina. E maravigliandosi molto di ciò, renderono grazie a Domenedio, e soppellirono il corpo santo onorevolemente. E morìo otto dì entrante Ottobre, intorno a gli anni Domini CCLXXXX.
cap. 146, S. Margherita - PelagioMargherita, detta Pelagio, vergine bellissima, ricca e nobile, con tanta sollecitudine di parenti fu guardata, e ammaestrata d'ottimi costumi, e tanta onestade di castitade era in lei, che in tutt'i modi rifiutava d'essere veduta da gli uomini. Finalmente fue domandata per moglie da un gentile giovane e, per consentimento de' parenti d'ambe le parti, s'apparecchiano tutte le cose necessarie a le nozze con grande gloria di delizie e di ricchezze. Essendo dunque venuto il die de le nozze, e faccendo la festa grande de le nozze i giovani e le pulcelle e tutta la gentilezza insieme dinanzi a la camera già apparecchiata, la vergine, ispirata da Dio, considerando il danno de la verginità procurato per sì dannosi trastulli, abbattuta in terra con lagrime, con tanto ricompensamento pesòe nel cuore suo la gloria de la verginitade e le gravezza del maritaggio, che tutte l'allegrezze di questa vita riputava come sterco. Onde astegnendosi quella notte da la compagnia del marito, ne la mezzanotte, raccomandandosi a Dio, tagliossi i capelli e in abito d'uomo fuggìo nascosamente. E vegnendo ad uno monasterio ch'era da lungi, e chiamandosi frate Pelagio, fu ricevuto da l'abbate e ammaestrato diligentemente. E portossi tanto santamente e religiosamente che, morto il provveditore de le monache, per consiglio de' più antichi e per comandamento de l'abbate, fu posto sopra il monasterio de le vergini, avvegnadio ch'e' non volesse. Sì che servendo loro non solamente de le necessitadi del corpo, ma eziandio del pasto de l'anime continuamente sanza veruna colpa, il diavolo, invidioso di tanto bene, studiossi come potesse impedire il prosperevole corso di lui per apponimento d'alcuno peccato. Sì che trasse ad avolterio alcuna vergine che sopra le porte era; e, ingrossando il ventre che non si potea già più celare, tanta vergogna e dolore abbatteo i monaci e le vergini d'ambi i monasteri, che solo Pelagio, sì come famigliare e proposto di loro, sanza giudicio e disaminazione fu condannato da tutti. Il quale con vituperio fu cacciato fuori, e rinchiuso in una spelonca da un sasso, e fulli dato a servire uno de' più crudeli che fosse tra ' monaci, che li servìa di pane d'orzo e d'acqua molto sottilemente. E fatto questo i monaci si partirono, e lasciarollo solo quiviritto Pelagio. E quella sostenne ogne cosa pazientemente, e in nulla si turbò; ma rendendo grazie a Domenedio, sempre si confortava per li essempli de' santi continuamente. A la perfine avendo saputo che 'l termine de la vita sua era presso, mandato così a dire a l'abbate e a gli monaci per sue lettere: "Io fui chiamata Margherita nel secolo, nata di nobile ischiatta, la quale per passare il pelago de le tentazioni, sì mi puosi nome Pelagio. Io non sono uomo; mentìo non per inganno quello ch'io ho mostrato per opera; del peccato ho acquistato vertudi, ho compiuto la penitenzia io sanza colpa; già vi voglio pregare che non mi sotterrino gli uomini, che non m'hanno conosciuto per femmina, ma le sante suore mi sotterrino, e così per dimostramento di femmina morente, con la purgazione del vivente, mi riconoscano essere vergine, la quale gli accusatori giudicavano essere adoltera". Udendo queste cose i monaci e le monache corsono a la spelonca, e fu conosciuto Pelagio da le femmine essere femmina e vergine non corrotta, e faccendo tutti penitenzia, sì la soppellirono onorevolemente nel monasterio de le vergini.
cap. 147, S. TaideTaisi meretrice, sì come si truova iscritto ne la vita di santi Padri, fue di tanta bellezza che molte persone vendendo per lei tutte le loro possessioni, pervennero a l'ultima povertade; ma gli amatori suoi per le gelosie che aveano tra loro, spesse volte il limitare de l'uscio riempievano del sangue de' giovani. La qualcosa udendo l'abbate Panunzio, prese abito di secolare, e tolse un soldo di danari, e andò a lei in una città de l'Egitto, e diede a lei e' denari quasi per pagamento del peccato. Quella togliendo il prezzo, sì li disse: "Entriamo insieme ne la camera". Ed essendo entrato Panunzio, ed invitato di salire in sul letto ornato di preziose vestimenta, disse a lei: "Hacci camera che sia più addentro, dove non entri persona?" E quella il menò in una camera più addentro, e disse: "Qui non ci potrebbe vedere altri che solo Iddio". Udendo questo, l'abbate disse a lei: "Sai che Domenedio sia?" Quella dicendo che conoscea che era Dio e regno di Paradiso e pene di peccatori, disse l'abbate a lei: "Se tu l'hai conosciuto, or perché fai perdere cotante anime? Ché non solamente per la tua, ma per l'altrui, dovendo rendere ragione, sarai dannata". Quella udendo queste cose, gittossi a' piedi de l'abbate Panunzio, e con lagrime il pregava dicendo: "Io so che sia penitenzia, padre, e confidomi ad accattare perdonanza per tuo preghiero; ma priegoti che tre dì mi dei indugio, e poscia andrò dovunque tu mi comanderai, e farò ciò che tu m'imporrai". Ed abbiendo ordinato il luogo dov'ella dovesse venire a lui, quella ragunò tutto ciò ch'ella avea guadagnato del peccato, e portò nel mezzo de la città, avveggente il popolo, arse ogni cosa nel fuoco, così gridando: "Venite tutti voi che avete peccato meco, e vedete come io arderò tutto ciò che voi m'avete dato!" Ed era il prezzo de l'oro di libbre CCCC. Ed avendo consumato ogne cosa nel fuoco andò al luogo dove l'abbate Panunzio avea ordinato con lei. Da che ella l'ebbe trovato, sì andò ad un monasterio di vergini, e rinchiuselavi entro in una cellolina, e suggellòe col piombo l'uscio de la cella, lasciandovi una piccola finestruzza, onde le fosse dato poco da mangiare; e comandò che le fosse dato da certi servigiali ogne die uno poco di pane e uno poco d'acqua. E partendosi l'abbate, disse a lui Taisi: "In quale luogo comandi tu, padre, ch'io mandi fuori quello che uscirà per naturale corso?" E quelli disse: "Ne la cella, come tu se' degna". Domandando anche quella in che modo dovesse orare, l'abbate rispuose: "Tu non se' degna di nominare Dio, né menarti per bocca il nome de la Trinitade, né ancora di levare le mani al cielo, però che le labbra tue sono piene d'iniquitade, e le mani tue sono vituperate da sozzure, ma guardando inverso l'oriente dirai ispesso questa parola: "Tu, che mi criasti, abbi misericordia di me!". Essendovi dunque stata rinchiusa tre anni, increbbene a l'abbate Panunzio, e andò a l'abbate Antonio per dimandare se Dio l'avesse ancora perdonato i peccati suoi. Allora santo Antonio ragunò i discepoli suoi e, narrata la cagione, comandò loro che stessero in orazione quella notte, diviso l'uno da l'altro, acciò che Dio dichiarasse loro il fatto per lo quale l'abbate Panunzio era venuto. Essendo dunque stati in orazione perseverantemente, l'abbate Paulo, il maggiore discepolo d'Antonio, vidde subitamente in cielo un luogo ornato di preziosa vestimenta, il quale luogo era guardato da tre vergini con chiara faccia. Queste tre vergini furono: il timore de la pena futura, che ritrasse lei dal male; il pudore de la colpa commessa, che gli meritò il perdono; l'amore de la giustizia che la trasportò a cose celesti. E dicendo Paulo a loro che quella grazia era pur d'Antonio, la boce di Dio rispuose: "Non è del padre tuo Antonio, ma de la meretrice Taisi". La qualcosa quando Paulo ebbe raccontato la mattina seguente, l'abbate Panunzio, conosciuta la volontà di Dio, sì si partìo con allegrezza, e andò incontanente al monasterio, e isconficcòe l'uscio de la cella. E quella il pregava che la lasciasse stare anche rinchiusa, ed egli disse: "Escine fuori, però che Dio t'ha perdonato i peccati tuoi". E quella rispuose: "Dio il sa che poscia che io entrai qua, che di tutti i peccati miei feci una somma, e teneala sempre dinanzi a gli occhi miei, e secondamente che lo spirare non si parte de le nari mie, così non si partìano i peccati miei da gli occhi miei, ma sempre piagneva considerandoli". A la quale l'abbate Panunzio disse: "Non t'ha Domenedio perdonato i peccati tuoi per la penitenzia tua, ma perché tu hai avuta sempre questa paura ne l'animo tuo". E poi che la n'ebbe tratta fuori, XVsopravvisseci, e morìo in pace. L'abbate Effrem volle, per simigliante modo, quasi convertire un'altra meritrice. Ché invitando quella meritrice santo Effrem isvergognatamente a peccare, e Effrem le disse: "Vieni dopo me". Quella andando dopo lui, sì la menò ad un luogo, dove aveva una grande moltitudine d'uomini, e disse a lei: "Ponti giù, ché voglio ausare a fare teco". E quella disse: "Come il posso io fare dinanzi a tanta moltitudine?" E quegli rispuose: "Se tu hai vergogna de gli uomini, or non ti dovresti tu vergognare più del criatore tuo, il quale revela l'occulte cose de le tenebre?" Quella fue confusa, e partissi.
cap. 148, S. DionigiLa sua passione e la vita sua dittòe in greco Metodio, e in latino Anastagio, libraio del Papa, come dice Hincmaro, vescovo di Renso. Dionisio Ariopagita fu convertito da san Paulo apostolo a la fede di Cristo; il quale fu detto Ariopagita da una ruga de la cittade ne la quale abitava. Ariopago era la ruga di Marte, ne la quale era il tempio di Marte. Coloro d'Atenia dinominavano tutte le rughe de le cittade da li dei, i quali adoravano, sì come la ruga di Marte era chiamata Ariopago; la ruga dove s'adorava Pan chiamavano Panapago, e così da tutti li dei dinominavano le rughe. Ariopago era una ruga più alta che l'altre, però che quivi era la corte de' nobili e le scuole de le sette arti. Sì che in questa ruga dimorava Dionisio, grandissimo filosafo, imperò che per la pienitudine de le divine cose e de la sapienzia, era detto Teosofo, cioè sapiente di Domenedio. E stava con lui un altro filosafo, ch'avea nome Apollofano. Quivi stavano anche gli Epicuri, i quali ponevano la beatitudine de l'uomo nel solo diletto del corpo, e li stoici che la ponevano nel solo diletto de l'animo. Il die che il Signore nostro ricevette passione, essendo fatte le tenebre per tutta la terra, li filosofi ch'erano ad Atena non poterono trovare la cagione di ciò ne le cose naturali. Però che non fue naturale il difetto del sole, sì perché la luna era poco meno da la regione del sole, ovvero nel congiugnimento del defetto come suole essere pur nel sinodo del sole e de la luna. La luna era di XV dì, e così era in compiuta distanzia dal sole, sì altressì perché 'l difetto non tolle il lume a tutte le parti de la terra, sì altressì perché non può durare tre ore. E quello difetto togliesse lume a tutte le parti de la terra, sì si manifesta in ciò che santo Luca Vangelista il dice, in ciò che 'l Signore de l'università sostenea passione, e in ciò che fue ad Eliopoli de l'Egitto, e in ciò che fue ancora a Roma e in Grecia e in Asia Minore. E ched e' fosse a Roma, sì 'l testimonia Orosio che dice così: "Quando il Signore fu confitto nel legno de la Croce, fu uno grandissimo tremuoto per lo mondo; fessi e' sassi ne i monti, e molte parti de le gran città caddero per lo crollare più che usato non è. E in quello cotale dì, ne l'ora sesta, il sole fue oscurato, diritta notte subitamente venne a la terra, intanto che si racconta che furono vedute le stelle allora de l'ore del die, ovvero maggioremente orribole notte per tutto il cielo". Questo dice Orosio. Questo medesimo dice Dionisio ne la Pistola che mandò a Apollofano, e dice così: "Adombrato il mondo tutto dava maniera per l'oscuritade de le tenebre, poi che reddio purgato il diametro del sole, pigliammo la regola di Filippo Arrideo, e quando avemmo trovato, cosa conosciutissima del resto, che il nobilissimo sole non dovea patire ingiuria, dico a te: "Santuario di profonda conoscenza, che ancora non sapevi il misterio di tanta cosa! Che, dico, specchio di dottrina, Appolofano, che pon tu a queste scritture?" A la quale cosa tu parli a me per bocca di Dio, non per sermone di senno umano: "O buono Dionisio, sono mutamenti de le cose divine". A la perfine ricorda il die de la feria notato, e l'anno de l'annunziagione, lo quale Paulo nostro risonòe a l'orecchie nostre, levate per gli segnali che 'l gridano; provata la mano de la verità di Dio, e assoluto da la falsità sanza legami". Insin qui dice Dionisio. Di questo ricorda anche Policarpo parlando di sé e d'Apollofano: "Ambedue noi allora presenti ad Eliopoli, e insieme stando, vedevamo la luna fuor d'openione stare dinanzi dal sole; e non era tempo usato, e ancora la vedemmo da quell'ora de la nona infino al vespro, restituita sopra natura dal diametro del sole. E quella oscuragione vedemmo incominciata in oriente e venire infino al termine del sole, poscia ritornare; e ancora non da quello medesimo e 'l defetto e 'l contrastamento, ma per contrario fatta secondo il diametro". Infino qui dice Dionisio. Allora era andato con Apollofano, saputo de l'arte de l'astrologia, ad Eliopoli, città de l'Egitto, e poi ritornò di là. Finalmente, secondo che si legge ne le Storie Scolastiche, i filosofi vennero a questo: che dissero che 'l Domenedio de la natura pativa pena. In altro luogo si legge che dissero: "O 'l Domenedio de la natura è pervertito, o gli elementi mentiscono, o 'l Domenedio de la natura patisce pena e gli elementi gli hanno compassione". In altro luogo si legge che Dionisio disse: "Questa notte che noi ci maravigliamo che è nuova, significa la luce di tutto il mondo che debbia venire". Allora quelli d'Atena ordinaro l'altare a quello Dio, e la soprascritta dicea: "Altare al Domenedio non conosciuto". A tutti gli altri si ponea la soprascritta a dimostrare a quale Domenedio fossero sagrati; e volendovi offerere sagrificio, i filosofi dissero: "De' nostri beni non ha bisogno, ma farete invenie dinanzi a l'altare suo, e umilieretevi a lui, imperò che non va caendo offerte d'animali, ma divozione de li animi". Essendo Paulo venuto ad Atena, gli Epicurei e gli Stoici disputavano con lui, e alcuni diceano: "Che vuole dire questo seminatore di parole?". Altri diceano: "Nuove dimonia ci viene questi annunziare". E menandolo a la ruga de' filosofi, acciò che la nuova dottrina fosse quivi disaminata, dissero a lui: "Tu rechi nuova dottrina a le orecchie nostre; noi vorremo sapere che cose queste vogliono essere". Quelli d'Atenia a niun' altra cosa attendeano se non o a dire o a udire alcuna nuova cosa. Abbiendo dunque Paolo cerchi tutti gli altari e, veduto tra gli altri l'altare del Domenedio non conosciuto, disse a loro Paulo: "Quello Dio che voi adorate, non conoscendolo, questo v'annunzio, che è veragio Dio, il quale fece il cielo e la terra". Poscia disse a Dionigio, lo quale e' vedea tra gli altri più ammaestrato ne le divine cose: "Quale è, o tu Dionigio, quello Dio non conosciuto?" Rispuose Dionisio: "Egli è lo Dio verace, il quale tra gli dei non è dimostrato, ma a noi è non conosciuto, e dee essere nel secolo che dee venire, e in perpetuo dee regnare". Disse Paulo: "È egli uomo, o pure spirito?" Rispuose Dionigio: "Egli è Dio e uomo, ma però è non conosciuto, perché la sua conversazione è pure in cielo". E Paulo gli disse: "Quegli è colui ch'io vi predico, il quale discese di cielo, ricevette carne, sostenne morte e al terzo die risuscitòe". Contendendosi ancora Dionisio con Paulo, per ventura passava un cieco dinanzi a loro, incontanente disse Dionigio a Paulo: "Se tu dirai a questo cieco nel nome del tuo Dio: Vedi, ed elli vedrà, incontanente ti crederò; ma non usare tu parole d'arte magica, che forse tu sai parole c'hanno questa cotale efficacia. Io ti scriverò la forma de le parole; in questa forma di parole dirai al cieco: Nel nome del nato de la Vergine, crucifisso, morto, il quale risucitò e salìo in cielo, vedi". Ma acciò che ogne sospezione fosse tolta via, disse Paulo a Dionisio che elli medesimo dicesse quelle parole al cieco. Sì che quando Dionisio ebbe detto al cieco, in quella forma, ched e' vedesse, immantanente vidde. Allora Dionigio con Damari, sua moglie, e con tutta la famiglia si battezzò, e diventò fedele cristiano; e così fu ammaestrato da Paulo per tre anni, e poi fu fatto vescovo d'Atenia, nel quale luogo elli soprastando a la predizione, quella cittade e grandissima parte di quella contrada convertìo a la fede di Cristo. A costui si dice che Paulo rivelasse quelle cose che vide, essendo rapito insino al terzo cielo, sì come esso Dionisio pare che voglia dire in più luogora. Onde de le gerarchie de li angeli, e de li ordini, e de le disposizioni, e de li officii sì lucidamente e sì chiaramente parlòe, che si crede che queste cose non udisse da altri, ma maggiormente che esso fosse rapito nel terzo cielo, e quivi avesse veduto tutte queste cose. Spirito di profezia ebbe, come si manifesta ne la Epistola ch'elli mandò a Giovanni Evangelista ne l'isola di Patmos, essendovi confinato, ne la quale Pistola profetòe che quindi dovea ritornare; e dice così: "Rallegrati, veramente dolce, veramente amabile e disiderevole e molto amato!" E più disotto dice: "De la guardia la quale è in Patmos, sarai lasciato, e ritornerai a la terra d'Asia, e farai ivi buoni seguitatori di Dio, e a coloro che saranno dopo di te darai". A la morte de la vergine Maria fu presente altressì come gli altri, sì come pare che mostri nel libro de' Nomi Divini. Avendo dunque udito che Piero e Paulo erano a Roma tenuti in pregione da Nerone imperadore, ordinò che un altro fosse vescovo per lui, e elli andò a visitare gli apostoli. Ma essendo coloro andati a Domenedio beatamente, ed essendo Papa Clemente, fu mandato da esso san Clemente in Francia, e datoli in compagnia Rustico e Eleuterio, sì che, mandato, venne a Parigi, e convertinne molti a la fede, e fece molte chiese, e allogovvi cherici di diverso ordine. Tanta grazia di cielo risplendette in lui che, movendo spessamente i pontefici turbamento nel popolo contra di lui, e correndo gli armati contra lui per ucciderlo, sì tosto come il vedeano, tornavano a mansuetudine, e gittavaglisi a' piedi, e poi, percossi da molta paura, fuggivano da la sua presenzia. Ma il diavolo veggendo ed invidiando che l'onore suo venìa meno, e la chiesa si sciampiava per moltiplicamento de' fedeli, commosse a tanta crudelezza Domiziano imperadore, che qualunque trovasse alcuno cristiano, od egli il costrignesse di sacrificare, od elli il punisse con diversi tormenti. Sì che mandato il prefetto Fescennino da Roma a Parigi contra i cristiani, trovò san Dionisio predicare al popolo, immantanente comandò che fosse preso e 'ngoffato, isputacchiato, schernito e legato con durissime funi, e che fosse presentato dinanzi da lui con santo Rustico ed Eleuterio. E stando questi santi dinanzi da lui in confessare la fede, eccoti venire una gentile donna, e affermava che 'l marito suo Lubio era sozzamente ingannato da questi magi. Sì che mandato per lo marito di costei tostamente, e perseverando ne la confessione del nome di Cristo, fu morto ingiustamente, e li santi furono battuti da dodici cavalieri. Poi costretti da grande carico di catene furono messi in pregione. E 'l seguente die san Dionisio fu disteso sopra una graticola di ferro con le fiamme disotto, ignudanato, sopra la quale stando, cantava al Signore così dicendo: "Infiammata è la parola tua fortemente, e 'l servo tuo sì l'ha amata". Poscia fu levato quindi, e fu gittato a ferocissime bestie affamate per molto digiuno. E correndo quelle con grande furore contra di lui, fece contra esse il segno de la Croce, e fecele mansuetissime. Poscia fu gittato in uno forno, ma il fuoco si spense, e non gli fece veruno male. Fue confitto in croce e tormentato quivi lungamente; poi ne fu messo a terra, e messo in pregione co' compagni e con molti altri cristiani. Nel quale luogo dicendo elli la Messa e comunicando il popolo, apparveli Jesù Cristo con grande lume, e prendendo il pane sì li disse: "Togli questo, caro mio, però che meco è la tua grande mercede". Poscia furono appresentati al giudice e macerati un'altra volta con nuovi tormenti, e a lato a l'idolo di Mercurio, con le scure furono tagliate loro le teste, confessando la santa Trinitade. Incontanente il corpo di san Dionisio si levò ritto, e portò il capo suo fra le braccia a guida de l'angelo, andando innanzi lo lume celestiale per due miglia, cioè dal luogo dove si dice Monte di Martiri infino al luogo dove si riposa ora per sua elezione e per la provvedenza di Dio. E tanta melodia d'angeli risonòe in quello luogo, che tra molti che l'udirono e credettoro, eziandio Laerzia, moglie del sopraddetto Lubrio, si chiamò cristiana, e incontanente da quelli empii fu presa e dicollata, e così morìo battezzata nel suo sangue; e 'l suo figliuolo, ch'avea nome Virbio, fu cavaliere sotto tre imperadori, e poi ritornando a Parigi fu battezzato ed entrò in religione. E temendo gl'infedeli che i corpi di san Rustico e di san Eleuterio non fossero seppelliti da' cristiani, comandarono che fossero gittati nel fiume di Senna. Ma una gentile donna invitòe a desinare i portatori di quello corpo e, mangiando con loro, fece torre furtivamente quelli corpi, e fecegli soppellire nel campo suo celatamente; e poscia cessando la persecuzione gli levò quindi, e soppellilli onorevolemente, accompagnandoli al corpo di san Dionisio. E furono martirizzati ne gli anni Domini XCVI, avendo san Dionisio etade di XC anni. Dicendo la solennità de la Messa santo Regolo in Arelate, avendo raccontate le nomora de li apostoli ne la segreta, sì v'aggiunse questa parola: "E li beati martiri tuoi, Dionisio, Rustico ed Eleuterio". E con ciò fosse cosa che questi servi di Dio vivesseno ancora per sua credenza, cominciossi molto a maravigliare per che cagione elli avesse così nescentemente raccontati i loro nomi ne la segreta. E maravigliandosi così di ciò, eccoliti apparire tre colombe, e puosonsi in su la croce de l'altare. Le quale colombe avevano segnate di sangue nel lor petto le nomora di questi martiri; le quali ragguardando diligentemente, intese per quelle che i santi martiri erano passati di questa vita. Ed è da notare che Hincmaro, vescovo di Renso, ne la pistola che mandò a Carlo dice che questo Dionisio mandato in Francia fue quello Ariopagita, sì come detto è disopra. Quello medesimo dice Joanni Scoto ne la pistola ched e' mandò a Carlo, acciò che la ragione per lo compitato tempo non contradicesse, sì come alcuni volsono opporre.
cap. 149, S. CallistoCalisto papa sostenne martirio ne gli anni Domini CCXXII, sotto Alessandro imperadore. Al cui tempo la più alta parte di Roma arse per divina giustizia, e la mano manca d'oro di Jove alliquidìo. Allora tutt'i sacerdoti vennero a domandare ad Alessandro imperadore che li dei adirati fossero umiliati con sacrificii. E offerendo i sacrificii, subitamente il giovedì mattina stando il cielo sereno, venne una saetta folgore da cielo, che uccise quattro sacerdoti de l'idole, e arse l'altare di Jove, e 'l sole iscuròe, sì che il popolo di Roma fuggìa fuori de le mura. E udendo Palmazio consolo, che Calisto co' suoi cherici stava nascosto in Trasteveri, pregò ch'e' cristiani, per cui era addivenuto questo male, fossero al postutto spenti per purgare la cittade. Sì che Palmazio preso ch'ebbe la potenzia, andato che fue colàe con l'arme e co' cavalieri, essendo là, incontanente diventarono ciechi, e, spaventato, mandollo a dire ad Alessandro. Allora lo 'mperadore comandò che tutto il popolo si ragunasse mercoledìe per fare sacrificio a Mercurio, acciò ch'avessono risposta da quello Idolo. E sopra questi fatti e faccendosi ciò, una vergine del tempio, la quale avea nome Giuliana, fu presa dal demonio, e cominciò a gridare: "Il Domenedio di Calisto è vivo e vero, il quale è cruciato per le nostre sozzure". Udendo ciò Palmazio, andò oltre Trasteveri a la città di Ravignani, a santo Calisto, e fecesi battezzare a lui con la moglie, e con tutta la famiglia. La qualcosa udendo lo 'mperadore fecesi venire Simplicio senatore, e missegli ne le mani colui, acciò che rimovesse con buone parole di lusinghe, però ch'egli era molto necessario a la repubblica. Ma Palmazio perseverava in digiuni e orazioni; e venne a lui uno promettendogli che se sanasse una sua moglie paralitica, incontanente crederebbe. Orando dunque Palmazio, quella, sanata, corse a Palmazio, così dicendo: "Battezzami nel nome di Cristo, il quale ha tenuta la mano mia e hammi alleviata". Allora venne Calisto e battezzolla col marito suo Simplicio e con molti altri. Udendo ciò lo imperadore, comandò che tutti i battezzati fossono dicollati, e fece stare Calisto cinque dì sanza manicare e bere. Ma veggendo che quelli si confortava più, comandò che ogne dì fosse battuto, poscia il fece legare ad uno grande sasso e, così legato, gittare da una finestra in uno pozzo. E Asterio prete levò quello corpo del pozzo e soppellilo nel cimiterio di Calipodio.
cap. 150, S. LeonardoLeonardo si dice che fu intorno a gli anni Domini D. Costui fu figlioccio di san Remigio, arcivescovo di Renso, e da lui ammaestrato di salutevoli ammaestramenti. Li cui parenti erano tenuti i maggiori nel palazzo del re di Francia. Ottenne tanta grazia dal re che tutti gl'incarcerati, i quali elli visitava, immantanente erano assoluti. Crescendo dunque la fama de la sua santitade, il re il costrinse che stesse seco molto tempo, tanto che venisse tempo di darli vescovado. E quegli il rifiutò e, disiderando solitudine, lasciò stare ogne cosa, e col fratello suo Lifardo, predicando capitò ad ad Orliens, nel quale luogo poi che Lifardo ed elli furono abitati alcuno tempo in una cella, volendo Lifardo sopra la ripa del Ligere stare solitario, e Leonardo per ammonizione de lo Spirito Santo, propognendo di cavalcare in Aquitania, basciaronsi insieme, e spartironsi l'uno da l'altro. Sì che Leonardo, predicando per ogne contrada e faccendo molti miracoli, abitò in una selva, vicina de la città di Lemovica, là dove era ordinata una reggia per cacciare. Or avvenne che un die cacciando il re in quel luogo, e la reina andata là per diletto, e pericolando del parto, piagnendo il re e ' donzelli per lo pericolamento de la reina, passando per lo bosco Leonardo udì le voci de' piagnitori e, commosso da pietade, andò là in fretta, e, chiamato dal re, intròe a lui incontanente. Essendo dunque domandato dal re chi fosse, e elli dicendo che era stato un discepolo di san Remigio, il re ricevendone buona speranza, pensando che questi era stato ammaestrato da buono maestro, menollo dentro a la reina, e pregollo ched elli per li suoi prieghi impetrasse da Domenedio doppia allegrezza, cioè di ricoverare la moglie e 'l figliuolo partorito. Allora quegli fatta l'orazione, impetròe immantanente quello che domandava. E offerendoli il re molte cose in oro e argento, ogne cosa rifiutòe, e ammonìo il re che desse quello a' poveri, così dicendo: "A me non fa mestiere veruna di queste cose, ma disidero solamente di servire a Cristo solo in alcuna selva, disprezzando le ricchezze del mondo". E volendoli il re donare tutto quello bosco, quegli disse: "Io non 'l tolgo tutto; ma tanto quanto io posso attorniare per una notte col mio asino, cotanto desidero che me ne sia donato". E 'l re l'adempiéo molto volentieri. Ordinato dunque inveritto uno monasterio, visse un grande tempo in quello luogo in molta astinenzia con due monaci accostati a lui. Essendo di lungi da lui l'acqua uno miglio, fecevi cavare un pozzo secco, lo quale adempiéo d'acqua con le sue orazioni. E quello luogo fu appellato da lui Nobiliaco, per ciò che da nobile re gli era stato donato. In quel luogo splendeo da tanti miracoli che chiunque chiamava il nome suo ne la carcere, incontanente si rompevano i legami, e andavane libero sanza contradiamento di persona, e presentava al santo le sue catene, ovvero bove. E di questi cotali ne stavano molti con lui, e però servìano al Segnore. E sette famiglie de la sua schiatta nobile, venduto ch'ebbero ogne cosa, vennero a lui e, distribuito il bosco da ciascheduno, stando ivi con lui, molti ne trassono per lo loro essemplo. Finalmente il santo uomo Leonardo, lucente da molte vertudi, XII dì fra ottobre n'andòe bene avventuratamente al Segnore, nel quale luogo, poi ch'ebbe fatti molti miracoli, fu rivelato a' cherici di quella chiesa, che per cagione di quello luogo, ch'era stretto per la moltitudine spesseggiante, facessono una chiesa altrove,traslatassono il corpo di santo Leonardo con onore. E stando coloro tre dì in digiuno e orazione col popolo insieme, ragguardando, viddero tutta la provincia coperta di neve, ma quello luogo dove santo Leonardo si voleva posare, al postutto era voto. Sì che traslatato là, quanti miracoli Domenedio faceva per lui, massimamente de l'incarcerati, la grande varietà di ferri dinanzi a la sepoltura sua ne dà testimonianza. Il visconte di Lemovica a spaventamento de' rei avea fatto una catena di ferro molto grande, e comandò che fosse confitta al ceppo de la torre sua; de la quale catena chiunque n'era cinto in collo, abbandonato ad ogne stemperamento d'aere, non facea una ma mille morti. Intervenne che uno servo di santo Leonardo fu legato con quella catena sanza colpa; il quale essendo già quasi in su la stremità de la morte, fra se medesimo, con quello boto che potéo, pregò san Leonardo che com'elli liberava gli altri, così soccorresse a lui, suo servo. Incontanente san Leonardo gli apparve in vestimento bianco, e sì li disse: "Non temere, ché tu non morrai. Levati su, e porta questa catena a la chiesa mia; seguitami, però che io t'anderò innanzi". Quegli si levò, e tolse la catena, e tenne dietro al santo Leonardo, il quale andò innanzi a lui infino a la chiesa sua, e sì tosto come furono dinanzi a le regge, san Leonardo il lasciò stare. E quegli entrando ne la chiesa raccontò a tutti quelle cose che san Leonardo gli avea fatto; e quella grossa catena appiccòe dinanzi a la sepoltura di santo Leonardo. Un uomo abitante nel luogo di san Leonardo, cioè a Nobiliaco, il quale era molto fedele al detto santo, sì fue preso da uno tiranno; il quale tiranno pensando fra se medesimo, diceva questo: "Leonardo scioglie tutti gl'inferriati, e ogne forza di ferro viene meno dinanzi da lui, come la cera dinanzi al fuoco. S'io legherò costui co' ferri, Leonardo li sarà presente, e liberrallo: ma se io il potessi guardare, il farei ricomperare mille soldi. Io so come io farò: io farò ne la torre mia una profonda fossa, e gitterovvi entro questo uomo aggravato di ferri, e a la bocca de la fossa ordinerò un'arca di legname ne la quale farrò stare cavalieri armati; avvegnadio che Leonardo rompa i ferri, sotterra pur non è elli ancora entrato". Ed avendo questo tiranno compiuto come pensato tutto avea, e quello uomo chiamando spesse volte san Leonardo in suo aiuto, san Leonardo venne di notte, e rivolse l'arca dove giacevano i cavalieri e, come stanno i morti nel sepolcro, così gli conchiuse in quell'arca. Indi entrò con molta luce entro la fossa e, prendendo il suo fedele per la mano, sì li disse: "Dormi tu, o vegghie? Ecco Leonardo cui tu tanto disideri". E quegli maravigliandosi li disse: "Signore, aiutami!" Incontanente furono rotte le catene, e preselo ne le sue braccia, e portollo fuori de la torre; poscia il ne rimenò infino a casa sua, andandosi ragionando con lui come fa l'uno amico con l'altro. Un pellegrino tornando da visitare san Leonardo, essendo preso in Alvernia e rinchiuso in una cava, pregava molto coloro che per amore di san Leonardo il lasciassero, con ciò fosse cosa che non gli avesse mai offesi. Ed ellino rispuosero che non lascerebbero se non si ricomperasse copiosamente. E quelli disse: "Tra voi e santo Leonardo ne sia, al quale sappiate che io mi sono accomandato". Sì che la seguente notte san Leonardo apparve al segnore di quello castello, e comandolli che lasciasse il pellegrino suo. Quegli levandosi la mattina, e ischernendo la visione come fosse stato un sogno, per veruna guisa il volle lasciare. L'altra notte gli apparve e comandogli quello medesimo, ma quegli l'ebbe anche in contento di non ubbidire. La terza volta la notte san Leonardo prese il pellegrino, e trasselo fuori del castello, ed incontanente la torre caggendo con la metà del castello n'uccise molti, e solo il segnore riservòe a sua vergogna con le gambe rotte. Uno cavaliere, incarcerato in Bretagna, chiama in suo aiuto santo Leonardo, il quale apparve ne la casa entro la mezza notte, avveggente tutti e cognoscendolo e maravigliandosi; e, entrando ne la carcere e rompendo i legami, puose le catene in mano a l'uomo, e menandolo per lo mezzo di loro, tutti gli spaventò. Fue un altro Leonardo di quella medesima perfezione e vertude, il cui corpo si riposa a Corbiaco. Questi essendo prelato nel monasterio, con tanta umiltade s'abbassava, che pareva minore di tutti. Ma scorrendo quasi tutto il popolo a lui, alcuni invidiosi confortarono il re Clotario che se non si provedesse per Leonardo, il quale ne raccoglieva molti sotto spezie di religione, il reame di Francia sosterrebbe un piccolo danno. A i quali il re troppo credulo, comandò che il costrignessero. E vegnendo i soldati con lui, furono sì contriti per le sue parole, che promissero di farsi suoi discepoli. E il re, pentuto, domandò perdonanza, e spogliòe quelli detrattori de' loro onori e del loro avere, e amò molto san Leonardo, e a grande pena per li prieghi del santo rimise i detrattori ne le loro dignitadi. Il quale santo impetròe altressì a Domenedio che chiunque fosse tenuto in pregione, incontanente che chiamasse il nome suo, fosse libero. Stando costui un die in orazione, uno grandissimo serpente si mosse da' piedi e andolli insino in seno; e per tutto questo non si levò da l'orazione, ma compiuta l'orazione disse al serpente: "Io so che dal cominciamento che tu fosti creato, dai briga a gli uomini il più che tu puoi, ma ora se t'è data podestade sopra di me, fu in me tutto ciò, onde io sono degno". Dette queste parole il serpente, saltandoli per lo cappuccio, a' piedi suoi cadde morto. Dopo queste cose avendo recato due vescovi, ch'avieno insieme briga, predisse che 'l seguente die morrebbero circa gli anni Domini DLXX.
cap. 151, S. LucaLuca di Siria fu natìo d'Antiochia, medico per arte. Secondo che vogliono dire alcuni fu uno de' LXXII discepoli del Signore, avvegna che san Geronimo dica che fue discepolo de gli apostoli; non del Signore, e la Chiosa sopra il XXV capitolo de l'Esodo dice che non s'accostòe al Segnore de' predicanti, ma dopo la Resurressione sua venne a la fede. Maggiormente è da tenere ched e' non fosse uno de' settantadue, avvegnadio che alcuni n'avessero questa openione. Il quale fu di tanta perfezione in vita che ottimamente fu ordinato e quanto a Dio e quanto al prossimo, e quanto a se medesimo e quanto al suo officio. E in figura di queste quattro maniere d'ordinamento si dice ch'egli ha quattro facce, cioè faccia di leone e d'uomo e di bue e d'aguglia. Però che ciascuno de li animali avea quattro facce e quattro penne, come dice l'Ezechiel nel primo capitolo. E acciò che noi veggiamo meglio questo, imaginianci alcuno animale ch'abbia il capo quadrato come legno quadrato, e in ciascuno lato imaginiamo una faccia: da la parte dinanzi la faccia de l'uomo, da la faccia da la parte ritta la faccia del leone, e da la manca la faccia del vitello, e da la parte di drieto la faccia de l'aguglia. Ma perché la faccia de l'aguglia avanzava l'altre per lo prolungamento del collo, lo quale è in lei lungo, però è detto che era disopra. E ciascheuno di questi quattro avea quattro penne, però che imaginandoci ciascuno animale quasi come quadrato, ed essendo in ogne quadrato quattro cantoni, a ciascheduno cantone era una penna. Per questi quattro animali, secondo che dicono i santi, sono figurati li quattro Vangelisti, de' quali ciascuno ebbe quattro facce, cioè scrivendo de l'umanitade, de la passione, de la resurressione e de la divinitade; ma ciascheduna è attribuita ad alcuno di loro per una cotale appropiazione. Secondo Geronimo san Matteo è figurato in uomo, però che principalmente tratta intorno a l'umanità di Cristo; santo Luca è figurato nel vitello, trattando del sacerdozio di Cristo; santo Marco nel leone, scrivendo più manifestamente de la resurressione. Però che i catellini del leone, come dicono, giacciono come morti infino al terzo die, ma per lo mugghiare del leone nel terzo die sono risuscitati. Anche perché cominciò il Vangelio suo dal mugghiare de la predicazione santa, Giovanni è figurato ne l'aquila volando più alto di tutti gli altri, scrivendo de la divinità del figliuolo di Dio. Cristo, del quale si scrivono tutte queste quattro cose, sì fue uomo nato di vergine, fue vitello ne la passione, e fue leone ne la resurressione, e fu aquila nel montare in cielo. Sì che per queste quattro facce, ne le quali è disegnato santo Luca, come veruno de li altri Vangelisti, si dimostra come in quelli quattro modi fue ordinato. Per la faccia de l'uomo si dimostra come fue ordinato quanto al prossimo, lo quale dee con ragione ammaestrare e con mansuetudine attrarre e con larghezza nudrire; però che uomo si è animale ragionevole, mansueto e liberale. Per la faccia de l'aquila si dimostra ched e' fue dirittamente ordinato quanto a Dio, però che in lui l'occhio de lo 'ntendimento ragguarda Dio per contemplazione, il becco de l'affetto s'aguzza a Cristo per pensamento, la vecchiezza si caccia via per nuova conversazione. Però che l'aquila sia uno aguto lume, intanto che ragguarda la ruota del sole sanza ribattere li occhi e, levata mirabilemente in alto, vede i pesciolini nel mezzo del mare. Ancora il becco ritorto in tal maniera che le impedimento a prendere lo cibo, sì 'l percuote a la pietra, e così il fa acconcio a prendere lo cibo. Ancora infiammata del calore del sole, in una grande fontana si getta, e caccia da sé la vecchiezza, consumando il calore del sole la caligine de li occhi, e alleviando le penne. Per la faccia del leone si dimostra che dirittamente fu ordinato quanto a se medesimo, però che ebbe nobiltade per la onesta conversazione di costumi, ebbe sagacitade per lo schifamento de gli agguati del nimico, ed ebbe passibilitade per la compassione a gli afflitti. Il leone è animale nobile, però che è re di tutti gli animali; è sagace, però che disfà con la coda le pedate quando fugge, acciò che non sia trovato; è passibile, imperò che li viene la febbre quartana. Per la faccia del vitello, ovver bue, si dimostra che dirittamente fosse ordinato quanto al suo officio, ciò fu a scrivere il Vangelio, però che andò molto a la distesa; però che incominciò dal nascimento di Giovanni Batista, e dal nascimento e fantilità di Cristo, e così andò innanzi a poco a poco infino a l'ultimo componimento. Discretamente cominciò, però che cominciò dopo gli altri due Vangelisti, acciò che quello ch'elli avessero lasciato, questi ricompiesse, e quello che quelli avessero sufficientemente messo in iscrittura questi lasciasse. Intorno al tempio e al sagrificio molto soprastette a dire, e ciò si mostra nel principio e nel mezzo e ne la fine, però che 'l bue è animale che va molto adagio, e ha l'unghie fesse, per la qualcosa s'intende la discrezione de' sacrificanti. Ma come il beato Luca fosse ordinato ne' predetti quattro modi, meglio si dimosterrà se l'ordine de la vita sua sarà meglio ricercato. Primieramente dunque ordinato fue quanto a Dio. In tre maniere s'ordina l'uomo quanto a Dio, secondo che dice san Bernardo, cioè con la confessione, col pensiere e con la intenzione. L'affezione dee essere santa, il pensiero mondo e la 'ntenzione diritta. L'affezione ebbe santa, imperò che fu pieno di Spirito Santo. Onde dice san Geronimo nel Prolago sopra Luca: "Morìo, ciò dice, in Bitinia, pieno di Spirito Santo". Secondariamente ebbe lo pensiero mondo, però che fu vergine del corpo e de la mente, e in ciò si manifesta la mondizia del suo pensiero. Nel terzo luogo ebbe la 'ntenzione diritta, però che in tutte le cose che faceva cercava l'onore di Dio. Di queste due ultime cose si dice nel Prolago sopra gli Atti de gli Apostoli: "Sanza peccato fue, permagnente in verginitade". Questo è quanto a la mondizia del pensiero: "al Segnore volse maggiormente servire" cioè a l'onore del Segnore, questo è quanto a la dottrina de la dirittura de la 'ntenzione. Secondariamente fue ordinato quanto al prossimo. Al prossimo ci ordiniamo quanto noi li diamo quello che noi siamo tenuti. Tre cose son quelle, secondo Riccardo da san Vittore, le quali noi doviamo rendere a' prossimi, cioè nostro potere, nostro sapere e nostro volere, e 'l quarto, possiamo aggiugnere noi, il nostro operare. Il nostro potere in aiutare, il nostro sapere in consigliare, il nostro volere in disiderare, e 'l nostro operare in servire. Quanto a queste quattro cose fu ordinato santo Luca, Primieramente al suo prossimo diede il suo podere; e ciò si manifesta in quello che sempre fu in aiuto a san Paulo in tutte le tribulazioni per aiuto de la predicazione, sì come san Paulo dice elli medesimo ne la seconda Pistola a Timoteo, quarto capitolo: "Luca è meco solo". In ciò che dice "meco" vuole dire sì come aiutatore e difensore; mostrasi com'egli diede aiuto e conforto. In ciò che dice "solo" è notato come fermamente s'accostò a lui. Anche ne la seconda Pistola a' Corinti, VIII capitolo dice di santo Luca: "Non solamente ciò, ma ordinato è da le chiese compagno del pellegrinaggio nostro". Secondariamente diede al prossimo suo sapere quando a nostra utilità scrisse la dottrina del Vangelio e de gli Apostoli, la quale sapea. Di questo dà elli testimonianza nel Prolago suo, così dicendo: "Paruto è a me, o Teofilo, accivito il principio diligentemente scrivere a te per ordine, acciò che tu conosca la veritade di quelle parole de le quali tu se' ammaestrato". Come diede ancora il suo podere in aiutare, si manifesta per quella parola che dice san Geronimo nel Prolago, che le sue parole, cioè di santo Luca, sono medicina a l'anima inferma. Nel terzo luogo diede il suo volere ne' disideri, e ciò si manifesta per quella parola che dice san Paulo ad Colosenses, capitolo IV: "Saluta voi Luca medico, cioè a dire disidera che voi abbiate eternale salute". Nel quarto luogo diede al prossimo il suo operare ne' servigi, e questo si manifesta in ciò che ricevette ad albergo il Segnore, lo quale estimava che fosse alcuno pellegrino, e diedeli ogne servigio di caritade. Però che fu compagno di Cleofa quando andava in Emaus, com'altri vogliono dire, come rapporta Gregorio ne i Morali, avvegna che santo Ambruosio dica che fue un altro, del quale elli pone il nome. Nel terzo luogo fue bene ordinato quanto a se medesimo. Tre cose, secondo che dice san Bernardo, sono quelle che ordinano l'uomo troppo bene a se medesimo e fannolo santo, cioè il vivere temperato, l'opera giusta e 'l sentimento pietoso; e catuno di questi, secondo che dice san Bernardo medesimo, si divide in tre: "Il vivere, cioè dice, temperato, se noi viveremo continentemente, accompagnevolemente, e umilemente. L'opera giusta sarà se fia diritta, discreta e fruttuosa; diritto per la buona intenzione, discreto per misuramento e fruttuoso per edificazione; il sentimento sarà pietoso se la fede nostra sente Dio sommamente possente, sommamente savio e sommamente buono, acciò che per la sua potenzia noi crediamo che sia aiutata la nostra infermitade; per la sua sapienzia noi crediamo che sia corretta la nostra ignoranzia; per la sua bontade crediamo che sia distrutta la nostra iniquitade". Infino qui dice san Bernardo. E in tutte queste cose fue ottimamente ordinato. Prima ebbe il vivere temperato, e questo in tre modi, però che visse continentemente, ché sì come testimonia di lui san Geronimo nel Prolago sopra Luca, elli non ebbe giammai moglie né figliuoli. Nel secondo modo visse accompagnevolemente; e questo si nota in ciò che dice "due" e in ciò che dice "discepoli", quasi disciplinati, cioè bene accostumati. Nel terzo modo umilemente; la cui umiltà si dimostra in ciò che puose il nome del compagno suo Cleofa, e 'l suo tacere. Ché secondo l'openione d'alcuni, Luca per umilitade tacette allora il nome suo. Secondariamente ebbe l'opera giusta, la quale opera fu diritta per la intenzione; e ciò si nota ne l'orazione, in ciò che si dice di lui: "Che la mortificazione de la Croce portò continuamente nel suo corpo per amore del nome di Cristo". Fue ancora l'opera discreta per ammodamento, onde è dimostrato in forma di bue, il quale ha l'unghia fessa, per la quale s'intende la vertù de la discrezione. Fue ancora l'opera fruttuosa per la edificazione; ché tanto fue fruttuoso a' prossimi, che tutti l'aveano per carissimo, onde: "Saluta voi, ciò dice san Paulo ne i Colossesi, capitolo quarto, Luca medico carissimo". Nel terzo luogo ebbe il sentimento pietoso, imperò che credette e nel suo Vangelio confessòe che Dio è sommamente potente e sommamente savio e sommamente buono. De' due primi dice nel Vangelio, nel quarto capitolo: "Stupidiansi tutti ne la dottrina di Cristo, però che in podestade era la parola sua". Del terzo si manifesta nel XVIII capitolo: "Neuno è buono altri che solo Dio". Nel quarto ed ultimo luogo fue ordinato ottimamente quanto al suo officio, lo quale fue scrivere il Vangelio. E in ciò si manifesta come vi fosse ordinato, imperò che quello suo Vangelio è fornito di molta [ms.: vertude], è ripieno di molta utilitade, è ornato di molta bellezza e autoritificato per la autorità di molti. Primieramente diciamo ch'è fornito di molta veritade. Tre sono le veritadi, cioè verità di vita e di giustizia e di dottrina. La verità de la vita sì è l'agguagliamento de la mano a la lingua; la verità de la giustizia è l'agguagliamento de la sentenzia al piato; la verità de la dottrina è l'agguagliamento de la cosa a lo 'ntelletto. Di queste tre maniere di verità è fornito il Vangelio di costui, però che in esso Vangelio s'ammaestrano queste tre cose di verità. Però che mostra santo Luca che Cristo ebbe in sé queste tre veritadi e averle insegnate a gli altri. Mostra poi avere Cristo queste tre verità per testimonio de li avversari, sì come si manifesta nel suo Vangelio, ventesimo capitolo: "Maestro, noi sapemo che tu dirittamente parli e ammaestri", ecco la verità de la dottrina; "e non prendi la persona", ecco la verità de la giustizia; "ma in veritade ammaestri la via di Dio", ecco la verità de la vita. Buona vita è detta la via di Dio. Secondariamente mostra in questo suo Vangelio che Cristo ammaestrò queste tre verità; però che quivi s'ammaestra la verità de la vita, la quale sta in osservare i comandamenti di Dio. Onde dice nel X capitolo: "Amerai lo Dio tuo con tutto il cuore tuo". E anche dice: "Fa questo e viverai". Anche nel XVIII capitolo: "Il domandò uno: "Maestro buono, che facendo possederabbo vita eterna?" Poi seguita: "Sai tu i comandamenti: non ucciderai, non sarai questo e quello". Nel secondo luogo è ammaestrata la verità de la dottrina. Onde diceva ad alcuni che pervertìano questa verità di dottrina, ne l'XI capitolo: "Guai a voi, farisei, i quali decimate, cioè predicate che si dea decima de la menta e de la ruta e d'ogne erba, e trapassate il giudicio e la caritade!" Anche dice iviritto: "Guai a voi, savi de la legge, ch'avete tolta la chiave de la scienzia!" Nel terzo luogo è ammaestrata la verità de la giustizia; onde dice nel XX capitolo: "Rendete dunque quelle cose che sono di Cesare a Cesare, e quelle cose che sono di Dio a Dio". Anche dice nel XIX capitolo: "Ma menatemi qua quelli miei nemici, che non volsero ch'io regnasse sopra loro, e uccideteli dinanzi di me". Anche dice nel XIII capitolo, là dove si fa menzione del giudicio che Cristo dirà a' riprovati: "Partitevi da me tutti operari de la iniquità!" Nel secondo luogo il suo Vangelio è ripieno di molta utilitade; onde questi che lo scrisse fu medico, a significare che quello medesimo ci diede a bere medicina utilissima. Di tre maniere sono medicine, cioè medicina curativa, conservativa e megliorativa. Queste tre maniere di medicina mostra santo Luca nel suo Vangelio che 'l celestiale medico apparecchiò a noi. La medicina curativa è quella che cura da la infermitade, e questa è la penitenzia, che cura tutte le infermitadi spirituali. Questa medicina, dice elli, che 'l medico celestiale ci diede, quando dice nel quarto capitolo: "A sanare i contriti del cuore, e a predicare a' pregioni la remissione de' peccati". Anche dice nel quinto capitolo: "Non son sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a penitenzia". La medicina megliorativa è quella che accresce la santade, e questa è l'osservamento de' consigli, però che i consigli fanno l'uomo più buono e più perfetto. Questa medicina mostrò egli che 'l medico celestiale ci apparecchiò, quando dice nel XVIII capitolo: "Ciò che tu hai, vendi, e da' a' poveri, e vieni dietro a me". Anche dice nel sesto capitolo: "Non impedire colui che ti porta via il mantello di prenderti anche la tunica". La medicina conservativa è quella che conserva da alcuno cadimento, e questa è il fuggire le cagioni del peccato e de le male compagnie. Questa medicina mostrò egli che 'l sommo medico ci diede, quando disse nel XII capitolo: "Ponetevi a cura dal fermento de' farisei"; però che quivi ammaestra di schifare le compagnie de le male persone. Ovvero che si può dire che 'l suo Vangelio è ripieno di molta utilitade, però che in esso si contiene ogne vertù di sapienzia. Di questo parla così santo Ambruogio, e dice: "Luca tutte le virtù de la sapienzia comprende ne la storia del Vangelio suo, però ch'elli ammaestrò cose naturali, quando per ispirito aperse come fue la 'ncarnazione del Signore. Onde David, ammaestrando la sapienza naturale, dice a Dio: "Manda lo Spirito tuo e saranno criati". Anche ammaestrò che le tenebre furono fatte ne la passione di Cristo, e che la terra tremò, e che 'l sole trasse a sé i suoi razzi. Ammaestrò cose morali quando in quelle beatitudine insegnòe costumi. Insegnò cose ragionevoli, quando dice: "Colui che è fedeli ne la minima cosa, saràe anche fedele ne la grande". Sanza queste tre sapienzie essa fede non può conoscere il misterio de la Trinitade, cioè con lo naturale, col ragionevole e col morale". Infino qui dice santo Ambruogio. Nel terzo luogo il suo Vangelio è ornato di molta bellezza, però che 'l suo stile e modo di parlare è molto bello e ornato. Ed acciò che altri ne' suoi detti tegna bellezza, tre cose sono necessarie, le quali dice santo Agostino, cioè che piaccia, e che sia manifesto, e che muova. Acciò che piaccia dee parlare ornato, acciò che sia manifesto dee parlare aperto, acciò che muova dee parlare con fervore. Questi tre modi ebbe santo Luca e in scrivere e in predicare. De' due primi dice santo Paulo, ne la seconda Pistola a' Corinti, VIII capitolo: "Noi mandammo con lui il fratello". Dice la Chiosa: "Barnaba o Luca, la cui loda è nel Vangelio per tutte le chiese". In ciò che dice: "la cui loda è nel Vangelio", sì si nota che parlò ornatamente. In ciò che dice: "per tutte le chiese", sì si nota che parlò apertamente. E ch'elli parlasse con fervore sì si manifesta in ciò ch'elli ebbe il cuore ardente, quando disse: "Or non era il cuore nostro ardente in noi?" Nel quarto luogo il suo Vangelio è autenticato per autorità di molti, però che dal Sommo Padre fue preordinato; onde dice Jermia nel XXXI capitolo: "Ecco che verrà tempo, dice il Signore, e farò a la casa d'Israel e a la casa di Giuda patto nuovo, non secondo il patto ch'io pattovii co' padri loro; ma questo sarà il patto, ch'io farò con la casa d'Israel, dopo que' dì, dice il Signore: darò la legge mia ne le interiora loro". A lettera parla de la dottrina del Vangelio. Secondariamente fue fortificato del figliuolo di Dio, onde dice il detto Vangelio nel XXI capitolo: "Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno". Nel terzo luogo fue spirato da lo Spirito Santo, onde dice san Geronimo nel Prolago sopra Luca: "Per ispirazione de lo Spirito Santo scrisse questo Vangelio, ne le parti d'Acaia". Nel quarto luogo fue figurato da gli angeli. Però che fue prefigurato da l'angelo, del quale dice l'Apocalisso, XIIII capitolo: "Viddi l'angelo volare per lo mezzo del cielo, abbiente il Vangelio eternale". Questo Vangelio è detto eterno imperò che da eternale è per effetto, cioè da Cristo, il quale è eternale, è di cose eternali ne la natura e per fine, ed è in cosa eternale perpetualemente. Nel quinto luogo fu prenunziato da' profeti. Però ch'Ezechiel, profeta, prenunziò questo Vangelio quando disse che l'uno de gli animali avea faccia di vitello, per lo quale è significato il Vangelio di santo Luca, come detto è disopra. Anche quando dice Ezechiel nel secondo libro, dove dice che vidde un libro che era scritto dentro e di fuori, e nel quale erano scritti lamenti e verso e guai. Per questo libro s'intende il Vangelio di santo Luca, lo quale era scritto dentro per occultamento del profondo misterio, e scritto di fuori per l'aprimento de la storia. Nel quale si contiene ancora il lamento de la passione, e 'l verso de la resurressione, e 'l guai de l'eternale dannazione, sì come e' si manifesta nel XI capitolo, dove si pognono molti guai. Nel sesto luogo fu aperto da la vergine Maria, però che la beata Vergine conservava tutte le cose nel cuore suo, e diligentemente le ragionava fra se stessa, come dice santo Luca nel secondo capitolo, acciò che queste cose aprisse poscia a li scrittori; onde dice la Chiosa in quel luogo: "Tutte quelle cose ch'ella seppe che fossono fatte o dette dal Segnore, o per lo Segnore, sì riponea ne la memoria, acciò che quando venisse il tempo di predicare o di scrivere de la Incarnazione sofficentemente potesse ispianare tutte le cose, com'elle erano state fatte, a coloro che ne domandassero". Onde san Bernardo volendo assegnare la ragione perché l'angelo annunziò a santa Maria la concezione di santa Elisabetta, dice così: "Però è annunziata la concezione d'Elisabetta a santa Maria, acciò che essendo ammaestrata or de l'avvenimento del Salvatore, or di quello del Batista, tenendo ella a mente il tempo e l'ordine, apra poscia meglio la verità del Vangelio a li scrittori e a' predicatori, la quale fue dal principio pienamente ammaestrata di tutte le cose segrete da Dio". Sì che si crede che i Vangelisti la dimandassono di molte cose, e ella gliene facea certi; e spezialmente si crede che fosse santo Luca quelli che ricorse a lei, sì come a l'arca, e fu certificato da lei di molte cose, spezialmente di quelle ch'a lei solamente erano manifeste, sì come de la annunziazione de l'angelo, e del nascimento di Cristo, e di cotali cose de le quali solo santo Luca fa menzione. Nel settimo luogo fu dimostrato da li apostoli, però che non essendo stato santo Luca presente a l'opere e a' miracoli di Cristo, però scrisse il suo Vangelio secondo che gli apostoli, i quali erano stati presenti con Cristo, gli dimostrarono a raccontarono, sì come elli medesimo mostra nel Prolago suo, dove dice così: "Sì come diedero a noi coloro che dal cominciamento il videro e furono ministri de la predicazione sua". Però che usandosi dare testimonanza in due modi, cioè del veduto e de lo udito, il Signore (come dice santo Agostino), volse avere due testimoni de le cose vedute, cioè Matteo e Joanni, e due de le cose udite, e cioè Luca e Marco. E perché la testimonianza de le cose vedute è più ferma e più certa che quella de le cose udite, però che, sì come dice santo Agostino, li due Vangeli che sono de le cose vedute si pognono ne l'estremitadi; e gli altri due, che sono de le cose udite, si pognono nel mezzo, acciò che quelli di mezzo, sì come meno fermi, siano armati e fortificati da l'uno lato e da l'altro da quelli che sono ne l'estremitadi, i quali sono più certani. Ne l'ottavo luogo fue maravigliosamente approvato da san Paulo. Però ch'elli appruova maravigliosamente il suo Vangelio quando, a confermare i detti suoi, adducea il Vangelio di santo Luca. Onde dice san Geronimo nel libro de gl'Illustri Uomini: "Alcuni sospicarono che quante volte san Paulo dice ne le sue Pistole: "secondo il Vangelio mio", che s'intendesse del Vangelio di santo Luca". Il suo Vangelio approvò maravigliosamente san Paulo, quando di lui scrisse ne la seconda Pistola a' Corinti, VIII capitolo: "La cui loda è nel Vangelio per tutte le Chiese".
cap. 152, Ss. Crisanto e DariaCrisanto, figliuolo di Polinio, uomo nobilissimo, essendo ammaestrato de la fede di Cristo, e non potendo essere richiamato dal padre ad adorare l'idole, comandò il padre che fosse rinchiuso in una camera e cinque pulcelle accompagnato con esso lui, acciò che per le loro lusinghe fosse ingannato. E pregando lui Iddio che non lasciasse vincere a la fiera pessima, cioè a la carnale concupiscenzia, incontanente le dette pulcelle abbattute dal sonno, non poteano prendere né cibo né beveraggio; ma trattane fuori, incontanente il prendeano. Allora Daria, vergine savissima, sagrata a la dea Vesta, fu pregata d'entrare a Crisanto, acciò ch'ella il renda a li dei e al padre. Quella da che fu entrata dentro, essendo ripresa da Crisanto de la boria de' vestimenti, sì rispuose ch'ella non era così vestita per vanagloria di vestimenti, ma per guadagnarlo a li dei e al padre. Riprendendola ancora Crisanto perché ella adorava per Domenedii coloro, gli accrescitori de' quali affermava ch'erano peccatori uomini e carnali femmine, rispuose Daria che i filosofi per li nomi de gli uomini aveano sancito gli elementi. A la quale disse Crisanto: "Se l'uno dice che la terra sia onorata come dea, e l'altro dice che 'l villano la ari, più si pruova che doni al villano che a l'onorante, e così è del mare e de l'altre cose". Allora Crisanto e Daria, convertita da lui, uniti insieme per congiugnimento di Spirito Santo, e infignendosi d'essere maritati carnalmente, molti ne convertiano a Cristo. Ché convertirono Claudio, tribuno, con la moglie e co' figliuoli, e molti altri cavalieri a la fede di Cristo, i quali Claudio era prima stato loro tormentatore. Sì che Crisanto, per comandamento di Numeriano, fu rinchiuso in una puzzolente carcere, ma il fiatore si convertìo in suavissimo odore. Ma Daria fu messa nel bordello, e 'l leone, fuggendo da la piazza, fu fatto uscire del bordello. Sì che fu mandato uno a corrompere la vergine Daria, ma il leone il prese e, quasi con cenni, dimandava la santa quello che fare sì comandi del preso. E quella gli comandò che non gli facesse male veruno, ma che lasciasse venire a lei. E quegli, incontanente convertito, corse per la terra, cioè la cittade, e cominciò a gridare che Daria era una dea. Sì che furono mandati cacciatori a prendere il leone, ma tutti furono presi dal leone, e posti dinanzi a i piedi de la vergine e da lei convertiti. Allora il prefetto comandò che fosse uno grande fuoco a l'entrata de la cella, acciò che 'l leone con Daria ardessono. E 'l leone considerando ciò sì temette, e mugghiando domandò licenzia, ed ebbela da la vergine d'andare dovunque volesse, sanza nuocere a persona. E faccendo il prefetto diversi tormenti di pene a Crisanto e a Daria, e non potendo per maniera veruna essere danneggiati, a la perfine i non corrotti compagni furono gittati in una fossa e, così coperti con la terra e con le pietre, furono consegrati martiri a Cristo. La solennità di costoro si ricorda qui più festivamente ne la leggenda de le XI migliaia de le vergini.
cap. 153, S. OrsolaLa passione de l'undici migliaia de le vergini fue celebrata in questo modo. In Bretagna fue uno uomo, re cristianissimo, che ebbe nome Noto, ovvero Mauro, il quale ingenerò una figliuola, la quale ebbe nome Orsola. In costei risplendea maravigliosa onestà di costumi con sapienzia e con bellezza, intanto che la fama e la nominanza di lei correa per ogne contrada volando. E 'l re d'Inghilterra essendo molto potente, e avendo molte nazioni del mondo sottomesse a lo 'mperio suo, udendo la fama di questa vergine, teneasi bene beato per tutto se la detta vergine si congiugnesse per mogliazzo al suo unico figliuolo. E 'l giovane di ciò avea disiderio molto. Sì che furono mandati al padre de la vergine ambasciadori, i quali con le grandi promesse e con le lusinghe, aggiugnendovi le grandi minacce fatte a loro se tornassero voiti al loro segnore di quella cosa, per la quale elli erano mandati. Laonde il re di Bretagna cominciò a darsi molta angoscia, sì perché non gli parea degna cosa di dare la sua figliuola, segnata de la fede di Cristo, ad uno cultivatore de l'idoli, sì ancora perché sapea bene ch'ella non vi acconsentirebbe per veruna maniera, e sì perché temea molto la crudelezza del re. Ma ella, spirata da Dio, confortò il padre che desse la parola al detto re, proponendoli cotali patti, ch'esso re col padre le desse a solazzo X vergini isceltissime, e sì a lei, come a quelle X, n'assegnasse mille altre vergini, e ragguagliati i viaggi fossero dati a lei tre anni indugio, ne' quali ella sagrasse la sua verginitade, e 'l giovane in questi tre anni battezzato fosse e ammaestrato de la fede di Cristo. Volse dunque usare savio consiglio, acciò che, o per mala voglienza de la condizione proposta ritraesse l'animo di colui da questo fatto, o che per questa necessitade le dette vergini sagrasse seco a messere Domenedio. E 'l giovane ricevuto ch'ebbe volentieri questi patti, fece stare contento il padre suo e, incontanente battezzato, comandò che fosse avacciato tutte quelle cose, le quali la vergine have domandate. E 'l padre de la fanciulla ordinòe che la figliuola sua, la quale egli amava molto, avesse in sua compagnia uomini del cui sollazzo abbisognava sì ella come tutto l'esercito suo. Sì che da ogni parte corrono le vergini, da ogne parte vegnono uomini a così grande ragguardamento. E molti vescovi vi trassono per andare con esse, tra ' quali fue Pantulo, vescovo di Basilea, il quale le menòe infino a Roma; il quale partendosi di Roma con loro, sì ricevette il martirio con esse insieme. E santa Gerasina, reina di Sicilia, la quale il marito suo, re crudelissimo, avea fatto quasi di lupo agnello, serocchia di Macirizio vescovo, e di Daria madre di santa Orsola, abbiendo ricevuto lettere di queste segrete cose, incontanente spirata da Dio, prese seco quattro sue figliuole, Babilla, Giuliana, Aurea e Vettoria e un piccolino fanciullo, ch'avea nome Adriano, il quale, per amore de le serocchie sue, si misse con loro a pellegrinare; lasciato il regno in mano d'un suo figliuolo, infino in Bretagna, in Inghilterra, si misse a navicare. Del cui consiglio si raccoglievano vergini di diverse province e di diversi reami, ed essendo sempre guidatrice di coloro, finalmente fu martirizzata con loro. Essendo dunque apparecchiate le vergini, le trireme e le spese, la reina rivelòe il segreto fatto a tutt'i suoi compagni, e tutti fecero congiurazione in nuova cavalleria. Or cominciavano giuochi di battaglia, or corrono, or discorrono; alcuna volta tra loro battaglie cominciano, alcuna volta s'infigneano di volere combattere; spesse volte s'infigneano di fuggire e d'esercitare per ogni maniera di giuochi. Neuna cosa che venisse loro ad animo lasciavano passare che nol facessero; alcuna volta tornavano le merigge, alcuna volta appena entro 'l vespro. Traevano là i baroni e li maggiorenti a così grande sguardamento, e tutti si riempievano de la segreta maraviglia e d'allegrezza. A la perfine Orsola avendo convertito a la fede di Cristo tutte le vergini, essendo uno prosperevole vento per ispazio d'un die, giunsero al porto di Francia, dove si dice Tiella, ed indi vennero a Colognale, là dove l'angelo di Dio apparve a santa Orsola, e predisse ch'elle ritornerebbero là in quello numero ch'elle erano e riceverebborvi corona di martirio. E partendosi quindi per ammonimento de l'angelo per andare a Roma, arrivarono a la città di Basilea e, lasciandovi le navi, vennersene così a piede a Roma. Al quale raunamento papa Ciriaco s'allegròe molto, con ciò sia cosa che fosse natìo di Bretagna e avesse molte parenti tra esse; e venne loro incontro, e ricevelle con tutto il chericato a grande onore. E in quella notte fue revelato da Dio al detto Papa, con quelle vergini riceverebbe vittoria di martirio. La qualcosa celando appo se medesimo, molte ne battezzò di loro, le quali non erano state ancora battezzate. E veggendosi il tempo bisognevole, avendo retto la chiesa per uno anno e XI settimane, decimo uno dopo san Piero, ne la raunanza di tutti dimostrò il suo propronimento e, dinanzi a tutti, rifiutòe la dignitade e l'officio in che elli era. Ma contradicendoli tutti, e massimamente i cardinali, i quali credeano che fosse uscito de la memoria, di ciò che, lasciata la gloria del papato, volesse seguire e andare dietro ad alcune femminelle pazze, sì che elli non consentendo a loro per veruno modo, ordinò in suo luogo uno santo uomo, il quale era chiamato Ametos; e perché elli lasciò la sedia papale, sanza volere del chericato, il detto chericato sì ne rase il nome suo d'infra 'l numero de' Papi, e ogne grazia che quello coro de le vergini aveano avuto in corte a Roma, da quello tempo innanzi la perdette. Sì che due malvagi principi de la cavalleria di Roma, ciò fue Massimo e Africano, veggendo la grande moltitudine de le vergini, e che molti e molte correvano ad esse, cominciarono a temere molto che per loro non crescesse troppo la religione di cristiani. Per la qualcosa ispiando elli il loro andamento, mandarono dicendo a Giulio, loro cognato, prencipe de la gente che gli Unni, che mettendo fuori l'oste loro addosso, quando venissero a Colognole, con ciò sia cosa ch'elle fossero cristiane, sì le uccidessono tutte. Sì che il beato Ciriaco con quella nobile moltitudine di vergini uscì di Roma, e tenneli dietro Vincenzio, cardinale, e Jacopo, andato di Bretagna, suo paese, in Antiochia, la dignità de l'arcivescovado vi tenne sette anni. Il quale avendo visitato a quello tempo il Papa, ed essendo già uscito di Roma per andarsene, udendo dire de la venuta de le vergini, ritornovvi tostamente, e accompagnossi a loro al viaggio e al martirio. Maurizio, ancora vescovo de la città Lavicane, zio di Babiba e di Juliana, e anche Follario, vescovo di Lucca, e Sulpizio, vescovo di Ravenna, i quali erano venuti in quello tempo a Roma, accostaronsi a le dette vergini. Ed Etereo, sposo di madonna santa Orsola, stando in Bretagna ricevette ammonizione da l'angelo che confortasse la madre a fare cristiana. Però che 'l padre suo morìo nel primo anno nel quale fu battezzato e fatto cristiano, e 'l figliuolo suo Etereo fu re dopo lui. Tornando dunque da Roma le dette sante vergini con li detti vescovi, Etereo fu ammaestrato da l'angelo che si levi incontanente e vada incontro a la sposa, acciò che con lei insieme, in Colognole riceva la vettoria del martirio. Il quale si fece battezzare, e con una sua serocchia piccoletta, ch'avea nome Fiorentina e era già cristiana, e con Clemente, vescovo, sì missero incontro a le dette vergini, e accompagnaronsi con esse al martirio. E anche Marcolo, vescovo di Grecia, e la nepote sua Costanzia, figliuola di Doroteo, re di Costantinopoli, la quale essendo maritata ad un giovane figliuolo del re, morto il marito prima che fossero fatte le nozze, promisse a Dio la sua verginitade. Costoro ammoniti per visione, vennero a Roma, e congiunsersi a le dette vergini al martirio. Sì che tutte le vergini con i detti vescovi tornarono a Colognole, e trovarolla assediata da li Unni. E veggendole quella gente barberesca con grande romore vennero loro addosso e, come lupi affamati tra le pecore, tutta quella moltitudine uccisero. E vegnendo a la beata Orsola poi che ebbero uccisi gli altri, veggendo il prencipe la sua bellezza, fu tutto stupidito, e consolandola sopra la mortalità de le vergini, promisse di torlasi per moglie. Ma ella rifiutandolo al postutto, ed egli veggendosi schernito, diede di mano ad uno arco, e trafissela d'una saetta, e cosìe compiette il suo martirio. E una di quelle vergini, la quale avea nome Cordola, per paura s'appiattò in quella notte ne la nave, ma l'altro dì, offerendosi a la morte, ricevette la corona del martirio. Ma non faccendosi festa di lei, però che non era martirizzata con l'altre, dopo lungo tempo apparve ad una rinchiusa, e comandolle che 'l seguente dì, dopo la festa de le vergini, si ricordasse la solennitade di quella vergine. Martirizzate furono ne li anni Domini CCXXXVIII. Ma la ragione non sostiene che queste cose fossero fatte per tale tempo; però che Sicilia non era allora reame, neanche Costantinopoli, con ciò sia cosa che qui dica che ci fosse con le vergini queste reine. Più veramente si crede che grande tempo dopo Costantino imperadore, fosse fatto cotale martirio, quando gli Unni e ' Goti erano incrudeliti contra la gente cristiana, cioè al tempo di Marziano, imperadore (come si legge in una Cronica), il quale regnòe ne li anni Domini CCCCLII. Fu uno che ebbe in grazia da la badessa di Colognole un corpo di queste vergini, e promisse di metterlo in cassa d'argento, e ponerlo riverentemente ne la chiesa sua. Ma poi che l'ebbe tenuto in su l'altare entro in una cassa di legno, una notte, cantando l'abbate di quello monasterio il mattutino, quella vergine discese corporalmente di su l'altare, e inchinandosi riverentemente a l'altare, per lo mezzo del coro si partì quindi, veggendola i monaci e maravigliandosi. Sì che l'abbate corse tosto a la cassa e, trovandola vota, andò tostamente a Colognole, e disse il fatto per ordine a la badessa, e andarono insieme colà ond'elli aveano levato quel corpo, e sì 'l vi trovarono entro. Allora l'abbate domandò perdonanza, e chiedendo il detto corpo ovvero un altro, promettendo certissimamente che farebbe una preziosa cassa, per neuno modo poteo ciò impetrare. Abbiendo uno religioso in grande divozione queste vergini, un die stando lui infermo, vidde una vergine apparire a sé infermo, la quale era molto bellissima, e dimandollo s'elli la conosceva. Il quale maravigliandosi a la visione di costei, e confessando di non conoscerla, quella disse: "Io sono una de le vergini, a le quali tu porti tanto affetto di divozione, e onde tu riceverai grande merito se per amore e per onore di noi se tu dirai XI milia volte il paternostro, e ne l'ora de la morte sì ci averai in defensione e in sollazzo". Disparendo la vergine, quelli, il più tosto che poté, empiette il consiglio, e incontanente fece chiamare l'abbate, e fecesi inoliare. E inoliandosi gridòe subitamente, e diceva: "Fuggite quinci e fate luogo a le sante vergini". E domandandolo l'abbate che ciò fosse, quando elli ebbe manifestato a l'abbate le 'mpromesse de la vergine, che gli era apparuta, così per ordine, partendosi un poco i frati, e poco stante ritornando a lui, trovarono ch'egli era andato di questa vita con le vergini.
cap. 154, Ss. Simone e GiudaLa loro passione e leggenda scrisse in ebreo Abdia, vescovo di Babilonia, da essi apostoli ordinato in vescovo; la quale leggenda traslatò in grechesco Tropeo, discepolo d'Abdia, e Africano la traslatò in lingua latina. Simone cananeo e Giuda, il quale fu detto Taddeo, furono fratelli di Jacopo minore, e figliuoli di Maria Cleofe, la quale fu maritata ad Alfeo. E questo Juda fu mandato a san Tomaso ad Abgaro, re d'Odessa, dopo l'ascensione di Cristo. Leggesi ne la Storia Ecclesiastica che 'l predetto re Abgaro mandò una pistola al nostro signore Jesù Cristo, fatta in questo modo: "Abgaro, figliuolo d'Eucania, al Salvatore buono, il quale è apparito ne' luoghi di Gerusalem, salute. Ho inteso di te e de le sanitadi che tu fai, che le fai sanza medicamento, ovvero sanza erbe, pur per te medesimo, e che a la tua parola fai vedere gli ciechi, andare i zoppi, mondi i lebbrosi e risuciti i morti. Le quali cose abbiendo udito, puosi ne l'animo mio che de le due cose era l'una, o che tu sie Domenedio, il quale se' disceso di cielo per fare queste cose, o che tu se' figliuolo di Dio, che fai queste cose. E però iscrivendo io a te, sì ti priego che ti degni d'affaticare infino a me per guarirmi da la infermità, ne la quale io sono. Imperò ch'io abbo sentito cotanto, cioè che i giudei mormorano contro di te, e voglionti porre aguaito. Vientene dunque a me, però che io abbo una piccola cittade, ma è onesta, che potrà bastare ad ambidue". E messere Jesù Cristo gli rispuose in questo modo: "Beato se' che hai creduto in me, non abbiendomi te veduto, però ch'egli è scritto di me, che que' che non mi veggiono crederanno, e que' che mi veggiono non crederanno. Ma di ciò che tu hai scritto a me, ch'io vegna a te, conviemmi prima compiere qui tutte quelle cose, per le quali io sono mandato, e poscia essere ricevuto da colui, dal quale io sono mandato. Ma da ch'io sarò ricevuto da lui, io ti manderò uno de' discepoli miei che ti faccia sano e vivifichi". E queste cose sono ne la Storia Ecclesiastica. Veggendo Abgaro che presenzialmente non potea vedere Cristo (come si truova in una antica storia, sì come dice Giovanni Damasceno nel quarto libro), mandò questo Abgaro un dipintore a Cristo, che figurasse bene la imagine sua, acciò che per questo modo il vedesse per la imagine sua. Ma quando il dipintore fue venuto a lui, per lo molto splendore che li uscìa de la faccia, non potea porrere mente ne la sua faccia, né figurarlo bene sì com'era a viso. E vedendo ciò il Signore, prese un panno di quello dipintore e, premendolosi a la faccia, puosevi su la imagine di se medesimo, e mandolla al disiderante re Abgaro. E di chente imagine il Signore fosse, leggesi in quella antica storia, come narra Giovanni Damasceno, dove dice che 'l Signore ebbe buone ciglia, fu bene adocchiato, ebbe lungo volto, e fue chinatetto, la quale cosa fu segno di grande onestàe. E tanta vertù si dice che abbia quella pistola del nostro Signore Jesù Cristo, che in quella cittade Edessa non puote stare veruno eretico, ovvero pagano, né veruno tiranno può loro nuocere. Che se per alcuno tempo alcuna gente armata si levasse contra quella cittade, un fanciullo stando sopra la porta legge quella pistola, e in quello die i nemici o fuggono spaventati, o pacificati fanno patto con loro. Così si dice che fu per adrieto adempiuto. Ma poi la detta città fu presa da' Saracini e scomunicata, levato fu da lei il beneficio per l'abbondanza de' peccati palesata in oriente da ogne parte. E poscia che 'l Signore fu salito in cielo, come si legge ne la Storia Ecclesiastica, mandò san Tomaso apostolo Taddeo, il quale è detto Giuda, ad Abgaro re, secondo la promessa di Dio. Il quale essendo venuto a lui, e dettoli ch'esso era il discepolo di Jesù Cristo, promesso a lui, vidde Abgaro nel volto di san Taddeo un maraviglioso e divino splendore; e veduto ciò fu stupidito e spaventato, e adoròe il Segnore così dicendo: "Veramente se' tu discepolo di Jesù Cristo, figliuolo di Dio, il quale mi mandò a dire: "Io ti manderò uno de' discepoli miei, il quale ti guarisca e prestiti la vita". E Taddeo li disse: "Se tu crederai nel figliuolo di Dio, tu avrai tutti i disideri del cuor tuo". Al quale disse Abgaro: "Io credo in lui veramente, e molto volentieri taglierei a pezzi li giudei che 'l crocifissono, s'io potessi, e neente ne impedirebbe a ciò fare la volontà de' Romani". Essendo dunque Abgaro lebbroso, sì come si truova in quelli libri, san Taddeo tolse la Pistola del Salvatore Jesù Cristo e fregolla al volto di colui, e immantanente ricevette perfetta sanitade. San Taddeo predicò prima in Mesopotamia e in Ponto, e san Simone in Egitto. Poscia ne vennero abendue in Persa, e trovaronsi i due Magi, i quali san Matteo avea cacciati d'Etiopia, ch'aveano nome Zaroes e Arfassat. In quello tempo Baradach duca del re di Babilonia, contra gli indiani non potea avere veruna risposta da' suoi dei. Laonde si misero andare al tempio de la più prossimana cittade, ed ebbero risposta che per gli apostoli, ch'erano venuti, gli dei non poteano rispondere. Allora il duca fece cercare per loro, e trovato che li ebbero, sì li domandò chi e' fossero, o quello che fossero venuti a dire. E quegli rispuosero: "Se tu domandi di che gente noi siamo, sappi che noi siamo ebrei; se domandi di che condizione, confessiamti servi di Gesù Cristo; se domandi il perché, diciamti che semo venuti per la vostra salute". A i quali il duca rispuose: "Quando sarò coronato con buona ventura, sì vi intenderabbo". E li apostoli dissero: "Ora è più convonevole che tu conosca colui, per lo cui aiuto tu possi vincere, o certamente tornare concordati li rubelli". A i quali disse il duca: "Io veggio che voi siete più potenti ch' e' nostri dei, priegovi che voi prediciate a noi che fine dee avere la battaglia". Al quale dissero gli apostoli: "Acciò che tu conosca come gli dei tuoi sono bugiardi, noi comandiamo loro che rispondano a quello di che sono domandati, acciò che da ch'ellino diranno quello che non sanno, proviamo che per tutto abbiano mentito". Allora gl'idoli dissero che grande battaglia dovea essere, e molti del popolo doveano morire da l'una parte e dall'altra. Allora gli apostoli cominciaro a ridere. A i quali disse il duca: "La paura m'ha assalito, e voi ridete?" Rispuosero gli apostoli: "Non avere paura, ché la pace entrò qua con esso noi, e domane a l'ora di terza verranno a te gli ambasciadori de l'indiani, e sottometterannosi a te, e a la tua signoria con pace". Allora i pontefici levarono le risa grandi, e dissero al duca: "Per ciò ti rendono costoro sicuro, acciò che quando tu sii preso, da li avversarii tu sie occupato". Dissero gli apostoli al duca: "Noi non t'avemo detto che tu t'aspetti uno mese, ma un die, e domani sarai vincitore in pace". Allora il duca fece guardare gli apostoli e ' pontefici, acciò che per la fine del fatto, i veritieri fossero onorati, e ' bugiardi fossero puniti per l'offesa. Essendo dunque intervenuto il domane vegnente quello che gli apostoli aveano promesso, volendo il re mettere al fuoco i pontefici, gli apostoli dinegarono che ciò non si facesse, con ciò fosse cosa ch'egli erano mandati non per uccidere i vivi, ma per fare vivi e' morti. Allora il duca maravigliandosi molto, e sì perché non gli aveano lasciati uccidere, e sì perché non voleano ricevere nulla di beni loro, menolli al re e disse così: "Questi sono dei nascosti in simiglianza d'uomini". E abbiendo narrato al re ogne cosa in presenza di detti magi, li magi commossi a zelo d'invidia, dissero che quelli erano maligni uomini, e pensavano sottilemente contra il reame. Disse allora il duca: "Siete voi arditi di combattere con loro?" Dissero li Magi: "Se tu vuogli vedere che in nostra presenza non potranno parlare, vegnano qua uomini bene allinguati, e se fieno arditi di parlare nulla dinanzi da noi, proverrai che noi per tutte cose siamo matti". Essendo dunque fatti venire molti avvogadi in quello luogo, in tal mo' furono fatti incontanente mutoli, che eziandio per cenni non mostravano che non potessono parlare. Dissero li magi al re: "Acciò che tu sappi che noi siamo dei, noi gli lasceremo che possano parlare, ma non andare; ancora renderemo loro il potere andare, ma faremo ch'ellino non potranno vedere con gli occhi aperti". Ed abbiendo fatto ogne cosa, il duca menò quelli avvocati così vituperati a gli apostoli; e veggendoli li avvocadi con cotali pannacci indosso, spregiarli ne l'animo loro. A i quali disse san Simone: "Spesse volte interviene che in casse d'oro e di gemme si ripognono di vili cose, e in vilissime casse e di legno si mettono preziosi ornamenti di gemme. Adunque chiunque disidera d'essere possessore d'alcuna cosa, non mette gran piato de la cosa che contiene, ma di quella ch'è contenuta. Promettetemi di partirvi da l'adorare gl'idoli, e d'adorare uno dio solo invisibile, e noi vi faremo il segno de la Croce ne le fronti, e potrete confondere i magi". E avendo ciò fatto, ed essendo segnati ne le fronti, tornarono un'altra volta al re, in presenza di magi; e non potendo essere soperchiati da i magi, anzi faccendo loro soperchio dinanzi a tutta la gente, adirati i magi, fecero venire una moltitudine di serpenti. Incontanente al comandamento del re vennero gli apostoli, e empiettero i mantelli loro de' serpenti, gittarolli addosso a i magi, così dicendo: "Nel nome del Signore non morrete, ma lacerati da' serpenti metterete gran mugghii per li dolori che sentirete". Mangiando adunque i serpenti le carni loro, e ellino urlando come lupi, il re e gli altri pregarono gli apostoli che lasciassero i serpenti uccidere coloro. A i quali rispuosero gli apostoli: "Noi siamo mandati per recare li uomini da morte a vita, non per farli traboccare de la vita ne la morte". E, fatta l'orazione, comandarono a' serpenti che tutto il veleno ch'egli aveano sparto addosso a' magi ritraessono, e poi ritornassero a' luoghi loro. E maggiori tormenti sentirono i magi nel ritrarre i serpenti il veleno, che non sentivano quando mangiavano loro le carni. A i quali gli apostoli dissero: "Tre dì sentirete dolore, e 'l terzo die sarete sani, acciò ch'almeno per questo modo abbiate materia di partirvi da la vostra malizia". E poi che furono stati tre dì sanza mangiare e bere e sanza dormire, tormentati molto de' dolori, gli apostoli vennoro a loro, e dissero: "Non vuole Domenedio i servigii costretti, e però levatevi su sani, e andate a la via vostra abbiendo libera possanza di fare quello che voi volete". Quegli, indurati ne la malizia loro, fuggirono da li apostoli, e poco meno che non mossero tutta Babilonia contra di loro. Dopo queste cose la figliuola d'un duca concepette di fornicazione e, partorendo il figliuolo, infamonne uno santo diacono, che la dovea avere corrotta, e che di lui avea conceputo. E volendo i parenti de la fanciulla uccidere quello diacano, gli apostoli contradissono, e domandarono quando il fanciullo era nato. E quelli rispuosero: "Nacque oggi ne la prima ora del die". Dissero gli apostoli: "Menate qua il fanticino, e fateci essere il diacono lo quale voi accusate". Essendo ciò fatto, dissero gli apostoli al fanciullino: "Dicci, fanciullino, nel nome del Signore Jesù Cristo, se questo diacono ebbe ardimento di fare ciò." Rispuose il fanciullo: "Questo diacono è vergine e santo, né mai unque maculò la carne sua". E soprastando i parenti a fare che li apostoli domandassero chi avesse commessa questa follia, rispuosero gli apostoli: "A noi si confà di prosciogliere gl'innocenti, e non si confà d'appalesare i colpevoli". Avvenne anche a quello tempo due tigri aspri e ferocissimi, che si andavano rinchiudendo per ogne tana, fuggivano e divoravano chiunque si parasse loro dinanzi. Allora gli apostoli vennero ad essi e, nel nome del Signore, così fieri serpenti fecero diventare come pecore mansuete. E volendosi partire gli apostoli quindi, furono pregati di rimanere, e rimaserovi per ispazio d'uno anno e tre mesi, nel quale tempo furono battezzati più di LX migliaia d'uomini, sanza i fanciulli col re e co' principi. E li detti magi capitarono a una città che ha nome Suamair, là dove erano LXX pontefici d'idoli, e commosserli contro a gli apostoli, che quando venissero là od ellino costrignessero di sacrificare, od elli gli uccidessono al postutto. Sì che quando gli apostoli ebbero cercata tutta la provincia, vennero a quella cittade, ed ecco i detti pontefici venire con tutto il popolo, e presoro gli apostoli, e menarongli al tempio del sole. E i demoni cominciarono a gridare per l'indemoniati, e diceano: "Che have voi a fare con noi, apostoli di Dio vivo? Ecco che ne l'entrata vostra siamo incesi di fiamma". Allora l'angelo di Dio apparve loro e disse: "De le due cose eleggete l'una: o che questi muoiano subitamente o 'l vostro martirio". E gli apostoli gli risposero: "È da adorarsi la misericordia di Dio, acciò che converta costoro e noi conduca al trionfo del martirio". E fatto il silenzio gli apostoli dissero: "Acciò che voi sappiate che questi idoli sono pieni di demonia, ecco che noi comandiamo loro ch'elli escano fuori, e spezzino tutti gl'idoli loro". Incontanente uscirono fuori come saracini neri, ignudi, de i loro idoli, veggendoli tutta la gente e maravigliandosi e, quando egli ebbero spezzati, partironsi son crudeli boci. Veggendo ciò i pontefici vennero loro addosso e ucciserli. In quella medesima ora essendo grande sereno, vennero tante saette folgori, che quello tempio scoppiò in tre parti, e quelli due magi tornarono in carboni per la percossa de la folgore. E 'l re traslatò le corpora de li apostoli a la città sua, e fece una chiesa di maravigliosa grandezza a loro onore. Di san Simone si truova scritto in più luogora che fu confitto in croce, e ciò dice ancora santo Isidoro nel libro de la Morte de li Apostoli, ed Eusebio ne la Storia Ecclesiastica, e Beda sopra gli Atti de li Apostoli, e 'l maestro Giovanni Beleth ne la Somma sua. E dicono che abbiendo elli predicato in Egitto, tornò a Gerusalem e, dopo la morte di sa' Jacopo minore, fue ordinato da gli apostoli concordevolemente vescovo di Gerusalem, e anzi che morisse narrasi che risucitò XXX morti. Onde si canta di lui: "Trenta morti profondati per tempesta recòe a vita". E abbiendo retto la chiesa di Gerusalem per molti anni, essendo in etade di CXX anni, al tempo di Traiano imperadore, Attico avendo la signoria in Gerusalem d'antico consolare, fu preso da lui, e afflitto con molte ingiurie. A la perfine comandò che fosse posto in croce, maravigliandosi tutti quelli che v'erano presenti, e esso giudice, che uno vecchio di CXX anni sostenne il tormento de la croce. Sono alcuni che dicono, ed è la verità, che non fu questo Simone quelli che sostenesse il martirio de la croce, ma fu un altro Simone, figliuolo di Cleofa, fratello di Giuseppe; e ciò testimonia Eusebio, vescovo di Cesaria, ne la Cronica sua. Quello medesimo dice Isidoro e Beda ne le loro Croniche. Però che Isidoro e Eusebio l'aveano prima detto, ma poi il corressono ne le loro Croniche, e cioè si manifesta per Beda, che sì ne' suoi Ritrattamenti si rimprovera che avea sentito ciò. Usuardo anche nel suo Martirologio ciò testimonia.
cap. 155, S. QuintinoQuintino di nobile legnaggio, cittadino di Roma, vegnendo a la città d'Ambianes e, faccendovi molti miracoli, per comandamento di Massimiano imperadore fu preso dal prefetto di Roma e, battuto tanto che i battitori vennero meno ne le battiture, poscia messo in prigione. Ma l'angelo di Dio isciolse i legami de la prigione, e andòe nel miluogo de la città, e predicava al popolo. Onde preso poi un'altra volta, e disteso a la colla infino a la rottura de le vene, battuto ancora co' nerbi crudi durissimamente, sostenne l'olio e la pece e 'l grasso boglientissimo; e faccendosi scherno del prefetto, adirato il prefetto gittogli in bocca la calcina e l'aceto e la senape. Ma stando lui ancora fermo, fecelo legare con catene, e presentollo a Massimiano. Ed essendo menato come agnello a la morte, per volontà di Dio fu comandato a' cavalieri che a Veromando aspettassero il prefetto, e andando l'arriccionaro. Non volendo Quintino ancora consentire, sì crudelmente il tormentò che due chiavelli gli ficcò nel capo, e fecegli passare infino a le gambe, e diece ne fece ficcare tra l'unghia e la carne, e a la perfine il fece dicollare. Il cui corpo essendo gittato nel fiume, poi che fu stato nascosto LV anni, fu ritrovato in cotale modo da una gentile donna romana. Stando ella una notte in orazione, l'angelo l'apparve e comandolle ch'ella andasse al castello Veromando per cercare in cotale luogo del corpo di san Quintino, e mettesselo in sepoltura onorevolemente. Essendo venuta dunque al detto luogo con molta compagnia, e faccendo quivi l'orazione, il corpo di san Quintino intero e sanza corruzione, con molto odore, andò a galla nel fiume. E mettendolo in sepoltura per questo beneficio, riebbe il vedere; e, fatta quivi la chiesa, ritornossi a casa.
cap. 156, S. EustachioEustagio era chiamato prima Placido. Questi era maestro de' cavalieri di Traiano imperadore, e era molto continovo ne l'opere de la misericordia, ma pure era dato al coltivamento de l'idoli. E avea una moglie la quale era in simigliante condizione misericordiosa; e nacquegli due figliuoli, i quali fece nutricare magnificamente secondo la sua magnificenzia. E perch'elli era dato a continue opere di misericordia, fu degno d'essere alluminato a via di veritade. Uno die, stando elli in cacciagione, trovò una greggia di cerbi; tra ' quali ne vidde uno più bello de gli altri e maggiore, il quale partendosi da li altri, missesi a fuggire per la selva più diserta. Ma essendo occupati i suoi compagni a gli altri cerbi, Placido mettea tutto suo isforzo a questo, e sforzandosi di pigliarlo, e perseguitandolo a tutto suo podere. Finalmente il cerbio montòe in su una ripa alta, e appressimandosi là Placido pensava molto ne l'animo suo in che modo e' si potesse pigliare. E considerando diligentemente a quello cerbio, vidde tra le corna sue forma di croce sagrata, risplendente sopra la chiarità del sole, e l'imagine di Gesù Cristo; il quale parlò in questo modo per la bocca del cerbio, come fece anticamente per l'asina di Balaam, e disse così: "O Placido, perché mi vai perseguitando? Io per tua grazia ti sono apparito in questo animale; io sono Cristo, lo quale tu nescientemente adori; le limosine tue sono salite nel mio cospetto, e per ciò sono venuto, acciò che per questo cerbio, che tu cacciavi, io cacciassi te". Altri tuttavia dicono che la stessa imagine, che apparve tra le corna del cervo, queste cose disse. Udendo Placido queste cose, compreso da molta paura, cadde a terra del cavallo; e, passata una ora, ritornò in sé, e levossi di terra, e disse: "Manifestami chi tu se', che mi parli, e così crederabbo in te". Disse Cristo: "O Placido, io sono Cristo che creai il cielo e la terra, che feci nascere la luce e divisila da le tenebre, il quale ordinai i tempi e i dì e gli anni, il quale formai l'uomo de la faccia de la terra, il quale apparvi in terra in carne per la salute de l'umana generazione, il quale crucifisso e seppellito risucitai il terzo die". Udendo Placido queste cose, cadde un'altra volta in terra, e disse: "Io credo, Signore, che tu se' quegli che hai fatte tutte le cose, e convertisci gli eretici e gli erranti". Disse il Signore a lui: "Se tu credi, vattene al vescovo de la città, e fatti battezzare a lui". E Placido disse: "Vuo' tu, Signore, ch'io annunzi queste cose a la mia moglie e a' miei figliuoli, acciò che ellino con meco insieme credano in te?" Al quale il Signore disse: "Annunzia loro, acciò ched ellino teco insieme siano mondati; e domane, in quel dì, ne vieni tu qua, acciò ch'io t'apparisca un'altra volta, e manifestiti pienamente quelle cose che ti debbono avvenire". Essendo venuto a casa, e avendo contato nel letto a la moglie queste cose, la moglie gridòe, e disse: "Signore mio, e io il viddi in questa notte ch'è passata, e dicea a me: "Domane verrete a me, tu e 'l marito tuo e' figliuoli tuoi", e ora conosco ch'egli è Jesù Cristo". Sì che se n'andarono ne la mezzanotte al vescovo di Roma, il quale gli battezzò con grande allegrezza, e a Placido puose nome Eustagio, e a la moglie Teospita, e a' figliuoli Agapito e Teospito. La mattina vegnente Eustagio andò a la cacciagione com'era andato prima e, vegnendo presso al luogo, mandò i cavalieri suoi qua e là, quasi sotto spezie d'andare cercando cacciagione, e stando in quello luogo pose mente e vidde la forma ch'avea prima veduta, e caggendo in terra ne la faccia sua, disse: "Io priego te, Signore, che tu manifesti quelle cose che tu promettesti al servo tuo". E 'l Signore li disse: "Beato se', Eustagio, il quale hai ricevuto il lavamento del santo battesimo de la grazia mia, imperò che ora hai vinto il diavolo, or hai scalpitato colui che t'avea ingannato, ora si parrà la fede tua. Il diavolo s'arma crudelemente contra te, però che tu l'hai abbandonato. Convienti dunque molte cose sostenere per avere corona di vettoria; convienti patire molte cose, acciò che tu sii abbassato da l'alta vanità del mondo, e sii esaltato ne le spirituali ricchezze. Adunque non ci venire meno e non ragguardare a la gloria ch'è passata, imperò che per tentazione convien che si mostri che tu sii un altro Giob. Ma quando tu sarai umiliato, io verrò a te e rimetterotti ne la gloria di prima. Di' dunque se tu vuogli ricevere la tentazione, aguale o a la fine de la vita". Disse a lui Eustagio: "Segnore, s'egli è mestiere che così sia, comanda che vegna ora, ma donane la vertù de la pazienzia". E 'l Signore gli disse: "Sta fermo, ché la grazia mia guarderà l'anime vostre". E così se n'andò il Signore in cielo. Eustagio tornò a casa e disse queste cose a la moglie. Da ivi a pochi dì venne una mortale pestilenzia sopra i servi e sopra tutte l'ancelle sue, sì che tutti morirono; poscia da ivi ad alcuno tempo i cavalli e tutto il suo bestiame morirono subitamente. E alcuni scellerati, veggendo la sua disavventura, entrarolli di notte in casa, e portaronne tutto ciò che vi trovarono, e spogliarono tutta la casa de l'oro e de l'ariento e de l'altre cose; e egli con la moglie e co' figliuoli, rendendo grazie a Domenedio, fuggì di notte sanza neuna cosa. E temendo la vergogna andavane in Egitto, e tutta la loro possessione per ruberia di rei uomini tornòe al neente. E lo 'mperadore con tutto il sanato di Roma si doleano molto del maestro de' cavalieri così prode, di ciò che neuno segno si potea trovare di lui. E andandosene così, s'appressimarono al mare, e trovando una nave, cominciarono a navicare sopr'essa. Ma veggendo il Signore de la nave la moglie d'Eustagio come era bella, vennegli grande disiderio di lei; e poi ch'ebbero passato, il nocchiere domandava il nolo, e non avendo elli donde pagare, comandò il segnore de la nave che fosse tenuta la donna, volendola avere seco. Udendo ciò Eustagio non volse consentire per veruno modo e, contradicendolo lui, il signore de la nave accennò a' nocchieri suoi che 'l gittassono in mare per potersi avere così la moglie. Avendo ispiato ciò Eustagio, lasciò stare la moglie a coloro molto dolorosamente, e togliendo due suoi fanciulli, andavane piangendo e dicendo: "Guai a me e a voi, ché la madre vostra è convenuta dare a straniero marito!". E capitato ad uno fiume, non fu ardito di passare con ambi i figliuoli per l'abbondanza de l'acqua, ma lasciò l'uno lungo la riva del fiume, e passava l'altro. E quando ebbe valicato il fiume con l'uno de' figliuoli, e puoselo in terra e tornava per l'altro. E quando fue nel mezzo del fiume, eccoti venire uno lupo, e prese quello figliuolo ch'elli avea già posto in terra, e fuggissi ne la selva con esso. E disperandosi di quello, affrettavasi d'andare per l'altro; ma venne uno leone e prese l'altro figliuolo, e andossi via con esso. E pensando che non l'avrebbe potuto giugnere, essendo nel mezzo del fiume, cominciò a piagnere e a divellersi i capegli di capo, e voleasi gittare entro l'acqua, se non che la provvedenza di Dio il rattenne. Veggendo i pastori che 'l leone ne portava uno fanciullo vivo, perseguitarollo con i cani; e 'l leone, per dispensazione di Dio, gittò via il fanciullo sanza male veruno, e fuggìo. Ancora certi uomini che aravano la terra gridando dietro al lupo, sì li trassero il fanciullo di bocca sano e salvo; e l'uno e l'altro, cioè i pastori e gli aratori, erano d'una contrada, sì che tennero seco i fanciulli e nutricarongli. Ma Eustagio non sapeva questo, ma andavasi piangendo e dolorando, e diceva: "Oimè, che io risplendea com'uno arbore, ma ora, sono spogliato d'ogne cosa al tutto! Oimè, che io solea essere attorniato da moltitudine di cavalieri, e ora, rimaso solo, né non m'è conceduto d'avere pure i figliuoli! Io mi ricordo, Segnore, che tu mi dicesti che mi convenìa essere tentato come Giob; ma ecco che veggio in me più che Giob, ché sed egli fu spogliato d'ogni cosa, almeno ebbe del letame sopra lo quale potette sedere, ma a me non è rimaso veruna di queste cose; quelli ebbe amici che 'l consolarono, ed ebberli compassione; io hoe avuto le bestie feroci contra di me, che m'hanno tolti i miei figliuoli; a colui fu lasciata la moglie, ma a me è tolta. Dammi, Signore, riposo a le mie fatiche, e poni guardia a la bocca mia, acciò che non si inchini il cuore mio in parole di malizia, e sia cacciato dinanzi da la faccia tua". E dicendo queste cose con lagrime andossene ad uno borgo, e per guadagno che li era dato, XV anni stette a guardare [ms.: guadagnare] i campi di quelli uomini; e li figliuoli suoi furono innodriti in uno altro luogo, né non sapeano che fossono fratelli. E 'l Signore Dio conservòe la moglie d'Eustagio, né non permisse che quello straniero la toccasse, ma lasciolla stare e vendella. In quello tempo lo 'mperadore e 'l popolo di Roma era molto molestato da' nemici; e ricordandosi di Placido come spesse volte con grande prodezza avea già combattuto contra nemici de' romani, contristavasi molto del subitano mutamento di lui; e mandò molti cavalieri per diverse parti del mondo, promettendo a tutti quelli che 'l trovassono, di dare loro molte ricchezze e onori. E due de' cavalieri c'aveano già servito ad Eustagio, vennero al borgo là dov'elli abitava. E considerandoli Placido venire del campo, sì li riconobbe immantanente a l'andare, e vegnendoli in memoria la dignità sua, ne la quale era stato, cominciossi a turbare e a dire: "Segnore mio Domenedio, come tu m'hai dato a vedere costoro, che sono già stati meco, sanza veruna speranza, così mi dona ch'io possa anche vedere la moglie mia; però ch' e' figlioli miei so io questo che sono mangiati da le bestie". E venne una voce a lui, e sì li disse: "Confidati, Eustagio, ché tosto ricoverrai l'onore tuo, e riavrai la moglie tua e' figliuoli". Sì che vegnendo incontro a quelli due cavalieri, neente il conobbero, e poi che l'ebbero salutato, dimandarollo s'elli avesse veduto alcuna volta un pellegrino, ch'avea nome Placido, o conosciutolo con la moglie e con due figliuoli. E quelli disse che non ne sapea nulla; ma pure a' suoi preghieri andarono a l'albergo suo. E Eustagio serviva loro, e ricordandosi del suo primo stato, non potea tenere le lagrime; e uscendo fuori, lavossi la faccia e anche tornò, e servìa loro. E quelli due considerando insieme, dicevano: "De! come questo uomo è simigliante a colui cui noi andiamo caendo!" Rispuose l'altro e disse: "Molto gli è somigliante; or pognamo cura che s'elli hae la 'nsegna de la margine che dee avere nel capo, la quale gli avvenne ne la battaglia, egli è esso". E ragguardando e veggendo il segno, conobbero incontanente ch'egli era colui, lo quale domandavano; e venendoli addosso a basciandolo, domandarollo de la moglie e de' figliuoli. E quelli disse loro che i figliuoli erano morti, e la moglie era sostenuta e presa. E tutt'i vicini correvano a vedere questo fatto, udendo quello che i cavalieri dicevano de la sua virtù e prima gloria. Allora i cavalieri gli dissero l'ambasciata de lo imperadore, e vestirollo d'ottime vestimenta. E dopo il viaggio di XV dì furono venuti a lo imperadore, e egli udendo de la sua venuta, andò loro incontro e, poi che l'ebbe veduto, gittoglisi al collo e basciavallo. E raccontò a tutti quelle cose che gli erano intervenute, tutte per ordine; e incontanente fu fatto maestro de' cavalieri, e fu costretto di fare quivi l'officio di prima. Il quale, avendo annoverato i cavalieri e conoscendo ch'egli erano pochi contra cotanti cavalieri nemici, comandò che fossero raunati cavalieri per tutte le cittadi e borghi. Ora divenne che quella terra ne la quale costoro erano notricati, cioè i figliuoli d'Eustagio, fu scritta che dovesse dare due cavalieri novelli. Sì che tutti gli abitanti di quello luogo assegnarono al maestro de' cavalieri quelli due giovani, sì come i più acconci a quelle cotali cose. Veggendo dunque che i giovani erano belli del corpo e composti d'onesti costumi, piacquerli molto, e ordinolli che dovessono essere tra suoi primi compagnoni. E così andat' a la battaglia e sottoposti i nemici, fece riposare per tre dì l'oste sua in uno luogo nel quale stava la moglie in albergo altrui come povera. E quelli due giovani per volontà di Dio furono albergati ne la casa dove stava la madre loro, non sappiendo ellino ch'ella fosse loro madre né ched ellino fossero fratelli carnali. E seggendosi così a le merigge e ragionando insieme, diceva l'uno a l'altro di quelle cose ch'erano avvenute ne la fanciullezza loro; e la madre loro, seggendo loro presso, udiva attentamente quelle cose che ellino si raccontavano insieme. Ché diceva il maggiore al minore: "Quando era fanciullo non mi ricordo d'altro se non che 'l padre mio era maestro de' cavalieri, e la madre mia era una bella donna molto, e ebbero due figliuoli, cioè me e un altro più giovane di me, che era anche un bellissimo fanciullo e, togliendoci, uscirono di casa di notte tempo, e entrarono in una nave, e non so dove noi vi andavamo. E uscendo noi da la nave, non so come la madre nostra fu lasciata ne la nave, e 'l padre nostro portava noi due piagnendo, e pervenimmo ad un fiume, e elli passò col fratel mio più giovane, e me lasciò in su la riva del fiume. E ritornando per me per valicarmi, venne un lupo e rapìo il fanciullo; e anzi che mio padre fosse a me, uscette il leone de la selva, e prese me e portommi ne la selva. E i pastori mi trassono de la bocca del leone, e fui nudrito in una villa, che tu sai, e non ho potuto sapere quello che fatto si sia né di mio padre, né del fratello". Udendo il più giovane queste cose cominciò a piagnere, e disse: "Per Domenedio bene ti dico, ch'a quel ch'i' odo, io sono tuo fratello, però che quelli che mi nutricarono mi diceano: "Noi ti traemmo di bocca del lupo". E abbracciandosi insieme si baciarono strettamente, e piangeano. Udendo la madre loro queste parole, e considerando che questi aveano detto così ordinatamente l'avventura di lei, pensò lungo tempo fra se medesima che quelli fossero i suo' figliuoli. L'altro dì se n'andò al maestro de' cavalieri, e feceli preghiero, e disse: "Io ti priego, messere, che tu mi faccia rimenare nel paese mio, però ch'io sono di terra di Romani, e sono pellegrina qui". E dicendo queste cose vidde in lui il segnale del marito suo, e da ch'ella l'ebbe riconosciuto, gittoglisi a' piedi, non potendosene tenere, e disse: "Io ti priego, segnore, che tu mi dichiari che vita fu la tua prima; io credo che tu se' Placido, maestro de' cavalieri, il quale eri chiamato d'altro nome Eustagio; lo quale Placido il Salvatore convertìo, il quale sostenne cotale e cotale tentazione, e al quale fu tolta la moglie in mare, la quale io sono, la quale io mi sono conservata da ogne corruzione, la quale ebbe due figliuoli, ciò furono Agapito e Teospito". Udendo queste cose Eustagio e considerandola diligentemente, riconobbe ch'ella era sua moglie, e per la letizia lagrimòe e basciolla, glorificando Iddio, il quale consola gli afflitti. Allora gli disse la moglie sua: "Messere mio, dove sono i figliuoli nostri?" E quelli disse: "Da fiere bestie sono mangiati". E dissele il modo come gli perdette. E quella disse: "Rendiamo grazie a Domenedio, io mi credo che sì come Iddio n'ha donato di ritrovarci insieme, così ci donerà di riconoscere i figliuoli nostri". E que' disse: "Io t'ho detto che furono presi da le fiere bestie". E quella disse: "Ieri, sedendo me ne l'orto, udìe due giovani che così e così ragionavano insieme di loro fantilitadi, e credo che sieno i figliuoli nostri; domandali, e ellino te lo diranno". E chiamandoli Eustagio e udendo da loro de la loro fantilitade, riconobbe ch'egli erano suoi figliuoli, e abbracciandoli egli e la madre, piansero molto sopra 'l collo loro, e baciarli spesse volte. Sì che tutta l'oste s'allegrava molto, e del ritrovamento di costoro e de la vettoria che aveano de' barbari. Sì che tornando loro a Roma, avvenne che Traiano morìo; e fu fatto imperadore dopo lui Adriano, peggiore in malizia, il quale gli ricevette magnificamente e sì per lo ritrovamento de la moglie e de' figliuoli e per la vettoria ch'aveano avuta, e fecene apparecchiare un grande convito. L'altro die se n'andò al tempio de l'idoli, acciò che vi sacrificasse per la vettoria avuta de' barberi. E veggendo ch'Eustagio non volea sagrificare né per la vettoria, né per lo ritrovamento de' figliuoli, sì 'l confortava ch'elli sagrificasse. Al quale disse Eustagio: "Io adoro Cristo per Domenedio, e a lui solamente fo sagrificio". Allora lo 'mperadore ripieno d'ira, comandò ch'Eustagio con la moglie e co' figliuoli, fossero menati nel renaio, e che il leone feroce fosse loro ammesso. E 'l leone correndo inverso lui, chinòe il capo e quasi come gli volesse adorare, e partissi umilemente da loro. Allora lo 'mperadore fece incendere un bue di rame, e comandò che vivi vi fossero messi entro. Sì che orando i santi e accomandandosi a Dio, entrarono nel bue, e ivi renderono l'anime a Dio. In capo di tre dì furono tratti del bue, e dinanzi a lo 'mperadore furono trovati sì netti dal fuoco, che pure uno peluzzo del capo loro non si trovò magagnato da' vapori de l'arsura. E li cristiani tolsero le corpora loro, e ripuoserle in luogo solennissimo e fecervi uno oratorio. E furono martirizzati sotto Adriano, che cominciò a regnare intorno a gli anni Domini CXX in calen di Novembre, ovvero secondo alcuni XIII Ottobre. Finite le Leggende de' Santi del mese d'Ottobre, e cominciano quelle di Novembre.
cap. 152, OgnissantiLa festa d'Ognessanti pare che fosse ordinata per IIII ragioni. L'una fue per lo sagramento d'alcuno tempio; la seconda per rimettere le feste lasciate; la terza per purgare le negligenzie; la quarta per impetrare più leggieremente con le nostre orazioni. Prima dico che fu ordinata per la sagra d'alcuno tempio. Segnoreggiando i romani a tutto il mondo, fecero uno grande tempio, nel mezzo del quale ordinarono per giro gl'idoli di tutte le province, che teneano lo volto rivolto a l'idolo de' romani. E se per alcuno tempo alcuna provincia rubellasse, incontanente dicono che per arte del diavolo l'idolo di quella provincia volgea le reni a l'idolo de' romani, quasi dimostrando che fosse partita da la sua segnoria. E li romani tostamente mandavano la grande oste a quella provincia, e sottomettealla a la sua signoria. E non bastò a' romani d'avere ne la loro cittade gl'idoli di tutte le province, anzi fecero poco meno a ciascuno domenedio il suo tempio, come s'elli gli avessero fatti vincitori e signori di tutte le province. Ma perché tutti gl'idoli non vi poteano avere il tempio, a maggiore dimostramento di lor mattia levarono in alto uno tempio più maraviglioso e più alto di tutti in onore di tutti gli dei, e chiamarollo Pantheon, che tanto suona in nostra lingua come: "tutti gli dei" da Pan, cioè tutto, e Teos, cioè Dio. Però che i pontefici de l'idoli compuosero a maggiore inganno del popolo, ch'era stato loro comandato da Cibele, la quale chiamavano madre di tutti gli dei, che s'elli voleano avere vettoria di tutte le genti, facessero uno magnifico tempio a' loro dei. E 'l fondamento di quello tempio è sferico, acciò che per quella forma si dimostrasse l'eternità de li dei; ma imperò che la grandezza de la volta parea non sostentabile, con ciò sia cosa che fossono proceduti sopra terra nel lavorio, sì 'l riempievano tutto di terra, e, dicesi, che con la terra insieme gittavano danari, e così fecero infin a tanto che quello tempio fu maravigliosamente compiuto. Allora data la parola che chiunque volesse portare via la terra, tutta la pecunia che vi trovasse in quella terra fosse sua, incontanente venne la grande turba, e votarono quel tempio. Finalmente fecero i romani una pina di rame dorata, e puosolla ne la sommità del tempio. E dicono che in questa pina erano scolpite maravigliosamente tutte le province, sì che chiunque fosse venuto a Roma, potrebbe avere saputo inverso ove fosse la sua provincia. Ma passato alcuno tempo, la detta pina ne cadde a terra, e rimase aperto il tempio nel detto luogo. Sì che al tempo di Foca imperadore, avendo già Roma per alcuno tempo passato ricevuta la fede di Cristo, papa Bonifazio, quarto dopo Gregorio il grande, verso gli anni Domini DCV impetròe da Foca imperadore quello tempio; e levatane ogne fastidiezza di tutti l'idoli, a XII di Maggio sì consegròe in onore di santa Maria e di tutt' i martiri, e chiamollo il luogo di santa Maria a i Martiri, che lo chiama ora il popolo santa Maria ritonda, però che non facea ancora la Chiesa la solennità de' confessori. Ma imperò che a questa festa correa grande moltitudine di gente, e non poteano stare a la festa per mancamento de la vittuaglia, però un papa Gregorio ordinò che questa festa si facesse in calen di Novembre, quando è maggiore abbondanza de le cose da vivere, che è fatta allotta la mietitura e la vendemmia; e ordinòe che questo die si guardasse per tutto il mondo a riverenzia di tutti i santi; e così il tempio ch'era fatto a tutti gl'idoli, è ora consegrato a tutti i santi, e colà dov'era adorata la moltitudine de l'idoli divotamente, sì vi si loda la moltitudine de' santi. Nel secondo luogo è ordinata questa festa per ricompiere i santi lasciati, però che noi abbiamo lasciati molti santi, de' quali non avemo fatta veruna festa né ricordanza. Però che noi non possiamo rapportare l'opere di tutti i santi, sì per la multiplicanza de' santi, però che sono molti e sono quasi infiniti, e sì per la nostra infermitade, però che siamo infermi e deboli, né non potremo essere sufficienti a ciò, e sì per la brevitade del tempo, però che 'l tempo ancora non ci basterebbe. Però fa la Chiesa ragionevolemente che, però che noi non possiamo fare festa di tutti i santi catuno per sé, almeno gli onoriamo tutti insieme. Generalmente la cagione perché ordinato sia che noi dobbiamo fare le feste de' santi in terra, il maestro Guglielmo d'Altissiodoro ne la Somma de l'Officio ne pone sei ragioni. La prima si è per l'onore de la maestade di Dio; però che quando noi facciamo onore a i santi, sì onoriamo noi Dio ne' santi, e predichiamolo maraviglioso in quelli, però che chi fa onore a' santi, onora spezialmente colui che gli ha santificati. La seconda si è per l'aiuto de la nostra infermità; che perché noi non possiamo per noi medesimi avere salute, però avemo bisogno de l'orazioni de' santi i quali, acciò che noi siamo aiutati da loro degnamente, gli dobbiamo onorare. Leggesi nel terzo libro de' Re, primo capitolo, che Bersabee, la quale è interpretata pozzo di sazietate, cioè la Chiesa trionfante, per li suoi prieghi acquistòe il reame al figliuolo suo, cioè a la Chiesa militante. La terza si è per l'accrescimento di nostra sicurtà, acciò che per la gloria de' santi, la quale si propone a noi ne la loro festivitade, accresca la nostra speranza e la nostra sicurtade. Ché se uomini mortali simiglianti a noi, potêr così per li loro meriti essere sublimati, manifesta cosa è che altressì potremo noi, con ciò sia cosa che la mano di Dio non sia menovata. La quarta si è per lo essemplo del nostro seguito; però che quando si racconta a noi la loro festività, siamo invitati a seguitarli, acciò che per lo loro essemplo spregiamo le cose terrene e disideriamo quelle del cielo. La quinta si è per lo debito de la vicendevole vicenda; però che i santi fanno festa di noi in cielo, però che allegrezza è a' santi angeli e a l'anime sante sopra uno peccatore che fa penitenzia. Acciò dunque che noi rendiamo loro il debito, ragionevole cosa è che da ch'elli fanno festa di noi in cielo, noi la facciamo di loro in terra. La sesta si è per lo procuramento del nostro onore; però che, quando noi onoriamo i santi, allora facciamo noi il fatto nostro e procuriamo l'onore nostro, però che la loro festivitade è nostra dignitade, ché noi onorando i fratelli nostri, onoriamo noi medesimi, però che la carità fa tutte le cose essere a comune, però che tutte le cose nostre sono celestiali, terrene, eternali. Fuori da queste ragioni ne pone altre tre san Giovanni Damasceno nel quarto libro, settimo capitolo, cioè per qual cagione i santi e le corpora loro insiememente, ovver le loro reliquie, debbiano essere onorate; de le quali ragioni se ne prendono alcune quanto a la loro dignitade, alcune quanto a la preziosità de' corpi loro. La loro dignitade, sì come dice in quello luogo, è in quattro maniere: ched e' sono amici di Dio, figliuoli di Dio, eredi di Dio e capitani nostri. E pone queste concordanze: del primo dice san Giovanni nel XV capitolo: "Già non vi dirabbo servi, ma amici". Del secondo dice quel medesimo nel primo capitolo: "Diede a la loro potenzia d'essere figliuoli di Dio". Del terzo dice san Paulo a' Romani, VIII capitolo: "Se siamo figliuoli, saremo eredi". Del quarto dice così: "Quanto t'affaticheresti tu per trovare un capitano, che ti menasse a un re mortale e facesse un bello arringamento per te a lui? Le guide di tutte l'umana generazione che fanno preghiere a Dio per noi, or non sono elle da essere onorate? Certo sì. Ben si debbono onorare coloro che fanno tempii a Dio e coloro che fanno onore e reverenza del loro ricordamento". L'altre ragioni si prendono quanto a la preziositade de' corpi loro. E pone il detto Damasceno quattro ragioni, e santo Agostino v'aggiugne la quinta, per le quali si manifesta la preziosità de' loro corpi, ovvero de l'orliquie. Però che essi corpi de' santi furono armarii di Dio, tempio di Cristo, alabastro di spirituale unguento, fontane di Dio e organo di Spirito Santo. Prima dico che furono armaro di Dio, onde dice: "Costoro son fatti armarii di Dio, cenacoli puri". Secondariamente tempio di Cristo, onde seguita: "Però che per lo intelletto abitòe Dio ne le corpora loro, onde dice l'apostolo: "Or non sapete voi che i corpi vostri sono tempio de lo Spirito Santo?" Domenedio è spirito, or come non sono da onorare gli animati tempii, abitazioni di Dio? Di questo dice san Giovanni Grisostomo: "L'uomo si diletta di edificare pareti, e Domenedio nel conversare co' santi". Onde dice il Salmo: "Messere, io ho amato la bellezza de la casa tua". Che bellezza? Non quella che la diversità di marmi fa splendiente, ma quella che rende la veritade de le viventi grazie. Quella bellezza diletta la carne, questa bellezza fa viva l'anima; quella a tempo abbatte e inganna gli occhi, questa edifica perpetualmente lo 'ntendimento. Nel terzo luogo furono alabastro d'unguento spirituale, onde dice: "Unguento di buono odore uscente da sé danno le reliquie de' santi, e non è veruno a cui diletti. Che se de la ferma pietra e dura uscìo l'acqua nel diserto, e de la mascella de l'asino è data la vettoria a Sansone, neente è incredibile che de l'orliquie da' santi esca fuori unguento che renda odore a coloro che sanno la vertù di Dio e de' santi, che sono onorati da lui". Nel quarto luogo sono fontane di Dio; onde dice: "Costoro viventi in verità d'animo, con libera presenzia stanno dinanzi da Dio". Fontane di salute ha date a noi il Signore Cristo le reliquie de' suoi santi, che ci danno molti beneficii. Nel quinto luogo sono organo de lo Spirito Santo. Questa ragione assegna santo Agostino, nel libro de la Città di Dio, dove dice così: "Non sono da avere a schifo i corpi de' santi, ma molto da onorare, li quali lo Spirito Santo usòe mentre che vissono ad ogne buona operazione, sì come alcuni organi". Onde dice l'Apostolo: "Or cercate voi esperimento di colui che parla in me, cioè Cristo?" E di Stefano è detto che non poterono resistere a la sapienza e a lo spirito che parlava in lui. Anche dice santo Ambruogio ne l'Exameron: "Questa è preziosissima cosa, che l'uomo sia organo de la voce di Dio, e che con le labbra del corpo manifesti la scrittura del cielo". Nel terzo luogo fu ordinata per purgare le negligenzie; però che avvegnadio che noi facciamo feste di pochi santi, ancora di quelli cotanto pochi le facciamo molte volte negligentemente, e molte cose vi lasciamo per ignoranza o per nigligenzia. Ma quella nigligenzia che noi abbiamo commessa ne l'altre solennitadi de' santi, possiamo ristorare in questa generale festa, e possiamoci purgare de la negligenzia. Questa ragione pare che sia tocca nel sermone che si legge in questo dì per le chiese, nel quale si dice così: "Dicreto è che in questo dì si faccia memoria di tutti i santi, acciò che se l'umana fragelitade in questa solennitade de' santi avesse compiuto meno che pienamente per ignoranza o per negligenzia o per occupazione di cosa temporale, sì ne sia assoluto in questo santo osservamento". Ed è da sapere che quattro sono le genti del Nuovo Testamento che noi coltiviamo per lo cerchio de l'anno, e che noi raccogliamo insieme in questo die, acciò che suppliamo a quello che noi avessimo commesso negligentemente in loro, cioè apostoli, martiri, confessori, e vergini. E questi, secondo che dice Rabano, son significati per quattro parti del mondo; per l'oriente sono gli apostoli, per lo merigge sono i martiri, per l'aquilone sono i confessori, per l'occidente sono le vergini. La prima differenzia è quella de li apostoli, la dignità e l'eccellenzia de' quali si manifesta in ciò ch'elli avanzano gli altri santi in quattro cose, cioè in altezza di dignitade, però che sono i savii de la chiesa militante, principi potenti, assessori del giudice eternale, dolci pastori de la greggia del Signore. Dice san Bernardo: "Cotali convenìa che sono ordinati pastori e dottori de l'umana generazione, i quali fossero dolci e potenti e savi; dolci, acciò che mi ricevessono benignamente e misericordiosamente; potenti, acciò che fortemente difendessono; savi, acciò che ne menassono a la via e per la via, la quale mena a la città superna". Nel secondo luogo in altezza di potenzia, de la quale dice così santo Agostino: "A li apostoli diede Domenedio potenzia sopra la natura, acciò che la curassono; sopra le demonia, acciò che li facessero tramazzare; sopra gli elementi, acciò che li mutasseno; sopra l'anime, acciò che l'assolvessono da' peccati; sopra la morte, acciò che la spregiasseno; sopra gli angeli, acciò che consegrassono il corpo di Cristo". Nel terzo luogo in prorogativa di santitade, onde per la loro grandissima santitade e plenitudine di grazie, la vita e la conversazione di Cristo riluceva in loro sì come in ispecchio, ed era conosciuta in loro come si conosce il sole nel suo splendore e come la rosa nel suo odore e come il fuoco nel suo calore. Di questo dice così san Giovanni Boccadoro su san Matteo: "Mandò Domenedio gli apostoli, come il sole i suoi razzi, e come la rosa manda il suo odore fuori de la sua soavitade, e come il fuoco le sue faville, acciò che come il sole appare ne' suoi razzi, e come la rosa è sentita ne' suoi odori, e come il fuoco è veduto ne le sue faville, così sia conosciuta la potenzia loro per le vertù di Cristo". Insin qui dice Boccadoro. Nel quarto luogo ne l'efficacia de l'utilitade; de la quale efficacia dice così santo Agostino parlando de li apostoli: "Di scacciatissimi e semplicissimi son fatti nobili e alluminati e multiplicati; i dolcissimi parlari, li chiarissimi ingegni, le copiosissime schiere de' sottili parlanti, de li astuti e de' maestri sono sottomessi a Cristo". La seconda differenzia si è de' martiri, la dignitade e l'eccellenzia de i quali si manifesta in ciò che furono passionati in molti modi e utilmente e costantemente. In molti modi, imperò che oltre del martirio del sangue, sostennero tre altri martirii sanza sangue. Del quale triplice martirio, dice san Bernardo: "Tre furono i martirii sanza sangue, ciò furono temperanza ne l'abbondanzia, la quale ebbe David; larghezza ne la povertade, la quale mostrò Tobia e la vedova; castitade di gioventudine, la quale usòe Giuseppo ne l'Egitto". Ma secondo Gregorio sono tre martirii sanza sangue, cioè pazienzia de l'avversitadi, onde dice: "Sanza ferro e sanza fiamma possiamo essere martiri, se noi guardiamo veramente la pazienza ne l'animo". L'altro è compassione avere de' tribolati, onde dice: "Chi ha dolore ne l'altrui necessitadi, quello cotale porta la croce ne la mente". Il terzo è amare i nimici, onde dice: "Comportare le ingiurie, amare colui che innodia te, è martirio ne lo occulto pensiero". Nel secondo luogo, utilmente; la quale utilità da la parte di tutt'i martiri è la rimissione di tutt'i peccati e 'l ricevimento de l'eternale gloria. Però che comperarono a sé queste cose col prezzo del loro sangue, e però il loro sangue è detto prezzo. Del quale dice santo Agostino nel libro de la Città di Dio: "Qual'è più preziosa cosa che la morte, per la quale sono perdonati i peccati, e accresciuti i meriti?" Anche dice elli medesimo sopra il Vangelio di san Giovanni: "Prezioso è il sangue di Cristo sanza fine; fece ancora egli il sangue de' suoi prezioso, per li quali diede in prezzo il sangue suo". Però che se non facesse prezioso il sangue de' suoi non si dicerebbe: "Preziosa è nel cospetto del Signore la morte de' santi suoi". Anche dice Cipriano: "Il martirio è fine di peccati, termine di pericolo, guida di salute, maestro di pazienzia, casa di vita". Del secondo dice san Bernardo: "Tre cose sono quelle che fanno preziosa la morte de' santi: riposo de la fatica, allegrezza del nascimento, sicuranza de l'eternitade". Da parte di noi sono due utilitadi, imperò che sono dati a noi in esemplo a combattere. Dice san Giovanni Boccadoro: "Tu, cristiano, se' un dilicato cavaliere, se tu pensi vincere sanza battaglia e avere vettoria sanza combattere; adopera le forze, combatti fortemente, fieramente combatti in questa battaglia, considera il patto, bada a la condizione, conosci la cavalleria; il patto, lo quale tu promettesti, la condizione a che tu se' venuto, la cavalleria a la quale tu ponesti nome. Però che a questo patto tutti combattiero, a questa condizione tutti vinsono, in questa cavalleria ebber vettoria". Insino qui dice Boccadoro. Secondariamente son dati a noi in padroni ad aiutare, però che ci aiutano con loro meriti e con loro orazioni. Del primo, cioè de' meriti, dice santo Agostino: "O grande pietà di Dio, la quale vuogli che i martiri deano i lor meriti per nostro aiuto! Dio gli disamina per noi ammaestrare; attritagli per noi acquistare; i tormenti loro vuole che siano nostro prode". Del secondo dice san Geronimo parlando contra Vigilanzio: "Se li apostoli e ' martiri essendo in carne possono orare per gli altri, quando per loro doveano ancora essere solliciti, quanto maggiormente il possono fare dopo le vettorie e le corone e ' trionfi!" Uno uomo Moisé accattò da Domenedio perdonanza a secento migliaia d'armati, e Stefano pregò per coloro che lo lapidavano; poi che sono in Cristo, varranno elli meno? Paulo apostolo dice che di CCLXXVI persone gli sono date l'anime in sua mano; poscia ch'egli è sceverato dal corpo e congiunto con Cristo, chiuderà elli la bocca? La terza differenzia è de' Confessori, la dignità e l'eccellenzia de' quali si manifesta in ciò che confessarono Domenedio in tre modi, cioè col cuore e con la bocca e con l'opera. La confessione del cuore non basta sanza la confessione de la bocca, sì come pruova Grisostimo su san Matteo per IIII ragioni. Quanto a la prima dice così: "Radice de la confessione è la fede del cuore, ma la confessione de la bocca è frutto de la fede; sì come dunque la radice, la quale sta lungo tempo viva ne la terra, è mestiere o ch'ella metta rami o foglie, ma se non le mette, sanza dubbio intendi che la radice è secca; così mentre che la fede del cuore è integra, genera confessione ne la bocca, ma se la confessione de la bocca sia corrotta, intendi sanza dubbio, che la fede del cuore suo è già secca". Quanto a la seconda, dice così: "Se ti fa prode a credere col cuore e non confessare dinanzi a gli uomini, dunque fa prode a lo 'nfedele confessare Cristo in ipocrisia, eziandio se non credesse con cuore; ma se quelli non fa prode neente a confessare Cristo sanza la fede, così tu non fai pro neente a credere sanza confessare". Quanto a la terza, dice così: "E se basta a Cristo che tu il conosca, eziandio che tu non lo confessi dinanzi a gli uomini, adunque basti a te che Cristo ti conosca, eziandio se non ti confessa dinanzi a Dio; ma se non ti basta il suo conoscere, non basta a lui la fede tua". Quanto a la quarta cosa, dice così: "Se ti bastasse la fede del cuore, Dio t'avrebbe creato pure il cuore; ma Dio t'ha criata la bocca, acciò che tu creda con cuore e confessi con la bocca". Nel terzo modo confessarono Cristo con l'opera. In che modo altri confessi Domenedio o nieghi, mostralo santo Agostino ne l'Originale, sopra quella parola: "Confessano di conoscere Domenedio, ma con l'opere niegano", dicendo così: "Cristo ha sapienza di giustizia, veritade, santitade e fortezza. Per la insipienza è negata la sapienzia, per la niquitade la giustizia, per la bugia la veritade, per la sozzura la santitade, per la bellezza de l'animo la fortezza, e quante volte noi siamo vinti da' vizii e da' peccati, tante volte neghiamo Dio, e quante volte noi facciamo veruno bene, tante volte confessiamo Dio". La quarta differenzia è de le vergini, e manifestasi la loro dignitade e eccellenzia, primieramente, perché sono spose del re eternale. Dice santo Ambruogio: "Chi puote estimare maggiore bellezza che quella di colei ch'è amata dal re, approvata dal giudice, sagrata da Dio, sempre sposa, sempre non maritata?" Secondariamente, però che sono assimiglianti a gli angeli. Dice santo Ambrogio: "La virginità soverchia la condizione de l'umana natura, per la quale verginitade gli uomini sono assomigliati a gli angeli, e maggiore è la vittoria de le vergini che quella de li angeli, però che li angeli vincono sanza carne, e le vergini vincono in carne". Nel terzo luogo però che sono più alluminati che tutti i fedeli. Dice san Cipriano: "La virginità è fiore ecclesiastico, onore e ornamento de la grazia spirituale, allegra indole di loda e d'onore, opera salda e non corrotta, imagine di Dio, a la santità di Dio ancora più nobile parte de la gregge di Cristo". Nel quarto luogo, però che sono soprapposte a' martiri. E manifestasi questa eccellenzia che la verginitade hae a rispetto de la congiunzione matrimoniale per molte simiglianze a quella; quella ingrossa il ventre, questa la mente. Dice santo Agostino: "Più nobile cosa ha eletta chi seguita in carne la vita de gli angeli, che chi di carne accresce il numero de' mortali; più abbondevole e più beata pregnezza è non quella d'ingravidare il ventre, ma d'ingrandire la mente; quella parturisce figliuoli di dolore, questa figliuoli d'allegrezza e di letizia". Dice santo Agostino, nel libro che fece del Bene del Matrimonio: "Questa castità neente è sterile, ma fruttifera di figliuoli d'allegrezza di te, marito, Segnore". Quella riempie la terra di figliuoli, questa riempie il cielo. Dice san Geronimo: "Le nozze riempiono la terra, la verginitade riempie il paradiso". Quella è madre di sollecitudine, questa è madre di riposo. Dice Gilberto: "La verginità è silenzio de le ragnole, pace de la carne, ricomperamento de' peccati, principato de le virtudi". Quella è bene, questa è meglio. Dice san Geronimo scrivendo a Pammachio: "Tanto è tra le nozze e la verginitade, quanto è tra non peccare e ben fare; anzi dirò più leggiere cosa quanto è tra bene e meglio". Quella è assimigliata a le spine, questa a le rose. Scrive san Geronimo a Eustochia: "Io lodo le nozze, ma imperò che le vergini ingenerano a me, colgo de le spine le rose, de la terra l'oro, de la conca marina la perla". Nel quinto luogo, però che hanno molti privilegi. Però che le vergini avranno corona d'oro, elle solamente canteranno canto nuovo, rallegrerrannosi d'uno medesimo vestire del Cristo, sempre andranno dietro a l'angelo. Nel quarto luogo e ultimo fu ordinata questa festa per essere più tosto esauditi de le nostre orazioni; ché come noi onoriamo universalmente in questo die tutti i santi, così tutti quanti ellino insieme priegano Dio per noi, acciò che in questo modo più leggermente acquistiamo la misericordia di Dio. Però che s'egli è impossibile che i prieghi di molti non sieno esauditi, manifesta cosa è che molto sarà impossibile che non sieno esauditi i prieghi de l'orazioni per noi di tutti i santi. Questa ragione sì si tocca ne l'orazione quando dice: "La disiderata abbondanza de la tua misericordia ne dona, sì che siano multiplicati i pregatori per noi". Intercedono li santi col merito e con l'affetto; col merito quando i lor meriti ci aiutano, con l'affetto disiderando che i nostri disideri siano empiuti, e ciò fanno colà dove conoscano che s'adempia la volontà di Dio. E che ciò sia che tutti i santi si raunino a pregare Domenedio per noi, mostrasi in una visione, la quale si dice ch'avvenne il seguente anno poi che questa solennità fue ordinata per la santa Chiesa. E avendo cercato per divozione tutti gli altari il guardiano de la chiesa di san Piero, poi ch'ebbe domandato l'aiuto di tutti i santi e tornato a l'altare di san Piero, riposandosi quivi un pochetto, fue rapito fuori di sé e vidde il Re de' re stare in un'altra sedia, e tutti gli angeli suoi stavano d'intorno. Allora venne la Vergine de le vergini incoronata splendiente, e seguitavala una mirabile moltitudine di vergini caste. E 'l re si levò da sedere immantanente, e fecele recare una sedia, e puoselasi a lato. Poscia eccoti venire uno vestito di pelli di cammello, e seguitavalo una grande moltitudine di venerabili massari; poscia venne un altro vestito d'abito papale, e seguitavalo un coro di vecchi in simigliante abito; poscia venne una innumerabile moltitudine di cavalleria; dopo i quali venne la infinita moltitudine di tutte le genti. Sì che tutti questi vennero dinanzi a la sedia del sovrano re, e adorarlo con le ginocchia poste abbasso. E quelli che v'era in abito papale incominciò il mattutino, e gli altri seguitarono il canto, e l'angelo che guidava questo cotale guardiano, sì li spianòe la visione, dicendoli che la grande vergine ch'era ne la prima schiera era la Madre di Dio, il vestito di pelli di cammello era il Batista con i Patriarchi e con i Profeti, quegli ch'era ornato in abito papale sì era san Piero con gli altri Apostoli, i cavalieri erano i Martiri, la rimagnente gente erano i Confessori. I quali tutti vennero però dinanzi al re per renderli grazie de l'onore fatto a loro in questo die, e per pregarlo per tutto il mondo. Poscia il menò ad un altro luogo, e mostrogli uomini e femmine; altri stavano in letti d'oro, altri s'allegravano ne le mense di diversi mangiari, altri ch'erano ignudi e poveri, i quali domandavano aiuto. E disse che questo era il purgatorio, e quelle erano l'anime abbondanti, le quali erano copiosamente sovvenute da gli amici loro per molti aiutorii, e quelle erano bisognose, de le quali non era avuto cura neuna. Sì che li comandò che narrasse tutte queste cose al sommo Pontefice, acciò che ordinasse che dopo la festa di tutti i santi, si fosse fatto ricordo, e fosse il die de l'anime, acciò che almeno generali beneficii fossero fatti in quello die per quelle anime che non gli potessono avere in speziale.
cap. 158, Commemoraz. mortiLa commemorazione di tutt'i fedeli morti fu ordinata in questo die da la Chiesa, acciò che da' generali beneficii sieno aiutati coloro, che non possono avere de li speciali, sì come mostrato fue ne la soprascritta rivelazione. Di due cose spezialmente si può vedere qui: primieramente, di quelli che sono a purgare, secondariamente, de' loro aiutorii. Intorno al primo tre cose sono da vedere. La prima chi son quelli che si purgano, la seconda chi gli purga, la terza ove si purgano. Di quelli che si purgano sono tre maniere. L'una maniera son quelli che muoiono non compiuta la penitenzia imposta loro. Ma impertanto s'elli avessono tanta contrizione nel cuore che bastasse a spegnere il peccato, liberi se n'andrebbero a vita eterna, eziandio se non avessono compiuta la penitenzia, però che la contrizione è la maggiore satisfazione per lo peccato, e 'l maggiore struggimento per lo peccato. Dice san Gironimo: "Appo Dio non vale tanto la misura del tempo, quanto vale quella del dolore; né non vale tanto l'astinenzia de' cibi, quanto il mortificamento de' vizii". Ma quelli che non sono tanto contriti e muoiono anzi che compiono la penitenzia, sono puniti gravissimamente nel fuoco del purgatoro, se per ventura la loro penitenzia non fosse già presa a compiere per alcuni loro cari amici. E acciò che 'l detto commutamento vaglia, quattro cose si richeggiono. La prima si è da la parte di colui che commuta, cioè l'autoritade sua, però che per autorità di prete si dee fare. La seconda è da la parte di colui per lo quale si fa il commutamento, cioè la sua necessitade, però che dee essere in tale stato che per sé non possa satisfare, ma bisogna d'essere aiutato. La terza è da la parte di colui in cui si fa il commutamento, cioè che sia in caritade, però ch'è mistier ch' e' sia in caritade, la quale faccia quella penitenzia essere meritoria e satisfatoria. La quarta è da parte de la pena, cioè debita proporzione, che la minore pena sia commutata in maggiore, però che più satisfae a Domenedio la pena propia che fatta da altrui. Di tre maniere è pena; l'una è propia e di volontade, e questa massimamente satisfa; la seconda è propia e non di volontade, cioè è quella di purgatorio; la terza è di volontà, ma non è propia come quella del sopraddetto commutamento; e questa satisfa meno che la propia, per ciò che non è propia, e satisfa più che non fa la seconda in ciò ch'è di volontade. Ma non pertanto se costui per lo quale è preso a fare la penitenzia muore, neente di meno è tormentato in purgatorio; ma per la pena che sostiene elli, in quanto gli altri pagano per lui, è più tosto liberato, per ciò che 'l Signore conta in sorte la pena di colui e quella de gli altri. Onde se dovea sostenere in purgatorio pena due mesi, potrà cotale essere sì aiutato che sarà liberato fra uno mese. Ma pure non n'esce mai mentre che 'l debito non è pagato; e pagato ch'egli è il debito, quello che si paga è di colui che fa da quindi innanzi, e convertesi nel suo prode e, se non gli fa bisogno, convertesi nel seno de la Chiesa, o vale a gli altri che sono in purgatorio. La seconda maniera di coloro che vanno a purgatorio si è di coloro c'hanno compiuta bene la penitenzia a loro imposta, ma quella pena non fue sofficente, o che fosse per poco sapere, o che fosse per nigligenzia del prete. Costoro compieranno tutta la pena in purgatorio quello che fecero di meno in questa vita se la grandezza de lo contrizione non ristora. Però che Domenedio, che sa i modi e le misure de' peccati e de le pene, arroge la pena sofficente, acciò che neun peccato rimagna impunito. Onde la penitenzia ch'è ingiunta, o ella è maggiore o ella è iguale o è minore; sed ella è maggiore, or quello ch'egli ha fatto ritorna in lui a gloria accresciuta; se la pena è iguale, allora gli basta al perdonamento di tutta la colpa; s'ella è minore, allora quello che rimane sì si ristora per vertù de la divina giustizia. Ma di coloro che si pentano a la fine, udirai quello che santo Agustino ne sente: "Colui ch'è battezzato, in una ora esce quinci sicuro; colui che fa penitenzia ed è pacificato con Dio quando è sano, sicuro esce quinci; colui che piglia penitenzia a la fine ed è pacificato, s'egli esce quinci sicuro, io non ne sono sicuro; adunque tienti al certo e lascia lo 'ncerto". Però dice santo Agostino questa parola, perché cotali persone si sogliono pentere più per necessitade che per volontade, più per paura de la pena che per amore de la gloria. La terza maniera di gente che vanno a purgatorio, sono quegli che portano seco legna e fieno e stipa, cioè coloro che pognano tanto affetto, fuor di Dio, a le loro ricchezze, e carnale amore a le mogli e a le case e a le possessioni, in tale maniera che niuna cosa pognano dinanzi a Dio. Questi sono significati per quelli tre i quali per lo lor modo d'amare arderanno lungamente, come legno o meno, come fieno, o viemeno, come stipa. Il quale fuoco, come dice santo Agustino, pognamo che non sia eternale, impertanto egli è grave in maraviglioso modo e avanza ogne pena ch'altri patìo mai in questa vita; giammai in carne non è cotal pena, avvegnadio che i martiri sostegnessono mirabili pene. Intorno a la seconda cosa, cioè chi li purga, dovemo sapere che quello purgamento, ovvero punimento, è fatto sempre per li mali angeli e non per li buoni, però ch'e' buoni angeli non tormentano i buoni uomini, ma i buoni tormentano i rei, e ' rei i buoni, e li rei i rei. Ma da credere è pietosamente che i buoni angeli spesse volte visitano e consolano i fratelli e' cittadini loro che debbono essere, e confortangli a sostenere pazientemente. Hanno ancora uno altro rimedio di consolanza: ch'aspettano certamente la gloria che dee venire, sì che hanno certezza di gloria minore che quelli che sono nel paese, ma maggiore che quelli che sono ne la via. Però che la certezza di coloro che sono nel paese è sanza aspettamento e sanza paura, come quelli che non aspettano che debbia venire, da che l'hanno in loro presenzia e non temono di perderla giammai. La certezza di coloro che sono ne la vita è per contrario modo; ma la certezza di coloro che sono in purgatoro è per mezzano modo. Però che è con aspettamento ch'aspettano che debbia loro venire, ma sanza paura; però che abbiendo ellino il libero arbitrio confermato, conoscono bene che da quinci innanzi non possono peccare. Hanno anche un'altra consolazione, il sapere che si fanno suffragi per loro. Ma forse più è vero che quella punigione non è fatta per li rei angeli, ma per comandamento de la giustizia di Dio e per avvenimento de lo Spirito Santo suo. Intorno a la terza cosa, cioè dove si purgano, è da dire che si purgano in uno luogo a lato a l'inferno, che si chiama purgatorio secondo varii sapienti, benché secondo altri sembra sia ne l'aria e ne la zona torrida. Ma per la dispensazione di Dio diversi luoghi sono diputati a diverse anime alcuna volta, e questo è per molte cagioni: o perché siano leggermente puniti, o perché sieno più tosto liberati, o per nostro ammaestramento, o per la colpa commessa in quello luogo, o per l'orazione d'alcuno santo. Prima dico perché siano lievemente puniti, sì come ad alcuni è stato revelato, come dice san Gregorio, alcune anime essere punite in ombra. Secondariamente per essere più tosto liberati, cioè acciò che possano il loro bisogno manifestare a gli altri e domandare aiuto da loro e in questo modo uscire più tosto de la pena, come si legge d'alcuni pescatori di san Teobaldo; i quali pescando ne l'autonno, presero uno grande pezzo di ghiaccio credendo che fosse pesce, e furne più lieti che se fosse stato pesce, massimamente perché il vescovo era gravato del dolore de' piedi, e misserli sotto i piedi quello cotale ghiaccio, laonde ricevea grande rifrigerio. Sì che una volta udì una voce d'uomo uscire del ghiaccio e, scongiurato dal vescovo ched e' dicesse chi e' fosse, rispuose: "Sono una anima, la quale sono messa ad essere tormentata in questo agghiacciamento per li miei peccati, e potre'ne essere liberata se tu dicesse XXX Messe senza tramezzamento in trenta dì continui". E quegli abbiendo già dette l'una metà de le Messe, essendo già parato per dire l'altra, per opera del demonio addivenne che quasi tutti gli uomini di quella cittade combattere voleano insieme; onde il vescovo chiamato a pacificare le discordie, spogliossi i paramenti, e lasciò di dire la Messa in quello die. Sì che si ricominciò da capo per dire le XXX Messe e, quando avea già compiute le due parti, una grande oste parea che assediasse la città e, costretto per questa cagione, lasciò l'officio de la Messa. Poscia le ricominciò anche da capo, e avendole già dette, non avendo se non a dire la sezzaia e volendo cominciare a dire, in tutta la villa e ne la casa del vescovo s'apprese il fuoco. E dicendoli i servi suoi che lasciasse di dire la Messa, e quegli rispuose: "Se tutta la villa dovesse ardere, io non lascerò la Messa". E detta che l'ebbe, il ghiaccio si strusse, e 'l fuoco che credeano avere veduto andò via com'una fantasia, e non fece danno nessuno. Nel terzo luogo per nostro ammaestramento, acciò che noi sappiamo la grande pena data a' peccati dopo questa vita, come si legge che addivenne a Parigi, secondo dice il Cantore di Parigi. Il maestro Silo pregòe strettamente uno suo compagno scolaio, infermo, che dopo la morte sua ritornasse a lui per dirli lo stato in che fosse. Sì che, passati alquanti dì dopo la sua morte, sì li apparve con una cappa addosso di pergamene, tutta scritta e piena di sofismi, e dentro la fiamma tutta coperta. E dimandato dal maestro chi e' fosse, disse: "Io sono quelli che promissi di tornare a te". E dimandato de lo stato suo, sì disse: "Questa cappa mi pesa più addosso e più mi prieme che se io avesse sopra me una torre, e èmmi data a portare per la gloria vana che io ebbi ne' sofismi; e la fiamma del fuoco ch'è coperta, sono le dilettate pelli e divisate ch'io portava, la quale fiamma m'arde e incende". Ma giudicando il maestro che quella fosse pena leggiere, disse a lui il morto che stendesse la mano, e così potrebbe sentire come quella pena fosse leggiere. E quando il maestro ebbe distesa la mano, quelli vi lasciò cadere suso una gocciola del sudore suo, la quale gocciola foròe la mano del detto maestro più tosto che una saetta, sì che grande tormento sentitte. E quelli disse: "Cotale sono io tutto quanto". Allora il maestro, per la gravezza di quella pena, propuose d'abbandonare il mondo e d'entrare in religione; onde, ragunati la mattina gli scolari, compuose questi due versi, e disseli loro: Linquo choax ranis, cra corvis, vanaque vanis Ad logicam pergo, quae mortis non timet ergo. E così, lasciando il secolo, fuggìo a la religione. Nel quarto luogo per la pena commessa nel luogo, come dice santo Agostino, alcuna volta l'anime sono punite ne' luoghi ne' quali hanno peccato, come per quello esemplo che racconta san Grigoro nel quarto libro del Dialago: "Uscendo un prete al bagno, trovava tuttavia uno uomo apparecchiato per servirlo, il quale il serviva continuamente. E dando il prete a colui un die un pane benedetto per la benedizione, e per prezzo de la fatica, quegli piangendo, rispuose: "Questo perché mi dai tu, padre? Questo pane è santo, ma io non posso manicare; io fu' già signore di questo luogo, ma per le colpe mie sono diputato a stare qui dopo la morte; priegoti che tu questo pane offerischi a Domenedio per li peccati miei, e allora conoscerai che tu sii esaudito da Domenedio quando tu verrai qua per lavarti e non mi troverrai". E 'l prete per una settimana, ogne die, offerse sacrificio a Domenedio per colui, e non lo vi trovò giammai poscia". Nel quinto luogo per l'orazione d'alcuno santo, come si legge che san Patrizio in alcuno luogo ne la terra impetròe ad alcuni il purgatorio, la cui storia troverrai dopo la festa di san Benedetto. Intorno a la seconda cosa, cioè i sacrifici, tre cose sono da vedere: la prima de' beneficii che si fanno, la seconda per cui si fanno, la terza chi sono quelli che li fanno. Intorno a' beneficii che si fanno è da sapere che quattro sono le maniere de' beneficii che fanno prode massimamente a' morti, cioè l'orazione de' fedeli e de li amici, le limosine, le Messe e 'l digiuno. Che l'orazione de' fedeli e de li amici giovi loro, mostrasi per l'essemplo che narra san Gregorio, nel quarto libro del Dialogo, di Pascasio; del quale dice che essendo elli uomo di maravigliosa santitade e vertude, essendo in quello tempo eletti due Papi, accordandosi la Chiesa ne l'uno, esso Pascasio per erro sempre puose l'altro disopra, e in questa sentenzia stette di sino a la morte. Il quale venuto a morte, toccando uno indemoniato la dalmatica posta in sul cataletto, immantanente fue sanato. Dopo molto tempo san Germano, vescovo di Capua, essendo infermo, andò a un bagno per guerire, e trovovvi il detto Pascasio diacano, che stava al bagno per servire. Veduto che l'ebbe san Germano fu fortemente isbigottito, e dimandò quello che sì grande uomo vi facesse. Il quale affermòe che per niuna altra cagione era diputato a quel luogo penoso, se non perch'elli sentitte in quel piato più che non fue ragione. E disse al vescovo: "Io ti priego che tu prieghi il Signore per me, e a questo conoscerai che tu sii esaudito, se tu vegnendo non mi troverrai". E avendo fatta orazione per lui, al tornare che fece colà nol vi trovòe, che stette pochi dì. Come siano accettevole a' morti l'orazioni de' vivi, manifestasi per questo: che uno come dice il Cantore di Parigi, sempre quando passava per lo cimiterio diceva il Salmo: "De profundis clamavi ad te, Domine". Il quale essendo perseguitato da' nemici, fuggendo lui per lo cimiterio entro, incontanente uscirono fuori i morti, catuno con quello strumento ch'elli usava a l'arte sua tenendolo in mano, e difeserlo francamente costui e cacciarono via li nemici spaventati. E che la maniera de' beneficii, cioè dare le limosine, giovi a' morti, manifestamente si può comprendere per quello che si legge nel secondo libro de' Maccabei: "L'uomo fortissimo Juda, avendo fatto consiglio, mandò in Gerusalem XII milia marche d'argento per offererle là per li peccati de' morti, pensando giustamente e religiosamente de la resurressione". Ancora come le limosine vagliono a' morti, comprendesi per quello essemplo che narra san Gregorio nel quarto libro del Dialago, dove si dice che un cavaliere uscito del corpo giacque alquanto morto, ma poco stante ritornando al corpo, narròe come 'l fatto suo era andato. E disse che era un ponte sotto 'l quale correa uno caliginoso e puzzolente fiume; e di là dal ponte erano le pratora dilettevoli, adornati d'odoriferi fiori e d'erbe, ne' quali parea che avesse raunanze d'uomini imbiaccati, de i quali fiori la maravigliosa soavezza saziava. E questa pruova addivenìa al detto ponte, che quando alcuno volea passarlo, che fosse peccatore, sì sdrucciolava nel tenebroso e putente fiume; ma i giusti vi passavano sicuramente sopra esso, e perveniano a quel ponte. E affermò che v'avea veduto posto là giuso, legato ad uno gran peso di ferro, uno che avea nome Piero; e dimandando per quale cagione v'era, fu detto che v'era posto perché, se li era comandato di fare alcuna vendetta, peggio facea per animo di crudelezza che per ubbidienza. Dicea anche che v'avea veduto un pellegrino, il quale vegnendo a quello ponte, così tostamente il passò, com'elli era vissuto chiaramente. Un altro, che avea nome Stefano, volendovi passare, isdrucciologli il piede, e la metà del corpo era già fuori del ponte. Allora si levarono alcuni uomini neri, e per le gambe il tiravano giuso nel fiume; alcuni altri bianchi e preziosissimi uomini il pigliavano per le braccia, e traevallo in suso; essendo questa battaglia, colui che vedea queste cose ritornò al corpo, e non poté sapere chi si vincesse la pruova in quella occulta visione. Ne la quale è dato ad intendere che in lui i peccati carnali combatteano con le limosine. Per ciò che, in ciò che per le coscie era tirato in giù e per le braccia era tirato in suso, manifestasi certamente e ch'elli avea amato le limosine e non avea contrastato perfettamente a' peccati de la carne. E che la terza maniera de' benefici, cioè il sagrificio de l'ostia sagrata, giovi molto a' morti, appare per molti essempli. Racconta san Gregorio nel quarto libro del Dialago, che vegnendo un suo monaco, che avea nome Giusto, al punto de la morte, e dicendo ch'elli avea appiattati tre fiorini d'oro, piagnendo di ciò, morìo, e san Gregorio comandò a' frati suoi che 'l sotterrassono nel merdaio con quegli tre fiorini de l'oro, dicendo così: "La pecunia tua sia con teco in perdizione". Finalmente comandò san Gregorio ad uno de' frati che infino al trentesimo die sagrificasse ogne die una ostia per colui. Il quale frate, poi ch'ebbe compiuto quello che gli era istato comandato, colui ch'era morto apparve il trentesimo die ad uno frate; e 'l frate il domandò, e disse: "Come stai tu?" E que' rispuose: "Insino a qui male, ma oggimai io sto bene, però che oggi già mi sono comunicato". Questo sagrificare de l'ostia, avvegnadio che giovi a' morti, ma ancora fa grandissimo prode a' vivi, e così si truova. Cavando uno una volta argento d'un sasso, subitamente cadde la ripa, e 'l sasso e ogni uomo che v'era fu morto subitamente; ma uno scampò la morte sott'una cavatura di sasso, ma non ne poté uscire, e la moglie di costui pensando che fosse morto, ogne die facea dire Messa per lui, offerendo sempre uno pane e uno orciuolo di vino con candela. E 'l diavolo, invidioso di ciò, per tre dì continui l'apparve in forma d'uomo, e domandolla dove andava. E quella dicendo la cagione del suo viaggio, quelli le diceva: "Non t'affaticare indarno, ché la Messa è già detta". E in questo modo lasciò quella tre dì continui ch'ella none udì Messa, né fece dire per colui. Poco stante cavava uno l'argento in quella cava, e udìo una voce disotto, che disse: "Percuoti pianamente, però ch'io abbo sopra capo uno grande sasso". Quelli udendo ciò, ebbe paura e chiamovvi molte persone a udire quella voce; anche cavòe, e udìo quella medesima voce. Allora s'apressimarono tutti, e disserli: "Chi se' tu?" Quelli rispuose, e disse: "Fate pianamente, però che un grande sasso mi cade quasi addosso". Allora eglino cavando per lato e pervegnendo infino a lui, trovarollo sano e salvo, e trassolone fuori, e domandandolo come v'era vissuto tanto tempo, disse a loro che ogne dì gli era stato offerto uno pane e uno orciuolo di vino con una candela accesa, se non se tre dì. Udendo ciò la moglie e maravigliandosi e rallegrandosi fortemente, seppe che de l'offerta sua si era sostentato, e che 'l diavolo l'avea ingannata di non farle fare dire la Messa in quelli tre dì. Ciò, come ne testimonia Pietro di Clunì, avvenne in una villa c'ha nome Ferraria, ne la Diocesi di Grenoble. Racconta san Gregorio che, essendo detto che uno nocchiere era rotto in mare e avendo un prete sagrificato l'ostia per lui, a la perfine uscì del mare sano e salvo. Ed essendo domandato in che modo fosse campato, disse che stando lui nel mezzo del mare, e venuto già quasi meno per la fatica, venne uno a lui e offersegli un pane. E quando l'ebbe mangiato confortossi tutto e rinvigorìo e fu ricevuto da una nave che passava quindi, e fu trovato che quella cotale ora ebbe il pane quando il prete sagrificòe l'ostia per lui. E che l'osservanza quanto a la maniera di digiuni faccia prode a i morti, di ciò dà testimonianza san Gregorio parlando sì di questo, come de gli altri tre beneficii; e dice così: "L'anime de' morti si sciogliono in quattro modi: o per l'offerte che fanno i preti, o per l'orazioni de' santi, o per le limosine de gli amici, o per li digiuni de' parenti". Intorno a la seconda cosa, cioè coloro per cui si fanno, quattro cose sono a vedere. Prima chi son quelli per cui son fatti, ovvero a cui possono fare prode; la seconda perché debbia loro fare prode; la terza se a tutti fanno prode igualmente; la quarta in che modo possono sapere i beneficii che si fanno per loro. De la prima cosa, cioè di coloro a cui possono giovare cotali beneficii, dovemo sapere che, come dice santo Agustino, tutti quelli che si partono di questa vita, o sono molto buoni o molto rei o mezzo buoni. Sì che i beneficii che si fanno per li molto buoni sono rendimenti di grazie a Domenedio; li benefici che si fanno per li molto rei sono alcune consolazioni de' vivi; li beneficii che si fanno per li mezzolanamente buoni sono purgazioni. Molto buoni son detti quelli che tosto vanno e sono liberi dal fuoco del purgatorio e da quello de lo 'nferno. Di costoro sono tre maniere, cioè i fanciulli battezzati e' martiri e gli uomini perfetti; i quali così perfettamente edificaro l'oro e l'argento e le pietre preziose, cioè l'amore di Dio e quello del prossimo e le buone opere, che non pensarono di piacere al mondo, ma solo a Dio. I quali, avvegna ch'alcuna volta facciano de' peccati veniali, per lo fervore de la caritade si consuma sì il loro peccato come la gocciola de l'acqua è tranghiottita dal cammino del fuoco, e però non portano giammai seco cose da raccendere. Chi adunque orasse per alcuna di queste maniere di gente o facesse alcuni beneficii per loro, farebbe loro ingiuria, però che, come dice santo Agostino: "Chi arderà per lo martire, fa ingiuria al martire". Ma se alcuno orasse per alcuno molto buono, del quale dubitasse che non fosse volato, allora quelle orazioni sarebbono rendimenti d'orazioni e di grazie e tornerebbono a merito del pregante, secondo il detto del Salmista: "L'orazione mia si convertirà nel seno mio". A queste tre maniere di persone s'apre incontanente il cielo quando muoiono, né non sentono alcuno fuoco di purgatorio. E ciò è significato per quelli tre a i quali il cielo fu aperto. Ché s'aperse a Cristo battezzato, come dice santo Luca nel quarto capitolo: "Battezzato Jesù, e orando lui, s'aperse il cielo". Per la qualcosa è significato che 'l cielo s'apre a' battezzati o sieno piccoli o sieno grandi, sì che se muoiono allora, tosto volano; però che 'l battesimo, per vertù de la passione di Cristo, monda da ogne peccato originale e dal mortale e dal veniale. La seconda volta s'aperse e santo Istefano lapidato, come dicono gli Atti de gli Apostoli, ottavo capitolo: "Ecco ch'io veggio i cieli aperti". Per la qualcosa è significato che 'l cielo s'apre a tutti i martiri, sì che tosto volano quando muoiono; e s'alcuni peccati criminali aveano, tutti sono risegati con la falcia del martirio. La terza volta s'aperse a san Giovanni perfettissimo, come dice l'Apocalisso, nel quarto capitolo: "Puosi mente, ed ecco che viddi l'uscio che s'aperse nel cielo". Per la qualcosa è significato che a gli uomini perfetti, i quali hanno compiuto al tutto la loro penitenzia, e non commisero giammai peccati veniali, ovvero se n'hanno commesso, immantanente sono consumati dal fervore de la caritade, il cielo s'apre incontanente, e eglino v'entrano a regnare perpetualmente. Ma i molto rei discendono tosto nel profondo del ninferno; per li quali, se si sapesse certamente che fossero dannati, non sarebbe da fare veruni benefici per loro, secondo che dice santo Agostino: "S'io sapesse che mio padre fosse in ninferno, non pregherei più per lui, ch'io facessi per lo diavolo". Ma se alcuni dannati de' quali si dubitasse de la loro dannazione, si facessero alcuni aiuti, non sarebbe loro pro veruno né quanto al liberamento, cioè che fossero liberati da quelle pene, né quanto ad allevamento, cioè che s'allevasse o scemasse la pena in loro; ovvero quanto a la sospensione, ch'ella fosse loro sospesa a tempo; né quanto a fortificamento, cioè che fossero fatti più forti a sostenerla; quando ad alcuna di queste cose, non v'ha veruno ricomperamento ne lo 'nferno. Quelli che sono mezzolanamente buoni, son detti quelli che portano seco alcune cose da ardere, cioè legna, fieno, stipa, ovvero quelli che non potero compiere la penitenza ingiunta a loro e sufficentemente occupati in anticipo da la morte. I quali non sono tanto buoni che non abbisognono d'aiuti, né tanto rei che non potesse giovare a loro. Sì che i beneficii fatti per loro, sono loro purgamenti; onde questi sono coloro a i quali questi beneficii solamente possono giovare. A fare questi beneficii suole la Chiesa usare tre numeri di dì, cioè il settimo e 'l trentesimo e l'anniversario. La ragione di ciò s'assegna nel libro Mitrale de l'Officio. Osservasi il settimo dì, acciò che le anime pervegnano a l'eterno sabato di quiete, o acciò che sia dimesso loro tutti i peccati ched elli fecero a la loro vita, la quale corre per sette dì; ovvero acciò che sia dimesso loro quelle cose che operarono nel corpo, il quale è composto di quattro alimenti, cioè di quattro omori, e l'anima ne la quale son tre potenzie. Osservasi il trentesimo die, il quale è composto di tre decine, acciò che sia purgato tutto in loro quello che peccarono ne la fede de la santa Trinitade, e in trapassamento de' diece comandamenti de la legge. Osservasi l'anniversario, acciò che de gli anni de la miseria pervegnano a gli anni de l'eternitade. Adunque se noi facciamo festa de l'anniversario de' santi a loro onore e a nostra utilitade, così dovemo fare l'anniversario de' morti a loro utilitade e a nostra devozione. De la seconda cosa, cioè perché a loro debbiano giovare i benefici, è da sapere che per tre ragioni si dice che giovi a loro. L'una ragione si è per l'unitade, però che sono un corpo con la Chiesa militante, e però i beni de la Chiesa debbono loro essere comunali. La seconda è per la dignitade, però che, vivendo elli, meritarono che questi beni giovassero loro, sì che ancora è degna cosa che coloro i quali aiutarono gli altri siano aiutati da gli altri. La terza ragione si è per la necessitade, cioè però che sono in istato nel quale non si possono aiutare ellino. De la terza cosa, cioè se igualmente giovi a tutti, è da sapere che se quelli benefici si fanno in ispeziale, più giovano a coloro per cui si fanno ch'a gli altri; ma se si fanno in comune, più giovano a coloro che più meritarono in questa vita ch'a loro dovessero giovare, se sono iguali o in maggiore necessitade. De la quarta cosa, cioè come possano sapere i beneficii che si fanno per loro, secondo che dice santo Agostino, in tre modi il sanno: Il primo per divina rivelazione, cioè quando Domenedio rivela loro ciò; il secondo modo si è per lo manifestamento de gli angeli buoni (gli angeli che sono sempre qui con esso noi e considerano tutte l'opere nostre, in uno punto quasi possono scendere a loro e dirlo loro); il terzo modo si è per lo raccontamento de l'anime ch'escono quinci; però che l'anime che escono di questo modo, possono dire loro queste cose e l'altre; il quarto modo neente di meno possono sapere per isperienza e per revelazione, però che quando si sentono essere sollevati da le pene, riconoscono i benefici fatti per loro. Intorno a la terza cosa, cioè di coloro da cui sono fatti questi aiuti, è da sapere che questi aiuti, se giovare debbano, conviene che sieno fatti da chi è in caritade, però che se sono fatti da male persone non possono giovare. Onde si legge che, standosi uno cavaliere nel letto con la moglie ed entrando la luna molto rilucente per le fessure de la casa, maravigliandosi come l'uomo c'ha in sé ragione non ubbidisce al Creatore suo, con ciò sia cosa che le nature senza ragione l'ubbidiscono, e dicendo male d'un cavaliere morto il quale era stato suo molto dimestico, subitamente colui ch'era morto entrò ne la camera, e disse a colui: "Amico, non avere mala sospezione d'altrui, e s'io t'offesi in nulla, priegoti che me lo perdoni". Ed essendo domandato de lo stato suo, disse: "Per isvariati peccati sono afflitto, spezialmente perch'io corruppi cotale cimiterio, nel quale fedio uno e trasseli la cappa sua, la quale m'è posta sopra e priememi come fosse uno grande monte". E pregollo che facesse fare orazioni per lui. E dicendoli quegli di fare fare quelle orazioni a cotale e a cotale prete, il morto non rispondendo neente a queste cose, commosse il capo a modo di rifiutante. Poscia il domandò se volea che cotale romito pregasse Dio per lui; e quegli gli disse: "Dio 'l volesse che colui pregasse per me". E 'l vivo promettendo di farlo, il morto disse: "E io ti dico che da oggi a due anni morrai anche tu". E detto questo isparve. E 'l cavaliere fece più buona vita, e dormìo in pace in Domenedio. Quello che detto è che gli aiuti fatti de le male persone non possono giovare, è da intendere, s'elle non sono opere sagramentali, come se il sagrificio de la Messa, il quale non si puote corrompere, ovvero se quello cotale morto, o alcuno suo amico, avesse lasciato a dispensare ad alcune male persone alcuna cosa, le quali dovesse dispensare immantanente, acciò che non gli intervenga quello che si legge che intervenne ad uno. Un cavaliere dovendo combattere con i Mori ne la battaglia di Carlo Magno, ed entrando a combattere, pregòe uno suo parente che se morisse ne la battaglia vendesse il cavallo suo e desse il prezzo a' poveri. Morto costui, e piacendoli il cavallo molto, sì si ritenne il cavallo; e poco tempo poscia che morìo, il cavaliere apparve a lui come sole splendiente, dicendo a lui: "Parente mio, ben per otto dì m'hai fatto stare in purgatorio a quelle pene per lo cavallo, il prezzo del quale, come io t'avea detto, non hai dato a' poveri; ma tu non ci andrai netto, ché oggi, in questo dì, ne porteranno i diavoli in inferno l'anima tua e io me n'anderò purgato in cielo!" Ed ecco che subito in aria s'udì un clamore come di leoni, d'orsi e di lupi che portarono via il cavaliere.
cap. 159, Quattro santi incor.I santi quattro incoronati furono chiamati Severo, Severiano, Carpoforo e Vettorino, i quali per comandamento di Diocliziano battuti insino a la morte, de le percosse de' combattitori sostennero la morte. Non potendosi ritrovare le nomora di costoro, le quali dopo molti anni per revelazione di Dio furono ritrovate, fue ordinato che la memoria di loro fosse fatta sotto i nomi d'altri cinque martiri, ciò furono Claudio, Castorio, Sinforiano, Nicostrato e Semplicio, i quali dopo due anni dal martirio di coloro sostennero passione. Questi martiri sappiendo tutta l'arte di scolpire e non volendo scolpire uno idolo a Diocliziano né consentire in veruno modo di sagrificare, per comandamento del detto Diocliziano furono messi in casse di piombo, così vivi, e gittati in mare intorno a gli anni Domini CCLXXXVII. Sì che sotto nomi di questi cinque ordinò santo Melchiade papa che questi quattro fossero onorati e chiamati li quattro incoronati, anzi che fossero ritrovate le nomora loro; e, avvegnadio che le loro nomora si ritrovassero, poscia l'usanza pure ritenne che fossero chiamati da quinci innanzi li quattro incoronati.
cap. 160, S. TeodoroTeodoro ne la città di Marmaritani sostenne martirio sotto la signoria di Diocliziano e Massimiano. Al quale dicendo il preside che sagrificasse a l'idoli e ricevesse la cavalleria di prima, rispuose Teodoro: "Io sono cavaliere del Domenedio mio e del suo figliuolo Jesù Cristo". E 'l preside gli disse: "Dunque il tuo Domenedio hae figliuolo?" Rispuose Teodoro: "Madé sì". E 'l preside li disse: "Or potremolo noi conoscere? Disse Teodoro: "Conoscere il potete, e a lui andare". Sì che dato indugiò a Teodoro di sagrificare, il santo entròe di notte nel tempio di Marte, e missevi fuoco entro e tutto l'arse. E accusato da uno che 'l vidde, fu rinchiuso ne la carcere, acciò che vi morisse entro di fame. Al quale el Segnore apparendo disse: "Confidati, servo mio Teodoro, però che io sono teco". Allora una gran turba d'uomini bianchi di vestimento entrò a lui, stando l'uscio serrato, e cominciarono a cantare con lui. Veggendo ciò le guardie, ispaventati di ciò, fuggirono. Essendone poi tratto fuori e invitato a sagrificare, rispuose: "Se tu mi farai ardere le carni nel fuoco, e consumera'mi per diversi tormenti, insino a tanto che 'l fiato saràe ne le nari mie non rinnegherò il Domenedio mio". Allora per comandamento del preside fue appiccato ad uno legno e con unghiali di ferro furono sì rase le sue coste, ch'elle apparivano di fuori. E 'l preside li disse: "Vuo' tu, Teodoro, essere con noi o con Cristo tuo?" E quelli rispuose: "Con Cristo mio sono e fui e sarò". Allora fu comandato che fosse arso nel fuoco; nel quale fuoco rendette l'anima a Domenedio, ma il corpo non fu danneggiato dal fuoco, intorno a gli anni Domini CCLXXXVII.
cap. 161, S. MartinoLa sua vita scrisse Severo, il cui soprannome fu Sulpicio, discepolo di san Martino, lo quale Severo Gennadio annumera tra l'illustri uomini. Martino fu natìo di Sabaria, castello di Pannonia, ma nudrito in Pavia d'Italia col padre suo, conostabole di cavalieri. Sotto Costantino e Giuliano Cesaro tenne la cavalleria, avvegnadio che per non sua volontà, però che ispirato da Domenedio insino da la sua infanzia, essendo di XII anni, sanza volere de' parenti, fuggìo a la chiesa, e adomandò d'essere ammaestrato de la fede, e infino allora sarebbe entrato ne l'ermo, se la infermità de la carne non avesse contrastato. Ma avendo l'imperadori stanziato che i figlioli de' vecchi combattessero per gli padri loro, essendo Martino di XV anni, fu costretto a cavalcare, stando contento d'uno solo servo, al quale Martino ispesse volte servìa e traevali ispesso i calzari e servìa. Ad un tempo di verno passando lui per la porta d'Ambianes, venneli intoppato un povero ignudo; il quale non avendo ricevuto limosina da veruno, intendendo Martino che questi era riservato a sé, prese la spada e divise il mantello per diritto mezzo, e l'una metade diede al povero e l'altra si misse indosso. La seguente notte vidde Cristo vestito di quello mantello ch'egli avea dato al povero, cioè con quella metade, e udì ch'elli diceva a gli angeli che li stavano d'intorno: "Martino, il quale è pure ammaestrato de la fede, e non è ancora battezzato, sì m'ha vestito di questo vestimento". Onde il santo di Dio non levandosi per ciò in superbia, ma riconoscendone la bontà di Dio, quando avea XVIII anni si fece battezzare, e ancora a petizione del conostabole suo, il quale, compiuto il tempo de la conestaboleria sua, promettea di rinunziare al secolo, sì che due anni usòe la cavalleria. Infrattanto vegnendo i barbari addosso a' Franceschi, Giuliano imperadore dovendo combattere contro a di loro, diede pecunia a' cavalieri; ma Martino non volendo più da quindi innanzi combattere, non volse ricevere il donamento, ma disse a lo 'mperadore: "Io sono cavaliere di Cristo, non m'è licito di combattere". Adirato di ciò lo 'mperadore, sì li disse ched elli rifiutava la cavalleria non per cagione de la religione cristiana, ma per paura de la battaglia sopravegnente. Al quale san Martino rispuose senza paura: "Se vuogli dire ch'io il faccia per pigrizia e non per la fede, domane in quello die starò dinanzi a la schiera sanza arme veruna, e nel nome di Cristo, coperto del segno de la Croce, non di scudo né d'acciaio, tutte le schiere de' nimici passerò sicuramente". Onde fu dato a guardia per farlo stare incontra barberi, disarmato, secondamente ch'avea detto. Ma il seguente die i nemici mandarono ambasceria, dando sé e tutte le loro cose. Onde non è dubbio che per li meriti del santo uomo, cotale vettoria fu donata sanza spargimento di sangue. Da quindi innanzi, abbandonata la cavalleria, andonne a santo Ilario vescovo di Pettieri, e ordinato da lui accolito, fu ammaestrato da Dio, dormendo lui, che andasse a visitare i parenti suoi, i quali erano ancora pagani. E messosi in viaggio, predisse che molte cose dovea patire. Ché ne l'Alpe s'abbattéo ne i ladroni, e crollandoli uno la scure in capo, l'altro rattenne il colpo del percotente con la mano diritta. Ma legarolli le mani di drieto a le reni, e fu dato in guardia ad uno; e dimandandolo il ladrone s'elli aveva temuto, rispuose che giammai non era stato più sicuro, però che sapeva che la misericordia di Dio è presente ne le tentazioni massimamente. E cominciò a predicare a quello ladrone, e convertillo a la fede; e recandolo san Martino a la via de la veritade, visse poi laudabilemente. E quando fu passato di là da Melano, il diavolo li si fece incontro in figura d'uomo, e domandollo dove andava; ed elli rispondendo che andava colà dove il Signore il chiamava, e 'l nemico disse: "Dovunque tu andrai, il diavolo ti sarà contrario". E quando san Martino gli ebbe risposto: "Il Signore è mio aiutatore, non temerabbo che mi faccia nulla il diavolo", quelli isparve incontanente. Sì che convertette la madre, e 'l padre rimase ne l'errore. Ma crescendo la resia d'Ario per tutto il mondo e, poco meno elli solo contrastando il paese, fue battuto e, scacciato de la cittade, tornòe a Melano, e là si fece uno monasterio; ma cacciato quindi da li Ariani, andossene a l'isola Gallinaria con uno solo prete, là dove prese per cibo l'elleboro, erba velenosa, e sentendosi appressimare a la morte, tutto il pericolo e 'l dolore cacciò via con la vertù de l'orazione. E udendo che santo Ilario tornava da' confini, andolli incontro, e ordinò un monasterio presso a Pettieri, nel quale luogo abbiendo san Martino un catecumino, partendosi elli un poco dal monasterio e ritornando, trovollo morto sanza battesimo. E menandolo ne a cella, e ponendolisi disteso sopra il corpo, recollo a la vita di prima con l'orazione sua. E solea raccontare questo ch'era così risucitato che, data la sentenzia sopra lui d'essere dannato a luoghi scuri, per due angeli fu detto al giudice che costui era quelli per lo quale san Martino orava; sì che fu comandato che per loro medesimi fosse rimenato e renduto vivo a san Martino. Un altro che s'era impiccato per la gola e morto, fu recato per lui a vita. Ma non avendo il popolo di Turone vescovo, dimandaronlo che fosse ordinato vescovo per loro, avvegnadio che molto contrastasse. Ma alcuni vescovi contradicevano per ciò ch'era di non bella fattezza e dispetto ne la faccia; intra quali fu più principale uno che avea nome Defensore. Ma none essendovi il lettore, uno tolse il salterio e aperselo dinanzi a tutti, e lesse il primo verso che li venne trovato, che dicea così: "Da la bocca de' fanciulli e di coloro che prendono il latte hai compiuto, Domenedio, la loda, acciò che tu distrugga il nemico e 'l difensore". E così quello Difensore fu vituperato da tutti. Ordinato che fue vescovo, non sostegnendo del popolo il romore e la pressa, presso a due miglia fuori ordinòe uno monasterio, là dove visse in molta astinenzia con LXXX discepoli. Quivi niuno sapea che si fosse vino, se non fosse costretto da 'nfermitade; il morbido vestimento iv'era avuto per peccato. Molte cittadi chiamavano vescovo alcuni di costoro. Essendo uno onorato sotto nome di martire, e non potendo san Martino trovare nulla né de la vita di costui né del suo merito, stando un die sopra il sepolcro di costui, oròe a Domenedio che li desse a mostrare che uomo fosse questi, o di che merito. E rivolgendosi a man mancina, vidde un'ombra molto nera stare ritta; ed essendo scongiurato da san Martino di dire quello che fosse, rispuose che era stato uno ladrone, e per la follia era stato battuto. Sì che san Martino fece incontanente disfare l'altare. Leggesi nel Dialago di Severo e Gallo, discepoli di san Martino, nel quale libro sono rimesse molte cose le quali san Martino fece che Severo non misse ne la leggenda di lui, là dove dice che d'un tempo andò san Martino a Valentiniano imperadore per alcuna necessità, ma sappiendo che volea chiedere cosa, che quelli non volea dare, feceli serrare le porte del palagio. E san Martino essendone accomiatato una volta e più, inviluppato in cilicio e incennerato per una settimana, si macerò d'astinenzia di mangiare e di bere. Allora per ammonizione de l'angelo venne al palagio e, non vietandogliele persona, venne infino a lo 'mperadore. E veggendolo venire, fue adirato perché era stato ricevuto, e non gli si volse levare da sedere infino a tanto che 'l fuoco non coperse la sella reale, e incese lo 'mperadore da la parte di drieto. Allora levandosi da sedere, al santo, così adirato, confessòe d'avere sentito la virtù di Dio, e abbracciandolo molto stretto, concedetteli ciò che volea innanzi che ne fosse pregato, e proferseli molti donamenti, ma san Martino non li ricevette. Leggesi ancora in quello medesimo Dialago come risucitò il terzo morto. Ché essendo morto un giovane e pregando la madre di costui san Martino con lagrime che risucitasse il figliuolo, egli nel mezzo del campo,dove era innumerabile moltitudine di pagani, puose le ginocchia in terra e, veggendolo tutta la gente, il fanciullo si rilevò vivo e sano. Per la qualcosa tutt'i pagani si convertirono a la fede di Cristo. Per quello medesimo modo ubbidiano al santo di Dio le cose insensibili e le vegetabili e le non ragionevoli. Le insensibili come sono il fuoco e l'acqua; ché abbiendo elli messo fuoco in uno tempio, la fiamma menata dal vento s'appiccòe a la casa che v'era da lato. Allora san Martino, salendo in sul tetto, missesi a rincontro a le fiamme ardenti; incontanente la fiamma si ritorse contra la forza del vento, che parea che gli elementi combattessono per uno cotale modo insieme. Leggesi ancora nel detto Dialago che, pericolando una nave, uno mercatante che non era ancora cristiano gridòe e disse: "Domenedio di Martino, campaci!" E tosto fu fatta bonaccia. Simigliantemente le cose vegetabili, come sono l'erbe e le piante. Ché essendo ruvinato in alcuno luogo molto antichissimo tempio, volendo san Martino tagliare un albore pino consegrato al diavolo, contrastando a ciò i villesi e' pagani, l'uno di loro disse: "Se tu hai fidanza del tuo Domenedio, noi taglieremo questo albore, e tu lo ricevi sopra il dosso tuo, e se 'l Domenedio tuo è teco come tu di', sì scamperai". E san Martino consentìo a la proposta. Allora missero mano a tagliare l'albore e, caggendo già verso lui legato iveritto, san Martino fece contra esso il segno de la Croce, e rivolsesi ne l'altro lato e poco meno che none abbattette i villani, ch'erano in luogo sicuro, i quali veduto il miracolo si convertirono a la fede. Ancora si legge in quello Dialogo che gli animali sanza ragione più volte l'ubbidirono, come si legge nel detto libro. Alcuni cani perseguitando una lievre, san Martino li vidde e comandò a' cani che rimanessono di perseguitarla. Incontanente ristettono fermi ne le loro pedate come fossero stati legati. Simigliantemente valicando uno serpente alcuno fiume notando, san Martino disse al serpente: "Nel nome del Signore ti comando che tu ritorni!" Incontanente a la parola del santo il serpente ricorse la via, e trapassòe infino a l'altra ripa. E piagnendo san Martino disse: "I serpenti m'odono, e gli uomini non m'odono". Simigliantemente abbaiando al discepolo di san Martino un cane, quegli si rivolse a lui e disse: "Nel nome di Martino, ti comando che tu stea queto". E 'l cane stette queto incontanente come se li fosse stata mozza la lingua. Fue san Martino uomo di molta umiltà, ché incontrandosi elli in uno lebbroso terribile a tutta gente, ne la città di Parigi, sì 'l baciò e benedisse, e incontanente fu mondo. Seggendo lui nel segreto luogo, non usòe giammai caffera; ne la chiesa nol vide giammai neuno sedere; sedea in seggiola vilcose, la quale si chiama trespolo. Fue di molta dignitade, però ch'è detto iguali a li apostoli, e questo è per la grazia de lo Spirito Santo, la quale venne a lui per darli fortezza come fu ne li apostoli; onde gli apostoli il vicitavano spesse volte come lor simigliante. Nel detto Dialago si legge che, seggendo san Martino un die solo solo e aspettando a l'uscio Severo e Gallo, suoi discepoli, subitamente commossi da mirabile orrore, udirono molti parlare insieme ne la cella. De la quale cosa poi ch'ebbero domandato san Martino che ciò fosse stato, rispuose a loro: "Io lo vi dirò, ma priegovi che voi non lo diciate a persona; Agnesa e Tecla e Maria vennero a me". E non solamente quel die, ma confessòe che spesse volte era visitato da quelle, e disse che spesso vedea san Piero e san Paulo. Di molta giustizia fue. Essendo elli invitato da lo 'mperadore ch'avea nome Massimo, essendo dato prima bere a san Martino, credendo tutti che dopo sé desse la coppa al re, sì la diede al prete suo, estimando che neuno fosse più degno che dovesse bere dopo sé, giudicando indegna cosa se 'l re fosse soprapposto a' preti. Di molta pazienzia fue. Tanta pazienzia osservava in tutte le cose che, essendo elli sommo sacerdote, spesse volte era offeso da i cherici sanza pena; né non li cacciava però da la sua caritade. Nol vidde mai niuno adirato, né tristo, né che ridesse, ne la sua bocca non si ricordava altro che Cristo, nel suo cuore altro che pietade e pace e misericordia. Leggesi nel detto Dialago che andando san Martino in su l'asino col vestimento ispido, coperto d'un mantello nero pendente, vegnendo alquanti cavalli a lo scontro, furono di ciò spaventati, e ' cavalcadori si gittarono a terra de' cavalli, e presero san Martino, e sì 'l batterono gravemente. Ed egli stando come mutolo sì si lasciava così battere, ma quegli ne incrudelivano più di ciò, che parea loro che elli quasi non sentendo le battiture, sì l'avesse a schernie. Incontanente gli animali stavano sì fermi a la terra che quantunque fossero battuti come sassi, non si poteano muovere insino a tanto che, tornando a san Martino e confessando il peccato ch'aveano commesso in lui per ignoranza, non ebbe data la licenzia loro, e gli animali si mossero ad andare ratto. E di molta perseveranza fue ne l'orazione, però che, come dice la sua leggenda, non passò giammai né ora né punto che non soprastesse ad adorare ovvero a leggere. Ma tra 'l leggere e l'orare non dimetteva giammai l'animo de l'orazione; ché come sogliono fare i fabbri, che fra 'l lavorare per alcuno sollevamento di fatica percuotono la 'ncudine, così san Martino mentre che alcuna cosa facea, sempre orava. Di molta asprezza fue a le sue carni. Racconta Severo ne la pistola ched e' mandò ad Eusebio che, essendo venuto san Martino ad una chiesa del suo vescovado, abbiendoli i cherici apparecchiato uno buono letto da giacere, riposandovisi suso, venneli in cuore la none usata morbidezza, come quegli ch'era usato di giacere in su la terra ignuda, contento d'uno solo cilicio per suo letto. E recandosi a ingiuria, levossene da giacere, e gitta per terra ogne cosa, e puosesi a dormire in su la terra ignuda. Ed eccoti entro la mezzanotte apprendere il fuoco in tutta quella paglia, e san Martino fue isvegliato e, tentando d'uscirne e non sappiendo onde, fu preso dal fuoco, e già ardevano le vestimenta. Sì che ritornando al subitano ricorso de l'orazione e al segno de la Croce, stette nel mezzo del fuoco che non fu toccato e, sentìo le fiamme rugiadose, le quali avea sentite ardenti. Sì che i monaci isvegliati corsono a san Martino e, pensandolo trovare già consumato, il trassono sanza veruno male fuori del fuoco. Di molta compassione fu inverso i peccatori, però che tutti quelli che si voleano pentere sì li rivecea nel seno de la compassione. Ché riprendendo il diavolo san Martino perché ricevea coloro che erano una volta caduti a penitenzia, sì li rispuose: "Se tu, miserabile, ti rimanessi da molestare gli uomini e pentesseti de' fatti tuoi, io mi confido tanto nel Signore, ch'io ti prometterei la misericordia di Cristo". Di molta pietà fu inverso i poveri. Leggesi nel detto dialago che un povero ignudo tenne dietro a san Martino ritornante a la chiesa per una festa; e san Martino comandò a l'arcidiacano che vestisse il povero; ma indugiandosi quello molto a farlo, entrò san Martino ne la sagrestia, e diede a colui la tonica sua, e fecelo partire incontanente. E ammonendolo l'arcidiacano che si parasse a dire la Messa, egli parlando di sé rispuose che non potea andare se 'l povero non fosse vestito. Ma l'arcidiacano non intendendo in quello modo, però che veggendolo coperto con la cappa di fuori non vedea lui ignudo dentro, diede cagione che 'l povero non v'era presente. E 'l santo disse: "Siemi recato il vestimento, bene non si troverrà elli il povero da esserne vestito". Costretto quegli, andò al mercato e comperò una tonica cinque grossi d'argento, la quale fu molto vile e corta, e chiamavasi penula, quasi poco meno nulla, e tolse questa gonnellaccia e gittolla adiratamente dinanzi a' piedi di san Martino. La quale egli sì vestìo sagretamente, le cui maniche si stendevano infino al gomito, e lunga infino al ginocchio e, così vestito, s'apparecchiòe a dire la Messa. E dicendo lui la Messa, una palla di fuoco apparve sopra il capo suo, e da molte persone fue veduta in quello luogo. Perciò è detto pari a gli apostoli. E a questo miracolo aggiugne il maestro Giovanni Belett che, levando san Martino le mani a Domenedio, come è usanza, non abbiendo coperto le braccia altro che de le manichelline, e quelle braccia non essendo grosse né molto carnose, e la gonnelluccia non essendo lunga più che infino al gomito, rimasero le dette braccia ignude. Allora per miracolo di Dio apparvero fregi dorati e 'ngemmati, portati da gli angeli, e copersero convenevolemente le braccia. Ragguardando elli una volta una pecora tonduta disse: "Costei ha adempiuto il comandamento da Vangelio; ché avea due toniche, e ha donata l'una a chi non l'avea, e così dovete fare voi". Di molta potenzia fue a cacciare le demonia, però che spesse volte le cacciava da gli uomini. Leggesi nel detto Dialago che una vacca commossa dal demonio, essendo molto crudele in ogne luogo e cozzando molte persone, una volta correa inverso san Martino e' suoi compagni molto furiosamente ne la via, ed elli levando la mano comandolle che stesse ferma. E quella stando ferma, vidde san Martino il demonio sederle in sul dosso, e riprendendolo sì li disse: "Partiti, maladetto, da la bestia, e rimanti di commuovere l'animale, che non suole nuocere". E partendosi il demonio, la vacca gli si gittò a' piedi, e al suo comandamento con ogne mansuetudine ritornò a la mandria sua. Di molta sottigliezza fue a conoscere le demonia, però che le demonia si mostravano sì a lui, ch'apertamente erano vedute da lui sotto qualunque imagine. Però che demonio alcuna volta s'offereva a lui in persona di Jupiter, alcuna volta di Mercurio, alcuna volta di Venus e di Minerva, così trasfigurato al suo volto, ed egli gli riprendea tutti per li nomi loro. Mercurio massimamente sostenea ingiuriosamente, Jupiter dicea ch'era bruto e pigro. Un die gli apparve il diavolo in forma di re, ornato di porpora e di corona e di calzamento d'oro, con chiara boce e allegra faccia; ed essendo taciuti abendue lungamente, disse il demonio: "Conosci tu, Martino, colui cui tu adori? Io sono Cristo il quale dovendo iscendere a terra, mi sono voluto manifestare prima a te". Tacendo ancora Martino, maravigliandosi, disse da capo il demonio: "O Martino, perché dubiti tu di credere da che tu mi vedi? Io sono Cristo". Allora Martino, ammaestrato da lo Spirito Santo, disse: "Messere Jesù Cristo predisse che verrebbe non imporporato o coronato isplendientemente; s'io non vedrò Cristo in quell'abito e forma nel quale fu passionato, s'io nol vedrò venire con le stimate de la Croce, non crederrò". A questa voce sparve il demonio, e ebbe riempiuta tutta la cella di puzza. Martino seppe il die che dovea morire molto di prima, lo quale die revelòe a' frati. Infrattanto vicitòe il vescovado di Chiarens per pacificarvi alcuna discordia; e andando lui, vidde marangoni nel fiume porre guàito a' pesci, e tutti gli pigliavano. E disse: "Questa è forma de le demonia, che pognono agguati a non savi, e pigliano coloro che non si sanno guardare e, da che gli hanno presi, sì li divorano, e non ne possono tanti divorare che si sazino". Sì che comandò loro che, lasciato il fiume, andassero per diverse contrade. Incontanente fecero schiera di sé, e fuggirono per le montagne e per le selve. Dimorato alcuno tempo dunque in quello vescovado, cominciarolli a venire meno le potenzie del corpo, e disse a li discepoli che allora dovea passare di questa vita. Allora tutti piagnendo dicono: "Perché ci abbandoni, o padre, ovvero a cui ci lasci, noi isconsolati? I lupi rapaci assaliranno la mandria tua!" E quelli mosso a i loro pianti, piagnendo oròe, e così disse: "Segnore mio, se io sono necessario ancora al popolo, non rifiuto fatica, sia fatta la volontà tua!" E dubitòe poco meno quel che volesse anzi, però che né non li sapea lasciare, né da Cristo volea essere lungamente sceverato. Essendo dunque alquanto tenuto da gravamento di febbri, li discepoli il pregavano che lasciasse porre in sul lettuccio suo, dove giaceva in cilicio e in cennere, alcuna coltricella, e quelli disse: "Non si conviene, figliuoli miei, che 'l cristiano muoia se non in cennere e in cilicio; se io vi lascio altro essemplo, io abbo peccato". Altre volte con gli occhi e con le mani sempre stando inteso nel cielo, il non vinto spirito non ritraeva da l'orazione e, giacendo sempre rivescione, i preti il pregavano che sollevasse il corpicello per mutare lato, e elli diceva: "Lasciatemi stare, frati, lasciatemi stare, lasciatemi anzi vedere il cielo che la terra, acciò che lo spirito si dirizzi al Signore". E dicendo queste cose vidde il diavolo ivi presente, e sì li disse: "Che fai tu qui, malvagia bestia? Tu non troverrai in me cosa di morte, ma il seno d'Abraam mi riceverà". E in questa notte, sotto Arcadio ed Onorio che cominciarono a regnare ne gli anni Domini CCCXCV, di anni LXXXI de la vita sua diede l'anima sua a Domenedio; e 'l suo volto risplendette come fosse già glorificato, e 'l coro de gli angeli vi fu udito cantare da molti che v'erano. Al suo passamento si ragunarono cosìe quelli di Turone come quelli di Pettieri, e nacquevi grande contenzione. Dicevano quelli di Pettieri: "Egli è nostro monaco, noi radomandiamo quello che ci è accomandato". E que' diceano: "Egli è tolto da voi, e è donato a noi da Dio". Sì che entro la mezzanotte quelli di Pettieri s'addormentarono tutti, e così ne fu tratto fuori per una finestra e portato in nave per lo fiume di Ligeri da quelli di Turone a la loro città, con grande allegrezza. San Severino, vescovo di Colognole, faccendo la cerca de' luoghi santi la domenica dopo mattutino, com'era usato, in quell'ora che 'l santo di Dio morìo, udì gli angeli cantare in cielo; chiamòe l'arcidiacano e domandollo s'elli udìa nulla. E dicendo che none udiva nulla e 'l vescovo ammonendolo ch'elli ascoltasse diligentemente, cominciò a levare alto il collo e rizzare gli orecchi e stare in alti luoghi, sostegnendosi al bastone. Ma orando il vescovo per lui, disse che udiva in cielo alcune boci. E 'l vescovo li disse: "Egli è il Signore mio Martino, il quale è passato di questo mondo, e ora lo portano gli angeli in cielo". E le demonia furono a lui e volserlo ritenere, ma non trovando in lui niuna loro cosa, partirsi da lui con vergogna. Sì che l'arcidiacano notòe il die e l'ora, e trovò che allora era passato san Martino. Ancora Severo monaco, il quale scrisse la sua vita, essendo addormentato d'uno lieve sonno, dopo mattutino, sì come egli dice in una pistola, sì li apparve san Martino vestito di bianco, col volto infiammato, con gli occhi stellanti, col capo porporino, e tenea ne la mano ritta il libro che 'l detto Severo scrisse de la vita sua. E veggendolo salire in cielo dopo la benedizione data, e disiderandovi di salire con lui, sì si destòe. Dopo questo vennero messaggi, e udì da loro che in quella cotale notte san Martino era passato a Domenedio. Simigliantemente santo Ambruogio, arcivescovo di Melano, dicendo la Messa s'addormentò dietro a l'altare, fra la Profezia e la Pistola, e none essendo niuno ardito di destarlo, e none essendo il soddiacono ardito di leggere la Pistola se prima non avesse la benedizione, sì che passate due, ovvero tre ore, sì lo isvegliarono, e dissero: "Già è passata l'ora, e 'l popolo molto lasso aspetta, comandi il Signore nostro che 'l cherico legga la Pistola". E quelli disse loro: "Non vi turbate, frati miei, però che 'l fratello mio Martino è passato a Domenedio, ed io abbo posto mano a la sua seppoltura; ma perché voi m'avete isvegliato, non pote' compiere la sezzaia orazione". Allora quegli notarono il die e l'ora, e trovarono che san Martino era passato di questa vita. Dice il maestro Giovanni Beleth che i re di Francia soleano portare la cappa sua indosso quando andavano a battaglia, onde i guardiani de la detta cappa si soleano chiamare cappellani. Nel LXIV anno dopo la morte sua, abbiendo san Perpetuo ampliata magnificamente la chiesa di costui, e volendo traslatare in quella il corpo suo, una volta e due e tre stando in digiuni e in vigilie, non poterono per veruno modo muovere il sepolcro suo, e volendolo lasciare stare, sì li apparve uno bellissimo vecchio, e sì li disse: "Insino a quando v'indugiate? Non vedete voi san Martino apparecchiato per aiutarvi, se voi ci ponete mano?" Allora egli puose sotto la mano con loro, e avacciatamente levarono alto il sepolcro, e puoserlo in quel luogo nel quale è oggi onorato. E quello vecchio dopo queste cose giammai non apparve più, e di questa traslazione si fa festa del mese di Luglio. Ancora si racconta che allora erano due compagni l'uno cieco, e l'altro attratto. Il cieco portava l'attratto, e l'attratto mostrava la via al cieco, e così, mendicando, accattavano molta pecunia. Udendo costoro che al corpo di san Martino si sanavano molti infermi quando ne la traslazione si portava personalemente il corpo suo fuori de la chiesa a processione, cominciarono a temere che 'l detto corpo non passasse lungo la casa dov'eglino stavano, se per la ventura e' fossero sanati; però che non voleano guerire, acciò che non perisse la miseria del loro accatto. Per la qualcosa fuggendo di quella contrada, andaronne ad un'altra, per la quale non pensavano che 'l detto corpo dovesse essere portato. Sì che fuggendo loro disavventuratamente, sì si iscontrarono in quello corpo, e perché Domenedio fa molti beni a coloro che non vogliono, ambedue, contra loro volere, furono sanati incontanente, avvegnadio che di ciò molto si contristassono di loro sanitade. Santo Ambruogio dice così di san Martino: "Il beato Martino disfece i templi del maledetto errore, rizzòe in alto i gonfaloni de la pietade, risuscitò e' morti, cacciò le demonia de' corpi imperversati e, col rimedio di santade, sollevòe molti infermi di diverse infermitadi. Il quale fu trovato sì perfetto che ricoperse Cristo nel povero, e del vestimento che 'l povero avea ricevuto, vestitte il Signore del mondo. O bene venturata largitade, la quale la divinità adopera! O glorioso dividimento del mantello, che ricoperse e 'l cavaliere e 'l re! O ineffabile dono, che meritòe di vestire la divinitade! Degnamente hai dato a costui, Segnore, dono d'essere tuo confessore, degnamente fu sottoposta a lui la crudezza de gli ariani, degnamente per amore di martirio non temette i tormenti del persecutore. Che dove era elli in cennere per offerere il suo corpo intero, quando per una quantità d'un poco di vestimento meritòe di vestire e di vedere il Signore? In tale maniera diede medicina a coloro che speravano, ch'altri ne salvava co' prieghi e altri col vedere".
cap. 162, S. BrizioBrizio, diacano di san Martino e molto invidioso di lui, molti disonori facea al detto santo. Ché domandando uno povero san Martino, disse Brizio: "Se tu domandi quello ismemorato, vedilo da lunga; quegli è colui, il quale come pazzo ragguarda il cielo". Con ciò dunque fosse cosa che 'l povero avesse avuto da Martino quello ch'avea adomandato, il santo di Dio chiamando a sé Brizio e' sì li disse: "Or paioti io pazzo, o Brizio?" E quegli negando d'averlo detto, per vergogna, disse san Martino: "Or non erano l'orecchie mie a la bocca tua, quando parlavi queste cose da la lungi? In verità ti dico che io abbo impetrato da Domenedio che tu sie vescovo dopo me, ma una cosa sappie, che nel vescovado tu avrai molte tribulazioni". E Brizio udendo questo, sì se ne facea beffe, e dicea: "Or non diss'io bene il vero, che questi è un pazzo?" Dopo la morte di san Martino, Brizio fue eletto vescovo, il quale da indi innanzi soprastava a l'orazione e, avvegnadio che ancora fosse superbo, pure del corpo era egli casto. Nel trentesimo anno del suo vescovado una femmina vestita religiosamente, la quale gli lavava i panni, concepette e partorì figliuolo. Allora tutto il popolo si raunò con le lampane accese a la porta sua del vescovado, così dicendo: "Lungo tempo abbiamo ricoperta la lussuria tua per la pietade di san Martino, ma non possiamo più basciare le mani sozze". E Brizio negando ciò, disse a loro: "Recate qua a me il fanciullo". Recato il fanciullo che aveva XXX dì, disse a lui Brizio: "Io ti scongiuro per lo figliuolo di Dio, che tu dica dinanzi a tutti, se io t'ingenerai io". E quelli disse: "Non se' tu il mio padre". E costrignendolo il popolo che domandasse chi fosse il padre del fanciullo, elli disse: "Non s'appartiene a me; io abbo fatto ciò che a me s'è appartenuto". E 'l popolo apponea ch'elli facesse queste cose per arte di demonio, e diceano: "Neente avrai signoria sopra noi col falso nome di pastore". Allora Brizio per mostrare sua innocenzia in quello fatto, prese i carboni accesi, e missilisi in grembo, e portolli così insino al sepolcro di san Martino a veduta di tutta la gente e, gittati in terra i carboni accesi, al suo vestimento non apparve danneggiamento nessuno; e disse: "Come questo vestimento è rimaso non danneggiato da la bracia, così il corpo mio e netto da toccamento di femmina". Non credendo ancora il popolo, ancora afflissero san Brizio da villanie e da ingiurie, e cacciarollo de la sua dignitade, acciò che s'adempiesse la parola che avea detta san Martino. Allora san Brizio se n'andò al Papa piangendo, e stettevi sette anni, e ciò ch'avea fallato inverso san Martino, puniendosi, amendòe e strusse. E 'l popolo fece vescovo Justiniano, e mandollo a Roma contro a Brizio, acciò che si difendesse il vescovado contro a Brizio. Il quale andando a Roma, morìo ne la città di Vercelle, e in suo luogo fu fatto Armenio dal popolo. Sì che in capo di sette anni ritornando Brizio con autorità del Papa, prese albergo sei miglia di lungi da la cittade, e Armenio morìo in quella notte. La qualcosa sappiendo Brizio per revelazione di Dio, disse a i suoi che si levassero e andassero seco a seppellire il vescovo di Turone. Ed entrando Brizio per l'una porta de la cittade, colui uscìa per l'altra morto. E seppellito che fue, san Brizio riebbe la sedia sua; e standovi poi su sette anni e menando la vita sua lodevolemente, nel XLVIII anno dal vescovado suo posòe in santa pace.
cap. 163, S. ElisabettaElisabetta fu figliuola d'uno gentile re, nobile di legnaggio, ma più nobile di fede e d'onestade; così nobile la fece Cristo per esempli, alluminolla di miracoli e ornolla di grazia di santitade. La quale il fattore de la natura in alcuno modo levò sopra natura: una fanciulla nutricata in dilicatezza reali spregiare al tutto le fanciullezze, e dare l'etade sua nel servigio di Dio, acciò che apertamente si manifesti quanta buona semplicità ebbe in sé, con che dolce divozione ella incominciòe. Ed allora si cominciò ad usare a buoni studii, a spregiare i giuochi de la vanità, a fuggire gli avvenimenti prosperevoli del mondo e megliorare sempre ne la reverenzia di Dio. Ché essendo ella d'etade di cinque anni, stavasi continuamente ne la chiesa per cagione d'adorare, che le sue compagne, ovvero ancelle, appena la ne poteano iscostare. La qualcosa osservando l'ancelle, ovvero le fanciulle de la sua etade, alcuna volta parea che corresse dietro ad alcuna di quelle inverso la cappella per giuoco, acciò che prendesse bisogno per questo d'entrarvi ne la chiesa. Ne la quale entrando, s'inginocchiava, o ella si stendea tutta ne lo smalto de la chiesa, e avvegnadio ch'ella non sapesse lettera, intanto dinanzi a' suoi occhi molte volte ne le chiese aprìa il salterio, per mostrarsi in alcuno modo di leggere, quasi com'altri non le desse briga, veggendola occupata. Spesse volte con l'altre fanciulle, abbattuta in terra per giuoco, si misurava con loro, acciò che sotto cotale cagione desse reverenza a Dio. Ne i giuochi de l'anella e de l'altre giuocora ponea tutta la speranza in Domenedio. E di quelle cose che la fanciulla piccola guadagnava, o altre cose ch'ella possedesse in peculio, sì ne dava la decima a le fanciulle poverelle, inducendole a dire spesse volte il Paternostro e a salutare spesso la Vergine Maria. E crescendo ella in tempo, cresceva più per effetto di divozione, ched ella elesse la beata Vergine, madre di Dio, per sua propia avvocata, e Giovanni Vangelista per guardiano de la sua castitade. Però che ponendosi le cedole scritte de' santi per ciascuna de le fanciulle una sotto il panno de l'altare, e levando ognuna la sua, come si venìa per avventura ad avere in devozione quello santo, ch'era scritto ne la sua cedola, costei fece orazione tre volte a Dio, e vennele preso la cedola dov'era scritto il nome di Giovanni Vangelista, sì come ella disiderava; al quale portava tanto affetto di divozione, che negava giammai nulla a chi domandasse per lo suo amore e nel suo nome. E perché l'avvenimento del secolo non la lusingasse già troppo, ogne die ne le cose prosperevoli si sottraeva alcuna cosa; e vegnendole ben fatto in alcuno giuoco, lasciando stare il rimanente, sì diceva: "Non voglio andare più innanzi, ma per Dio voglio lasciare stare il rimanente". Invitata da l'altre donzelle d'entrare ne' balli, quando aveano compiuto l'un giro, dicea: "Basti a voi l'uno torneo, lasciano stare gli altri per Domenedio". E così temperava le pulcelle de le vanitadi, per sì fatto modo. Sempre ebbe in abbominio i leggiadri usamenti di vestiri, e tutta onestàe amòe in questi. Certo numero d'orazioni s'avea posto di dire ogni dì, e se alcuna volta per alcuna occupazione non l'avesse potuto compiere, e fosse costretta da l'ancelle d'andare a letto col celestiale isposo, vegghiando, pagava il debito de l'usate vigilie; i dì solenni con tanta divozione onorava la donzella nobile, che per neuna ragione potea patire che le fossero ricucite le maniche prima che fossero compiute di dire le Messe. L'uso de' guanti s'interdisse i dì de le Domeniche anzi merigge, volendo in ciò onorare la santa solennitade e sadisfare a la sua divozione. E a queste cose e assomigliante usava di costringersi per boto, acciò che veruno non la potesse per alcuni conforti ritrarre dal suo proponimento. L'Ufficio de la Chiesa udiva con tanta divozione e riverenzia, che quando si leggeva il santo Vangelio, e che si levasse il corpo de Signore, s'ella avea le maniche cucite, sì le isdrusciva, ponea giù le fibbiature, e gli altri ornamenti del capo poneva in terra. Poscia ch'ebbe mantenuto lo stato verginale prudentemente, e iscorsolo innocentemente, fu costretta d'entrare in quello del maritaggio, e a ciò fare fu costretta dal comandamento del padre a dovere ricevere il frutto trentesimo, osservando la fede de la santa Trinitade co' diece comandamenti de la legge. Consentette costei, avvegna che male volentieri, in congiugnimento maritale, non per servire a la carnalitade, ma per non spregiare il comandamento del padre e per ingenerare figliuoli da educarsi al servigio di Dio. Fu legata a la legge del matrimonio, ma non si sottopuose a veruno diletto di riprendere, e questo si manifesta palesemente in ciò ch'ella fece voto, e missesi ne le mani del maestro Currado che, se intervenisse ch'ella sopravivesse al marito suo, starebbe sempre mai casta. Fue adunque accompagnata al langravio di Turingia per maritaggio, sì come richiedeva la reale magnificenzia, e come ordinòe la dispensazione di Dio, acciò ch'ella ne recasse molti a l'amore di Dio, e ammaestrasse gli uomini non coltivati. E avvegna ch'ella mutasse stato, non mutò affetto de la mente; e di quanta divozione e larghezza ch'ella fosse a Dio, e di quanta astinenza ed asprezza a se medesima, e di quanta largitade e misericordia a li poveri, per quelle cose che scritte sono qui disotto apertamente si dichiara. Ché ne l'orazione fue di tanto fervore che, quando ella andava a la chiesa con l'ancelle, sempre andava loro ratto innanzi, accio che per alcuna celata orazione impetrasse alcuna grazia da Dio. La notte si levava ispesse volte ad orazione, pregandola il marito che si perdonasse e desse al corpo alcuno riposo. Sì ordinò con una donzella, la quale infra l'altre era più dimestica con lei, che, se per avventura abbattuta dal sonno non si levasse, toccandole il piede la destasse. Una volta che le volse toccare il piede, incappòe nel piede del marito, il quale, isvegliato, subitamente seppe il fatto com'era, e sofferendo pazientemente infinsesi saviamente. E acciò ch'ella facesse grasso sagrificio a Dio de le orazioni sue, spesse volte gittava innanzi a lui abbondanza di lagrime, le quali lagrime spandea allegramente, e sanza veruna sconvonevolezza avea molte permutazioni, sì che sempre con dolore piagnea, e del dolore s'allegrava, con una cotale letizia e piacevolezza de la faccia. A tanta umilitade si sottopuose che non rifiutava di fare le vili cose e dispette, ma con molta divozione le facea. Uno infermo di sozza paruta, orribile per puzza del capo, sì le si chinò in sul propio grembo, li tagliò i capegli e lavò quello orribole capo a la perfine, ridendo le sue ancelle. Quando s'andava a processione per le Letanie, sempre andava a piede scalzo, essendo vestita di sacco, dietro a la processione, e ne le riposanze de la processione si ponea a sedere tra le poverelle come povera e umile; quando si purificava del parto, niente s'adornava di gemme, come facevano l'altre, né non si copriva di vestimenta dorate, ma d'asemplo de la partorente non corrotta santa Maria, portava il propio figliolo ne le sue braccia, e offerìa a l'altare con l'agnello e col cerotto, acciò che per questo mostrasse come fosse da spregiare la boria del secolo, e confermassesi a la partorente santissima non corrotta. Poi ch'era ritornata a casa, le vestimenta con ch'ella era andata a la chiesa, sì le dava ad alcuna femminella. Avvenne una loda di grande umiltade, ched ella avanzante di cortesia, alta di dignitade, si dispuose a fare ubbidienza ad uno uomo, cioè al maestro Currado, povero e mendico, ma eccellente di senno e d'onestade, salva la ragione del matrimonio per consentimento del suo marito, ad essere sottoposta al detto maestro, che ciò ch'elli le comandasse, ella con reverenzia e con molto gaudio adempiesse, acciò che per questo avesse il merito de l'obbidenzia, e seguitasse l'essemplo di Cristo, il quale si fece ubbidiente insino a la morte. Una volta, invitata ad una predicazione del detto maestro, però che sopravvenìa una marchesa di Mismi, fu impedita e non poté adempiere il comandamento d'andarvi. La qualcosa recandosi il maestro ad ingiuria, non le volse perdonare tanta disubbidienza di lei, insino a tanto che non le fece spogliare infino a la camicia con alcune ancelle, le quali erano colpevoli di ciò, e fecela battere fortemente. E imponevale tanta astinenza che macerava il corpo suo col vegghiare e col disciplinare e col digiunare e con l'astinenzia. Molte volte astegnendosi dal letto del marito, vegghiava tutta la notte per potere stare in orazione e pregava di nascosto il padre celestiale, e quando sopravvenìa la necissità del dormire, poneasi a dormire in su' tappeti per terra, ma vegghiava in orazioni col marito e con lo sposo celestiale. Molte volte ancora ne la camera, per mano de le ancelle, si faceva battere fortemente per rendere cambio al Salvatore battuto, e per costrignere la carne da ogne vanitade. Tanta temperanza teneva nel mangiare e nel bere, che alcuna volta ne la mensa del marito, tra divisate imbandigioni di minestre, di solo pane stava contenta; però che 'l maestro Currado l'avea interdetto che non toccasse nulla di quelle cose de' mangiari del marito, dond'ella non avesse sana coscienzia. La qualcosa ella osservava con tanta diligenzia, che, essendovi abbondanza d'altri diversi mangiari, ella con le ancelle sue usava grossi cibi. Molte volte, stando a mensa, toccava e partiva i cibi con mano, per non incorrere nel vizio de la superstizione, ma per rallegrare tutti i mangiadori per così fatta cortesia. Una volta ch'ella era molto affaticata per una lunga camminata, essendo recati cibi a lei e al marito, i quali si credea che non fossero acquistati di giusta fatica, al tutto se ne astenne, e mangiò pazientemente del pane nero e duro immolato ne l'acqua calda, con le sue ancelle. Per questo l'assegnò il marito alcune giuste rendite, de le quali si viveva ella con alquante ancelle, che l'acconsentivano a tutte cose simiglianti. Spesse volte rifiutò i cibi de la corte e adomandando d'avere i cibi d'alcuni buoni uomini. Tutte queste cose comportava il marito suo pazientemente, affermando che volentieri farebbe elli il somigliante, se non che temeva la turbazione de la famiglia sua. Lo stato de la povertade, essendo ella posta in somma gloria, con sommo studio disiderava, e acciò che rendesse cambio a Cristo povero e acciò che il mondo non avesse in lei nulla del suo. Per la qualcosa alcuna volta stando sola con le ancelle sue, sì si vestiva di vili panni, e coprìa il corpo suo con disprezzato velo, così dicendo: "In questo modo andrabbo io, quando saròe venuto a lo stato de la povertade". E avvegnadio ch'ella si ponesse il freno de l'astinenzia, impertanto era tanto misericordiosa a i poveri che non pativa che veruno fosse abbattuto d'alcuna fame, ma a tutti sovveniva tanto larghissimamente che tutti i poveri la gridavano loro madre, però ch'ella si dava studiosamente a l'opera de la misericordia. Una volta ch'ella entròe nel chiostro d'alcune monache, pregatane strettamente da loro, non avutone la licenzia del suo maestro, sì la fece sì gravemente battere che dopo tre settimane le si pareano le battiture ne la carne. E dicea a le sue ancelle, consolando sé e loro: "Come la gramigna è battuta crescendo il fiume, e poi quando il fiume è scemato ricresce in foglie e distendesi, così dovemo far noi quando viene alcuna affezione sottometterci per umiltade, e quando cessa l'afflizione levarci a Domenedio per ispirituale letizia". Da tanta umiltade s'abbattea che per veruno modo non pativa che l'ancelle la chiamassero madonna, ma che le parlassero in numero di singularità, cioè in quel modo che noi solemo favellare a' più bassi di noi. Le scodelle e l'altre masserizie di cucina si mettea a lavare, e acciò ch'ella non fosse vietata da l'ancelle a ciò fare, sì le mandava in quell'ora ad altre luogora. Diceva ancora: "S'io avesse trovato un'altra vita più disprezzata, sì l'avrei maggiormente eletta". E acciò ch'ella possedesse l'ottima parte con Maria, continuamente stava in contemplazione talora. Ne la quale contemplazione ebbe speziale grazia di spandere lagrime, di vedere spesso celestiali visioni e d'infiammare gli altri ne l'amore di Dio. E quando ella parea più allegra, allora mandava fuori lagrime d'allegra divozione; sì che del suo volto allegro pareva che uscissono le lagrime come d'una purissima fontana, che insiememente paresse piagnere e allegra, non mutando giammai il volto per piagnere in rustichezza o in crespe. Però che diceva di coloro che nel pianto isforzavano il volto, che pare che ischermiscano Domenedio; deano a Dio quel c'hanno, deano con gioconditade e con allegrezza. Ne l'orazione sua e ne la contemplazione vedea spesse volte visioni celestiali. Un die, nel santo tempo de la Quaresima, essendo ne la chiesa, e stavasi così a l'altare con gli occhi fissi in terra, come s'ella vi vedesse la presenza di Dio e, consolata per grande spazio d'ora, fue pasciuta de la rivelazione di Dio. Ritornando poi a casa, e appoggiandosi per debolezza al grembo d'una ancella, levando gli occhi bene fissi per la finestra, da tanta allegrezza fu sparto il volto suo, che ne seguìo uno ridere maraviglioso. La quale essendo stata lungamente allegra di sì gioconda visione, subitamente si mutòe in lagrime. E aprendo un'altra volta gli occhi, sì le venne la prima allegrezza, poi chiuse gli occhi e mutossi in lagrime come prima, e così penò a stare in sì fatte consolazioni di Dio infino a la compieta. Ma tacendo ella lungamente, e non profferendo veruna parola, a la fine misse mano a dire, e disse così: "Sì, Messere, tu vuoli starti meco, e io sarò con teco, e mai non voglio isceverarmi da te". Essendo poi pregata da l'ancelle che ad onore di Dio e a loro edificazione manifestasse loro quello ch'ella avesse veduto, ella, vinta da la molta improntitudine de l'ancelle, disse: "Io viddi il cielo aperto, e Jesù che s'inchinava benignissimamente a me, mostrandomi il suo serenissimo volto; ond'io per la sua veduta ripiena d'allegrezza inenarrabile, de la sua potenza rimaneva molto contristata. Il quale avendo pietà di me, mi rallegrava un'altra volta mostrandomi la sua faccia, e dicevami: "Se tu vuogli essere meco, io sarò teco". Al quale io rispuosi secondo che voi m'udiste parlare". Ed essendo pregata ch'ella spianasse la visione la quale vidde lungo l'altare, quella rispuose: "Quelle cose ch'io viddi non è utilitade di dirle a voi, ma pure io vi fui in molta allegrezza, e viddi le meraviglie del mio Dio". Spesse volte mentre si dava ad orazione la sua faccia splendeva mirabilemente, e da' suoi occhi partivano raggi come di sole. Spesse volte ancora la sua orazione era trovata di tanto fervore, ch'ella infiammava gli altri. Una volta chiamò ella uno giovane vestito secolarescamente, e disse a lui: "Io ti veggio vivere troppo dissolutamente, che dovresti servire al Criatore tuo; vorresti tu ch'io pregassi Dio per te?" E quelli disse: "Sì, madonna, anzi ve ne priego molto". Ed essendosi data ad orazione, e ammonito il giovane che si desse ad orazione, il giovane gridò ad alta boce, e disse: "Cessate, madonna, cessate d'orare". Ma orando ella più attentamente, il giovane gridava più ad alti, dicendo: "Cessate, madonna, però che tutto vegno meno e ardo". Però ch'egli era acceso di tanto calore che, sudando tutto e fumicando il corpo e le braccia, notava come fa l'anitra. Intanto che molti v'accorsero e tenerlo e trovarongli tutte bagnate le vestimenta per lo molto sudore; e non potendo sostenere il fervente calore, con le mani gridava e diceva: "Io ardo e consumo tutto". Poi che santa Elisabetta ebbe compiuta l'orazione, al giovane cominciò a rimanere il caldo; il quale giovane tornando a se medesimo, e alluminato de la grazia di Dio, entròe ne l'Ordine de' frati Minori. E quello infiammamento dimostrando così nel giovane, mostrava com'era focoso il fervore de l'orazione sue, il quale fue sì forte che eziandio il mondo infiammòe. Ma il fervore suo, disusato da le cose carnali e inteso tutto a le spirituali, non potea comprendere così fatte cose. E a la summitade de la perfezione per la contemplazione di Maria non le venne meno l'officio faticoso di Marta, sì come mostrato è disopra ne le sei opere de la misericordia. Ma neente di meno poi ch'ebbe preso l'abito de la religione, servette continuamente in opere di pietade. Ché da poi ch'ella ebbe ricevuto per la dote sua cinquecento miglia di marche d'argento, parte ne distribuìo a' poveri, e del rimanente fece uno grande ispedale in Marpurg. Per la qualcosa tutti la riputavano guastatrice e scialacquatrice, e tutti la nominavano matta, e perch'ella pareva che ricevesse volentieri tutte le 'ngiurie, sì le rimproveravano che troppo tosto avea messo in dimenticanza la memoria di suo marito, perch'ella s'allegrava in cotale maniera. E poi ch'ebbe ordinato l'ospedale, diessi al servigio de' poveri come umile ancella, però che a' poveri era sì sollicita di servire, che gli lavava e mettevagli nel letto, e sì li copriva, intanto che con allegrezza dicea a le ancelle sue: "Come ci fa Dio bene, che 'l bagnamo e copriamo così!" E portossi sì umilemente nel servigio de' poveri, ch'un fanciullo povero cieco de l'uno occhio e tutto scabbioso, in una notte il portò sei volte al luogo de la necessitade, e lavollo volentieri i panni suoi vituperati. Simigliantemente lavando spesse volte una femmina lebbrosa, sì la misse nel letto forbendole le piaghe e legandogliele, e medicandola, e tagliandole l'unghie, e gittandolesi a' piedi per discioglierle le coreggiuole de li calzari. Ella inducea l'infermi a la confessione e a la comunione, e una vecchierella, al postutto contradicente, sì la 'ndusse a ciò, gastigata per battitura. E quando intendea al servigio de' poveri, filava lana d'alcuno monasterio, e toglieva il prezzo che l'era mandato, e dividevalo tra ' poveri. E quando, dopo la molta povertade, ebbe ordinato di partire tra ' poveri cinquecento marche d'argento, le quali avea ricevute da' parenti del marito per la ragione sua, e ella, apparecchiata di fare questa distribuzione, puose una legge che tutti si ponessero a sedere ordinatamente, e se alcuno mutasse luogo in pregiudicio de gli altri poveri per ricevere più, sì gli fosse tagliato parte de' capegli; ed eccoti venire una fanciulla ch'avea nome Radegonda, ch'avea uno bellissimo capo, e passava quindi non per torre limosina, ma per visitare una sua serocchia inferma. La quale essendo presa e menata (come trapassatrice de la legge posta del mutarsi da sedere) a santa Elisabetta, comandò incontanente che le fossero mozzi i capelli. Piagnendone molto la fanciulla, e contrastando, e affermando ella, alcuni di quelli ch'erano presenti, non colpevole, quella disse: "Sia mai no che da quindi innanzi non potrà ella entrare a i balli con tanta vanagloria de' capelli, né operare veruna vanità con essi". Domandandola santa Elisabetta se ella avesse mai avuto proponimento di buona e santa vita, quella rispuose che già era passato alcuno tempo ch'ella sarebbe entrata in religione, s'ella non avesse avuto cotanto diletto de' capelli. E santa Elisabetta disse: "Più dunque ho caro che tu abbi perduto i capelli, che se 'l figliuolo mio fosse fatto imperadore". Incontanente la fanciulla sì vestìo l'abito de la religione e, abitando ne l'ospedale con santa Elisabetta, menò santa e laudabile vita. Avendo una poverella partorito una figliuola, santa Lisabetta sì la tenne a le fonti, e impuosele il nome suo, e diede a la madre de la fanciulla le sue necessitadi, sì che levòe del pelliccione d'una de le ancelle sue le maniche, e diedele a colei per invilupparvi la fanciulla, e anche le donòe i suoi propi calzari. Tre settimane stette costei in casa nutricando la fanciulla, poscia si partì col marito, e lasciarono stare la fanciulla, e fuggirono celatamente. La qualcosa essendo annunziata a santa Elisabetta, diedesi ad orazione, e 'l marito e la moglie non potendo andare più innanzi, costretti ritornarono a lei, domandando a lei perdonanza. Ed ella riprendendoli de la ingratitudine, come era degna cosa, diede loro a nutricare la fanciulla, e providdeli de le loro nicissitadi. Appressimandosi il tempo nel quale il Signore avea ordinato di chiamare a sé la sua amica de la pregione del mondo, acciò che quella ch'avea spregiato il reame de' mortali ricevesse il reame de li angeli le apparve Cristo e le disse: "Vieni, mia diletta, nei tabernacoli eterni preparati per te". E giacendo ella con la febbre, e tenendo la faccia rivolta a la parete, fu udita da coloro che le stavano presenti una boce che rendea dolcissima melodia di canto. E domandata da una de le ancelle che ciò fosse, quella rispuose: "Una augella ponendosi in mezzo tra me e la parete, cantòe sì soavemente, che trasse simigliantemente me a cantare". In questa sua infermità sempre stette allegra, e mai non cessò da orazione, e l'ultimo die innanzi al suo passamento disse a loro: "Che fareste voi se 'l diavolo ci venisse?" Poco stante gridò ad alta boce: "Fuggi! fuggi!" quasi volendo accomiatare il diavolo tre volte gridando. Poi disse: "Ecco che s'appressima mezza notte, quando Cristo volse nascere e riposossi ne la mangiatoia". E approssimandosi l'ora de la sua morte disse: "Ora è il tempo che Dio onnipotente chiamerà a le celestiali nozze coloro che sono suoi amici". E stante un pochetto, venne l'ora de la morte, e dormìo in pace ne gli anni Domini MCCXXVI. E avvegnadio che 'l suo venerabile corpo stesse disotterrato quattro dì, impertanto non ne venìa puzzo veruno, ma usciane uno odore di spezie che tutti gli confortava. Allora furono vedute molte augelle raunate sopra 'l sommo de la chiesa, le quali non furono vedute prima giammai da neuno, le quali cantavano tanto soavemente, e per tanti modi isvariavano il loro canto, che tutta gente se ne maravigliava di ciò ché parea che facessero l'officio de la sua sepoltura per un cotale modo. Molto grande grida v'ebbe di poveri, molta divozione de' popoli, sì che altri le traevano i capelli del capo, altri le tagliavano i micolini de' panni, e serbavarle per somme reliquie. Il corpo suo fu posto in uno monumento, il quale fu trovato poi ricrescente d'olio. Adunque manifesta cosa è nel suo passamento, di quanta santità fosse questa beata Elisabetta, e sì per lo bello canto de l'uccello, e sì per lo scacciamento del demonio. Quello uccello che si puose tra lei e la parete, e cantò sì dolcemente intanto ch'ella trasse a cantare, crediamo che fosse l'angelo che l'era dato a guardia, il quale l'annunziò l'eternale allegrezza. Che sì come a' rei dinanzi a loro passamento, a loro maggiore confusione, è rivelata la eternale dannazione di coloro alcuna volta, così a' buoni e a gli eletti, a loro maggiore consolamento, è rivelato alcuna volta il loro eternale salvamento. E quello canto ch'ella fece, sì fue la grande allegrezza ch'ella concepette di cotale allegrezza e rivelazione, la quale fue sì grande allegrezza, che non poté al tutto capere nel cuore, ma manifestò se medesima per soavitade di voce. Ancora se 'l diavolo avesse veruna ragione, sì ne vae a li santi che muoiono, ma però che non ebbe ragione veruna in santa Elisabetta, però fuggìo villanamente accomiatato. Sì che per questo è dato a 'ntendere quanta santità fosse in lei, da la quale il diavolo spaventato fuggìo, e a la quale il buono angelo annunziò la eternale allegrezza del cielo. Manifestasi nel secondo luogo quanta puritade e mondizia fue in lei, e ciò si mostra ne l'odore che usciva di lei; che perché il corpo suo risplendette di mondizia e da castitade ne la sua vita, però ne la morte rendette odore di soavitade. Manifestasi nel terzo luogo, di quanta eccellenzia e dignitade ella fue, e questo quanto al dolce canto de gli uccelli, però che quelli uccelli che furono veduti cantare e giubilare in su la vetta de la chiesa, crediamo che fossero angeli mandati da Dio per portarne l'anima in cielo, e per onorare il corpo suo e per soavi canti d'allegrezze. Che secondamente ch'a' rei quando muoiono si raguna moltitudine di demoni per tormentarli di spaventamenti, e per rapire le loro anime al ninferno, così corre la moltitudine de gli angeli a li eletti quando muoiono per confortarli, e per menare l'anime loro al regno del cielo. Manifestasi nel quarto luogo, di quanta misericordia e pietade ella fosse, e ciò quanto a l'uscire de l'olio del suo sepolcro, però che tutta traboccòe d'opere di misericordia in sua vita. O di quanta interiora di pietade abbondòe la sua ragione, il cui spirito fu trovato essere sparto d'olio giacendo il corpo in polvere! Manifestasi nel quinto luogo, di quanta potenzia e di che merito ella sia appo Dio, e questo si mostra per l'operare di molti miracoli. Però che poscia che Dio ebbe lei tratta del corpo, sì la fece luminosa di multiplicata gloria di miracoli, de' quali ne sono posti qui disotto alquanti, ma molti ne lasciamo per più brevitade. Ne le parti di Sassonia, in uno monasterio del vescovado d'Isdimo, era uno monaco de l'Ordine di Cestella, il quale era chiamato don Arrigo, ed era abbattuto di tanta infermitade, e attorniato da tanti dolori, che movea le persone a compassione, e molestavali con le grida. Una notte gli apparve una venerabile femmina vestita di panni bianchi, la quale l'ammonìo che, s'elli desiderava di ricevere sanitade, sì si botasse a santa Elisabetta. La seguente notte s' apparve un'altra volta confortandolo a quello medesimo, sì che non essendovi né l'abbate, né 'l priore, per consiglio del maggiore fece il boto. La terza notte gli apparve, e fece sopra lui il segno de la Croce, e incontanente ricevette santade. Tornando l'abbate e 'l priore, udendo queste cose, cominciarsi a maravigliare de la santade, ma dubitandone molto de l'adempimento del boto, non essendo licito a veruno monaco di fare alcuni boti, né obbligarsi a cotali cose. Aggiunse ancora il priore che spesso i monaci, sotto spezie di bene, sono stati beffati a fare cotali cose non licite per apparizione di demoni, e però era di consigliare il detto monaco che conformasse la mente sua per istabile confessione. La seguente notte gli apparve quella medesima persona che era apparita di prima, e sì li disse: "Tu sarai sempre infermo infino a tanto che tu non avrai adempiuto quello che tu promettesti". Sì che incontanente il prese la detta infermitade, e cominciò ad avere quelle medesime doglie. Udendo ciò l'abbate diedeli la licenzia, e comandò che gli fosse data de la cera per fare la mania. Il quale ricevette incontanente santade, e studiossi d'adempiere il boto suo, e non sentì giammai poscia di quella infermitade. Una fanciulla che avea nome Benigna, del vescovado di Magonti, cheggendo bere a una sua ancella, quella conturbata le porse bere, così dicendo: "Togli e bei il diavolo". A la fanciulla parve che l'entrasse per la gola un tizzone ardente, intanto che nel collo gridò d'aver male. Incontanente l'enfiòe il corpo a modo d'otre, e nel suo ventre parve che scorresse qualcosa per tutte le membre. Quella faccendo miserabili portamenti e mettendo voci di lamento, credevasi che fosse imperversata dal demonio; e stette per due anni in cotale stato. Sì che fue menata al sepolcro di santa Elisabetta e, fatto il boto per lei, quando fu posta in sul sepolcro, sì apparette come morta, ma quando l'ebbero dato un poco di pane a mangiare e de l'acqua benedetta a bere sopra al detto sepolcro, incontanente si levò su sanata, maravigliandosene tutti quelli che v'erano ivi. Uno uomo del vescovado di Traccia, il quale avea nome Gederigo, avendo l'una mano attratta, intanto che avea perduto l'uso di quella, visitato ch'ebbe il sepolcro di santa Elisabetta per due volte, e none essendone liberato, la terza volta v'andòe con la moglie in molta devozione. Nel quale luogo andando, iscontrossi in uno vecchio di venerabile aspetto, il quale, salutato da lui e domandato donde venìa, disse che venìa di Marpurg, là dove è il corpo di santa Elisabetta, dove Domenedio fa molti miracoli per lei. Quando l'uomo l'ebbe isposta la sua infermitade, quegli levò alta la mano e benedisselo, così dicendo: "Va sicuramente, ché tu riceverai santade, pur che tu metta la mano inferma a capo del sepolcro, in una fossa che v'è fatta sotto la lapida; e quando tu la vi metterai più addentro, tanto più tosto riceverai santade. E allora abbia in memoria san Niccolò, il quale, come compagno di santa Elisabetta, ne i suoi miracoli adopera con lei insieme". Disse ancora che stolti son quelli che, gittato l'offerta, non istanno, ma partonsi incontanente, con ciò sia cosa che a i santi piace con perseveranza s'adomandino i loro beneficii. Incontanente il vecchio isparve da loro, e non poterono mai più vederlo; sopra il quale apparimento, maravigliati molto, andavano con grandissima fidanza di ricevere santade. Sì che l'uomo, secondo che quello vecchio il consigliò, misse la mano sotto la lapida del monimento, e incontanente la ne trasse sana. Uno del vescovado di Colognole, il quale avea nome Armanno, essendo tenuto in carcere dal giudice, missesi tutto in Domenedio, e chiamava in suo aiuto santa Elisabetta, e 'l maestro Currado, con quella divozione ched e' poteva. La seguente notte gli apparvero ambedue insieme con molto lume, consolandolo con molte maniere. A la perfine data la sentenzia sopra lui, fu impiccato e fu lasciato in su le forche tanto tempo quanto altri penasse ad andare un miglio tedesco. E 'l giudice concedette a' parenti che lo ispiccassero, e seppellissollo ne l'avello. Sì che apparecchiata che fu la fossa, quando l'ebbero spogliato e spiccato de le forche, il padre e ' padroni suoi cominciarono a domandare l'aiuto di santa Elisabetta per quello cotale morto; ed eccoti levare sano e vivo su ritto, maravigliandosi e stupidendosi tutti di colui ch'era suto morto. Uno scolaio, ch'avea nome Broccardo de la diocesi di Magonti intendendo a pescare meno che cauto, incorse e cadde entro il fiume. E standovi entro un grande pezzo di tempo, funne tratto fuori, e trovato ch'era perduto d'ogni sentimento e movimento, intanto che non trovato in lui veruno segno di vita tutti dicevano ched elli era morto. Allora adomandato fue l'aiuto de' meriti di santa Lisabetta e, veggenti tutti, gli fue renduto santade a vita. Uno giovane ch'avea tre anni e mezzo, del vescovado di Magonti, il quale era chiamato Ugolino, essendo morto, e 'l corpo suo essendo stato rigido e sanza anima per ispazio di quattro miglia tedesche, la madre si diede tutta a pregare santa Elisabetta con tutta devozione, e riebbe il fanciullo vivo e sano. Uno fanciullo di quattro anni essendo caduto in uno pozzo, per avventura vegnendovi una persona per attignere acqua, accorsesi del fanciullo che già era attuffato. Lo quale poi che ne l'ebbe tratto con malagevolezza, trovò ch'era morto. De la quale morte era questi segni: la lunghezza del tempo, la freddura del corpo, l'orribile aprimento de la bocca e de gli occhi, l'enfiatura del ventre, l'anneramento de la cotenna e al tutto era privato d'ogni sentimento e movimento. Sì che per risucitarlo fecioro i parenti boto a santa Elisabetta, e fugli renduta la vita. Una fanciulla caduta nel fiume, poi che ne fue tratta morta, per li meriti di questa santa le fu renduta la vita. Un uomo, il quale avea nome Federigo, del vescovado di Magonti, essendo molto ammaestrato ne l'arte del notare in acqua, bagnandosi in acqua una volta, vidde uno ch'era stato cieco ed era alluminato per santa Elisabetta, faccendo ischerne di lui, gittavali l'acqua nel volto a dispregio. Sì che quelli crucciato d'ira, sì disse: "Quella santa donna che mi fece grazia, mi vendichi di te, che tu non eschi quinci se non morto e sommerso". Quelli anche intendendo la bestemmia del povero, e gittandosi ne l'acqua per leggiadria, venneli meno la forza e la balia del corpo, e non si poté aiutare, ma discese nel profondo come una pietra. Ricercato l'uomo dopo molto spazio di tempo, fu tratto morto de l'acqua, e faccendosi gran pianto sopra lui, alcuni suoi parenti cominciaro a fare boto per lui a santa Lisabetta, e a domandare divotissimamente il suo aiuto. Incontanente ritornòe lo spirito in lui e levossi vivo e sano. Un ch'avea nome Giovanni, del vescovado di Magonti, essendo sanza colpa preso con un altro e giudicato con lui insieme ad essere impiccato, pregò tutta la gente che pregassero Iddio e santa Lisabetta, che, come e' non avea né colpa né peccato, così l'aiutasse. Essendo dunque impiccato, udì una voce che li disse da alto: "Confidati e abbi fidanza in santa Elisabetta, e sarai liberato". Incontanente gli si ruppe la fune e cadde da alto gravissimamente, sanza farsi male veruno, avvegnadio che la camicia nuova ch'elli avea indosso si rompesse; e l'altro rimase impiccato. Sì che quegli ch'era caduto, si rallegrò e disse: "Santa Elisabetta, tu m'hai liberato, e facestimi cadere in su uno morbido letto". E dicendo alcuni che sarebbe da rimpiccarlo un'altra volta, e 'l giudice disse: "Colui che Domenedio ha liberato, non lascerò io impiccare un'altra volta". In uno monasterio del vescovado di Magonti ebbe uno converso, ch'avea nome Volimaro, molto religiosa persona, il quale afflisse tanto la carne sua, che venti anni portò il cilicio a la carne, e dormìa tra le legna e tra le pietre. Stando costui al molino, la macina gli prese la mano per disavventura, che ne la divelse la carne, e tritòe i nerbi e l'ossa in tal maniera che parea pur pesta in uno mortaio. E patiane sì grande duolo, che non pregava altro se non che la mano gli fosse tagliata. Sì che chiamando lui molto spesso santa Elisabetta che li fosse in aiuto, la quale in sua vita gli era stata famigliare, una notte gli apparve, e disse: "Vuo' tu essere sano?" E quelli rispondendo che sì, e volentieri, quella gli prese la mano, e sanòe i nerbi, risaldòe l'ossa, e rendelli la carne ne la mano da ambe latera, e donolli la santade di prima. La mattina vegnente si trovò guerito, e a tutto il convento mostrò la mano sana, maravigliandosi tutti. Uno fanciullo che avea cinque anni, del vescovado di Magonti, il quale era chiamato Discreto, essendo nato cieco, riebbe il vedere per li meriti di santa Lisabetta in questo modo: che pelle salda sanza i peli era sì cresciuta sopra gli occhi che li copriva tutti, e non si dicernea punto de l'occhio. Sì che la madre chiamò l'aiuto di santa Elisabetta a sepolcro suo, ed eccoti la pella intera si fesse per mezzo, e furono veduti gli occhi piccolini, turbatuzzi e sanguinosi, e così per li meriti di santa Elisabetta ebbe il fanciullo il vedere. Una fanciulla del detto vescovado, ch'avea nome Beatrice, essendo molestata lungo tempo da grandi e diverse infermitadi, finalmente le si fece uno scrigno di dietro, e uno dinanzi e, così crescendo, stava chinata con tutto il corpo in tal modo che per niuna cagione si potea rizzare, s'ella non poggiasse le mani in su le ginocchia. Abbiendola dunque la madre portata in una sporta al sepolcro di santa Elisabetta, e standodieci dì e non potendo avere ricevuto il benificio de la santade, la madre di questa fanciulla s'adiròe e mormoròe contro a santa Elisabetta, così dicendo: "A tutte le persone fai grazia, e di me, misera, fai ischerne e non mi esaudisci? Io mi tornerò a casa, e tutti coloro ch'io potrò ritrarre da vicitarti, sì me ne ingegnerò". E partendosi così adirata, da che fu andata un miglio e mezzo, la sua figliuola tormentata di dolori piagnea, finalmente addormentata la fanciulla, vidde una bellissima donna con la faccia isplendiente, la quale le recò il corpo suo nel dosso e nel petto, e disse a lei: "Leva su, e va". Isvegliandosi la fanciulla, e trovandosi sanata al postutto da ogni rustichezza e chinatura, raccontòe la visione a la madre, e generòe gaudio e letizia. Sì che ritornando al sepolcro di santa Elisabetta, e rendendo grazie a Domenedio e a lei, lasciaronvi la sporta in che la fanciulla v'era stata portata. Una femmina ch'avea nome Gertrude, del sopraddetto vescovado, stata gran tempo d'ambe le gambe e di tutto il corpo chinata, fu ammonita in sonni che andasse a san Niccolò, e dimandasse le sue merita. E quella si fe' portare ad una chiesa di san Niccolò, e trovossi sana l'una gamba. A la perfine presentata al sepolcro di santa Elisabetta e posta in su l'avello suo, poi che fu stimolata da gravissimi dolori e fatta come sciabordita, rilevossi suso sana ed allegra. Una femmina ch'avea nome Scintrude, di quello medesimo vescovado, essendo stata cieca bene un anno intero, e guidata sempre per altrui aiuto, con tutta la sua divozione si diede a pregare santa Elisabetta, e ricevette il bene che avea perduto. Un uomo ch'avea nome Arrigo, del vescovado di Magonti, essendo privato al postutto del lume de gli occhi, andò a visitare il sepolcro di santa Elisabetta, e tornò a casa con pieno beneficio di santade. E poscia quello medesimo uomo, gravato da scorrimento di sangue, intanto che credeva la famiglia sua che ne morisse, tolse de la terra del sepolcro di questa santa e, intridendola con l'acqua e bevendola, trovovvi il beneficio del guarire. Una fanciulla ch'avea nome Metilde, del vescovado di Treviri, avendo perduto il vedere e l'udire, e avendo perduto l'uso del parlare e del camminare, il suo padre e la madre la botarono a santa Elisabetta e, ricevendola sanata, lodarono Iddio e santa Lisabetta, che fanno così gran cose. Una femmina del distretto di Treviri, ch'avea nome Helibingia, essendo stata cieca un anno, e avendo pregato santa Elisabetta che per li suoi meriti la degnasse guarire, fecesi menare al sepolcro suo, e riebbe il lume de l'uno de gli occhi. E quella ritornando a casa sua, sentìo sì gravemente dolore de l'altro occhio, e radomandando un'altra volta il beneficio de la santa, sì le apparve così dicendo: "Andando te a l'altare fatti ventolare gli occhi tuoi col corporale, e in questo modo riceverai santade". Quella fece il comandamento, e ricevette santade. Un uomo ch'avea nome Teodorico, del vescovado di Magonti, infermato gravissimamente ne le gambe e ne le ginocchia per lungo tempo, sì che andare non potea se non fosse portato da altri, fece boto di visitare il corpo di santa Elisabetta con offerte comunque potesse, e stando di lungi il luogo dov'elli era dal sepolcro di santa Elisabetta solamente per X miglia, appena vi poté giugnere in otto dì. Ed essendo stato là per IIII settimane, tornavasi a casa e, posandosi lui in un luogo a lato ad un altro infermo, vidde in sogno uno che venìa a lui, che lo schizzava al tutto d'acqua. Ed elli isvegliandosi adirato contra 'l compagno, sì li disse: "Perché me pure ischizzi tu d'acqua addosso?" E quelli rispuose: "Io non t'hoe ischizzato, ma credo che quello ischizzamento sarà a te cagione di salute". Quelli si levò da giacere, e trovandosi al tutto sanato, puosesi le mazze in collo, e tornando al sepolcro di santa Elisabetta, e fecele molte grazie, e tornò allegro e sano a casa sua.
cap. 164, S. CeciliaCecilia chiarissima, nata di nobile schiatta, e da piccolina nudrita ne la fede di Cristo, sempre portava nascosto nel suo petto i Vangeli di Cristo, e non cessava giammai né di dì né di notte da parlare di Domenedio e da l'orazione, e pregava Dio che conservasse la sua verginitade. Ed essendo isposata a uno giovane, ch'avea nome Valeriano, e ordinato il dì di fare le nozze, a carne era vestita disotto di cilicio, e disopra era coperta di vestimenti dorati, e cantando gli organi, e quella cantava a solo Dio nel cuore suo, così dicendo: "Sia fatto, Signore Dio, il cuore mio e 'l corpo mio non maculato, acciò ch'io non sia confusa!" E digiunando due dì o tre de la settimana, pregando Domenedio, sì li raccomandò quello ch'ella temea. Sì che venne la notte ne la quale si doveva ragunare insieme con lo sposo suo segretamente in camera, e parlogli in questo modo: "O dolcissimo e amatissimo giovane, egli è una credenza, la quale io ti voglio manifestare, se tu mi giuri di tenerlo a te con tutta la guardia che potrai". Valeriano giura di non scoprirla per veruna necessitade, né manifestarlo per veruna ragione. Allora quella disse: "Io abbo l'angelo di Dio per mio amatore, il quale guarda il corpo mio molto gelosamente. Se questi sentisse che tu pure leggiermente mi toccassi con sozzo amore, incontanente ti fedirebbe, e perderesti il fiore de la tua castitade gioventudine; ma se saprà che tu m'ami di sincero amore, così amerà te, come me, e mostreratti la grazia sua". Allora Valeriano corretto per volontà di Dio, sì disse: "Se tu vuoli ch'io ti creda, mostrami l'angelo, e se io troverrò che sia l'angelo, farò quello che tu mi conforti; ma s'io saprò che tu ami altro uomo, io fedirò col coltello te e lui". Al quale disse Cicilia: "Se tu crederrai in Dio vero e lasceratti battezzare, tu lo potrai vedere. Or va tre miglia fuori di Roma, per la via che si chiama Appia, e dirai a' poveri che tu vi troverrai: "Cicilia mi manda a voi, perché voi mi mostriate il santo vecchio Urbano, al quale io abbo a dire certi comandamenti che mi sono fatti". Quando tu vedrai costui, dilli tutte le parole mie, e da che tu sarai purificato da lui e sarai tornato qua, tu vedrai l'angelo ch'io t'ho detto". Allora Valeriano andò e, secondo il segno ch'avea ricevuto, trovò santo Urbano appiattato tra li avelli de' martiri. Allora gli disse tutte le parole di Cicilia, ed egli levando le mani al cielo disse con lagrime: "Messere Jesù Cristo, seminatore di casti consigli, ricevi i frutti del seme, il quale tu seminasti in Cicilia, Signore Jesù Cristo, pastore buono; Cecilia tua servigiale ti serve come ape argomentosa; però che lo sposo, lo quale ella prese a sé, sì l'ha mandato qua come fosse mansuetissimo agnello a te, lo quale solea essere così feroce leone". Ed eccoti subitamente apparire un vecchio vestito di bianco, e tenea un libro in mano scritto di lettere d'oro; e veggendolo Valeriano per la grande paura cadde in terra come morto e, levato da quello vecchio, lesse in quel libro così: "Uno Dio, una fede, un battesimo; uno Dio e padre di tutti, il qual è sopra tutti e per tutti e in tutti noi". E quando ebbe letto questo, disse a lui il vecchio: "Credi tu che sia così, o dubiti tu ancora?" Allora Valeriano gridò e disse: "Non è altra cosa sotto il cielo, che si possa credere che sia più vera". Incontanente che quelli fu disparito, Valeriano ricevette il battesimo di santo Urbano e, tornando lui, trovò santa Cicilia, che parlava con l'angelo entro la camera. E avea l'angelo due corone in mano di rose e di gigli, e l'una diede a santa Cicilia, e l'altra diede a Valeriano, così dicendo: "Guardate queste corone col cuore non macchiato, e col corpo netto, però ch'io le vi reco del paradiso, né mai non infracideranno, né non perderanno l'odore, né altri le potrà vedere se non a cui piacesse la castità. E tu, Valeriano, perché hai creduto a l'utile consiglio, domanda ciò che tu vuogli, e l'avrai". E Valeriano li disse: "Nulla cosa è a me più dolce in questa vita, che un solo disiderio del mio fratello, sì ch'io adomando ched elli conosca meco la verità". Al quale disse l'angelo: "A Domenedio piace la petizione tua, e ambedue verrete a Domenedio con vettoria di martirio". Dopo queste cose entrando Tiburzio, fratello di Valeriano, ne la camera, e sentendo molto odore di rose e di gigli, disse così: "Io mi do gran maraviglia donde vegna testeso, in questo tempo, questo odore di rose e di gigli. Ché s'io l'avessi in mano queste rose e questi gigli, non so che mi si potessono rendere più odoramento di suavitade. Io vi confesso ch'io sono sì sazio, che io penso d'essere me tutto mutato". Al quale disse Valeriano: "Noi abbiamo corone, le quali i tuoi occhi non possono vedere, che sono verdicanti di colore fiorito e di bianchezza di neve, e sì come tu per mio tramezzamento tu hai sentito l'odore, così se tu crederrai, sì le potrai vedere". Al quale Tiburzio disse: "Odo io queste cose in sogno, o in veritade? Parlimi tu queste cose da davvero, Valeriano?" E Valeriano disse: "Infino a qui avemo noi sognato, ma tu sarai ora in verità". Tiburzio disse: "Onde sai tu questo?" Disse Valeriano: "L'angelo di Dio il m'ha insegnato, lo quale tu potrai vedere, se tu ti purificherai e rinunzierai a tutti gl'idoli". A questo miracolo de le corone de le rose dà testimonianza santo Ambruogio nel Profazio, così dicendo: "Santa Cicilia così fu ripiena d'odore, che ricevette vittoria di martirio, abbandonando il mondo con la camera. Testimonio ne è la provocata confessione di Valeriano, suo sposo, e quella di Tiburzio, i quali tu, Signore, incoronasti, per mano d'angelo, di fiori odoriferi. La vergine menòe gli uomini a la gloria, il mondo cognobbe quanto vaglia la devozione de la castitade". Insino qui dice santo Ambruogio. Allora santa Cicilia gli disse apertamente che tutti l'idoli sono sanza sentimento e mutoli, sì che Tiburzio rispuose, e disse: "Chi questo non crede, sì è pecora". Allora santa Cecilia basciandolo, sì li disse: "O carissimo mio, oggi confesso io che tu se' mio cognato, ché come l'amore di Dio fece il tuo fratello mio marito, così lo spregiamento de l'idoli ti fa mio cognato. Va dunque col fratello tuo, acciò che tu riceva la purificazione, e possi vedere i volti de gli angeli". Disse Tiburzio al fratello suo: "Io ti scongiuro, fratello mio, che tu mi dichi a cui tu mi dei menare". Valeriano disse: "Ad Urbano vescovo". Disse Tiburzio: "Di' tu quello Urbano, ch'è stato condannato cotante volte, e ancora si va pur nascondendo? Se questi si lascerà trovare, elli sarà arso, e noi saremo involti con lui insieme ne le sue fiamme; e cercando noi la divinitade, che sta nascosa in cielo, cadremo nel furore ardente in terra". Al quale rispuose santa Cicilia: "Se fosse pur questa vita e non altra, giustamente temeremo di perderla, ma è un'altra migliore che questa, la quale non si perde mai, la quale ci predicò il figliuolo di Dio. Tutte le cose che fatte sono, fece il Figliuolo generato dal Padre, a tutte le cose che sono composte diede vita lo Spirito procedente dal Padre e dal Figliuolo; sì che questo figlio di Dio, vegnendo nel mondo, mostrocci per parole e per miracoli ch'egli era altra vita". A la quale disse Tiburzio: "Certamente affermi ch'egli è uno Dio, or come di' tu aguale che sono tre?" Rispuose Cecilia: "Secondamente che in una anima de l'uomo sono tre cose, cioè ingegno, memoria ed intelletto, così possono essere tre persone in una deitade di essenzia". Allora gli cominciò a predicare de l'avvenimento del figliuolo di Dio, e mostrare molte convegnenze de la sua passione; e disse così: "Il figliuolo di Dio fu preso, acciò che l'umana natura, tenuta dal peccato, fosse lasciata; il benedetto fu maladetto, acciò che l'uomo maladetto avesse la benedizione; sostenne d'essere ischernito, acciò che l'uomo fosse liberato da lo schernimento de le demonia; ricevette la corona de le spine in capo per torre da noi la sentenzia del capo; prese il fielo amaro per sanare il dolce assaggiamento de l'uomo; fu spogliato per ricoprire la nuditade de' primi nostri parenti; fue impiccato nel legno per torre via il trapassamento del legno". Allora Tiburzio disse al fratello suo: "Mercè per Dio, menami a l'uomo di Dio acciò ch'io riceva purificamento". Condotto e purificato, vedea spesso gli angeli di Dio e avea tutto ciò che domandava. Adunque Valeriano e Tiburzio soprestavano a fare limosine e metteano in sepoltura i corpi de' santi, i quali Almachio perfetto uccidea. Allora Almachio, prefetto, li fece venire innanzi, e domandolli per che cagione elli metteano in sepoltura coloro ch'erano stati condannati per le loro fellonie. Al quale disse Tiburzio: "Volesselo Iddio che noi fossimo servi di coloro, che tu appelli dannati! I quali spregiaro quello che pare che sia e non è, e trovato hanno quello che non pare che sia, ed è". Al quale disse il prefetto: "Che cosa è quello?" Disse Tiburzio: "Quello che pare che sia e non è, è ciò che nel mondo è, che mena l'uomo a non essere; ma quel che non pare che sia ed è, è la vita de' santi, e la pena de' peccatori". Disse il prefetto: "Non credo che tu dica queste cose da te, con la mente tua". Allora comandò che fosse menato Valeriano innanzi a sé, e disse a lui: "Questo tuo fratello mi pare abbia il capo non sano, almeno tu potrai dare savia risposta; manifesta cosa è che voi errate molto, che rifiutate l'allegrezze, e disiderate tutto quello che è nimichevole a l'allegrezze". Allora Valeriano disse ch'aveva veduto a tempo di ghiaccio uomini oziosi, che si trastullavano e faceansi beffe di coloro che lavoravano; ma quando venne la state, che menava i gloriosi frutti de le fatiche, rallegrandosi coloro ch'altri pensava che fossero vani, cominciarono a piagnere coloro ch'altri pensava che fossero cortesi. Così è di noi che sostegnamo ora vergogna e fatica, e' verrà tempo che noi riceveremo gloria e merito eternale. Ma voi avete al presente allegrezza passatoria, verrà tempo che voi troverrete morte eternale. Al quale disse il prefetto: "Adunque noi, prencipi che non possiamo essere vinti, avremo pianto eternale, e voi, persone vilissime, possedrete la eternale allegrezza?" Allora disse Valeriano: "Voi siete uomini di bassa mano, non principi, e siete nati al nostro tempo, che tosto dovete morire, e rendere ragione a Domenedio più ch'altri". E 'l prefetto disse: "Perché stiamo noi in tante parole? Offerete i sagrifici a li Dei, e partitevi da noi sanza danno". E' santi rispuosono: "Noi sagrifichiamo tuttavia a Domenedio verace". E 'l prefetto disse: "Come ha elli nome?" Valeriano disse: "Il nome suo non potrai tu trovare, se tu volassi con penne". E 'l prefetto disse: "Dunque non è Jupiter nome di Dio?" Disse Valeriano: "Egli è nome di micidiale e di lussurioso". Disse Almachio: "Dunque è a errore tutto il mondo, e tu e 'l fratello conoscete il vero Dio?" Valeriano rispuose: "Noi non siamo soli, ma innumerabile moltitudine ha ricevuto questa santitade". Furono dunque dati in guardia a Massimo. A i quali elli disse: "O gioventudine, fiore porporino; o affetto di fratelli carnali, come andate voi tosto a la morte, che pare che voi andiate a nozze?" Al quale Valeriano disse che s'elli li promettesse di credere, elli vedrebbe la gloria de l'anime loro dopo la morte. Disse Massimo: "Saetta mortale mi vegna, s'io non confesso quello Dio solamente che voi adorate, s'elli avviene quello che voi dite". Sì che Massimo e tutta la sua famiglia e tutt'i giustizieri, credettoro e furono battezzati da santo Urbano, il quale venne là nascosamente. Quando fu venuta l'aurora del dì e passata la notte, santa Cecilia gridòe, e disse: "Confortatevi, cavalieri di Cristo, cacciate da voi l'opere de le tenebre, e vestitevi del signore Jesù Cristo, e de l'arme de la luce". Sì che i santi furono menati cinque miglia fuori di Roma a la statua di Jove, e non vogliendo sagrificare furono dicollati. Allora Massimo affermò con giuramento che, ne l'ora de la passione loro, vidde angeli risplendienti, e l'anime de' martiri uscire de' corpi come vergini de la camera, le quali gli angeli portavano in cielo nel grembo loro quelle anime. Udendo Almachio che Massimo era fatto cristiano, tanto il fece battere con piombati, mentre che l'anima fu uscita del corpo. E santa Cecilia seppellì il corpo di costui a lato a Valeriano e a Tiburzio. Allora Almachio incominciò a fare inquisizione de le possessioni d'ambedue, e fecesi stare innanzi Cecilia, come moglie di Valeriano, e comandolle o ched ella sagrificasse a l'idoli, od ella prendesse la sentenzia de la morte. Essendo costretta a ciò fare, e piagnendo forte coloro di ciò ch'una fanciulla così bella e nobile si metta innanzi a la morte, disse a loro: "O buoni giovani, questo non è perdere la gioventudine, ma mutare: dare loto e ricevere oro, dare vili abitazioni e riceverla preziosa, dare un piccolo cantoncello e ricevere una piazza risplendiente. Chi dovesse ricevere per ogne danaio soldo, or non correreste voi tosto là? Domenedio rende per un cento. Credete voi a quello ch'io dico?" Rispuosero coloro: "Noi crediamo che Cristo è verace, il quale possiede una cotale servigiale". Mandato dunque per santo Urbano papa, furonne battezzati CCCC, o più. Allora Almachio chiamò santa Cecilia e disse a lei: "Di che condizione se' tu?" Quella rispuose: "Io sono gentile e nobile". Disse Almachio: "Io ti domando: che fede è la tua?" Rispuose santa Cecilia: "La tua dimanda prende stolto principio, che credi che due risposte si conchiudano sotto una adomandazione". A la quale disse Almachio: "Onde hai tu tanta prosunzione di rispondere così?" Quella rispuose: "Abbola di coscienzia buona, e da fede none infinta". Almachio disse: "Non sai tu che potenzia è la mia?" Quella rispuose: "La vostra potenzia è quasi com' una vescica piena di vento, la quale se tu pugnessi con l'ago, immantanente raggrinza e impallidisce, e torna in neente tutto ciò che v'era dentro". Almachio disse: "Da ingiurie cominciasti, e in ingiurie perseveri". Rispuose santa Cecilia: "Ingiuria non è detta se non quella quando altri inganna con parole; onde s'io abbo parlato falsità veruna, o tu la m'insegna conoscere, o tu correggi te medesimo che di' la calugna, ma noi che sappiamo il nome di Dio, al postutto non lo possiamo negare, però che meglio è a morire beatamente, che a vivere miseramente". Almachio disse: "De! or perché parli tu con cotanta superbia?" Quella rispuose: "Non è superbia, ma fermezza". Almachio disse: "Disavventurata, non sai tu ch'a me è data potenzia di farti viva e morta?" E quella disse: "Io pruovo che tu hai mentito contra verità manifesta, però che tu puoi tollere la vita a' vivi, ma a' morti non la puo' tu dare; sì che se' e servo de la morte e non de la vita". A la quale disse Almachio: "Lascia stare queste pazzie, e sagrifica a li dei". Santa Cecilia rispuose: "Io non so dove tu t'hai perduti gli occhi; quelli che tu chiami dei, noi vedemo che sono pietre; ponvi la mano e appara, toccando quello che tu non puoti vedere con gli occhi". Almachio allora, adirato, comandò ch'ella fosse rimenata a casa, e comandò che fosse abbrusciata tutto un die e una notte in uno bagno bogliente. E quella vi stette entro come in un luogo freddo, né non sentìo un poco di sudore. Udendo ciò Almachio, fecela dicapitare. E 'l giustiziere le diè tre colpi, ma non le poté mozzare il capo, ma perché era statuto che 'l quarto colpo non si dovesse dare a neuno, il giustiziere la lasciò mezza morta. E quella sopravvivendo tre dì, tutto ciò che avea, diede a' poveri, e tutti coloro ch'ella avea convertiti a la fede raccomandò a santo Urbano papa, così dicendo: "Io impetrai da Domenedio indugio tre dì per raccomandare costoro a la tua benedizione, e perché tu consegrassi in chiesa questa mia casa". E santo Urbano seppellìo il corpo suo tra ' vescovi, e consegròe in chiesa la casa sua, com'ella il n'avea pregato. Martirizzata fue intorno a gli anni Domini CCXXIII al tempo d'Alessandro imperadore. Altrove anche si legge che martirizzata fosse al tempo di Marco Aurelio, che regnòe intorno a gli anni Domini CCXX.
cap. 165, S. ClementeLa sua vita puose elli medesimo nel suo Itinerario, cioè un libro ched e' fece, massimamente infino a quello luogo ove si mostra in che modo soccedette a san Piero nel papato. L'altre cose si prendono de l'opere sue, come si fanno comunemente. Clemente vescovo nacque di nobile schiatta di romani. Il padre ebbe nome Faustiniano, e la madre Macidiana, ed ebbe due fratelli, l'uno ebbe nome Faustino e l'altro Fausto. Essendo dunque la madre maravigliosamente bella del corpo, il fratello del marito suo fu preso da lei di mal amore. E dandole molta briga ogne die ed ella non assentendo a lui per veruna maniera di mondo, temendosi ancora di manifestarlo al marito suo, acciò che non mettesse nimistà tra ' due fratelli, pensossi di stare alcun tempo ispartita da la città, tanto che quello mal amore cessasse via, il quale per lo sguardo de la sua presenzia s'accendea. Ma acciò che avesse dal marito suo la parola di ciò, infinsesi saviamente d'avere sognato un così fatto sogno, e disse al marito: "Un Domenedio m'è apparito in visione, e hammi detto ch'io mi parta quinci con due vostri fanciulli binati, cioè con Faustino e con Fausto, e vadamene fuori di Roma, e tanto ne stea fuori, che mi comandi ch'io torni e, s'io nol facessi, disse ch'io morrei con tutti insieme". Udendo ciò il marito ebbe grande paura, e mandò la moglie con i figliuoli ch'ella avea detto, e con molta famiglia, infino ad Atenia per dimorare là, e per fare ammaestrare là i figliuoli, e ritenersi per suo sollazzo il figliuolo minore, cioè Clemente, il quale avea V anni. Navicando la madre con gli figliuoli, la nave per fortuna si ruppe una notte, e la madre fu gittata da l'onde sanza i suoi figliuoli, e campòe sopra un gran sasso; e pensando che i suoi figliuoli fossono periti in mare, per lo gran dolore ch'ebbe, gittata si sarebbe nel profondo del mare, se non ch'ella avea alcuna speranza di ritrovare almeno i corpi morti. Ma poi che conobbe che non gli potea rinvenire né vivi, né morti, metteva grandi strida con pianto, e mordevasi tutte le mani, né non era veruno che la potesse punto consolare. E standosi con lei molte femmine, le quali cantavano a lei di loro disavventure, ebbevi una femmina fra l'altre che disse d'un suo marito giovane e nocchiere, il quale era perito in mare, e come giammai per suo amore non si era voluta rimaritare. Sì che ricevendone alcuna consolazione, stavasi con lei insieme, e guadagnavasi la vita sua con le sue mani. None stette guari tempo che le mani ch'ella s'avea cotanto morse, diventarono sì morte e sanza veruno sentimento, che con esse non potea operare nulla. E quella che l'avea ricevuta diventò paralitica e non si potea levare di letto, e così fu costretta Macidiana d'andare mendicando, e di quello ch'ella potea trovare pasceva sé con l'albergatrice sua. Compiuto l'anno che Macidiana si partìo dal paese suo con i figliuoli, mandò il marito suo messaggi ad Atena, che cercassero di loro, e ridicessono a lui quello che faceano. Ma i messi non trovarono e non tornarono a dire nulla. Allora ne mandò anche de' messi, i quali, tornando, dissero che non aveano trovato segno veruno. Allora lasciò stare Clemente, suo figliuolo, sotto tutori, e entrò in nave per andare caendo la moglie con i figliuoli, ma non tornò a casa. Sì che Clemente stette venti anni così vedovo, che non poté sapere nulla né di padre, né di madre, né di fratelli. E diedesi a studiare, e diventò sommo filosofo. E disiderava fortemente, e con grande studio adomandava in che modo gli fosse dimostrato che l'anima fosse immortale; e per questo vicitava spesse volte le scuole de' filosofi, e se alcuna volta alcuna cosa potea comprendere che fosse immortale, sì se ne allegrava, e s'alcuna volta si conchiudesse che fosse mortale, sì si partiva tristo. Finalmente tornando a Roma san Barnaba, e predicando la fede di Cristo, i filosofi lo schernivano come pazzo e sanza mente. Onde un filosofo, il quale dicono alcuni che fu Clemente, schernendo la predicazione di san Barnaba, come gli altri filosofi, sì li fece una così fatta quistione: "Dimmi perché la zanzara, che è così piccolo animale, hae sei piedi e alie, ma il leofante, ch'è così grande animale, non hae se non quattro piedi ed è sanza alie?" Al quale disse san Barnaba: "A la tua matta quistione potrei agevolemente rispondere, se mi paresse che tu mi domandassi per cagione d'apprendere la veritade; ma egli è una mattezza a parlare noi de le creature, non conoscendo il loro creatore; ma perché voi non conosciate il criatore, ragionevole cosa è che voi erriate ne le creature". Questa parola s'appiccòe in tal maniera al cuore di Clemente filosafo che, faccendosi ammaestrare de la fede a san Barnaba, sì la ricevette, e poi se n'andò in Giudea a san Piero, ed egli l'ammaestrò anche de la fede di Cristo, e mostrogli apertamente come l'anima è immortale. In quel tempo Simone mago avea due discepoli, cioè Aquila e Niceta, i quali conoscendo la fallace del loro maestro, sì l'abbandonarono, e fuggirono a san Piero, e diventarono suoi discepoli. Ma domandando san Piero Clemente di sua generazione, sì li disse ciò ch'era intervenuto, tutto per ordine, al padre e a la madre e a' fratelli, dicendo come credea che la madre fosse perita con i fratelli nel mare, e che 'l padre era perito o per tristizia o per rompimento di nave. Udendo ciò san Piero non poté ritenere le lagrime. Una volta venne san Piero con i discepoli suoi ad Autadro, e di poi di lungi sei milia ne l'isola, dove dimorava Macidiana, madre di Clemente, nel quale luogo avea colonne di vetro molto grandi. E dimorando là san Piero con gli altri, e veggendola andare mendicando, sì la riprese perch'ella non lavorava anzi con le sue mani. E quella rispuose: "Messere mio, io abbo solamente la figura de le mani, le quali sono indebolite per li morsi miei, che al tutto sono diventate sanza sentimento; ch'or volesse Iddio ch'io mi fossi gittata entro nel mare, anzi ch'io fossi più vivuta!" E san Piero le disse: "Che è quello che tu di'? Non sai tu che l'anime di coloro che s'uccidono sono gravemente punite?" E quella rispuose: "Dio il volesse ch'io fossi certa che l'anime vivessono dopo la morte! Volentieri m'ucciderei, acciò ch'almeno per un'ora potessi vedere i dolci miei figliuoli!". E domandandola san Piero per quale cagione avesse cotanta tristizia, quand'ella gli ebbe detto per ordine tutto il fatto, san Piero disse: "Egli è qui con noi un giovane c'ha nome Clemente, che tutto ciò che tu hai detto dice ch'addivenne a la madre e a' fratelli". Quella udendo ciò, fu percossa da tanto stupore che cadde in terra, e poi che fu tornata in se medesima, con lagrime disse: "Io sono la madre del giovane". E gittandosi a' piedi di san Piero, cominciollo a pregare che gli piacesse dimostragliele tosto il figliuolo suo. A la quale disse san Piero: "Quando tu vedrai il giovane, infigniti un poco, tanto che noi usciamo de l'isola con la nave". E quand'ella ebbe promesso di ciò fare, tegnendole san Piero la mano, sì la menava a la nave, là dove era Clemente. Veggendo Clemente che san Piero menava la femmina per mano, incominciò a ridere. Sì tosto come la femmina fue presso a Clemente non si poté tenere, ma tosto l'abbracciò e baciòe; e baciandolo tutto quanto, e quegli la cacciava con ira da sé, come femmina impazzata, ed era mosso da non piccola indignazione verso san Piero. Al quale san Piero disse: "Che fai tu, figliuolo mio Clemente? Non cacciare via tua madre!" Udendo ciò Clemente, tutto si bagnò di lagrime, e gittossi in terra sopra la madre, che giaceva abbattuta in su la terra, e vidde e cominciolla a riconoscerla. Allora al comandamento di san Piero, fu menata a lui l'albergatrice di costei, la quale giaceva paralitica, e fu liberata incontanente da lui. Allora la madre cominciò a domandare Clemente quello che fosse del padre; e quelli le disse: "Elli venne cercando per te, ma non tornò indietro". Quella udendo ciò sospiròe solamente, però che abbiendo allegrezza del figliuolo ritrovato, racconsolavasi de l'altre tristizie. Infrattanto ritornando Niceta e Aquila, che non v'erano allora presenti, e veggendo una femmina con la moglie di san Piero, missesi a domandare che femmina quella fosse. E Clemente disse loro: "Ella è mia madre, la quale Domenedio m'ha renduta per lo mio segnore san Piero". Dopo questo narrò san Piero a tutti ogne cosa per ordine. Udendo ciò Niceta e Aquila, levansi subitamente e, stupiditi, cominciaronsi a conturbare, così dicendo: "Segnore Domenedio nostro, or è vero quello che noi udiamo, o è sogno?" Allora san Piero ragguardòe a Niceta e Aquila, e disse: "Se noi non siamo ismemorati, queste cose son vere". Allora coloro, stropicciandosi le facce, dissero: "Noi siamo Faustino e Fausto, i quali la nostra madre pensava che fossero periti in mare". E, correndo, si gittarono ad abbracciare la madre loro, e abbracciandola molto spesso e quella disse: "Che vuole questo essere?" E san Piero le disse: "Questi sono i figliuoli tuoi Faustino e Fausto, i quali tu pensavi che fossero periti in mare". Udendo ella queste cose, per la troppa allegrezza divenne isbalordita e cadde a terra. Ritornando poi in se medesima, disse: "Io vi scongiuro, dilettissimi figliuoli miei, che voi mi diciate in che modo voi vi scampaste". E quelli rispuosero: "Quando la nave fu rotta noi ci apponemmo in su una tavola, e vennero ladroni di mare, e puoserci in una loro navicella e, mutandoci le nomora, sì ci venderono a una onesta vedova, la quale avea nome Giustina, e tegnendoci come per suoi figliuoli, sì ci fece ammaestrare de l'arti liberali. Finalmente ci demmo a la filosofia, e accostammoci ad uno Simone mago, il quale era stato nutricato insieme con noi; e poi che noi conoscemmo i suoi inganni, al postutto sì l'abbandonammo e diventammo, per mano di Zaccheo, discepoli di san Piero". Il seguente dì prese san Piero questi tre fratelli Clemente e Niceta e Aquila e discese ad un segreto luogo per istare in orazione. Allora venne un abilissimo massaio, ma era povero, e cominciò a parlare così con loro: "E m'incresce molto di voi, frati miei, ch'io vi veggio così errare gravemente sotto spezie di sanitade, però che non Domenedio, none veruno coltivamento ci è, né provvedenza del mondo, ma l'avventuroso avvenimento e la generazione umana fanno tutte cose secondamente ch'io ho ispiato manifestamente da me medesimo, ammaestrato sopra tutti de la scienzia de lo 'ndovinare. Adunque non vogliate errare, che o preghiate voi o no, così v'inconterrà come ha posto la vostra generazione". Allora Clemente riguardando in colui, sì li tentennava tutto l'animo, e pareali già altre volte veduto. E poi che per comandamento di san Piero ebbero disputato con lui Clemente e Niceta e Aquila, e mostratoli per aperte ragioni com'egli è provvedenza di Dio, poi che per reverenza l'ebbero chiamato più volte padre, disse Aquila: "Non fa mestiere che noi il chiamiamo padre, con ciò sia cosa che noi abbiamo il comandamento di non chiamarti neuno uomo padre sopra la terra". Poi ch'ebbe così detto, puose mente al vecchio e disseli: "Non avere tu per male, padre, ch'io ripresi il fratel mio, che ti chiamava padre, però che noi abbiamo in comandamento di non chiamare persona per così fatto nome". Quando Aquila ebbe ciò ditto, rise tutta la gente che era ivi presente, insieme col vecchio e con san Piero. E dimandando lui perché avessono riso, disse Clemente a lui: "Noi ridiamo perché tu fai quello onde tu riprendi altrui, che chiami il vecchio padre". Quegli il disdiceva così dicendo: "Certo io non so s'io il mi chiamai padre". Sì che poi che fu molto disputato de la provvedenza, disse il vecchio: "Certo io crederrei bene che provvedenza fosse, ma la coscienzia mia diniega di consentire a questa fede, però ch'io sappo bene la generazione di me e de la moglie mia, e so quello che la generazione dettava che dovesse intervenire a catuno di noi. Udite dunque la materia de la moglie mia, e troverete che, uscita ell'ebbe la sua costellazione, sì fue Marte con la stella Diana sopra il centro, e la luna nel tramontare in casa di Marte e ne' confini di Saturno; la quale costellazione fa le persone avoltere, e amare i propii servi, e pellegrinando morire in acqua; e così intervenne ch'ella cadde in amore di servo e, temendone pericolo, con vergogna fuggissi con lui, e perìo in mare. Ché come mi disse il fratel mio, ella amòe prima lui, ma non volendole acconsentire, ella ritorse l'amore de la sua lussuria nel propio servo, e non l'è da imputare ciò in peccato, però che la generazione la costrinse a fare ciò". E disse com'ella s'era infinta d'avere sognato e come, andando ad Atena con i figliuoli suoi, perìo in mare per rompimento. E volendo i figliuoli gittarsi addosso a lui, e aprire il fatto, dinegolli san Piero così dicendo: "Posate infino a tanto che a me piacerà". E disse san Piero al vecchio: "Se io ti rassegno in questo dì d'oggi la donna tua castissima con tre figliuoli, crederrai tu che la generazione sia neente?" E quelli rispuose: "Sì come egli è impossibile fuor da te di darmi quel che tu hai promesso, così è impossibile che fuor di generazione fare alcuna cosa". Disse san Piero: "Or ecco questi è il figliuolo tuo Clemente, e questi sono li due tuoi figliuoli binati: Faustino e Fausto". Allora il vecchio venne tutto quasi meno, e cadde, e fu fatto quasi come sanza anima. E gli figliuoli gittandosi verso lui sì 'l baciavano, temendosi che non potesse ritrarre lo spirito. Finalmente ritornando in sé, intese tutto per ordine ciò ch'era intervenuto. Allora venne di subito la moglie, e con lagrime cominciò a gridare: "Ov'è il marito mio e 'l signore mio?" Gridando ella queste cose come ismemorata, il vecchio corse a lei, e con lagrime molte la cominciò ad abbracciare ed a strignere. E mentre che si stavano così insieme, venne un messaggio, e disse che Apione e Ambione, grandissimi amici di Faustiniano, erano ad albergo con Simone mago. De la qualcosa Faustiniano rallegrato molto, andò a vicitarli; ed eccoti venire il messo de lo 'mperadore, e disse che 'l ministro de lo 'mperadore era venuto per cercare in Antiochia per tutt' i magi, per dannarli a la morte. Allora Simone mago, per odio di figliuoli di Faustiniano, i quali l'aveano abbandonato, per arte diede la simiglianza del volto suo ne la faccia di Faustiniano, acciò che tutti credessono che non fosse Faustiniano, ma Simone mago. E questo fece acciò che fosse preso da' ministri de lo 'mperadore, e fosse morto in suo luogo. E Simone si partìo di quelle contrade. Quando Faustiniano fu ritornato a san Piero e a i figliuoli, i figliuol si spaventaro tutti riguardando in lui la faccia di Simone, ma udendo la voce del padre loro. Solo san Piero era colui che vedea in lui il volto naturale. E fuggendo da lui la moglie e 'l figliuolo, e avendo in abbominio, diceva a loro: "Perché avete voi in abbominio e fuggite il padre vostro?" E quelli rispuosero che per ciò si fuggivano, perché in lui appariva il volto di Simon mago. Però che Simone avea lavorato un unguento, e unsene la faccia di colui, e per arte magica diedeli la simiglianza del suo volto sì che quelli se ne lamentava e diceva: "Che è quello che m'è incontrato a me misero, che un die riconosciutomi con mogliama e con figliuolmi, non mi sono potuto rallegrare con loro?" Allora la moglie, tutta iscapigliata, e i figliuoli piangevano dirottamente. Simone mago quando era in Antiochia avea infamato molto san Piero, e diceva ch'egli era un mago malfattore e un micidiale. Finalmente tanta commozione avea messa nel popolo incontra san Piero, ch'elli aveano grande disiderio di trovarlo per manicarli le carni d'addosso co' denti. Disse dunque san Piero a Faustiano: "Imperò che pare che tu sii Simone mago, vattene in Antiochia, e dinanzi a tutto il popolo mi scusa, e quelle cose che Simone ha dette di me, tu, in sua persona, le frastorna; poscia che tu l'avrai fatto, io ne verrò ad Antiochia, e questo volto istranio da te sì 'l caccerò via, e renderotti il tuo propio". Ma pertanto in verun modo è da credere questo che san Piero li comandasse ched elli mentisse, con ciò sia cosa che Domenedio non abbia bisogno di nostra bugia. E però l'Itinerario di Clemente, là dove queste cose sono iscritte, non è autentico, né da ricevere in così fatte cose. Ma bene si puote elli dire, se l'uomo considera bene le parole di san Piero, elli non li disse che dicesse che fosse Simone mago, ma che mostrasse al popolo la simiglianza del volto di colui soprapposta nel suo, e in persona di Simone commendasse san Piero, e ritrattasse quello ch'avea mal detto di lui. E quelli disse ched era Simone non quanto a la verità, ma quanto a la simiglianza e a la paruta, onde quel ch'a Faustiniano dirà qui disotto: "Io sono Simone" e l'altre cose, deansi pigliare: "Cioè, quanto a la paruta, paio ch'io sia Simone". Fue adunque Simone, cioè pensativo. Sì che n'andò Faustiniano, padre di Clemente, ad Antiochia, e chiamando a sé tutto il popolo, sì disse: "Io Simone v'annunzio e confesso ch'io v'ho fallato ogne cosa di san Piero, che non è ingannatore, ovvero mago, ma è mandato a salute del mondo. Per la qualcosa s'io vi dico più nulla di lui da quinci innanzi contra lui, cacciatemi pure via come malfattore e ingannatore; e ora ne fo penitenzia, perch'io conosco ch'io dissi male. E ammonisco voi che crediate in lui, acciò che voi ne la città vostra periate insiememente. E quando ebbe compiuto di dire tutto quello che san Piero gli avea detto, e fattolo venire in amore del popolo, san Piero venne a lui e, fatta l'orazione, cacciò via da lui la simiglianza del volto di Simone, e 'l popolo d'Antiochia il ricevette benignamente e puoselo in su la caffera. Udendo ciò Simone andò là e, chiamato ch'ebbe 'l popolo, sì disse: "Io mi do grande maraviglia che, con ciò sia cosa ch'io vi dessi salutevoli comandamenti e ammunissevi di guardarvi da lo ingannatore Piero, voi non solamente l'avete udito, ma avetelo innalzato in caffera vescovile". Allora si mossero tutti a furore contra di lui e dissero: "Tu ci pari un contraffatto uomo, che pure l'altr'ieri ci dicevi ch'avevi fallato, e ora ti sforzi di farci traboccare". E facendo assalto contra lui, con vituperio il cacciarono fuori de la cittade. Tutte queste cose narra di sé san Clemente nel libro suo, e fecene iveritto una storia. Dopo queste cose san Piero, quando fu venuto a Roma, veggendo che s'approssimava la passione sua, ordinò che san Clemente fosse vescovo dopo lui. Sì che morto san Piero, prencipe de li apostoli, Clemente, uomo di Dio, savio e avveduto, volle porre cautela per lo tempo che dovea venire, che a questo essemplo non ardisse neuno di fare successore dopo sé ne la chiesa di Dio, né possedere per retaggio il santo luogo di Dio, diede luogo a Lino, e poscia a Cleto. Dopo costoro fue eletto san Clemente, e costretto di sedere in quella sedia. Il quale avea tanto isplendienti costumi che ne piaceva al popolo di giudei, e a quello de' pagani, e a' cristiani. I poveri de le contrade aveva tutti scritti per nome, e coloro cui elli avea mondati per lo battesimo non gli lasciava palesemente andare mendicando. Sì che quando ebbe consegrata e velata per vergine Domitilla, nepote di Domiziano imperatore, e avendo convertita a la fede Teodora, moglie di Sisinnio, amico de lo 'mperadore, promettendo ella di stare in proponimento di castitade, a Sisinnio ne venne molta gelosia, e entrò una volta ne la chiesa dietro a la sua moglie nascosamente, e vogliendo sapere la cagione perch'ella v'entrasse così spessamente. Sì che, poi che l'orazione fu fatta da san Clemente, e risposto dal popolo, allora Sisinnio diventòe cieco e sordo; il quale disse immantanente a i figliuoli suoi: "Levatemi quinci tosto, e gittatemene fuori". I fanciulli laudavano gridando per tutta la chiesa e girando, ma non potevano capitare a l'uscio. Quando Teodora gli ebbe veduti così andare errando, primieramente si cansòe da loro per paura che 'l marito non la conoscesse; e veggendo poi che pur così andavano, domandò che questo fosse. E quelli dissero: "Il signore nostro da che vuole udire e vedere quello che non gli è licito, è diventato sordo e cieco". Allora quella si diede a l'orazione, pregando Iddio che 'l marito potesse uscire fuori e, dopo l'orazione, disse a' servi suoi: "Andate ora, e menatene il signore vostro a casa". Quand'elli se ne furono partiti, Teodora disse il fatto a san Clemente, com'era intervenuto. Allora il santo, a priego di Teodora, venne a lui, e trovollo che avea aperti gli occhi e non vedea nulla e non udiva nulla. Quando san Clemente ebbe orato a Domenedio, e quelli ebbe riavuto il vedere e l'udire, veggendo stare san Clemente a lato a la moglie, diventòe fuor di sé, e pensavasi essere beffato per arte di magi, e comandò a' servi suoi che tenessono Clemente, dicendo così a loro: "Per entrare costui a la donna mia, sì m'accecòe per arte magica". E comandò a' servi che 'l legassero e, così legato, lo trascinassero. E coloro legavano le colonne e ' sassi, e parea a Sisinnio che legassero e trascinassero san Clemente co' cherici suoi. Allora san Clemente disse a Sisinnio: "Perché tu di' de' sassi Domenedii, degna cosa è che tu trani sassi". Quegli credendo veramente che Clemente fosse legato, sì li disse: "Io ti farò uccidere". E partendosi quindi Clemente pregòe Teodora che non cessasse d'orare infino a tanto che il Signore vicitasse il marito suo. Sì che orando Teodora, san Piero apostolo l'apparve, così dicendo: "Per te si salverà il marito tuo, acciò sia adempiuta la parola che disse il mio fratello Paulo: "Sarà salvato il marito infedele per la femmina fedele". E poi che ebbe così detto, sì si partìo. Incontanente chiamò Sisinnio la moglie, pregandola che adorasse per lui e chiamasse a sé san Clemente. Il quale essendo venuto, sì l'ammaestrò de la fede, e battezzòe Sisinnio con CCCXIII persone di casa sua. E per questo Sisinnio e molti amici e nobili di Nerva imperadore credettoro in Domenedio. Allora il conte de le sagre diede molta pecunia a diverse persone, e levò un grande romore di popolo addosso a san Clemente. Allora Mamertino, prefetto di Roma, non comportando il commovimento del popolo, fecesi menare san Clemente; e riprendendolo per volerlo inchinare a sé, quelli rispuose: "Io abbo grande disiderio di stare teco a ragione che, se molti cani latrassono contra di noi e tutti ci amorsecchiassero, or posson ellino torre che noi siamo uomini ragionevoli, e ellino cani sanza ragione? issevamento di romore che nasce da le matte persone mostra che non abbia né certezza, né verità". Allora Mamertino, scrivendo di lui a Traiano imperadore, ebbe la risposta che ellino il facesse sagrificare a l'idoli, od elli il facesse trasportare nel diserto ch'è accostato a la città, od elli il mandasse a' confini in Tersona. Allora il prefetto disse a san Clemente con lagrime: "Il Domenedio tuo, che tu puramente adori, ti sia in aiuto!" E apparecchiogli la nave e ciò che li facea mestiere, molti cherici e molti laidici gli tennero dietro a confine. E giunto che fue ne l'isola, sì vi trovò più di du' milia cristiani condannati, già gran tempo erano a segare i marmi; i quali, veggendo san Clemente, incontanente si diedero a pianto ed a lagrime. Ed egli consolandogli disse a loro: "Non m'ha mandato qua il Signore a voi per li miei meriti ad essere fatto parzonevole de la corona vostra". E poi ch'ebbe saputo da loro com'eglino recavano l'acqua da bere sei miglia da lungi in sul collo, disse a loro: "Preghiamo tutti Jesù Cristo che a' suoi confessatori apra una vena d'acqua in questo luogo, e quegli il quale percosse la pietra nel monte Sinai, e scorsero l'acque in abbondanzia, che ci dea acqua abbondevole, acciò che noi ci allegriamo de' suoi benefici". E quando ebbe compiuta l'orazione, ragguardò qua e là, e ebbe veduto uno agnello [ms.: angelo] che stava col piede diritto levato, che mostrava quasi un luogo al vescovo. E intendendo ch'egli era Gesù Cristo, lo quale elli solamente vedea, andò a quel luogo e disse: "Al nome del Padre e del Figliuolo e de lo Spirito Santo, percotete in questo luogo". Ma non toccando veruno colà dove l'agnello [ms.: angelo] era stato, egli, in sua persona, prese uno marruccio, e diede una piccola percossa nel luogo sotto il piede de l'agnello [ms.: angelo], e incontanente n'uscì fuori una grande fontana d'acqua, e crebbe tanto che si fece un fiume. Allora rallegrandosi tutti, san Clemente disse: "L'impeto del fiume rallegra la città di Dio". A questa nominanza trassono molte persone, e furonne battezzati in uno die cinquecento e più, distruggendo le chiese de l'idoli per tutta la provincia infra uno anno, e fecero LXXV chiese ad onore de la fede cristiana. Dopo tre anni Traiano, che aveva cominciato a governare l'anno Domini CVI, udendo queste cose, mandovvi là un capitano, il quale vedendogli morire tutti lietamente, diede luogo a la moltitudine, e solo Clemente fece gittare in mare, legandoli un'ancora a collo, così dicendo: "Già non potranno costoro adorare costui per loro Domenedio". Sì che stando tutta la moltitudine a la spiaggia del mare, Cornelio e Febo, suoi discepoli, e anche gli altri, cominciarono ad orare a Domenedio che mostrasse loro il corpo del suo martire. Incontanente tornando indietro il mare tre miglia, entrandovi tutti per secco, trovaronvi una abitazione fatta a modo di tempio di marmo, apparecchiato da Dio, e ivi in una arca il corpo di san Clemente, e l'ancora a lato a lui. Ed ebbero rivelazione i discepoli che non levassero quindi il corpo suo. Ma ogni anno al tempo de la sua passione, per sette dì torna il mare indietro tre miglia, e dàe a' viandanti viaggio per secco. In una festa venne una femmina al detto luogo con uno suo fanciullo piccolino; e, compiuta la solennitade de la festa, dormendo il fanciullo, venne subitamente un suono d'acqua ondeggiante, e la donna spaventata e dimenticandosi del suo figliuolo con tutta l'altra moltitudine fuggìo a la riva. La quale ricordandosi poi del figliuolo, piagnea con grandissimi guai, e mettea strida di lamento insino al cielo, e andando discorrendo per l'isola gridando e urlando, se per avventura ella vedesse il corpo del figliuolo, gittandolo fuori l'onde marine; ma vegnendo meno in lei ogne speranza, ritornossi a casa, e tutto quello anno menòe in pianto e in dolore. Sì che compiuto l'anno, aprendosi il mare, entròe innanzi a tutti e venne tostana al luogo, s'ella il potesse rinvenire alcuno segno del suo figliuolo. Essendosi dunque data ad orazione dinanzi a l'avello di san Clemente, levossi e vidde il fanciullo che si dormiva in quello luogo dove la madre l'avea lasciato. E pensando ella che fosse morto, appressimovvisi quasi per ricogliere il corpo morto, ma da che ebbe conosciuto ched elli dormìa, destollo isbrigatamente, e levollosi in collo sano e lieto, mostrandolo al popolo ch'aspettava di vedere quello che ne fosse, e domandarollo dove fosse stato per tutto quello anno. Quegli rispuose che non sapeva se l'anno si fosse passato intero, ma credevasi avere dormito soavemente per una notte. Santo Ambruogio nel Prefazio dice così: "Con ciò sia cosa che 'l niquitoso persecutore affliggesse con pene il beato Clemente, essendone costretto dal diavolo, non gli diede tormento, ma trionfo. Fu gittato il martire ne l'onde marine, acciò che annegasse, e per questo venne al guiderdone, laonde Pietro, suo maestro, pervenne al cielo. Appruova Cristo le menti d'ambedue ne l'onde marine, e reca Clemente del profondo a vettoria di martirio, e nel detto elemento trae Piero al regno del cielo, acciò che non profondasse". Racconta Leo vescovo d'Ostia ch'al tempo che Michele imperadore reggea lo 'mperio de la novella Roma, un prete, ch'avea nome Filosofo, essendo pervenuto a Tersona, adomandato che ebbe gli abitanti di quelle cose che si narravano ne la storia di san Clemente, per ciò ch'egli erano anzi avveniticci che abitanti, dissero che non sapeano nulla. Sì che il miracolo del tornare indietro il mare, era già rimaso per lo peccato de gli abitanti grande temporale, e per l'assalimento de' barberi era stato distrutto il tempio e l'arca col corpo fracassato da l'onde marine. E maravigliando sopra ciò il detto Filosofo, andonne ad una cittadella ch'avea nome Georgia col vescovo e col chericato e col popolo, per cercare per le sante reliquie a quell'isola, dov'elli stimavano essere il corpo del santo martire. Nel quale luogo cavando con l'orazione e con le laude, trovarono il corpo e l'ancora con che era stato gittato in mare, e portarlo a Tersona. E da quel luogo ne venne il detto Filosofo col corpo di san Clemente a Roma e, mostratone molti miracoli, fu riposto onorevolemente il corpo ne la chiesa che si chiama oggi san Clemente. In alcuna Cronica anche si legge che, essicato il mare in quello luogo, il corpo suo fu traslatato a Roma da san Cirillo, vescovo de i Moravi.
cap. 166, S. GrisogonoGrisogono per comandamento di Diocleziano fu rinchiuso in carcere, nel qual luogo era pasciuto de gli elementi di santa Anastasia. E quando il marito il seppe, sì la misse in una strettissima guardia, dond'ella mandò a Grisogono, il quale l'avea ammaestrata, per una scritta così dicendo: "Al santo confessore di Cristo Grisogono, Anastasia. Lasciando me in luogo de lo scomunicato marito ch'io presi, mentendo a lui l'abitazione camerale, per la misericordia di Dio infermata, dì e notte abbraccio le pedate del nostro Signore Jesù Cristo. Consumando questi con peccato e con sozzi idolatri il patrimonio mio, del quale è in grande istato, hammi messa in gravissima pregione, come s'io fosse una maga e una peccatrice palese, e questo ha fatto per allegrarsi ch'io perda la vita temporale. Sì che non m'è rimaso altro se non che mi vegna meno lo spirito e muoia il corpo. Ne la quale morte, avvegnadio ch'io mi glorii, la mente mia n'è molto tribolata, però che le ricchezze mie, le quali io avea donate al Segnore, son consumate da le brutte persone. Sii allegro, servo di Dio, e di me ti sia ricordo". A la quale Grisogono rispuose così: "Or vedi, non ti turbare in ciò, perché vivendo te santamente ti vegnano le cose d'avversitadi, però che tu non se' ingannata, ma provata. Tosto vedrai tempo che ti piacerà e, quasi dopo le tenebre de la notte, vedrai il fiorito lume di Dio, e dopo il freddo del ghiaccio seguiteranno a te tempi chiari e luminosi. Sii allegra nel Signore, e priegalo per me". Finalmente essendo più costretta ne la pregione santa Anastasia, intanto ch'appena l'era dato per die uno quartiere di pane, pensandosi tosto morire, scrisse una pistola così fatta: "Al confessore di Cristo Grisogono, Anastasia manda a dire: La fine viene al corpo, ricorditi di me, acciò che riceva l'anima mia, quand'ella uscirà fuori, quegli per lo cui amore io sostegno queste cose, le quali tu saprai per la bocca di questa vecchierella". A la quale egli mandò così dicendo: "Sempre è questo che le tenebre vanno innanzi al lume, e così dopo la infermità ritorna il sanamento, e la vita è promessa dopo la morte. Ad un fine si conchiudono l'avversitadi e le prosperitadi di questo mondo, acciò che la disperazione non abbia signoria ne i tristi, né la superbia ne gli allegri. Un solo mare è quello nel quale vanno a vela le navicelle de' nostri corpi, e sotto uno governatore del nostro corpo l'anime nostre usano l'officio di nocchiere. Sì che le navi che sono ben fermate e legate con buone tavole, perch'elle sieno spessamente commosse da le tempeste del mare, sanza veruno male se ne passano; ma quelle c'hanno debole congiugnitura di legni eziandio a tempo di bonaccia fanno il loro corso pressimano e la morte. Ma tu, o servigiale di Cristo, strigniti con tutta le mente a la Croce, e apparecchiati al lavorìo di Dio". Sì che Diocleziano essendo ne le parti d'Aquilea, uccidendo tutt' i cristiani, comandò che san Grisogono fosse presentato dinanzi da lui. E dicendo a lui: "Prendi la potenzia de la tua prefettura e 'l consolato de la tua schiatta, e sagrifica a gli dei!" rispuose Grisogono: "Io adoro uno Dio il quale è in cielo, e spregio come fango le tue dignitadi". Sì che fu data la sentenzia sopra lui, e fu menato in alcuno luogo, e tagliatoli la testa intorno a gli anni Domini CCLXXXVII. Il corpo del quale, col capo insieme, seppellito fue da santo Zelo prete.
cap. 167, S. SaturninoSaturnino, ordinato in vescovo da' discepoli de li apostoli, fu mandato a la città di Tolosa. Entrando lui ne la cittade, e cessando le demonia da dare le risponsioni ne gli idoli, uno de' pagani disse che, se non uccidessono Saturnino, da' loro Domenedii non acquisterebbero nulla. Presero dunque Saturnino non vogliendo sagrificare a l'idole, e legandolo a' pie' d'un toro, e stimolandolo con puntigliati, da la sovrana parte de la rocca il fecero traboccare per li gradi del Campidoglio, e in questo modo, col capo isbranato e col cervello sparto, compiette beatamente il suo martirio. E due femmine presero il corpo suo, e ripuoserlo in uno profondo luogo per paura de' pagani; lo quale i suoi successori traslataro poi a più reverente luogo. Fue un altro Saturnino, lo quale il prefetto di Roma avendo lungo tempo macerato in pregione, sì 'l fece levare a la colla e battere fortissimamente con nerbi e con bastoni; a la perfine avendolo inceso ne le latora, fecelo porre a terra, e comandò che fosse dicapitato intorno a gli anni Domini CCLXXXVI sotto Massimiano imperadore. E fue anche uno altro Saturnino ad Africa, fratello di san Satiro, il quale col detto suo fratello, e con Revocato, e con Filicita, serocchia del detto Revocato, e anche con Perpetua, gentilmente nata, sostenne martirio; de i quali si fa festa per altro tempo. Avendo dunque detto il proconsolo a costoro che sagrificassero a li dei, e questi non assentendo per nulla, furono messi in carcere. Udendo ciò il padre di Perpetua, corse piagnendo a la carcere e dicendo: "Figliuola mia, or che hai tu fatto? Or tu hai disonorato la schiatta tua, ché non fu mai veruno del tuo legnaggio messo in pregione". E quand'ebbe inteso ch'ella era cristiana, un grande assalto le volse fare con le dita a gli occhi, e volseglieli cavare, ma pur fece un grande romore, e uscì di prigione. E vidde santa Perpetua una così fatta visione, la quale raccontò a i compagni il seguente die, e disse: "Io viddi una scala d'oro maravigliosamente alta e diritta insino al cielo, ed era sì stretta che non vi potea capere né salire su persona se none uno per volta, e convenìa che fosse piccolino. Da la parte ritta, e da la manca erano confitti coltelli di ferro regolati e arrotati in tal maniera, che colui che montava su per veruno modo non si potea rivolgere né in qua né in là, ma sempre li convenìa stare col capo ritto al cielo. E sotto questa scala giaceva un dragone nerissimo e di gran forma, e ciascuno per la paura temeva di salire. E viddi Satiro montare per essa infino suso, e puoseci mente e disseci a noi: "Non temiate, voi, questo dragone, ma salite suso sicuramente, acciò che voi possiate stare sicuri". Udendo tutti queste cose rendettero grazie a Domenedio, però che conobbero sé essere chiamati al martirio. Essendo dunque menati dinanzi al giudice, e non vogliendo sagrificare, fece sceverare Saturnino, con gli altri uomini, da le femmine, e disse a santa Felicita: "Hai tu marito?" E quella disse che sì, ma i' l'hoe a spregio. E 'l giudice le disse: "Abbi misericordia di te giovane, acciò che tu viva massimamente, abbiendo te fanciullo in ventre". E quella li disse: "Fa di me ciò che ti piace, però che tu non mi potrai giammai trarre a la tua volontade". E i parenti di santa Perpetua corsero col marito di lei, e recarelle uno suo fanciullo che ancora poppava. E veggendola il padre stare dinanzi al prefetto, gittollesi a' piedi in terra, così dicendo: "Figliuola mia dolcissima, abbi misericordia di me e di questa tua dolorosissima madre, e di questo cattivello tuo marito, il quale non potrà vivere dopo te". Ma santa Perpetua stava pur ferma. Allora il padre le gittò il figliuolo suo al collo, ed elli e la madre e 'l marito la presono per mano, e piagnendo la baciavano tutta quanta e dicevano: "Abbi misericordia di noi, figliuola, e vivi con noi". Quella gitta il fanciullo a loro, e cacciandogli tutti da sé, disse: "Partitevi da me, nemici miei, però ch'io non vi conosco". Veggendo il prefetto la loro costanzia ne la fede, fecegli battere molto, e poi mettere in pregione; ed essendo i santi molto dolorosi per santa Felicita, che era pregna già d'otto mesi, pregarono Dio per lei, e subitamente le vennero i dolori del parto, e partorìo un figliuolo vivo. E una de le guardie le disse: "Or che farai tu quando tu sarai venuta dinanzi al prefetto, se tu se' ora così gravemente tormentata?" Rispuose santa Felicita: "Qui patisco io per me, ma quivi patirà insieme per me Domenedio". Furono dunque tratti de la carcere, e con le mani legate di dietro, e con le natiche scoperte, furono menati per la piazza, e lasciate andare le bestie contra loro. Satiro e Perpetua furono divorati da i leoni, Revocato e Felicita furono mangiati da' leopardi, a santo Saturnino fu tagliato il capo; e così furono martirizzati per Cristo intorno a gli anni Domini CCLVI sotto Valeriano o Galieno imperadori.
cap. 168, S. CaterinaCaterina, figliuola del re Costo, fu ammaestrata da li studi di tutte l'arti liberali. Stando Massenzio imperadore in Alessandria, e faccendosi venire là tutt'i cristiani, così i ricchi come i poveri, per farli sagrificare a l'idoli, e ponendoli a pena coloro che non volessono, Caterina avendo da XVIII anni, ed essendo rimasa sola nel palazzo pieno di ricchezza e di donzelle e donzelli, udendo i mugghii di diversi animali, e ' lodamenti d'incantatori, mandò uno messaggio a sapere che ciò fosse avacciatamente. Quando ebbe saputo quel ch'era, prendendo seco alcuni del palazzo, e armandosi col segno de la Croce, andonne là, e viddevi molti cristiani ch'erano menati a sagrificare per paura del morire. Ed essendo piagata da forte dolore di cuore, arditamente si gettò dinanzi a lo 'mperadore, e disse così: "A farti salutanzia, o imperatore, mi moveva la dignità de l'ordine e la via de la ragione, se tu conoscessi il Criatore del cielo e ritraessi l'animo tuo da li dei". E stando dinanzi a la porta del tempio, disputòe molto con lo 'mperadore per conclusioni di silogismi e per allegoria e per metafora, in manifesto e in figura. E ritornando poi al comune parlare disse così: "Queste cose t'ho voluto dire come a persona savia, ma dimmi testeso perché hai tu ragunato qui indarno molta moltitudine ad adorare la stoltizia de l'idoli? E maravigliati di questo tempio lavorato per mano di maestri, ragguardi gli ornamenti preziosi, i quali saranno come polvere innanzi al vento. Ragguarda maggiormente il cielo e la terra e 'l mare, e ciò ch'è in loro; ragguarda gli ornamenti del cielo: il sole e la luna e le stelle; ragguarda il servigio loro come di principio del mondo infino a la fine, notte e die corrono a l'occidente e ritornano a l'oriente, e giammai non si stancano; e quando tu avrai bene posto mente, domanda ed appara chi è più potente di loro; e quando tu l'avrai inteso per suo donamento, e non potrai avere trovato suo pare, lui adora e lui glorifica, però ch'egli è il Domenedio de' Domenedii, ed è Re de' re e Signore de' signori". Ed avendo disputato saviamente di molte cose de la incarnazione del Figliuolo di Dio, stupidito lo 'mperadore, a queste cose non ci poté rispondere nulla. Finalmente ritornato in sé, disse a lei: "O femmina, lasciaci compiere i sagrifici, e poscia ti risponderemo". E comandò ch'ella fosse menata al palazzo, e guardata molto diligentemente, maravigliandosi molto del suo sapere e de la bellezza del corpo suo. Però ch'ella era molto bella e maravigliosa a gli occhi di tutti per bellezza da non potere credere. Vegnendo dunque lo 'mperadore al palazzo, disse a Caterina: "Avemmo udito il tuo bello parlare, e siamci maravigliati del tuo senno; ma occupati noi ne i sagrificii de li dei, non potemmo intendere tutte cose pienamente. Ora, dal principio richieggiamo la tua nazione". E la santa rispuose: "Egli è scritto: "Né non ti loderai né non ti incolperai te medesimo"; questo fanno gli stolti commossi da la vanagloria. Ma io ti confesso la mia generazione non per enfiamento di superbia, ma per amore d'amistà. Io sono Caterina figliuola del re Costo, la quale avvegnadio ch'io sia nata in porpora e ammaestrata de l'arti liberali convonevolemente, ma io abbo spregiato tutte queste cose e sommi fuggita a Messere Jesù Cristo. Ma gli dei che tu coltivi non possono aiutare né te né altrui. O malagurati coltivatori di cotali iddei, i quali non aiutano quando sono chiamati al bisogno, non soccorrono a le tribulazioni, non difendono ne i pericoli!" E 'l re le disse: "S'egli è come tu di', dunque erra tutto il mondo, e tu sola di' il vero? Ma con ciò sia cosa che ogne parola sia confermata in bocca di due o di tre testimoni, se tu fossi un angelo se tu fossi una virtù del cielo, non ti dovrebbe però ancora credere veruno, quanto meno che se' una femmina fraile". Ed ella rispuose: "Io ti priego, imperadore, che tu non ti lasci vincere a l'ira; ne l'animo del savio uomo non sta la turbazione dura. Così disse il poeta: "Se tu reggerai l'animo, tu se' re; se tu reggerai il corpo, se' servo". Disse il re: "E mi par vedere che tu ci vuogli allacciare per mortale scaltrimento, da che tu ti sforzi di trarrerci per essempli di filosofi". Veggendo dunque lo 'mperadore che non potea contrastare a la sapienzia di costei, mandò comandando per le terre che venissero grammatici e rettorici in fretta a la corte d'Alessandria e riceverebbono grandi doni, sed e' vincessero una aringatrice vergine co' loro argomenti. Furono dunque menati di diverse province cinquanta maestri conventati, i quali avanzavano tutti gli uomini del mondo in ogni sapienzia mondana. E domandando loro la cagione perch'elli erano fatti venire di sì lontane parti, rispuose lo 'mperadore: "E ci ha una fanciulla, che non le si troverebbe pari in sentire e in conoscere, che confonde tutt'i savi, e afferma i nostri dei essere demoni. La quale se voi m'atterrerete, io vi rimanderò a casa vostra col maggiore onore, che voi mai aveste". A questo rispuose l'uno molto indegnato con una boce stomacante, e disse: "Or che gran consiglio è quello de lo 'mperadore che, per isconfiggere una fanciulla, ha fatti venire cotanti savi di lontane parti del mondo, con ciò sia cosa che pure uno de' nostri scudieri l'avrebbe potuta molto leggiermente confondere?" E 'l re disse: "Io abbo bene potenzia a costrignere di sagrificare, ma io abbo sentenziato che sia il meglio ch'ella sia al postutto confusa con li vostri argomenti". E quegli dissero: "Sia menata qui la fanciulla, acciò che convinta ella de la sua presunzione conosca e paia a le' ch'ella non abbia mai per l'adietro veduti de' savi". Quando la vergine ebbe saputo la battaglia che le sopravvenìa, raccomandossi tutta quanta a Domenedio, ed eccoti l'angelo di Dio a lei, e confortolla ch'ella stesse fermamente, affermando a lei che non solamente ch'ella non fosse vinta da loro, ma più ch'ella convertirebbe loro, e farebbeli diventare martiri. Ed essendo dunque menata dinanzi a lo 'mperadore, disse a lui: "Che giudicio è il tuo a porre cinquanta maestri contra una fanciulla, e prometti di guiderdonarli per la vittoria ch'avranno di me, e me costrigni di combattere sanza speranza di guiderdone? Ma e ne sarà guiderdone messere Jesù Cristo, il qual è isperanza e corona di coloro che combattono per lui". Dicendo dunque li maestri che impossibile era che Iddio fosse fatto uomo e patisse pena, la vergine Caterina mostrò loro che questo era stato detto da i pagani per Platone affermante che Dio è d'intorno rotondo, e che dovea essere ditroncato. E la Sibilla dice così: "Beato quello Dio che pende in alto legno". Disputando la vergine con i savi molto saviamente, e confondendoli tutti con aperte ragioni, stupiditi coloro e non trovando che dire più nulla, diventarono al tutto mutoli. Allora lo 'mperadore mosso ad ira contra di loro, incominciogli a riprendere fortemente di ciò che si lasciavano così cattivamente vincere a una fanciulla. Allora uno di quegli maestri disse così: "Sappieti, imperadore, che non fu mai neuno che ci potesse stare dinanzi che noi nol vincessimo incontanente; ma questa fanciulla, ne la quale lo Spirito Santo favella, ci ha tratti a grande ammirazione, intanto che contro a Cristo non siamo arditi di dire nulla, ovvero che noi temiamo, onde noi ti diciamo così: "Imperadore che tu hai data più probabile sentenza de li dei, i quali insino ad ora abbiamo coltivati, ecco noi ci convertimo tutti a Cristo". Udendo ciò il tiranno fu acceso d'ira, e comandò che tutti fossono arsi nel mezzo de la cittade. E la vergine Caterina gli confortava che stessero fermi nel martirio, e ammaestrogli diligentemente de la fede. E dolendosi loro del battesimo, ché non l'aveano ricevuto, la vergine rispuose così loro: "Non temiate di nulla, però che lo ispargimento del sangue vostro vi sarà in battesimo e in corona". Con ciò dunque fosse cosa che fossono gittati entro le fiamme, armati col segno de la Croce, in tal maniera rendettero l'anime a Domenedio, che né capello, né vestimento di lor persone non ebbe male veruno. E sì come furono seppelliti da i cristiani il tiranno parlò a la vergine in questo modo: "O vergine di grande legnaggio, dona consiglio a la gioventudine tua, e farotti la maggiore donna del mio palazzo fuori de la reina, e farò fare una imagine a tuo nome, e sarai adorata come donna". E la vergine gli rispuose: "Or ti rimani di dire cotali cose, che sono fellonesche pure a pensarle; io mi sono data per isposa a Cristo, e quegli è mia gloria, quelli è mio amore, quelli è mia dolcezza; del suo amore non mi potrà spartire né lusinghe, né tormenti". Allora lo 'mperadore ripieno d'ira, comandò ch'ella fosse spogliata e battuta con iscarpioni e, così battuta, mettere in oscura pregione, e ivi tormentata XII dì di fame. Infrattanto venne cagione al re che gli convenìa andare fuori de' confini di quelle contrade, sì che la reina, moglie del re, infiammata di molto amore a costei, entro la mezzanotte andò a la carcere de la vergine con Porfirio, prencipe di cavalieri. Quando la reina fu entrata ne la carcere, viddela risplendiente da tanta chiaritate che non si potrebbe pensare, e vidde gli angeli che ugnevano le piaghe de la vergine. Allora cominciò santa Caterina a predicare loro de la gloria di Paradiso, e convertìo la reina a la fede, e predissele ch'ella avrebbe corona di martirio; e in questo modo prolungarono loro parole grande parte de la notte. Udendo Porfirio queste cose, gittossi a' piedi de la vergine, e con CC cavalieri ricevette la fede. E perché il tiranno avea comandato ch'ella stesse XII dì sanza mangiare, Cristo per tutti questi dì le mandò una colomba bianca da cielo, che la pasceva del celestiale cibo. Poscia l'apparve il Signore con moltitudine d'angeli e di vergini, dicendo a lei: "Conosci, figliuola, il creatore tuo, per lo cui amore tu se' entrata in faticosa battaglia; sta ben ferma, ch'io sarò con teco". Tornato lo 'mperadore, facelasi presentare dinanzi, e veggendola vieppiù splendiente, la quale di tanto digiunare pensava che fosse afflitta, e' credette ch'altra persona l'avesse sostenuta ne la carcere e, ripieno di furore, comandò che fossero tormentate le guardie. E quella disse: "Io non ho ricevuto cibo da uomo, ma Cristo m'ha nutrita per l'angelo suo". E lo 'mperadore le disse: "Riponi al postutto il consiglio ch'io ti do nel cuor tuo, e non rispondere con dubbiose parole. Noi non disideriamo di tenerti come per fancella, ma come per reina scelta per bellezza e potente avrai grande trionfo nel regname". Al quale la vergine disse: "Attentamente io ti priego che tu debbi esaminare e giudicare in te medesimo qual consiglio io debbo anzi prendere: tra prendere uno sposo potente, glorioso ed eternale e bello, ovvero un altro che fosse infermo, mortale, uomo di bassa mano e sozzo". Allora lo 'mperadore adirato, sì le disse: "De le due cose prendi l'una, o vuo' tu sagrificare, acciò che vivi, o ricevere innumerabili tormenti, acciò che muoi". E quella disse: "Qualunque tormenti tu puoi fare e pensare, non ti indugiare, però ch'io non disidero altro d'offerire a Cristo la carne e 'l sangue mio, sì come elli offerse per me, però ch'egli è mio Dio, mio amato re, pastore e un mio solo sposo". Allora essendo il re in gran furia, un prefetto gli diè questo consiglio: che facesse fare in tre dì quattro ruote con ferri taglienti e molto aguti, e metterla dentro a' tornei a rincontro con crudeli aguti, acciò che sì terribile tormento la partisse le carni da l'ossa, e gli altri cristiani si spaventassero per l'essemplo di così crudele morte. E ordinossi che le due ruote si volgessero ad uno modo, e l'altre due per contrario, sì che quelle disotto, lacerando, traessono, e quelle disopra, contrastando, pignessoro. Allora la vergine beata pregò il Signore che a laude del suo nome, e a convertimento del popolo che stava d'intorno, guastasse quello edificio. Ed eccoti l'angelo di Dio venne con tanto furore divegliendo quella macina con movimento, che quattro miglia pagani uccise. La reina che vedeva queste cose, e insino allora s'era celata, incontanente scese a terra, e riprese lo 'mperadore di cotanta crudeltade molto duramente. E 'l re ripieno di furore, fece prendere la reina e, spregiando di sagrificare, prima le fece ricidere le mammelle, e poscia dicapitare. E quando ella era menata al martirio, pregò santa Caterina che pregasse il Signore per lei. E quella rispuose: "Non temere tu, reina eletta da Dio, però che oggi cambierai reame, e saratti dato lo eternale per lo passatoio e, per lo sposo mortale, guadagnerai il non mortale". Allora quella diventòe ferma, e confortava i giustizieri, che quello ch'era comandato loro, non dimorassono più a fare. Sì che i ministri menandola fuori de la cittade, con asticelle di ferro le divellonno le mammelle e poscia le mozzarono il capo suo. Il corpo suo, rapendolo Porfirio, seppellillo. Il seguentefacendosi inquisizione del corpo de la reina, e facendone per questo il tiranno molti menare al tormento, Porfirio si levò ritto in piede, e incominciò a gridare: "Io sono quelli che seppellìo la servigiale di Cristo, e ho ricevuto la fede di Cristo". Allora Massenzio diventòe tutto isbalordito, e misse uno terribile mugghio, e gridò così: "Oi cattivo e misero a me, ecco che Porfirio, il quale era un solo guardiano de l'anima mia e sollazzo d'ogni mia fatica, e ora m'ha ingannato!" E dicendolo a i cavalieri suoi, quelli rispuosero: "E noi siamo cristiani, apparecchiati di morire". Allora lo 'mperadore inebbriato d'ira, comandò che tutti fossero dicollati con Porfirio, e le loro corpora lasciate a' cani. Poscia chiamò santa Caterina a sé, e sì le disse: "Avvegnadio che tu abbi fatta morire la reina per arte magica, ma se tu ti vuogli rimanere di sì fatte cose, io ti farò la maggiore donna di mio palazzo, e se questo non vuogli fare, o tu sagrifica a li dei nostri, o tu morrai oggi, e farotti tagliare il capo". E quella rispuose: "Fa di me quello che tu hai pensato ne l'animo tuo, tu mi vedrai apparecchiata ad ogni cosa sostenere". E data la sentenzia sopra lei, fu comandato ch'ella fosse dicollata. E quella essendo menata al luogo, levò gli occhi al cielo, e oròe così: "O isperanza e salute di coloro che credono in te, o Gesù Cristo, onore e gloria de le vergini, io ti priego che chiunque farà memoria de la mia passione e che mi chiameràe in su la morte e in qualunque necessità, priegoti che tu gli dea de la tua misericordia!" E venne la voce a lei, e disse: "Vienne, diletta mia, sposa mia, ecco la porta del cielo, che t'è aperta, e a coloro che faranno festa de la tua passione prometto il disiderato aiuto da cielo". Poscia, da ch'ella fu dicollata, del suo corpo uscìo latte e sangue, e gli angeli presero il corpo e portarollo da quello luogo insino al monte Sinai, che sono XX giornate, e ivi il seppellirono onorevolemente. De le cui ossa non resta d'uscire olio, lo quale sana le membra di tutti gl'infermi. Martirizzata fu intorno a gli anni Domini CCCX sotto Massenzio o Massimino tiranno. E come il sopraddetto Massenzio fu punito per questo peccato e per gli altri che commisse, trovera'lo ne la storia del trovamento de la Croce. Da notare è che santa Caterina apparve maravigliosa in cinque cose. La prima in sapienzia, la seconda in parlamento, la terza in fermezza, la quarta in purità di castitade, la quinta in privilegio di dignità. Primieramente dico ch'apparve maravigliosa in sapienzia, però che in lei fu ogne spezie di filosofia. La filosofia si divide in teorica e pratica e logica. La teorica, secondo che vogliono dire alcuni, si divide in tre, cioè intellettuale, naturale e matematica. Ebbe dunque santa Caterina la sapienzia intellettuale in conoscimento de le divine cose, lo quale massimamente usòe in disputare contra i rettorici, a i quali provò ch'egli era un solo Dio verace, e convinse che tutti gli dei erano falsi. Anche ebbe la naturale in conoscere tutte le cose di quaggiù, la quale massimamente usòe nel disputare contro a lo 'mperadore, come si manifesta ne la leggenda. Anche ebbe la matematica in dispregiare le cose terrene. Questa iscienzia, come dice Boezio, sì si specchia ne le forme, ovvero ne la materia. Questa ebbe santa Caterina quando ella ritrasse l'animo suo da ogne naturale amore materiale; questa mostrò ella d'avere quando, domandandola lo 'mperadore, rispuose a lui: "Io sono Caterina, figliuola del re Costo; avvegna che sia nata in porpore, ammaestrata sono de l'arti liberali". Questa usòe ella massimamente con la reina, la quale ella animòe a dispregio del mondo e di se medesima, e a disiderare il reame del cielo. La pratica si divide in tre: ne l'etica e ne la economica e ne la pubblica, ovvero politica. La prima insegna informare li costumi e adornarsi di virtudi, e appartiensi a tutti; la seconda insegna bene comporre la famiglia, e appartiensi a' padri de le famiglie; la terza insegna bene reggere le cittadi e' popoli e la repubblica, e appartiensi a i rettori de le cittadi. Queste tre scienzie ebbe santa Caterina. La prima, quando ella si compuose d'ogne onestade di costumi; la seconda, quand'ella resse laudabilemente la famiglia sua, la quale manifestamente fu lasciata a lei; la terza ebbe quando saviamente ammaestrò lo 'mperadore. La loica si divide in tre: in dimostrativa, probabile e sofistica. La prima s'appartiene a' filosofi, la seconda a' rettorici e a' dialettici, la terza a' sofistici. Queste tre iscienzie par ch'ella avesse per quello ch'è scritto di lei che: "per divisate conclusioni di silogismi, per allegoria e per metafora, apertamente e figuratamente disputò molto con lo imperadore". Nel secondo luogo fue meravigliosa nel bello parlare, però ch'ella ebbe un parlare molto facondioso in predicare, come si dimostra e manifesta ne le sue predicazioni, ovvero disputazioni. Anche l'ebbe molto chiaro in sapere rendere ragione, come si manifesta in ciò ch'ella diceva a lo 'mperadore: "Tu ragguardi questo tempio lavorato per mano di maestri". Anche l'ebbe suavissimo in attrarre, come si manifesta in Porfirio e ne la reina, i quali santa Caterina trasse a la fede con la suavitade del suo parlare. Anche l'ebbe efficacissimo in convincere, come si manifesta ne' maestri, i quali ella convinse così potentemente. Nel terzo luogo fu costantissima in minacce che l'erano fatte, però ch'ella le spregiò, onde, minacciandola lo imperadore, quella rispuose: "Qualunque tormento tu puoti pensare, non ti indugiare, però ch'io disidero d'offerire a Cristo la carne e 'l sangue mio". Anche disse: "Fa tutto quello che tu hai diliberato ne l'animo tuo; tu mi vedrai apparecchiata a sostenere tutte le cose". Anche fu costantissima ne i doni offerti a lei, però ch'ella gli rifiutò, onde quando lo 'mperadore le promisse che la farebbe dopo sé maggiore nel suo palazzo, quella rispuose: "Rimanti di dire cotali cose, che sono follia pure a pensarle". Anche fu costantissima ne i tormenti che l'erano dati, però ch'ella gli vinse, come si manifesta quand'ella fu posta ne la ruota e ne la carcere. Nel quarto luogo, in purità di castità, però ch'ella servòe castità fra quelle cose fra le quali la castità suole perire. Cinque cose son quelle ne le quali la castità suole perire, cioè l'abbondanza de le cose che fa dissoluzione, la necessità inducente a ciò, la gioventudine vaneggiante e la libertade isfrenata, la bellezza attraente. Tra queste cose servòe castità la beata Caterina; però ch'ella ebbe grande abbondanza di beni temporali, come quella ch'era rimasa di sì ricchissimi padre e madre. Anche ebbe la necessitade inducente, come quella che conversava tutto dì infra servi suoi. Ebbe anche l'età giovinile; anche ebbe libertade di sé, però ch'ella era rimasa sola e libera nel palazzo. Di queste quattro cose è detto disopra: "Caterina essendo di XVIII anni, rimase sola nel palazzo, pieno di ricchezze e di fanti". Ebbe anche bellezza, onde è detto: "ch'ell'era bella molto, e parea maravigliosa a gli occhi di tutti da incredibile bellezza". Nel quinto luogo, nel privilegio de la dignitade; alcuni speziali privilegi furono in alcuni santi, quando morìano, come fu il visitamento di Cristo a san Giovanni vangelista; uscimento d'olio in san Niccolò; spandimento di latte in san Paulo; apparecchiamento di sepolcro in san Clemente; esaudimento di petizioni in santa Margherita, quando ella oròe per coloro che facessono memoria di lei. Tutte queste cose furono insiememente in santa Caterina, come si manifesta ne la Leggenda sua apertamente.
cap. 169, S. Jacopo int.Jacopo martire, detto interciso, nobile di legnaggio, ma più nobile de la fede, fu natìo de la provincia de la Persia, de la città Elape. Questi nacque di cristianissimi parenti, ed ebbe moglie cristianissima, ed era cristianissimo, e grandissimo conto del re di Persia e 'l primo tra suoi baroni. Intervenne che per molto amore ch'era tra lui e 'l re, s'inchinava ad adorare l'idoli. Udendo ciò la madre e la moglie, gli mandarono una lettera così dicendo: "Vogliendo ubbidire a colui ch'è mortale, hai abbandonato colui ch'è vita; volendo piacere a la bellezza che tosto dee finire, hai abbandonato il sempiterno odore, hai cambiato il vero a la bugia; ubbidendo al moritoio, hai lasciato il giudice de' vivi e de' morti; or sappi da noi, che noi da quinci innanzi non ti vogliamo né vedere, né udire, né dimorare più con teco". Quando Jacopo ebbe lette queste lettere, incominciò a piagnere amaramente, e diceva: "Se la mia madre che mi ingenerò, e la mia moglie, sono stranie da me, quanto maggiormente è fatto stranio il Domenedio mio!" Essendosi dunque molto afflitto per l'errore suo, un messo venne al prencipe, e disse Jacopo era cristiano. Allora il prencipe il fece venire a sé, e sì li disse: "Or mi di', se' tu Nazareno?" E Jacopo disse: "Madié sì, ch'io sono Nazareno". Disse il prencipe: "Dunque se' tu mago?" Rispuose Jacopo: "Non voglia Dio ch'io sia mago". E minacciandolo il prencipe di molti tormenti, disse Jacopo: "Non mi conturbano le tue minacce, però che, come vento che soffia sopra le pietra, il furore tuo passa tosto le mie orecchie". Allora disse il prencipe: "Non ti portare così isvergognatamente, acciò che tu perischi di grave morte". Rispuose Jacopo: "Questa cotale non è da dire morte, ma piuttosto è da chiamare sonno, con ciò sia cosa che poi vegna la resurressione". E 'l principe disse: "Non t'ingannino i Nazareni dicendo che la morte sia sonno, imperò che i grandi imperadori la temono". Rispuose Jacopo: "Noi non temiamo la morte, però che noi abbiamo speranza di passare da morte a vita". Allora il prencipe di consiglio de gli amici diede questa sentenzia sopra sa' Jacopo, ch'a spaventare gli altri fosse punito tagliato a membro a membro. E piagnendo alcuni per compassione sopra lui, egli disse: "Non piagnete sopra me, ma sopra voi medesimi, però ch'io me ne vo a vita, e voi siete degni di fuoco eternale". Allora i giustizieri gli tagliarono il dito grosso de la mano ritta, e sa' Jacopo gridò e disse: "O liberatore Nazareno, ricevi il ramo de l'albore de la misericordia tua, però che dal lavoratore de la vigna è tagliato il sermento de la vite, acciò che faccia più frutto e sia coronato più abbondevolemente". E 'l giustiziere disse: "Se tu vuogli consentire, ancora ti perdono e darotti la medicina". E sa' Jacopo gli rispuose: "Non hai tu veduto il pedalo de la vite? Ché quando si tagliano i sermenti, quel nodo che rimane, nel suo tempo, quando la terra comincia a riscaldare, ad ogne tagliatura rimette; con ciò dunque sia cosa che la vite si poti al suo tempo acciò che rimetta, quanto maggiormente il fedele uomo ch'è congiunto ne la vera vite Jesù Cristo!" Allora venne il giustiziere e tagliòe il secondo dito; e sa' Jacopo disse: "Ricevi, Signore mio, i due rami che piantòe la tua mano diritta!" E quelli tagliò il terzo dito; e sa' Jacopo disse: "Signor mio, or da ch'io son liberato da le tre tentazioni, benedicerò il Padre e 'l Figliuolo e lo Spirito Santo e, con i tre fanciulli liberati de la fornace del fuoco, confesserò te, Signore, e nel coro de' martiri canterò al nome tuo, Cristo". Fu tagliato il quarto dito; e sa' Jacopo disse: "Difenditore de' figliuoli d'Israel, il quale fosti pronunziato ne la quarta benedizione, ricevi dal servo tuo la confessione dal quarto dito; sì come in Giuda benedetto". Tagliato che fu il quinto dito, disse: "Or è compiuta l'allegrezza mia". Allora li giustizieri li dissero: "Or perdona a la vita tua, acciò che tu non perischi, e non ti contristare se tu hai perduto l'una mano, però che molti ne sono che hanno pure una mano e abbondano di ricchezze e d'onori". E sa' Jacopo disse: "Quando i pastori cominciano a tondere le pecore, non le tondono mai dal lato ritto e lasciano il manco; se dunque la pecora, ch'è un animale bruto, vuole perdere tutta la lana, quanto maggiormente io, che sono uomo ragionevole, non mi disdegnerò d'essere morto per Cristo?" Allora andarono i servi a la mano manca e tagliarono il dito mignolo; e sa' Jacopo disse: "Tu, Signore, che se' grande, volestiti fare per noi mignolo e piccolo, e però ti rendo il corpo e l'anima che tu criasti e ricomperasti del tuo propio sangue". Fu tagliato il settimo dito; ed elli disse: "Sette volte il die ho lodato te, Signore". Fu tagliato l'ottavo; e disse: "L'ottavo die fu circonciso Jesù, l'ottavo die è circunciso l'ebreo, acciò che passi a l'osservanze de la legge e la mente del servo tuo, messere, passi di questi non circuncisi e che hanno la carne sozza, acciò ch'io vegna a vedere la tua faccia, Signore mio!" Fu tagliato il nono dito; e disse: "A l'ora nona rendéo Cristo lo spirito, onde e io, o Signore, nel dolore del nono dito ti confesso e rendo grazie". Fu tagliato il decimo; e disse: "Il decimo numero è ne' comandamenti, e Jota è 'l primo nome di Jesù Cristo". Allora alcuno di quelli ch'erano presenti dissero: "O dilettissimo di qua 'ndrieto di noi, confessa solamente dinanzi al prencipe, acciò che possi vivere e, avvegnadio che sieno tagliate le mani tue, impertanto e' ci ha savi medici che possono sovvenire a' dolori tuoi". A i quali sa' Jacopo disse: "Sia da me di lungi la vostra maledetta lusinga, per ciò che neuno, mettendo mano a l'aratro e pognendosi mente dietro, è acconcio al reame di Dio". Allora i giustizieri indegnati andarono a tagliare il dito grosso del piede ritto; e sa' Jacopo disse: "Il pie' di Cristo fu forato e uscinne il sangue". Fu tagliato il secondo dito del pie'; e disse: "Grande è a me questo dì, e sopra tutti i dì; oggi me n'anderò io convertito a la fonte viva". Fu tagliato il terzo dito e gittatoli innanzi; e sorridendo sa' Jacopo disse: "Vattene, terzo dito, a i compagni tuoi, e come il granello del grano apporta molto frutto, così tu ti riposerai nel sezzaio die!" Fu tagliato il quarto dito; e disse: "Perché se' trista, anima mia? E perché mi conturbi? Spera in Dio, imperò che ancora confesserò a Lui, salvamento del volto mio e Dio mio". Fu tagliato il quinto dito; e disse: "Or comincio io a dire al Signore ched e' m'ha fatto degno compagnone a i servi suoi". Allora andarono al pie' manco, e tagliarono il dito piccolo. Disse sa' Jacopo: "Dito piccolo, or ti conforta, però che 'l grande e 'l piccolo hanno una resurressione; non periràe un capello del capo quanto maggioremente tu, menimo, non sarai sceverato da i compagni tuoi?" Fu tagliato il secondo; e sa' Jacopo disse: "Disfate la casa vecchia, però che una più nuova m'è apparecchiata". Fu tagliato il terzo; e disse: "La 'ncudine diventa più rifermata per le percosse". Fu tagliato il quarto; e disse: "Confortami, Dio di veritade, però che in te si confida l'anima mia e ne l'ombra de le tue ale avrò speranza insino a tanto che passi la niquitade". Fu tagliato il quinto; e disse: "Ecco me, Signore, venti volte ti sono sagrificato". Allora andarono e tagliarono il pie' ritto; e disse sa' Jacopo: "Ora offerabbo dono al celestiale re, per lo cui amore io patisco queste cose". Fu tagliato il pie' manco; e sa' Jacopo disse: "Or non se' tu il Domenedio che fai le maravigliose cose? Esaudisci me, Signore, e salvami". Tagliarono anche la mano ritta; e disse: "Signore, le tue misericordie m'aiutino!" Tagliarono la manca; e disse: "Tu se' Domenedio, che fai le maravigliose cose". Aggiunsero di tagliare il braccio ritto; e disse: "Anima mia, loda il Signore. Io loderò il Signore ne la vita mia, e canterò a Domenedio mio mentre che io sarò". Tagliarono anche il braccio manco; e disse: "Dolori di morte m'hanno attorniato, e nel nome del Signore mi vendicherò di loro". Allora tagliarono il troncone de la gamba ritta, fendendola infino al pettignone. Allora sa' Jacopo disse, gravato di dolore da non potere dire, e gridò: "Signore Gesù Cristo, aiutami, ché m'hanno attorneato i dolori di morte". E disse a' giustizieri: "Di carne novella mi vestirà il Signore, lo quale le nostre piaghe non potranno macolare". Già erano venuti meno i giustizieri, però che da la prima ora del dì e infino a la nona erano sudati nel loro tagliare. Allora andarono e tagliarono il brodone de la gamba manca, tirandola fuori insino al pettignone. Allora gridò sa' Jacopo e disse: "Signore, Signore, esaudisci me, mezzo vivo e mezzo morto; tu che se' signore de' vivi e de' morti, messere, io non abbo dita ch'io ti porga, né mani ch'io ti distenda a te; i piedi miei sono mozzi e le ginocchia mi sono rose, che non mi ti posso inginocchiare, e sono come la casa ch'è in sul cadere, da che ha perdute le colonne ond'ella è sostenuta; esaudisci me, Jesù Cristo, e trai di carcere l'anima mia". Quando ebbe detto queste cose, uno de' giustizieri s'avvicinò e gli tagliò il capo. Sì che i cristiani andarono occultamente e seppellirono il corpo suo con grande onore. E fu martirizzato a dì XXV di Novembre.
cap. 170, S. PastorePastore stette ne l'eremo molti anni in grande astinenzia affliggendo sé, e risplendeva di molta santitade e religione. Desiderandolo di vedere la madre, lui e ' frati suoi, e non potendo, puose guardia un die, e andando loro a la chiesa, ella si paròe loro dinanzi. Coloro cominciarono a fuggire ed entrare ne le celle loro, e serravale catuno l'uscio dinanzi. Quella, stando dinanzi a l'uscio del suo figliuolo, gridava con grande pianto, e Pastore stava dentro e gridava a lei così dicendo: "Perché gridi tu così, vecchia?" Quella, udendo la voce, gridava più forte piagnendo e dicendo: "Io vi voglio vedere, figliuolo mio. Or che fa voi, perché io vi veggia? Or non son io la madre vostra che vi lattai, e già sono tutta incanunita?" E 'l figliuolo le rispose: "Vuo'ci tu vedere qui o ne l'altra vita?" E quella disse: "S'io non vi vedrò qui, vedrovvi io colà, figliuolo mio". E quelli disse: "Se tu puoi sostenere in pace che tu non ci veggi qui, sanza dubbio l'abbi che tu ci vedrai là". Quella si partì allegra, e andava dicendo: "S'io vi debbo vedere colà, non vi voglio vedere qui". Il giudice de la provincia, disiderando di vedere l'abbate Pastore, ma non potendo, fece prendere il figliuolo de la serocchia come fosse malfattore, e misselo in pregione, così dicendo: "Se Pastore ci verrà e pregherammi per lui, io 'l lascerò andare". Sì che la madre del garzone se n'andò a la cella de l'abbate Pastore, e piagnendo ivi, di fuori sedea; e non rispondendole quegli neente, ella disse: "De! or se tu hai cuor di ferro, che non ti muovi a veruna compassione, almeno la misericordia del Signore tuo d'inchini di ciò ch'elli è a me un solo figliuolo". E elli le mandò a dire così: "Pastore non ingenerò figliuolo". Quella partendosi con dolore, il giudice le disse: "Almeno con la parola comandi, ed io il lascerò". E 'l Pastore le rimandò così a dire: "Disamina il pianto, come dicono le leggi; s'egli è degno di morte, muoia tosto, e se no, fa che ti piace". A' frati dava questi ammaestramenti: "Di guardarsi di non considerare se medesimo e d'avere discrezione sono operazioni de l'anima; la povertà, la tribolazione e la discrezione sono operazioni di vita solitaria. Però ch'egli è scritto: "Se fossero questi tre uomini, Noè, Giob e Daniel"; per Noè s'intendono coloro che sono poveri, per Giob i tribulati, per Daniello i discreti. Se 'l monaco avrà in odio due cose, potrà essere libero da questo mondo". Dimandandolo un frate quali fossero quelle, disse ch'era il riposo de la carne e la vanagloria: "Se vuogli trovare riposo in questo mondo e ne l'altro che dee venire, in ogni cosa dirai: "Chi sono io?" E: "Non giudicare nessuno". Avendo fallato alcuno frate de la congregazione, l'abbate per consiglio d'uno solitario sì 'l cacciò via. Il quale disperandosi quasi piangendo, l'abbate Pastore il si fece menare dinanzi e, racconsolandolo benignamente, mandò a quello solitario, così dicendo: "A quel ch'io odo di te, io ho voglia di vedere te; affaticati dunque di venire insino a me". Quando fu venuto, disse l'abbate Pastore: "Due uomini erano ch'avea catuno suo morto; or venne che l'uno lasciò stare il morto suo e andò a piagnere il morto de l'altro". Udendo ciò il solitario, e intendendo quelli perch'elli il diceva, a le parole di costui fue contrito. Avendo detto un frate a l'abbate Pastore com'egli era conturbato e volea abbandonare il luogo, per ciò ch'avea udito parole d'alcuno frate che non l'aveano edificato, l'abbate Pastore li disse che no 'l credesse, però che non era vero; ma quegli pure affermava che vero era, però che un fedele frate gliel'avea detto. Disse l'abbate: "Fedele non è egli che l'ha detto; ché s'elli fosse fedele, non troverebbe unque cotali cose". E quelli disse: "Io il viddi con gli occhi miei". Allora dimandato de la festuca e de la trave quel che fosseno, rispuose: "La festuca è festuca e la trave è trave". Disse l'abbate Pastore: "Or poni nel cuore tuo che i peccati tuoi sieno come questa trave, e quelli di colui sieno come questa festuca". Alcuno frate avea fatto alcuno grande peccato, e volendone fare penitenzia tre anni, domandòe l'abbate Pastore se molto fosse. E quelli disse: "Molto è". E domandato se ne desse un anno, rispuose: "Molto è". Quelli ch'erano presenti diceano insino a XL die. Rispuose: "Molto è". E disse ancora: "Io mi credo che se l'uomo si pente del peccato suo con tutto il cuore e non lo vorrà ricommettere, che se farà tre dì penitenzia, il Signore l'accetterà". Dimandato di quella parola: "Chi s'adira al prossimo suo sanza cagione" quello che ne gliene paresse, rispuose: "D'ogne cosa per la quale ti vorrà gravare il prossimo tuo, non t'adirare tu contra di lui, insino a tanto ch'elli ti tragga l'occhio ritto; e se tu farai altrementi, sanza cagione t'adirrai contra di lui; ma se alcuno ti voglia separare da Dio, adirati per questo contra di lui". Disse ancora l'abbate Pastore: "Chi è rammaricoso, non è monaco; chi conserva la malizia nel suo cuore, non è monaco; chi è iracondo, non è monaco; chi rende male per male, non è monaco; chi è gonfio e chiaccherone, non è monaco, ma chi è veramente monaco, sempre è umile e mansueto e pieno di carità, e 'l timore di Dio hae sempre in ogni luogo, acciò che non pecchi". Disse ancora che se saranno tre insieme, de' quali l'uno si riposi bene e l'altro sia infermo e renda grazie a Dio, e 'l terzo sia servigiale di buono volere, questi tre son pari come d'una operazione. Rammaricandosi un frate che di molti pensieri che avea vi pericolava entro, l'abbate Pastore il cacciò fuori a l'aria scoperta, così dicendo: "Ispandi il seno e piglia il vento". E quegli disse: "Non posso". Rispuose l'abbate: "Così non puoi tu tenere i pensieri che non vegnano, ma a te si confà di contrastare ad essi". Dimandato da un frate quello che dovesse fare d'un retaggio lasciato a lui, rispuosegli che tornasse a lui dopo il terzo dì. Quando tornò, sì gli disse: "S'io dirabbo che tu il dea a la Chiesa, sì ne faranno i cherici conviti; s'io ti dico che tu il dea a' tuoi, non n'avrai ricompensa; s'io ti dico che tu il dea a' poveri, sarai sicuro. Fa dunque ciò che ti piace, io non ho piato veruno". Queste cose sono scritte in Vita Patri.
cap. 171, S. Giovanni ab.Giovanni abbate, essendo abitato XL anni ne l'ermo in Episio, fu domandato una volta quanto fosse megliorato. E quelli disse: "Da poi ch'io cominciai ad essere solitario, non mi vidde giammai il sole manicare". Rispuose Joanni: "Né me vidde adirare". Quasi simigliante leggesi anche che, dando il vescovo Epifanio mangiare de la carne a l'abbate Ilarione, quegli disse: "Perdonami che poi ch'io presi questo abito non mangia' mai di cosa uccisa". E 'l vescovo gli disse: "E poi ch'io presi questo, non lasciai dormire persona la quale avesse nulla contra di me, né non dormii io, abbiendo veruna cosa contra alcuno". E quelli disse: "Perdonami, ché tu se' migliore di me". Vogliendo a similitudine de li angeli non operare nulla, ma intendere solamente a Dio, sanza tramezzamento ispogliossi e fece una edima ne l'ermo. Sì che morendo lui quasi di fame, ed essendo piagato tutto da le punture de le mosche e de le vespe, ritornando a l'uscio del fratello suo, bussòe, e quelli disse: "Chi se' tu?" Rispuose costui: "Io sono Giovanni". E 'l fratello gli disse: "Non è vero, imperò che Giovanni è diventato angelo, e none istà più tra gli uomini". E que' rispuose: "Al vero io sono esso". Quelli non gli aperse, ma lasciollo affliggere insino a la mattina. Poscia gli aperse l'uscio, e disse: "Se tu se' uomo, uopo ti fa di lavorare per pascere e per vivere; ma se tu se' angelo perché domandi d'entrare in cella?" E quelli disse: "Perdonami, frate, ch'i' ho peccato". Quando venne al morire, pregarolo i frati che lasciasse loro alcuna buona parola brieve in luogo di retaggio. Quegli incominciò a piagnere e disse: "Giammai non feci la mia propia volontade, né non insegnai fare quello altrui, ch'io nol facessi prima per me". Queste cose sono iscritte in Vita Patri.
cap. 172, S. Mosè ab.Moisé abbate disse ad un frate, che domandava d'udire predica da lui: "Siedi nella cella tua, e ella t'insegnerà ogne cosa". Volendo un vecchio infermato andare ne l'Egitto per non gravare troppo i frati, disse a lui l'abbate Moisé: "Non andare, ché tu cadrai in fornicazione". Allora quegli contristato disse: "Egli è morto il corpo mio, e tu mi di' queste cose?" E da che fu andato, una vergine gli servìo per divozione, e quando fu migliorato, sì la spulcellòe. La quale quando ebbe parturito il figliuolo, il vecchio tolse quello fanciullo in braccio, e con esso entròe ne la chiesa la quale era in Sistia, ne la quale era il die de la gran festa, con moltitudine di frati. E piagnendo tutti, elli disse: "Vedete voi questo fanciullo? Egli è figliuolo di non obbidienza; or vi guardate, frati, però ch'io lo 'ngenerai in mia vecchitudine, e pregate il Signore per me". Poi ritornò a la cella, e stavasi come di prima. Un altro vecchio quando gli ebbe detto: "Io sono morto", quelli disse: "Non ti fidare da te medesimo, mentre che tu se' fuori del corpo, ché se tu di' che tu sie morto, il diavolo non è morto". Avendo peccato un frate, mandandolo a dire a l'abbate Moisé, quelli tolse una sporta piena di rena e venne a loro; e domandandolo i frati che ciò fosse, disse: "I peccati miei mi corrono dietro e non li veggio, e sono venuto oggi a giudicare i peccati altrui". Coloro, udendo ciò, perdonarono al frate. Il simigliante si legge de l'abbate Priore; ché, parlando i frati d'alcuno frate colpevole, elli taceva. Sì che quando ebbe tolto un sacchetto pieno di rena dietro, e portavane un poco dinanzi, domandato elli che ciò fosse, disse: "La molta rena sono i peccati miei, ch'io porto di dietro, né non gli riguardo, né non me ne doglio; ma la poca rena sono i peccati del prossimo, posti dinanzi da me, i quali sempre riguardo, e lui giudico, con ciò sia cosa ch'io dovrei sapere portare i peccati miei dinanzi da me e pensare di quelli e pregare Domenedio". Con ciò sia cosa che l'abbate Moisé fosse fatto cherico, quando il vescovo gli puose la stola sopra l'omero, sì li disse: "Frate abbate, tu se' imbiancato". Ed elli rispuose: "Di fuori o dentro, messere lo vescovo?" E volendo il vescovo provare, disse a' cherici suoi che quand'elli andasse a l'altare sì 'l cacciassero con ingiuria, poi gli tenessero dietro per udire quello ch'elli andasse dicendo. Sì che cacciandolo fuori de la chiesa, gli diceano: "Esci fuori, saracino!" Quegli uscendo fuori dicea: "Ben t'hanno fatto i cineriti e paiolai, ché, da che tu non eri da apparire tra loro, perché fosti ardito di stare nel mezzo de gli uomini? Questo è scritto in Vita Patri.
cap. 173, S. ArsenioArsenio, stando nel palazzo suo, pregò Domenedio che 'l dirizzasse a vita di salute. Allora udì una voce che li disse: "Arsenio, fuggi gli uomini, e sarai salvato". Sì che prese l'abito monacile; e stando in quello e orando, udì un'altra boce, e disse: "Arsenio, fuggi, e taci e posati". E leggesi quivi di questo riposo da disiderare, ché, essendo tre fratelli carnali fatti monaci, l'uno prese a volere pacificare i discordanti e 'l secondo a vicitare l'infermi e 'l terzo a riposare in solitudine. Il primo s'affaticava per le brighe de gli uomini, e non potea piacere loro; onde gli venne un tedio e vennesene al secondo, lo quale trovò quasi venuto meno ne l'animo, e non potea compiere il comandamento. E abendue concordevolemente se ne vennero al terzo che era in solitudine; al quale, poi ch'ebbero contato le tribulazioni loro, quelli prese de l'acqua e misse in uno grande nappo e disse a coloro: "Ponete mente in questa acqua". Quella era commossa e torbida. Stette un poco, e disse anche a loro: "Or vi mirate entro, ch'ella è ora riposata e fatta chiara". E coloro mirandovi entro e vedendo le facce loro, disse a loro: "Così è di colui che sta nel mezzo de gli uomini, che per la molta turba non vede i peccati suoi; ma quando fia riposato, allora potrà vedere i peccati suoi". Un altro uomo, trovando uno ne l'ermo che mangiava erbe come fosse bestia e ignudanato, incominciogli a correre dietro; però che fuggìa e, non potendolo giugnere, sì li disse: "Aspettami, inperò ch'io ti seguirò per Dio". E quegli rispuose: "E io ti fuggo per Dio". Allora quelli prese il vestimento e gittogliele; e quegli che fuggìa l'aspettò, e disse: "Però che tu hai gittato da te la materia del mondo, sì t'hoe aspettato". E quelli disse: "Dimmi com'io mi possa salvare". Quelli rispuose: "Fuggi gli uomini e taci". Una gentildonna e vecchia venne per divozione a vedere l'abbate Arsenio; il quale, essendo pregato da l'arcivescovo Teofilo, che le si lasciasse vedere, in neuno modo la consentìo. Allora quella se n'andòe a la cella di colui, e trovollo fuori dinanzi a l'uscio de la cella, e gittollisi a' piedi. E quelli con grande indegnazione la levò ritta, e disse: "Se tu mi vuogli vedere, or mi vedi". Quella per vergogna non gli guatò nel volto. E 'l vecchio le disse: "Come è suto ciò che, essendo te femmina, hai avuto tanto ardimento d'andare vagando? Ed ecco che tornerai a Roma, e dirai a l'altre femmine come tu avrai veduto l'abbate Arsenio, e quelle trarranno a vedermi". Ed ella rispuose: "Se per bontà di Dio io torno a Roma, non ce ne lascerò venire veruna; ma almeno ti priego che tu prieghi Iddio per me e sempre ti raccordi di me". E que' le disse: "Io priego Dio che mi ti lievi di mente". E quella udendo questo fue molto turbata e, venendo a la città, cominciolle a venire la febbre per la tristizia. Udendo ciò l'arcivescovo, venne per consolarla; ma quella dicea: "Ecco ch'io morrabbo contristata". E l'arcivescovo le disse: "Non sa' tu che tu se' femmina, e 'l nemico per le femmine combatte i santi uomini? E però ti disse elli così che per l'anima tua ne priega elli Domenedio". E così quella ricevette consolazione, e tornò a casa sua con allegrezza. D'un altro santo Padre si legge che, dicendoli il discepolo suo: "Tu se' invecchiato, Padre, andiamo un poco presso al mondo", quelli disse: "Dove non è femmina, là andiamo". Disse a lui il discepolo: "E dov'è il luogo dove non abbia femmina, se non forse il diserto?" E quelli rispuose: "Adunque me ne porta nel diserto". Un altro frate dobbiendo valicare una sua madre vecchia di là dal fiume, elli si fasciò le mani col mantello. Quella disse: "Or perché t'hai tu fasciato così le mani, figliuolo mio?" E quelli le rispuose: "Il corpo de la femmina è come fuoco, e da ch'io t'avessi toccato, mi sarebbe ricordato de l'altre femmine". Arsenio per tutto il tempo de la vita sua, sedendo al lavorio de le sue mani, tenea un panno in seno per le lagrime che li usciano spesso de gli occhi suoi. E tutta la notte menava sanza sonno, e la mattina vogliendo dormire per lassezza de la natura, diceva al sonno: "Vienne mal servo". E prendea un poco del sonno seggendo, e tosto si levava, e dicea: "Basta al monaco dormire una ora s'egli è combattitore". Vegnendo a morte il padre di santo Arsenio, nobilissimo senatore, fece testamento per lo quale lasciòe ad Arsenio grande retaggio. E Magistriano recò il detto testamento ad Arsenio, ed elli togliendolo il volse istracciare. Allora Magistriano li si gettò a' piedi pregandolo che non lo facesse, perché gli sarebbe tagliato il capo. Al quale Arsenio disse: "Prima morìo io di lui; ora, da ch'egli è morto, perché mi fa egli ereda?" Rendelli il testamento e non ne volse nulla. Una volta gli venne una voce da cielo, e disse: "Vieni, e mosterotti l'opere de gli uomini". E menollo in uno luogo, e mostrogli uno saracino che tagliava legna e facea una gran soma, la quale portare non potea. Poscia tagliava anche legna, e arrogeva la soma, e questo facea lungo tempo. Mostrolli da l'altra parte un uomo che traeva acqua d'un lago, e mettevala in una citerna pertusciata, la quale rimettea l'acqua nel lago, e quelli volea empiere la citerna. Anche gli mostrò un tempio e due uomini che portavano in su' cavalli un grande legno a traverso, e vogliendo entrare nel tempio non potevano, però che portavano il legno a traverso. E spianòe le simiglianze così dicendo: "Questi sono quegli che portano quasi il legno de la giustizia con superbia e non si umiliano, per la qualcosa rimagnono fuori del regno di Dio. Quelli che taglia la legna è l'uomo ch' è ne' molti peccati, e per quello che faccia penitenzia, non si sottrae da' peccati, ma aggiugne peccati a peccati. Quegli che trae l'acqua è l'uomo che fa buone opere, ma però che le rie opere sono mischiate con quelle, sì perde l'opere sue". Nel vespro del sabato vegnente la domenica lasciavasi dietro il sole, e stendea le mani sue al cielo infino a tanto che la domenica mattina vegnente, levandosi il sole, alluminava la faccia sua, e così si stava. Questo è scritto in Vita Patri.
cap. 174, S. AgatoneAgatone, abbate per tre anni, tenne la pietra in bocca insino a tanto ch'elli apprendesse a tacere. Un altro frate, essendo entrato ne la congregazione, disse fra se stesso: "Tu e l'asino sii una cosa; ché come l'asino è battuto e non parla, patisce ingiuria e non risponde, così fa' tu". Un altro frate, cacciato da mensa, non rispuose nulla; poi domandato sopra ciò, e' disse: "Io mi sono posto in cuore d'essere iguale al cane che, quando egli è cacciato, se n'esce fuori". Domandato Agatone quale vertude fosse di più fatica, rispuose: "Io mi penso che non è tal fatica come l'orare Dio, però che i nimici sempre si brigano di rompere l'orazione. Ne l'altre fatiche l'uomo possiede alcuno riposo, ma l'orazione hae opera di grande battaglia". Domandato Agatone da uno frate, come dovesse abitare co' frati, rispuose: "Fa' come il primaio dì, e non prendere fidanza troppa; non è veruno male come la troppa fidanza; ella è madre di tutte le passioni". Disse Agatone anche: "L'adiroso, se suscitasse morti, non piace ad alcuno né a Dio per l'ira sua". Un frate adiroso disse fra se stesso: "S'io abitassi solanato, io non mi moverei a ira così tosto". Un die empiendo l'orciuolo d'acqua, sì si rovesciò; la seconda volta empiéo, e rivesciossi; allora commosso da l'ira prese l'orciuolo, e fiaccollo. E ritornato in se medesimo conobbe come era tentato da quello medesimo demonio da l'ira, e disse: "Ecco che sono solo e hommi lasciato vincere a l'ira. Ritornerommi dunque ne la congregazione, però che in ogne luogo ci è bisogno la pazienzia e l'aiuto di Dio, da che in ogne luogo è fatica". Il contrario avvenne di due frati, i quali, conversando insieme per molti anni, non si poteano giammai adirare. Una volta disse l'uno a l'altro: "Abbiamo briga insieme, come hanno gli uomini del mondo". Rispuose l'altro: "Io non so come la briga nasce". Disse quel frate: "Poni tra te e me uno mattoncello, e io dirò: "Mio è"; tu dirai: "Anzi è mio", e quindi nascerà la briga. Sì che fu posto il mattone in mezzo, e disse l'uno: "Egli è mio". Disse l'altro: "None, anzi è mio". Rispuose il primo: "Ed elli sia tuo, tolliti e va con Dio". Partironsi insieme e non poterono contendere. Ed era Agatone savio ad intendere, sollicito a lavorare, temperato nel mangiare e nel vestimento; e diceva: "Io non dormìo mai a mio senno, ritegnendo nel cuore mio alcuna cosa di doglienza contra alcuno, né non ho lasciato dormire persona ch'avesse alcuna cosa contra di me". Vegnendo a la morte, Agatone tre dì stette fermo, tenendo gli occhi aperti. Il quale, essendo puntecchiato da i frati, disse: "Io sto dinanzi a la sentenzia di Dio". E i frati dissero: "E temi tu?" Quelli rispuose: "In guardare li comandamenti di Dio m'affaticai quantunque potei; ma io sono uomo e non so se l'opere mie sono piaciute a Dio". Dissero coloro: "Non ti confidi tu de le opere tue che sono secondo Dio?" Quelli rispuose: "Non prosumo nulla mentre ch'io non sarò venuto dinanzi a lui; altrimenti son fatti i giudicii di Dio, e altrimenti quegli de gli uomini". E volendo i frati ancora domandare, sì disse: "Mostrate la caritade, e non mi parlate, ch'io sono occupato". Detta la parola, incontanente rendé l'anima a Dio. E vedeanlo raccogliere lo spirare, come fa l'uomo che saluta i suoi cari amici. Questo è scritto in Vita Patri.
cap. 175, Ss. Barlaam e JosafatBarlaam, la cui storia compuose san Giovanni Damasceno con diligente studio, operando in lui la divina grazia, convertìo a la fede santo Josafat re. Essendo tutta la provincia d'India piena di cristiani e di monaci, levossi un molto potente re, che avea nome Auennir, il quale perseguitava molto gli cristiani e massimamente gli monaci. Or avvenne che uno amico del re, il più innanzi nel suo palazzo, commosso da la divina grazia, prese abito monachile, e lasciò la corte del re. La qualcosa il re udendo, per la molta ira quasi diventò pazzo, e facevane cercare per ogni diserto e, avendolo a gran pena trovato, fecelo menare a sé; e veggendolo coperto d'una vile tonica e dimagrato per la fame, colui che solea andare ornato di splendienti vestiri e abbondare di molte ricchezze, sì li disse: "O stolto e perduto de la mente, perché hai tu cambiato onore e vituperio, e hai fatto di te un giuoco da fanciullo?" E quelli disse: "Se tu disideri d'udirne la ragione da me, caccia i nimici tuoi di lungi da te". E dimandato il re chi fossero questi nemici, quegli rispuose: "La ira e la concupiscenza; queste impedimentiscono che la verità non sia veduta; ma sii presente ad udire le cose che sono da dire la prudenzia e la dirittura". E 'l re disse: "Sia fatto quello che tu di'". E quelli disse: "Li matti spregiano quelle cose che sono come che se non fossono, e sforzansi di prendere quelle che non sono come se fossono; ma chi non assaggerà la dolcezza de le cose che sono, non potrà sapere la verità de le cose che non sono". E dicendo altre cose del misterio de la incarnazione e de la fede, il re disse: "S'io non t'avessi promesso nel principio di rimuovere la ira del mezzo del concilio, io ti farei ardere ora; or ti lieva, e fuggi da gli occhi miei, acciò ch'io non ti veggia più e facciati guastare". Sì che l'uomo di Dio si partìo triste, perché non avea sostenuto martirio. Infrattanto non abbiendo il re figliuoli, nacquegliene uno, e puoseli nome Josafat. E ragunando il re infinita moltitudine di gente, acciò che sacrificassero a li dei per lo fanciullo nato, fecesi venire astrolagi, e domandolli diligentemente quello che dovesse essere del figliuolo suo. E rispondendo tutti come dovea essere grande in potenzia e in ricchezza, uno di loro, il più savio, disse: "Questo fanciullo che t'è nato, o re, non sarà nel reame tuo, ma in altro maggiore sanza comparazione, però ch'io mi penso che sarà seguitatore de la fede cristiana, la quale tu perseguiti". Questo disse elli non da se medesimo; ma spirato da Dio. Udendo questo il re, fu molto ispaventato, e fece fare un bello palagio da alcuno lato de la cittade, sceverato, e puosevi ad abitare il fanciullo, e con lui allogòe bellissimi giovani, comandando loro che non gli mentovassero né morte, né vecchiezza, né infermità, né povertà, né cosa che gli potesse recare tristizia; ma tutte cose d'allegrezza gli ricordassero, acciò che la sua mente, occupata da letizia, niuna cosa potesse pensare di quel che dee venire. E se avvenisse che alcuno di quelli sergenti infermasse, incontanente comanda il re che quello cotale ne dovesse essere tratto fuori, e rimesso un altro sano in luogo di colui, e comandò loro che non gli mentovassero nulla di Cristo. In quello tempo era col re uno uomo cristianissimo, ma celato, il quale tra i nobili principi era il primo. Essendo costui andato alcuna volta col re a cacciare, trovò un uomo povero che l'avea offeso la bestia nel piede, e giaceva in terra; e pregollo che 'l dovesse ricevere a sé, imperò che forse in alcuna cosa gli potrebbe giovare. Al quale il cavaliere disse: "Certo io ti ricolgo volontieri, ma a che tu mi fossi utile, io nol so". E quelli disse: "Io sono un medico di parole; ché se alcuno è danneggiato in parola, io gli saprei dare convenente medicina". Il cavaliere tenea per nulla quello che quegli diceva, ma non pertanto il ricolse, ed ebbe cura di lui. Alcuni uomini invidiosi e maliziosi veggendo il detto prencipe essere in grazia del re, sì l'accusarono al re: che non solamente avea inchinato l'animo a la fede cristiana, ma che si sforzava di torregli lo reame, sollicitando a ciò la turba e conciando sé con loro. E dissero: "Se tu, re, disideri di sapere queste cose se così stanno, falti venire segretamente, e ricordali che questa vita dee tosto finire, e però gli vuogli lasciare la gloria del reame, e che tu vogli prendere l'abito de' monaci, i quali da qui adrieto hai perseguitati, e allora vedrai quello che ti risponderà". E da che il re ebbe fatto ogne cosa come coloro l'avevano confortato, quegli, non sappiendo la malizia, bagnato tutto di lagrime, disse che buono e santo proponimento era quello del re, e che 'l mondo era tutto vanità, e consigliòe che lo dovesse tosto adempiere. Il re udendo ciò, e credendo che fosse vero quello che coloro aveano detto, fu ripieno d'ira, ma non gli rispuose nulla. L'uomo avveggendosi che il re avea preso gravemente le parole sue, partissi con grande tremore e, ricordandosi d'avere appo sé il medico di parole, contogli ogne cosa. Al quale disse: "Siati conto che il re ha sospeccione che tu non gli abbia detto perché tu gli vuogli assalire il suo reame; or ti muovi, e fatti tondere i capelli, e gitta via il vestimento tuo, e vestiti di cilicio, e domattina per tempo te ne va al re, e quando il re ti domanderà quello che ciò voglia dire, tu risponderai: Eccomi, re, io sono apparecchiato di seguire te, e se la via per la quale tu disideri d'andare fosse malagevole, da ch'io sarò teco, mi sia leggiere che, come tu m'hai avuto per compagno ne la prosperità, così m'avrai teco ne l'avversità; or eccomi apparecchiato; che aspetti tu?" Quando ebbe così fatto tutto per ordine, il re si maravigliò e, riprendendo i falsatori, rimise costui in maggiore onore che non era prima. Nutricato dunque nel palazzo, il figliuolo del re venne a l'etade cresciuto, e fu pienamente ammaestrato in ogni sapienzia. E maravigliandosi perché il padre l'avea così rinchiuso, domandonne segretamente uno de' servi suoi, il più famigliare a sé, così dicendo: che in molta tristizia era posto, perché non gli era licito uscire fuori, e intanto era tristo che né mangiare, né bere non gli sapea buono. Udendo ciò il padre, e dogliendosene elli, fece apparecchiare i cavalli, e fece sonare gli stormenti dinanzi a lui, e dinegòe con grande guardia che veruna cosa sozza li si parasse innanzi. Sì che, andando il detto giovane in questo cotal modo, una volta gli venne scontrato in uno cieco e in uno lebbroso. Quelli veggendogli e maravigliandosi, domandò che fosse e quello ch'avessono; e li sergenti dissero: "Queste sono passioni che vegnono a gli uomini". E quelli disse: "Or sogliono avvenire a tutti gli uomini?" Coloro dicendo che no, quelli rispuose: "Or sono conosciuti coloro che debbiano avere queste passioni, o vegnono così per abbattimento?" Coloro rispuosono: "Qual de gli uomini può sapere le cose che debbono avvenire?" E così cominciò ad astare molto angoscioso per lo disusamento di queste cose. Un'altra volta trovòe un uomo molto vecchio ch'avea tutta la faccia vizzosa, e andava chinato, e parlava iscilinguando per li denti che cadeano. Stupidito di ciò, volle sapere la maraviglia di quello ch'avea veduto; e da che ebbe saputo che per la moltitudine de gli anni era pervenuto a cotale stato, disse: "Che fine sarà di ciò?" Coloro rispuosero: "La morte". Quelli disse: "La morte di tutti, o d'alquanti?" E quando ebbe saputo che tutti doveano morire, domandò in quanti anni sopravvegnono queste cose. Coloro rispuosero: "In LXXX anni o in cento dura la vecchiezza, poscia ne viene la morte". Ripensando dunque spesse volte queste cose nel cuore suo, stava in molta sconsolazione, ma dinanzi al padre mostrava letizia, disiderando molto in così fatte cose essere dirizzato e ammaestrato. Sì che un monaco di perfetta vita e nominanza, abitando nel diserto de la terra Sennaar, il quale avea nome Barlaam, cognobbe e seppe per ispirito quelle cose che si facevano intorno al figliuolo del re e, prendendo abito di mercatante, venne a la detta città, e parlò al maestro del figliuolo del re, e disse: "Io, con ciò sia cosa ch'io sia mercatante, abbo una pietra preziosa a vendere, la quale rende il vedere a' ciechi e l'udire a' sordi e 'l parlare a' mutoli e dà savere a' non savi; sì che io voglio che tu mi meni al figliuolo del re, e darogliele". E 'l maestro gli rispuose: "Tu mi pari uno uomo bene maturo di senno, ma le parole tue non si concordano col senno; ma pertanto, con ciò sia cosa ch'io m'intenda di conoscere le pietre, ora la mi mostra, e s'ella sia approvata essere cotale come tu di', tu riceverai grandi onori dal figliuolo del re". E quelli disse: "La mia pietra hae anche questa vertù: che chi non ha sana la luce de gli occhi, e chi non tiene interamente castità, se per ventura vedesse la detta pietra, sì perderebbe quella vertù ch'egli ha del vedere; onde perch'io m'intendo de l'arte medicinale, veggio che tu non hai gli occhi sani, ma del figliuolo del re ho inteso ch'è casto e ha gli occhi bellissimi e sani". E quelli disse: "S'egli è così, non la mi mostrare, però che io non abbo gli occhi sani e ne le dette cose sono bruttato". Sì che, annunziando queste cose al figliuolo del re, sì 'l misse tosto dentro a lui. E quando fue entrato e 'l re l'ebbe reverentemente ricevuto, Barlaam disse: "Bene hai fatto, re, che non ponesti mente a la sozza bassezza ch'appare; però che andando un grande re in carro d'oro e iscontrandosi in alcuni vestiti di panni stracciati e uomini magri, incontanente scese del carro, e subito gittandosi a' piedi loro, sì li adoròe, e anche si levò ritto e basciolli. Li baroni suoi recandosi queste cose a disinore, ma temendosi di riprendere il re, dissero al fratello come il re avea fatta vergogna a la magnificenza reale, ma il fratello del re sì lo ne riprese. Or avea questa usanza il re che, quando alcuno dovea essere giudicato a morte, il re mandava il banditore dinanzi a la porta sua, e sonava con la tromba diputata a ciò. Sì che vegnendo il vespro, fece sonare la tromba dinanzi a la porta del fratello; la quale udendo e disperandosi de la sua salute, in tutta quella notte non dormìo, e fece testamento. La mattina si vestìo di bruno egli e la moglie e' figliuoli, e con grande pianto se n'andò a la porta del palazzo. E 'l re lo fece entrare a sé, e dissegli: "O stolto che tu se'! or da che tu hai temuto così il banditore del fratello tuo, al quale sai bene che tu non hai offeso, come non debbo io temere i banditori del Signore mio, nel quale io tant'ho peccato, il quale mi fa sonare la tromba de la morte e fammi dinunziare il terribile avvenimento del giudice?" Poi comandò che fossero fatte quattro casse, e fece le due coprire di fuori d'oro da ogne lato, e fecele empiere d'ossa putride di morti; e l'altre due fece empiere di rose olorose, e fece chiamare quelli baroni che sapea ch'aveano posto il richiamo al fratello; e puose loro innanzi quelle quattro casse, e domandò quali fossero le più preziose. Coloro giudicarono che le dorate fossero di grande prezzo, e l'altre di vile condizioni. Allora comandò il re che le dorate fossero aperte, e incontanente n'uscì fuori grande fetore. E 'l re disse: "A queste due casse sono simiglianti coloro i quali, vestiti di gloriosi vestimenti, e' son pieni dentro d'ogne sozzura di peccati". Poi fece aprire l'altre, e uscinne un mirabile odore. E 'l re disse: "E queste sono assimigliate a coloro i quali io onorai; i quali benché sieno coperti di vili panni, dentro sono pieni d'ogne odore di vertude. Ma voi attendete solamente a le cose di fuori, e non considerate le cose dentro. Sì che al modo che fece quel re, hai fatto bene tu che m'hai ricevuto". Allora sì cominciò Barlaam a farli una lunga predica de la criazione del mondo e del peccato del primo uomo, e de la incarnazione e passione e resurressione del Figliuolo di Dio, e del die giudicio, e del guiderdonamento de' rei e de' buoni. E disse molte cose e in reprendere molto coloro che servono a l'idole, e puose un cotale essemplo de la loro pazzia; e dice così: "Uno saettatore, prendendo uno uccello c'ha nome usignuolo, volendolo uccidere, fu dato a l'usignuolo che parlasse, e disse: "Che ti gioverà, buono uomo, se tu m'uccidi? Tu non potrai riempiere di me il ventre tuo, ma se tu mi volessi lasciare fuggire, io ti darei tre ammonimenti, i quali se tu diligentemente guardassi, tu ne potresti ricevere grande utilitade". Sì che quelli stupidito al parlare de l'uccello, promisse di lasciarlo andare se li dicesse questi ammonimenti. E l'usignuolo disse: "La cosa che tu non puoi pigliare, non ti sforzare mai di pigliarla; de la cosa che non si può ricoverare, non te ne dolere giammai; parola che non sia creditoia, giammai non la credere. Queste tre cose osserva, e avrai bene". Sì che l'usignuolo volando per l'aere, sì li disse: "Guai a te, uomo, come mal consiglio tu hai avuto, e che grande tesoro tu hai oggi perduto; però ch'io abbo nel mio ventre una pietra preziosa, ch'è più grande d'un uovo di struzzolo!" Quegli udendo ciò, fu molto contristato che l'avea lasciato ire, e sforzavasi di ripigliarlo, così dicendo: "Vieni in casa mia, e ogne agevolezza ti farò e onorevolemente ti lascerò". E l'usignuolo li disse: "Or cognosco io che tu se' bene pazzo; ché di quello ch'io ti dissi non hai avuto veruno prode; ché ti dissi che tu non ti dolesse de la cosa perduta e che non si può ricoverare, e tu ti se' sforzato di riprendermi, che non puoi tenere il viaggio mio; e anche credesti ch'i' abbia una pietra preziosa nel mio ventre così grande, che pure tutto quanto me non sono grande come l'uovo de lo struzzolo". Così dunque è di coloro che si confidano ne gli idoli, che adorano quelli che sono creati da sé e chiamano i lor guardiani che siano guardati da sé". E cominciò a disputare contra la fallace dilettazione del mondo, e contra le vanitadi del mondo, e recarne a ciò molti essempli, così dicendo: "Coloro che disiderano i dilettamenti del corpo e lasciano morire di fame l'anime, son simigliati ad un uomo, il quale fuggendo da la faccia de l'unicornio per non essere divorato da lui, cadde in uno grande fossato. Ma caggendo lui, appiccossi con le mani a una arbuscella, e fermòe i piedi in su una basa sdrucciolente e non ferma. E puose mente, e vidde due sorici, l'uno bianco e l'altro nero, che non cessavano di rodere le barbe di quello arbuscello a che s'era appreso, e già era presso ad averla mozza. E nel fondaccio del fossato vidde un terribile dragone che gittava fuoco, e disiderava con la bocca aperta divorarlo; e sopra la base dove tenea i piedi vidde quattro capita di serpenti che si chiamano aspidi, che uscieno quindi. E, levando in su gli occhi, vidde un poco di mele uscire de' rami di quella arbuscella e, dimenticandosi del pericolo nel quale era da ogne parte, diedesi tutto quanto a la dolcezza di quel poco mele de l'albore. L'unicornio tiene figura de la morte, la quale sempre perseguita l'uomo e disidera di prenderlo; il fossato è il mondo pieno di tutti mali; l'arbuscello è la vita di ciascuno, lo quale non cessa di consumarsi per l'ore del dì e de la notte, quasi per lo sorico bianco e nero, e appressimasi a tagliare; la base de ivi a' piedi è il corpo composto di quattro elementi, i quali da poi che sono fuori de l'ordine loro, il congiugnimento del corpo si corrompe; il dragone terribile è la bocca del ninferno disideroso di divorare tutte l'anime; la dolcezza del ramicello è la dilettanza fallace del mondo, per la quale l'uomo è ingannato, acciò che non veggia il pericolo suo". Anche disse questo altro essemplo: "Simiglianti sono anche gli uomini amatori del mondo ad uno uomo che ebbe tre amici; de' quali amava l'uno più che sé, e 'l secondo quanto sé, e 'l terzo meno che sé e quasi neente l'amòe. Sì che fu posto in un grande pericolo, ed essendo citato dal re, corse al primo suo amico per aiuto, e ricordolli come sempre l'avea amato. E quelli li rispuose: "Non so che uomo tu ti sie; io abbo altri amici con i quali mi conviene godere oggi, i quali torrò per amici oggimai; ma io ti dono due cilici con i quali tu ti possi coprire". Sì che essendo confuso, andonne al secondo e domandòe simigliantemente il suo aiuto. E quelli rispuose: "Non m'è licito d'entrare teco in battaglia; sono attorniato da molte sollecitudini, ma io t'accompagneròe infino a le porte del palagio, un poco poscia mi ritornerò a casa a fare de' fatti miei". Sì che questi così tristo e disperato se n'andò al terzo amico, e disseli col viso chinato: "Non abbo bocca da parlare a te, però ch'io non t'hoe amato com'io t'ho dovuto; ma perché sono in tribulazione e abbandonato da gli amici, priegoti che tu m'aiuti e perdonimi". E quelli gli disse con allegra faccia: "Certo io ti confesso per mio carissimo amico; e ricordandomi del tuo beneficio, avvegna che piccolo, sì t'andròe innanzi e faròe come tuo avvocado al re, acciò che non ti metta ne le mani de' nemici tuoi". Sì che il primo amico si è la possessione de le ricchezze, per le quali l'uomo, sottoposto a molti pericoli, viene al termine de la morte; e di tutte queste cose non ne piglia altro che vili pannicelli da seppellire. Il secondo amico è la moglie e ' parenti e ' figliuoli, i quali l'accompagnano insino al monimento, e poscia si tornano a le loro sollecitudini. Il terzo amico è la fede e la speranza e la caritade e la limosina e l'altre buone opere, le quali, quando noi usciamo del corpo, ci possono andare innanzi a pregare Iddio per noi e liberarci da' nostri nemici". Anche disse questo altro essemplo: "In una città era cotale usanza di chiamare ogni anno per loro signore uno uomo straniere e non conosciuto, al quale era licito, per la balía presa in tutto, di fare tutto ciò che volea; e sanza ogne costituzione reggea la terra. E standosi lui in tutte ricchezze e pensando stare così sempre, subitamente si levavano i cittadini addosso a lui e, traendolo ignudanato per tutta la cittade, e sì 'l mandarono a' confini in una isola lontana, là ove, non trovando né cibo, né vestimenti, era costretto da la fame e dal freddo. Finalmente un altro, aggrandito a quello regname, da poi ch'ebbe saputo l'usanza di quelli cittadini, sì mandòe infiniti tesori a la detta isola, acciò che, da poi che l'anno fosse compiuto, essendo mandato ne l'isola a' confini, avvegnadio che gli altri vi morissero di fame, egli v'abbondava di molte dilizie. Questa città sì è questo mondo; i cittadini sono li principi de le tenebre, i quali ci traggono col falso diletto del mondo; e non aspettando noi la morte, ella sopravviene e profondane nel luogo de le tenebre; e 'l mandare de le ricchezze e l'eternale luogo, sì si fa per le mani de' bisognosi". Sì che, da che Barlaam ebbe ammaestrato perfettamente il figliuolo del re, e egli volendo lasciare il padre e seguitare lui, disse a lui Barlaam: "Se tu farai questo, tu sarai simigliante ad un giovane, il quale, vogliendoli essere dato moglie nobile, sì la rifiutòe e fuggìo; e capitando ad un luogo, vidde una gentile pulcella, figliuola d'un vecchio povero, la quale lavorava e lodava Domenedio con la bocca. E elli disse a lei: "Che è quello che tu fai, femmina? Con ciò sia cosa che tu sia così povera, impertanto rendi grazie a Domenedio come se tu avessi ricevuto grandi doni da Domenedio". E quella li disse: "Secondamente che la piccola medicina libera altrui spesse volte da grandi infermitade, così il rendimento de le grazie a Dio ne i piccoli doni sì diventa aiutatore a ricevere grandi doni; ma queste cose che sono di fuori non sono nostre; son bene nostre le cose che sono dentro. I' ho ricevuto grande cose da Dio, però che mi fece a la sua imagine, e hammi dato intendimento, e chiamatami a la sua gloria, e già m'ha aperta la gloria del reame suo; sì che per tanti e sì grandi doni sì 'l mi conviene laudare". Vedendo il giovane il senno di costei, sì la domandòe al padre di lei per moglie, e quelli li disse: "La figliuola mia non puoi tu torre, però che tu se' figliuolo di nobile persone e ricche, ma io sono povero". Ma quegli pure soprastando a le parole, il vecchio disse: "Io non la ti posso dare a menare in casa del tuo padre, però ch'io non ho più figliuoli". E 'l giovane disse: "Io mi starò con voi e conformerommi a' vostri costumi in tutte cose". E ponendo giù il prezioso ornamento, vestissi l'abito del vecchio e, standosi con lui, tolse la figliuola per moglie. E poi che 'l vecchio l'ebbe provato lungo tempo, sì 'l menò ne la camera sua e mostrogli una gran quantità di ricchezze, la quale mai non avea veduta, e diegliele tutte". Disse Josafat: "Convonevolemente mi toccano queste parole, e pensomi che tu l'abbi dette per me; ma io voglio che tu mi diche, padre, quanti anni tu hai e dove tu usi, però ch'io non mi voglio giammai partire da voi". E que' disse: "Io abbo da LXV anni e abito ne' diserti de la terra di Sennaar". E Josafat disse: "Anzi mi pare che tu abbi da LXX anni, padre". E que' rispuose: "Se tu vuogli sapere gli anni miei dal nascimento mio, ben t'apponesti; ma per neuno modo son compitati da me a la quantità de la vita tutti quelli che furono ispesi in vanità del mondo, però che allora era io morto ne l'anima dentro, sì che gli anni de la morte non voglio mai contare a quelli de la vita". Sì che, volendo Josafat seguitare lui nel diserto, Barlaam disse: "Se tu farai ciò, io perderò la tua compagnia e sarò cagione a' frati miei de la loro persecuzione; ma quando tu vedrai il tempo convonevole, allora verrai a me". Sì che Barlaam battezzò il figliuolo del re e, da che l'ebbe bene ammaestrato ne la fede, diegli pace e tornò al luogo suo. E poi che 'l re ebbe udito che 'l figliuolo era fatto cristiano, fu posto in troppo dolore; e vogliendolo consolare un suo amico ch'avea nome Arachis, sì li disse: "O messere lo re, e io conosco uno romito ch'è di nostra setta, il quale è per tutto simigliante a Barlaam questi, infignendosi d'essere Barlaam, imprima difenderà la fede de' cristiani, poscia si lascerà vincere, e ciò ch'elli avrà insegnato, ritratterà, e così retornerà a noi il figliuolo del re". Togliendo dunque il detto prencipe grande esercito, andò per cercare Barlaam e, prendendo quello romito, dicea ch'avea preso Barlaam. Udendo il figliuolo del re che quegli era preso, cioè il maestro suo, pianse amaramente; ma poi per revelazione di Dio seppe che non era esso. Allora entròe il padre al figliuolo, e sì li disse: "Figliuolo mio, tu m'hai posto in gran tristizia e hai disonorata la mia canutezza e hai tolto via il lume de gli occhi miei; perché l'ha fatto, figliuolo mio? E perché hai lasciata la fede de' miei Iddei?" E quelli disse: "Padre mio, i' ho lasciato le tenebre e son ricorso al lume; io ho abbandonato l'errore e conosciuta la veritade; non t'affaticare indarno, ché tu non mi potresti mai partire da Cristo; così sarebbe questo impossibile come a toccare l'altezza del cielo con mano o a seccare un grandissimo pelago". Allora disse il re: "E chi ha fatto questo male altro ch'io, che t'ho fatto così magnifiche cose, le quali non fece giammai padre a suo figliuolo? Per la qualcosa la tua mala volontade e la isfrenata condizione t'ha fatto immattire contra 'l capo mio. Ragionevolemente dissero gli astrologi nel tuo nascimento che saresti arrogante e disubbidiente a' tuoi parenti. Ora se tu non m'assentirai, tu sarai partito da la mia figliazione e, avendomi per padre nimico, quelle cose farò a te ch'io non feci anche a' miei nemici". Al quale disse Josafat: "Perché ti contristi tu, ch'io sia fatto parzonevole di molti beni? Qual padre apparve mai tristo ne la prosperitade dal suo figliuolo? Già non ti chiamerabbo padre, ma se tu mi sarai incontra, io fuggirò da te come da serpente". Sì che partendosi il re con ira da lui, fece manifesta ad Arachi, suo amico, la durezza del suo figliuolo. Il quale amico consigliò il re che none usasse col figliuolo se non parole acconce, però che 'l fanciullo si trae più tosto con lusinghevoli e piane parole. Sì che l'altro die il re venne al figliuolo, e cominciollo ad abbracciare e a baciare, dicendo a lui: "Figliuolo carissimo, onora la vecchiezza del padre tuo; or non sai tu come è buona cosa ubbidire al padre e rallegrarlo, e così è per contrario gran male a contristarlo? Chi ciò fece, non capitò mai bene". Rispuose Josafat: "Tempo è d'amare e tempo d'odiare, tempo di pace e tempo di guerra; per neuno modo partendoci noi da Dio, dovemo ubbidire o sia padre, o sia madre". Sì che vedendo il padre la sua costanzia, disse: "Da ch'io veggio la tua pertinacia, né non mi vuogli ubbidire, almeno vieni, e crediamo abendue insieme a la veritade, però che Barlaam, il quale t'ingannòe, io l'hoe in pregione; sì ch'io voglio che si ragunino i nostri e' vostri con Barlaam, e io sì manderò il bando che tutt' i galilei vegnano sanza paura, e da che fia cominciata la disputazione, se 'l vostro Barlaam vincerà, noi vi crederemo, e se 'l nostro vince, consentite voi a noi". Piacque il detto del re al figliuolo; e coloro ordinarono col simulato Barlaam come dovea infignersi di difendere imprima la fede de' cristiani, e poscia lasciarsi vincere, e ingannarsi tutti insieme. Allora si rivolse Josafat al simulato Barlaam, il quale avea nome Nacor, e sì li disse: "Tu sai bene, Barlaam, come tu m'ammaestrasti; se dunque tu difenderai la fede la quale tu m'hai insegnata, io perseverrò ne la dottrina tua insino a la fine de la vita mia; ma se tu rimarrai vinto, incontanente vendicheròe mia vergogna, e con le mani mie ti caverò la lingua di bocca e 'l cuore del tuo corpo e darallo a' cani, acciò che non pressumino altri di mettere per innanzi in errore i figliuoli del re". Udendo Nacor queste cose, fecesi tristo e pauroso fortemente, veggendosi caduto ne la fossa ch'elli avea fatta e preso nel suo medesimo lacciuolo. Sì che pensando s'avvidde che meglio era accostarsi al figliuolo del re per campare la morte. E 'l re gli avea detto palesemente che sanza paura difendesse la fede sua. Sì che uno parladore si levòe, e disse: "Se' tu Barlaam, ch'hai ingannato il figliuolo del re?" Quegli rispuose: "Io sono Barlaam, ma non ch'io abbia messo in errore il figliuolo del re, ma hollo liberato de l'errore". Disse il parladore: "Con ciò sia cosa che gli altri e maravigliosi uomini abbiano adorato i nostri dei, come se' tu tanto isciocco di levarti contra di loro?" Quegli rispuose, e disse: "Li Caldei e' Greci e que' de l'Egitto errando dissero che le creature sono dei; i Caldei pensarono che gli elementi fossero dei, con ciò sia cosa che siano criati ad utilitade de gli uomini, acciò che siano sottoposti a la loro signoria e a molte passioni. I Greci pensarono che li scellerati uomini fossero Domenedii, come s'è di Saturno, del quale si dice che mangiò i figliuoli suoi e che si tagliò i granelli e gittolli in mare e che nacque la Diana, e che fu legato dal figliuolo suo Jove e gittato in inferno. Ancora scrivono che Jupiter è re de gli altri dei, del quale dicono che più volte si trasformòe in bestie per commettere avolteri; e dicono che Venus dea fu adoltera, però che dice che ch'alcuna volta ebbe seco Marte e alcuna volta Adonide. E quei d'Egitto alcuna volta coltivarono gli animali, cioè le pecore e ' vitelli e li porci e simiglianti a questi animali bruti. Ma i cristiani adorano il Figliuolo de l'Altissimo, il quale discese di cielo e prese carne". Sì che cominciò Nacor molto a difendere la fede di cristiani e a fornirla di ragioni; sì che il re e quelli altri diventaronomutoli, che niuna cosa vi seppono rispondere. E Josafat avea grande allegrezza di ciò che 'l Signore, per lo nemico de la veritade, avea difesa la veritade; e 'l re fu ripieno di molta ira, e comandò che si rompesse il concilio, quasi come dovessono trattare l'altro die di queste cose. Disse Josafat al padre: "De le due cose fa l'una: o tu lascia stare il maestro mio istanotte con meco insieme per ragionare insieme de le ragioni e de le quistioni che sono da diterminare domane, e tu prendi i tuoi per ragionare con loro; o tu lascia stare meco i tuoi e tolli il mio, altrementi non faresti giustizia, ma forza". Laonde il re concedette Nacor al figliuolo, avendo ancora speranza ched elli lo 'ngannasse. Essendo dunque tornato a casa il figliuolo del re con Nacor, sì li disse Josafat: "Non pensare tu ch'io non sappia chi tu se'; io so bene che tu non se' Barlaam, ma se' Nacor astrolago". Allora cominciò Josafat a predicarli la via de la salute e, convertendolo a la fede, la mattina il mandò a l'ermo, là dove ricevette il battesimo e menòe vita di romito. Uno mago, ch'avea nome Teodas, udendo come queste cose andavano, venne al re e promisse di fare tornare il figliuolo del re a le leggi del padre. Al quale il re disse: "Se tu farai questo, io farò rizzare a tuo nome una statua d'oro, e offerolle al sagrificio come a li dei". Allora disse il mago: "Rimuovi ogne gente dal figliuolo tuo e fa mettere con lui de le femmine, e ornate, che siano sempre con lui e servano a lui e conversino e dormino con lui; e io gli manderò uno de li spiriti miei, il quale l'accenderà a lussuria, però che neuna cosa puote così ingannare l'uomo come la faccia de la femmina, e dottene questo essemplo. Che uno re avendo avuto un figliuolo, savissimi medici li dissero che se infra diece anni vedesse il sole o la luna, sì perderebbe il lume de gli occhi. Sì che il re fece stare lo figliuolo in una spelonca tagliata in uno sasso insino a diece anni; e, finiti gli anni, comandò il re che d'ogne ragione cose gli fosse recato innanzi, acciò che potesse conoscere e sapere i nomi di tutte. Recatoli dunque innanzi l'oro e l'argento e le pietre preziose, belli vestimenti, cavalli reali e d'ogne maniera cose, quando domandava del nome di ciascuna cosa i ministri gliene indicavano i nomi. Quando venne a domandare de le femmine, angosciosamente, lo spadai' del re per giuoco disse ch'elle sono demoni che ingannano gli uomini. Sì che il re domandò il figliuolo quale cosa amava più di quelle ch'elli avea veduto, e quelli rispuose: "Non altro, padre mio, se non quella cosa che inganna gli uomini. Di niuna cosa è infiammata l'anima mia come di questa, sì che non pensare altrimenti potere vincere il figliuolo tuo se non per questo modo". Laonde il re cacciò via tutti i donzelli, e accompagnollo con belle giovane, le quali sempre studiavano d'accenderlo a lussuria; e non avea altro a cui ragguardare, né con cui mangiare, né con cui parlare. E 'l maligno spirito, mandato dal mago, assalìo il giovane e grande fuoco gli accese dentro. Il maligno spirito lo infiammava dentro, e le giovane commoveano duro ardore di fuori; ed egli, sentendosi così fortemente commuovere, sì si turbava e raccomandavasi tutto a Domenedio. Ricevette consolazione da Dio, e ogne tentazione cessò via. Poscia li fu mandata una bellissima fanciulla, figliuola d'uno re, ma il padre era morto; e quando l'uomo di Dio la predicava, quella rispuose: "Se tu mi vuoli liberare da l'idoli, fammiti a moglie; ben sai che i cristiani non diniegano il matrimonio, ma lodanlo, però ch'e' patriarci loro e i profeti e Pietro, loro apostolo, ebbono mogli". E quegli rispuose a lei: "Vane sono queste parole, femmina, che tu dici; bene è permesso a i cristiani di menare moglie, ma non a coloro che hanno promesso a Cristo di conservare verginità". E quella disse: "Sia come tu vuogli; ma se tu disideri salvare l'anima mia, una piccolina petizione ch'io ti farò m'asaudisci: giaci pur meco stanotte, e promettoti di farmi domattina cristiana. Che se tu di' ch'a gli angeli è allegrezza nel cielo sopra uno peccatore che faccia penitenza, chi è facitore di convertimento grande merito ne dee avere? Consenti a me, e così mi salverai". Sì ch'ella cominciò a commuovere fortemente la torre de l'anima di costui. Veggendo ciò il demonio, disse a i compagni suoi: "Or vedete come questa fanciulla ha commosso colui, lo quale noi non abbiamo potuto commuovere? Venite dunque e andiamgli addosso con gran fortezza, di che avemo veduto il tempo convenevole". Sì che veggendo il santo giovane sé fortemente impregionato, e sì perché s'accendea a la concupiscenzia e sì perché il diavolo il commovea per operazione d'una fanciulla, tutto quanto si bagnòe di lagrime e diedesi ad orazione. Ne la quale orazione, dormendo, videsi menare in uno bello prato ornato di fiori, là dove le foglie de gli albori rendeano dolce suono, dimenate da un soave vento e gittavano maraviglioso odore; là dove erano i frutti bellissimi a vedere e disiderevoli ad assaggiare; là dove erano poste sedie lavorate ad oro e a gemme, i letti luccicanti con belli ornamenti, l'acque chiarissime e risplendienti. Poscia il menarono in una cittade, i muri de la quale erano d'oro obrizo, li quali risplendeano di maravigliosa chiaritade; là dov'erano ischiere de l'aere che cantavano un tale canto, che l'orecchie d'uomini mortali non udì mai sì fatto; e fu detto: "Questo è il luogo de li beati". E vogliendolne gli uomini rimenare, sì li pregava che lui lasciassero stare. I quali gli rispuosero: "Con molta fatica verrai ancora qua, pur che tu ti possi fare forza". Poscia il menarono a' luoghi oscurissimi, pieni d'ogni sozzura, e fu detto: "Questo è il luogo de' peccatori". E quando fue isvegliato, la bellezza di questa fanciulla e de l'altre, sì li parea più sozza che lo sterco. Quando i maligni spiriti furono tornati a Teodas, e egli gli ebbe ripresi, sì dissero: "Prima che si segnasse col segno de la Croce, sì li andiamo addosso e fortemente il conturbiamo; ma quando s'ebbe armato col segno de la Croce, sì ci ha perseguitati con furore". Teodas entrò col re a lui, sperando di poterlo trarre con lusinghe; ma il detto mago fu preso da colui cui elli volse pigliare e, convertito che fue da lui, ricevette il battesimo e menòe laudabile vita. Sì che il re disperandosi lasciogli per consiglio de gli amici la metà del reame suo; e quegli, avvegna che disiderasse con tutta la mente andare nel diserto, ma per dilatare la fede ricevette quello reame a tempo, e ne le sue cittadi levò ritto le chiese e le croci, e tutti gli convertìo a la fede di Cristo. Finalmente il padre, consentendo a le ragioni e a le prediche del figliuolo, ricevette la fede di Cristo e fecesi battezzare, e lasciò tutto il reame al figliuolo, e egli intendea ad opere di penitenzia; e dopo questo finìo la vita sua lodevolemente. E Josafat predicendo che Barachia sarebbe re più volte, volle fuggire, ma sempre fu preso dal popolo; finalmente appena rimase al disopra. Andando dunque per lo diserto, diede l'abito reale ad un povero ed egli rimase in poverello vestimento; e 'l diavolo gli apparve innanzi molti agguati. Alcuna volta gli andava addosso con una spada insanguinata e minacciava di dargli, se non si rimanesse; alcuna volta gli appariva in forma di fiere bestie, mettendo gran mugghii; ma quegli diceva: "Il Signore è mio aiutatore, non temerabbo quello che mi faccia il demonio". Sì che due anni stette Josafat ne l'ermo così vagabondo che non poté ritrovare Barlaam. Finalmente trovò una spelonca e, stando dinanzi a l'uscio di quella spelonca, diceva: "Benedicimi, padre, benedicimi". Udendo Barlaam la boce di costui, uscì fuori, e abbracciandosi molto strettamente e baciandosi con grande fervore, non si poteano saziare. Allora raccontò Josafat a Barlaam ciò ch'era incontrato; a quelli rendéo molte lode a Dio. E stette quivi Josafat per molti anni in mirabile astinenzia e vertude. Finalmente Barlaam compiuti i dì suoi morìo in pace intorno a gli anni Domini CCCLXXX. E Josafat abbandonando il reame suo nel XXV anno, XXXV anni sostenne la fatica del romitorio, e così, chiarito di molte virtudi, morìo in pace e fu riposto col corpo di Barlaam. Udendo ciò il re Barachia venne là con grande oste e, prendendo le corpora di costoro, sì le traslatòe a la sua cittade; al quale avello si fanno molti miracoli.
cap. 176, S. Pelagio papaPelagio papa fu uomo di molta santitade, e portossi nel papato onorevolemente, e finalmente pieno di buone opere morìo in pace. Ma non fue questo Pelagio l'anticessore di san Gregorio, ma fu un altro Pelagio innanzi a costui. E dopo costui fu papa Joanni terzo; dopo Giovanni fu papa Benedetto; e dopo Benedetto fu Pelagio; dopo Pelagio fu Gregorio. Al tempo di questo Pelagio primo, i Longobardi vennero in Italia; e perché provato è che molti non sanno questa storia, però è fermato di porla qui, per quello modo che la compuose Paolo, lo scrittore de le storie ne la storia de' Longobardi; e truovasi ispianata in diverse storie. Una gente era di Germania molta piena di persone, la quale uscendo de l'isole del mare oceano, da la parte di settentrione, essendo capitato de l'isola Scandinaia per molte vettorie di battaglie e per attorniamenti di molte terre, e divenne in Pannonia; non essendo arditi d'andare più oltre, sì vi si puosono ad abitare perpetualemente. Costoro furono prima chiamati Vinuli e poscia Longobardi. Stando loro ancora in Germania, Agilmud, re de' Longobardi, trovò sette fanciulli gittati da una meretrice in un'acqua ad affogare, i quali la detta meretrice avea fatto ad un parto. I quali essendo trovati per avventura dal re, rivolgendoli così per maraviglia con l'asta, l'un di quegli toccòe con mano l'asta del re; e il re, vedendolo e maravigliandosi, fecelo nutricare e puosegli nome Lamissione mago, e predisse che sarebbe re. Il quale fu uomo di tanta prodezza che, morto il re, i Longobardi il fecero re. Per quello medesimo tempo, cioè ne gli anni de la incarnazione del nostro Signore CCCCLXXX, un vescovo ariano paterino, sì come narra Eutropio, vogliendo battezzare un ch'avea nome Barba, dicendo in questa forma: "Io ti battezzo, Barba, nel nome del Padre per lo Figliuolo ne lo Spirito Santo", vogliendo per questo mostrare che 'l Figliuolo e lo Spirito Santo fosse minore del Padre, subitamente l'acqua si sparve, e colui che dovea essere battezzato ricorse a la chiesa. Or diciamo di Longobardi. Eglino sì aveano uno re ch'avea nome Albuino, uomo forte e valente, il quale faccendo battaglie col re de' Gebidani, isconfisse l'oste sua e uccise il re. Laonde il figliuolo del detto re morto il quale era fatto re dopo il padre, per vendicare il padre con grande potenzia d'arme andò contro Albuino. E Albuino commosse l'oste sua contro a lui e soperchiollo e ucciselo, e prese la figliuola di colui, la quale avea nome Rosmonda, e tolsela per moglie, e del capo di quello re fece fare una coppa, e fecela intorno intorno chiudere e coprire d'ariento, e bevea con essa. In quel dì Giustino minore governava lo 'mperio, il quale avea un barone castrato ch'avea nome Narses, uomo nobile e valoroso, il quale andando contra i Goti ch'aveano assalito tutta Italia, sì li vinse: e uccise il re Totila, flagel di Dio, e tutta Italia fece riposata. Il quale Narses per grande beneficii, ricevette grande ingiuria da i romani. Per la qualcosa accusato falsamente appo lo 'mperadore, fu disposto del prefetto de lo 'mperadore. E la moglie de lo 'mperadore, la quale avea nome Sofia, questa vergogna gli mandò dicendo, cioè che 'l farebbe filare con l'ancelle sue e dividere i canocchi de le lane. A queste parole rispuose Narses: "Ed io ti farò ordire una tal tela ch' a la vita tua non la ti leverai dinanzi". Cansandosi dunque Narses a Napoli, mandò dicendo a' Longobardi che lasciassono stare le poverelle ville di Pannonia e corressono a possedere le grasse terre d'Italia. Udendo ciò Albuino abbandonòe Pannonia, e ne l'anno de la incarnazione di Cristo DLXVIII entròe in Italia co' Longobardi. Ora aveano usanza di portare lunga barba; onde dovendo una volta, ciò si dice, venire a loro spie, comandò Albuino che tutte le femmine si sciogliessero le treccie e ponessenle intorno al mento, acciò che fosse creduto da le spie ched e' fossono uomini barbati, e quindi furono chiamati Longobardi da le lunghe barbe, però che la barda in loro lingua suona barba. Altri sono che dicono che dovendo combattere gli Vinuli con gli Vandali, essendo andati ad uno ch'avea spirito di profezia, acciò che pregasse Iddio per lo loro vittoria e benedisseli, la moglie diede loro consiglio che si ponessero ad orare a la finestra a la quale quegli orava la mattina ad oriente, e che comandassero che le femmine portassero i capelli intorno al mento. Sì che quando quelli aperse la fenestra ed ebbeli veduti, gridòe e disse: "Chi son questi Longobardi?" E la moglie sua aggiunse che a quali avea dato il nome, desse vittoria. Intrati dunque in Italia, quasi tutte le città presono, uccidendo tutti gli abitanti di quelle, e Pavia tennero assediata tre anni, e finalmente la presono. E 'l re Albuino avea giurato d'uccidere tutt' i cristiani; onde quando elli dovea entrare in Pavia, il cavallo suo dinanzi a la porta de la cittade ficcòe le ginocchia e, quantunque fosse punto da li sproni, levare non si poteva infino a tanto che a monizione d'un cristiano, il re mutòe il giuramento. Entrati dunque i Longobardi a Melano poco meno che tutta Italia sì sottomisero in brieve spazio di tempo, trattone Roma e Romagna, la quale è chiamata Romagna, quasi un'altra Roma, però che sempre s'è accostata a Roma. Essendo il re Albuino a Verona e abbiendo fatto apparecchiare un grande convito, fecesi recare la coppa ch'elli avea fatta fare del capo del re, e bevve con essa, e la moglie sua, ch'avea nome Rosmonda, fece bere anche con essa, dicendo a lei: "Bei col padre tuo!" La qualcosa quando Rosmonda ebbe saputa, grande odio concepette contro al re. Ora avea un duca il re, il quale avea a fare carnalmente con una donzella de la reina; sì che una volta che 'l re era andato altrove, la reina entròe una notte nel letto di quella donzella, e al detto duca mandò dicendo in persona di quella donzella che venisse a lei quella notte. Il quale essendo venuto, la reina si puose sotto a quel duca in luogo de la donzella, e poscia disse a lui: "Sai tu chi io sono?" E quelli dicendo ch'ell'era cotale sua amica, e quella disse: "Non è vero, anzi sono Rosmonda. Certo tu hai fatto oggi tal cosa che o tu ucciderai Albuino, o tu morrai del coltello d'Albuino; sì ch'io voglio che tu mi vendichi d'Albuino, il quale uccise il padre mio e del capo suo fece una coppa e hammi fatto bere con essa". E quegli non assentendo a ciò, ma promisse di trovare un altro che farebbe questo cotale fatto. Onde quella per sottrarre l'arme, tolse la spada del marito che stava a capo del letto e legolla fortemente, acciò che non si potesse essere tolta né isguainata. E mentre che il re dormìa nel letto suo, il donzello si sforzò d'entrare là entro. Quando il re l'ebbe sentito, saltò fuori del letto, e volendo prendere la spada, ma non potendola trarre fuori, cominciossi a difendere vigorosamente con una predella; ma quelli, essendo troppo bene armato, poté più che 'l re, e ucciselo. E tolse dunque tutti i tesori del palazzo, e fuggìo, ciò si dice, a Ravenna, insieme con Rosmonda. E stando Rosmonda a Ravenna, vidde un giovane che era prefetto di Ravenna, e piacqueli tanto che disiderava d'averlo per marito. Laonde diede bere veleno a l'uomo ch'era venuto seco, e, sentendo costui l'amarezza del veleno, serbonne a la moglie e comandolle che 'l beesse. Quella non vogliendo bere, l'uomo trasse fuori il coltello e fecegliele bere a forza; e così morirono quivi abendue. Finalmente un re di Longobardi, il quale avea nome Adalaot, ricevette il battesimo e la fede di Cristo. E anche Teodolina, reina de' Longobardi, cristianissima e divota ordinòe un bellissimo oratorio a Melano; a la quale reina san Gregorio mandò scritto il libro del Dialago. La quale convertìo a la fede il marito suo, il re Agisulfo, primo Duca di Torino, e fecelo pacificare con la Chiesa e con lo 'mperio di Roma; e così fu fatta la pace tra i romani e i longobardi, il dì de la festa di san Gervasio e Protasio; e però ordinò san Gregorio che si cantasse, in questa festa, ne l'Officio de la Messa: "Parlerà il Signore pace del popolo suo". Morto san Gregorio, fu papa dopo lui Savino, e dopo Savino fu Bonifazio terzo, e dopo Bonifazio terzo fu Bonifazio quarto; e le cui preghiere Foca imperadore donòe a la Chiesa di Cristo il tempio, che si chiamava Panteon, e oggi si chiama santa Maria Ritonda; e questo fue ne gli anni Domini intorno DCX. E a' prieghi del terzo Bonifacio fue il primo che ordinò che Roma fosse sedia di tutte le chiese, però che la chiesa di Costantinopoli sì si scrivea capo di tutte le chiese. Al tempo di questo Bonifazio, morto Foca e regnando Eraclio, intorno a gli anni Domini DCX, Magometto falso profeta e mago, ingannòe gli Agareni, ovvero Ismaeliti, ciò sono i saracini, in questo modo, come si legge in una sua storia e anche in altra cronica. Un cherico di molta nominanza, non potendo avere accivito l'onore ch'elli disiderava ne la corte di Roma, con grande indegnazione fuggendo oltre mare, con sue simulazioni trasse a sé infiniti popoli. E trovando Magometto, sì li disse che 'l volea fare segnore sopra saracini; e nutricando una colomba, sì li mettea ne l'orecchie granella e cotali cose a Magometto. E la colomba stando in su le spalle sue, sì li prendea il cibo de l'orecchie di costui; e era già avvezzata sì e in tal modo che, quantunque ella vedea Magometto, incontanente gli saltava in su le spalle e mettevagli il becco ne l'orecchie. Faccendo dunque ragunare il detto popolo, disse che voleva dare loro per signore colui cui lo Spirito Santo, in ispezie di colomba, dimostrasse; e incontanente di segreto luogo trasse fuori la colomba, e quella volando in su le spalle di Magometto, il quale era tra l'altre persone, misseli il becco ne l'orecchie. Veggendo ciò il popolo, credettero che fosse lo Spirito Santo che discendesse sopra di lui e portasse le parole di Dio ne l'orecchie sue. E in questo modo ingannòe Magometto i saraceni, i quali, accostandosi a lui, assalirono il reame di Persia e' confini de lo 'mperio de l'oriente insino ad Alessandria. Questo si dice volgarmente, ma più è vero quello ch'è scritto più disotto. Magometto adunque, infignendosi d'avere propie leggi, diceva, mentendo al popolo, che l'avea ricevuto in Ispirito Santo, il quale diceva che in ispezie di colomba volava sopra lui, sì come il popolo vedea; ne le quali leggi mischiòe alcune cose del Vecchio Testamento e del Nuovo. Ché quando elli era ne la prima etade e faceva mercantanzie, andando in Egitto e in Palestina co' cammelli, conversava molto co' giudei e co' cristiani, da i quali imprese del Vecchio Testamento e del Nuovo. Onde al modo de' giudei, si circoncidono i saracini e non mangiano la carne del porco. La ragione di ciò vogliendo Magometto assegnare, disse loro che il porco dopo il diluvio era stato criato del letame del cammello, e però sì come immondo era da schifare dal popolo mondo. Co' cristiani s'accordano in questo, che credono uno Dio solo onnipotente, criatore di tutte le cose. E affermòe il falso profeta, meschiando alcune cose vere con le false, che Moisé fue un grande profeta, ma Cristo fue il maggiore e sommo de' profeti, nato di Maria Vergine per vertù di Dio, sanza seme d'uomo. Dice anche nel suo Alcorano che Cristo, quand'egli era fanciullo, criòe uccelli del loto de la terra, ma mischiò il veleno, però che dice che Cristo non fu veramente passionato, né non risucitò veramente, ma insegnò a' saracini ch'un altro simigliante a lui era morto e avea fatte queste cose. Una gran donna, ch'avea nome Cadigan, la quale segnoreggiava ad una provincia ch'avea nome Corocanica, veggendo questo uomo che gli teneano dietro giudei e saracini, pensava che la maiestà di Dio fosse nascosta in lui, ed essendo vedova sì 'l prese per marito. E così ebbe Magometto la signoria di tutta quella provincia; ma egli con sue fatture non solamente la detta donna, ma eziandio i giudei e ' saracini trasse fuori de la mente, che si confessava d'essere quello Messia che era promesso ne la legge; e questo diceva palesamente. Dopo queste cose cominciò a venire a Magometto quel male quando l'uomo cade in terra, e venìali spesse volte. La qualcosa vedendo Cadigan, stava molto dolorosa di ciò ch'ella era maritata ad uno uomo bruttissimo e che gli si dava quel male. Ed egli volendola rappagare, con cotali parole la lusingava, così dicendo: "Io contemplo spesse volte l'angelo Gabriello parlare con meco, e non potendo sostenere lo splendore del volto suo, vengo meno in me medesimo". E così sì credea la moglie, e l'altre persone che l'udivano dire. Un altro luogo si legge che fue un monaco che indusse Magometto. Il quale avea nome Sergio; il quale, caggendo ne l'errore di Nestorio, fu scacciato da' monaci, e venne in Arabia e accostossi a Magometto. E avvegnadio ch'alcuni affermano ch'e' fosse arcidiacano, abitante ne le parti d'Antiochia, e' fue (ciò dicono) Jacobito, che era una setta di Paterini, che predicavano la circuncisione e che Cristo non era Dio, ma uomo solamente giusto e santo, conceputo di Spirito Santo e nato di Vergine. Le quali cose tutte credono i saracini. Sì che il detto Sergio insegnòe a Magometto molte cose del Nuovo e del Vecchio Testamento. Rimaso dunque Magometto sanza padre e sanza madre, stette così fanciullo sotto la cura del ziso, e molto tempo con tutta la sua gente de li arabi servìo a l'idole, secondamente ch'elli medesimo dice nel suo Alcorano che 'l Segnore li disse: "Orfano fosti, e io ti ricevetti; lungo tempo stesti ne l'errore de l'idolatria, e io te ne trassi; eri povero, e io t'arricchìo". Però che tutta la gente de li arabi adoravano la stella Diana per Domenedio; e quindi venne che ancora hanno i saracini il venerdie in grande reverenza, come li giudei hanno il sabato, e i cristiani la domenica per grande die. Essendo dunque Magometto arricchito de le ricchezze de la detta Cadigan vedova, cadde in tanto ardire di mente che si pensava potere prendere lo reame de gli arabi. Ma, veggendo che non l'avrebbe potuto accivere per forza, massimamente ch'era dispregiato da' parenti suoi, i quali erano stati maggiori di lui, volsesi infignere d'essere profeta, acciò che coloro i quali elli non potea sottomettersi per potenzia, almeno traesse per santitade simulata; e attenevasi al consiglio del detto Sergio, uomo molto prudente. E facealo stare in luogo nascoso, e ogne cosa richiedeva da lui e raccontava al popolo, e chiamavalo l'angelo Gabriello; e così infignendosi Magometto d'essere profeta, ebbe la signoria di tutta quella gente, e tutti gli credettero e per volontade e per paura de la spada; e questo è più vero che ciò che detto è de la colomba; e così è da ritenersi. E 'l detto Sergio, essendo monaco, volse che i saracini usassono l'abito monacale, cioè la cocolla, ovvero lo cappuccio, e che a modo di monaci facessero molte e ordinate genuflessioni, e orassero molto ordinatamente; e perché gli giudei oravamo inverso l'occidente, e li cristiani verso l'oriente, volse ch'elli orassono inverso il meriggio. Le quali cose osservano ancora gli saracini. E molte altre leggi divolgòe Magometto, le quali il detto Sergio gl'insegnòe, tra le quali ne trasse molte de la legge di Moisé. Però che i saracini si lavano spesse volte, e massimamente quando debbono orare lavansi le luogora vergognose, le mani, le braccia, la faccia, la bocca, e tutte le membra del corpo per potere orare più nettamente. Orando confessano uno Dio, che non ha veruno uguale o simigliante, e Magometto suo profete. Un mese intero digiunano l'anno; quando digiunavano, mangiavano la notte e digiunavano il dì; sì che da quell'ora ne la quale possino discernere il nero dal bianco, neuno era ardito infino al tramontare del sole di mangiare o di bere o di mischiarsi con la moglie. Ma dopo il tramontare del sole infino al bruzzolo del seguente dì, sempre è loro licito di mangiare e di bere e d'usare le loro mogli; gl'infermi non sono obbligati a queste cose. Una volta ogni anno, per ricognoscersi, è 'l loro comandamento d'andare a la casa di Dio, la quale è in Mecca, e quivi orare e attorniarla co' mantelli sanza costura, e gittare le pietre per mezzi i pettignoni per lapidare il diavolo; la qualcosa dicono che Adam ordinòe a tutt' i figliuoli suoi, e che fue luogo d'orazione e d'Abraam e d'Ismael. Finalmente affermano che Magometto la lasciò, e diede quella casa a tutta la sua gente. Tutte carni possono mangiare, trattone quella del porco e sangue e cosa moriticcia. Quattro legittime mogli è licito loro d'avere insieme, e ciascuna infino a le tre volte puote cacciare, e anche ritorre in tal maniera che non travalichino il numero di quattro. Delle comperaticce e de le pregioni, è licito a loro d'averne quantunque ne vogliono, e possonle vendere quando vogliono, s'alcuna di quelle non fosse ingravidata. È conceduto loro d'avere mogli del loro parentando, acciò che cresca la schiatta del parentando, e più forte sia costretto tra loro il legame de l'amistade. Ne l'adomandare le possessioni, tegnono questo modo che l'adomandatore de' provare con testimoni, e 'l richiesto sì dee provare col giuramento, d'essere non colpevole. Quegli ch'è trovato in peccato con l'adoltera, è lapidato con lei insieme; chi facesse fornicazione con altra, è punito di ottanta battiture. Ma pertanto Magometto disse che dal Signore fu annunziato a l'angelo Gabriello e conceduto che potesse andare ad altre mogli, acciò che potesse ingenerare uomini vertudiosi e profeti. Uno servo di lui abbiendo moglie e avendole comandato che non parlasse col segnore suo, un die la trovò parlare con lui, e incontanente la cacciò da sé, e Magometto la ricevette e compitolla tra l'altre sue mogli. E temendone il mormorio del popolo, compuose ch'una carta gli fosse recata dal cielo, la quale contenea che se alcuno accomiatasse la moglie, ella fosse la moglie di colui che la ricevesse; la qualcosa osservano oggi i saracini per legge. Il ladrone per la prima e per la seconda volta è battuto, per la terza gli è mozza la mano l'una e l'altra, per la quarta gli è mozzo il piede. Dal vino sempre è comandato che s'astengano. A coloro ch'osservano questi e gli altri comandamenti de la legge ha promesso Domenedio, ciò dicono, il paradiso, cioè l'orto de le dilizie, imbagnato de l'acqua trascorrente; nel quale avranno sedie perpetuali, e non saranno afflitti né di freddo, né di veruno calore, tutte maniere di cibi useranno, di ciò ch'avranno appetito si troveranno innanzi, e incontanente saranno vestiti di vestiri di seta d'ogni colore, e congiugnerannosi a bellissime vergini, in tutte dilizie si riposeranno. E andranno intorno a loro gli angeli a modo di servidori con vasella dorate, e porteranno ne la vasella d'oro il latte e in quelle de l'argento il vino, dicendo così: "Bevete, e già mangiate in allegrezza". Dice ch'avranno tre fiumi, cioè di latte, di mele, e di vino ottimo aromatico; dice Magometto ch'elli avranno nel paradiso, e che vedranno angeli bellissimi e sì grandi, che da l'uno occhio de l'angelo infino a l'altro sia spazio d'un die. E coloro che non credono a Dio e a Magometto avranno, di ciò dicono, infernale pena sanza fine. Qualunque altri sia peccatore, se il die de la morte crederrà a Dio e a Magometto, dicono che al die giudicii, per priego di Magometto, sarà salvo. Questo falso profeta affermano i Saracini, involti in tenebre, ch'avesse ispirito di profezia sopra tutti, e ch'elli ha X angeli che 'l servono e guardano. Dicono ancora che Iddio innanzi che criasse il cielo e la terra, Magometto gli stava innanzi, e dove Magometto dovesse essere, né cielo, né terra, né paradiso vi sarebbe stato. Mente di ciò ancora che dice che la luna venne a lui, e elli, ricevendola in seno, sì la divise in due parti e anche la ricongiunse. Dicono anche che fugli dato veleno in carne d'agnello, e che l'agnello gli parlò e disse: "Guarda che tu non mi prendi, però ch'io abbo in me veleno". E pertanto dopo molti anni morìo di veleno che li fu dato. Ma torniamo ora a dire oltre del fatto de' Longobardi. I Longobardi davano molta noia a lo 'mperio di Roma, avvegnadio ch'avessono ricevuta la fede di Cristo. Dopo queste cose morìo Pipino, prencipe maggiore de la casa di Francia; e dopo lui fue Carlo, suo figliuolo, il quale s'appellava Tutide; il quale faccendo molte vettorie, lasciò due figliuoli prencipi de la detta reale magione, ciò furono Carlo Magno e Pipino. Ma Carlo Magno lasciò la borbanza del mondo e diventòe monaco di Monte Cassino, e Pipino governava grandemente la reale casa. Ma essendo il re Childerigo disutile e remisso, domandò consiglio Pipino da Zaccheria papa, se dovea essere re colui che del solo nome era contento essere chiamato re. E 'l papa gli rispuose che quelli dovea essere chiamato re, che bene reggesse la repubblica. Per la quale risposta i franceschi inanimati, rinchiusero Childerigo nel monasterio, e fecero re Pipino, intorno a gli anni Domini DCCXL. Ma avendo Astolfo, re de' Longobardi, spogliata la chiesa di Roma de le sue possessioni e del dominio, Stefano papa, il quale fu dopo Zaccheria, andòe a Pipino, re di Francia, per domandare aiuto da lui contra Longobardi; onde Pipino ragunò un grande esercito per venire in Italia, e assediò il re Astolfo dal quale ricevette XL stadichi, acciò che rendesse a la Chiesa di Roma tutte le possessioni che gli avea tolte e non gli desse più briga. Ma quando Pipino si fu partito, il re Astolfo ruppe tutto quello ch'avea impromesso; il quale da ivi a poco tempo, andando a cacciare, morìo subitamente, e Desiderio fue dopo lui. Intorno a gli anni Domini DCLXXVII Dagoberto, re di Francia, il quale assai prima che Pipino era regnato, come si truova in alcuna Cronica, ebbe in grande reverenzia da la sua fanciullezza san Dionisio, che quando egli temeva l'ira di Lotario, suo padre, incontanente ricorreva a la chiesa di san Dionisio. Sì che quando fu fatto re e fu passato di questa vita, a un santo uomo fu mostrato in visione che l'anima di colui fu menata al giudicio, e molti santi gli apponevano lo spogliamento de le loro chiese. Sì che volendolo i mali angeli già rapire a le pene, venne san Dionisio e liberollo per li suoi prieghi, lo scampòe di quella pena; forse che l'anima sua ritornòe al corpo e fecevi penitenzia de' suoi peccati. Clodoveo re iscoprendo meno che religiosamente il corpo di san Dionisio, sì li ruppe l'osso del braccio, e rapillo cupidigiamente; il quale re fu rapito incontanente in pazzia. Intorno a gli anni Domini DCLXXXVII Beda, venerabile prete e monaco, chiaro in Inghilterra, il quale, avvegnadio che lo si compiti nel numero de' santi, la chiesa l'appella non santo, ma venerabile, e questo è per due ragioni. L'una si è ch'essendo per la molta vecchiezza annebbiati gli occhi, dicono ch'avea una guida al quale si facea menare per le ville e per le castella, e dovunque predicava la parola di Dio. Una volta passando per una valle piena di grandi sassi, il discepolo suo per ischernie li disse che quivi era grande popolo raunato, il quale disiderava udire la predicazione sua e aspettavallo in silenzio. Allora quegli incominciando a predicare ferventemente, quando venne a la fine che egli ebbe detto: "Per omnia secula seculorum" incontanente, ciò dicono, gridarono le pietre ad alta boce: "Amen, venerabile padre". Sì che perché le pietre il chiamarono miracolosamente venerabile padre, però è appellato venerabile padre, ovvero, come alcuni affermano, gli angeli li rispuosono: "Amen". La seconda cagione è che dopo la morte sua, un cherico, suo devoto, disiderava di componere un suo verso, lo quale elli voleva fare scolpire ne lo avello suo; e cominciava così: "Hac sunt in fossa", e voleva così finire: "Bedae sancti ossa". Ma perché non era convenevole fine a compiere il verso, rivolgea continuamente nel pensiero suo e non potea vedere per se medesimo convenevole fine; e avendo molto pensato una notte sopra questo fatto, la mattina se n'andò a l'avello, e trovò scritto per mano d'angeli e scolpito il cominciamento del verso e la fine; e diceva così: "Hac sunt in fossa Bedae venerabilis ossa" Il corpo suo è in Genova, e hannovi grande divozione la gente di Genova. Per quello medesimo tempo, cioè intorno a gli anni domini DCC, Racordo, re de' Fregioni, dovendo essere battezzato e avendo già messo l'un piede ne la fonte, ritraendo l'altro, domandòe dove fosson più de' suoi maggiori tra in inferno o in paradiso; e udendo che più n'erano in inferno, il piede ch'elli avea intrato ne l'acqua ritrasse a sé, e disse: "Più santa cosa è a seguitare i più che i meno". E così beffato dal demonio, promettendoli che da ivi al terzo die li darebbe beni che non hanno pare, il quarto die morìo di subitana eternale morte. In Campania d'Italia si dice che cadde grano e orzo e legumi a modo di piova da cielo. Per quello medesimo tempo cioè intorno a gli anni Domini DCCXL, essendo traslatato il corpo di san Benedetto da Monte Cassino al monasterio di Florias, e 'l corpo di santa Scolastica, sua serocchia, a Ceromane, Carlo, monaco di Monte Cassino, volea trasportare il corpo di san Benedetto al castello di Monte Cassino, ma per miracoli che Dio ne mostròe e per li Franceschi che contradirono, non fu lasciato. In quello tempo, intorno a gli anni Domini DCCXL fue un grande tremuoto; per lo quale altre cittadi furono che subissarono, altre furono che, come dicono, valicarono più di sei miglia da le montagne infino a le pianure disotto, con le mura e con gli abitanti in terre salve. Il corpo di santa Petronella, figliuola di san Piero apostolo, fu traslatato, nel cui sepolcro di marmo si leggeva per iscritto per mano del detto san Piero: "A l'aurina Petronella, dilettissima figliuola". Queste cose dice Sigberto. In quel tempo i Tiri infestarono Armenia; nel paese de' quali essendo stata per adrieto pestilenzia, per conforto de' cristiani tonderono i capi loro a modo di croce e, per questo segno, fu renduto il salvamento, onde però ritennero quella usanza di tondere. Finalmente, morto Pipino dopo le molte vittorie, Carlo Magno, suo figliuolo, succedéo a lui nel reame, al cui tempo sedea ne la sedia di Roma Adriano papa; il quale mandò legati a Carlo Magno per domandargli aiuto contra Disiderio, re de' Longobardi, il quale, a modo del padre suo Astolfo, molestava molto la Chiesa. E Carlo, ubbidendo a lui, ragunòe grande oste, e per monte Cenisio entròe in Italia e assediòe Pavia potentemente, la quale era la città reale. E prendendo quivi il re Disiderio con la moglie e co' figliuoli e co' baroni, il mandò a' confini in Francia, e tutte le ragioni de la Chiesa, le quali i Longobardi l'avieno prese, e' sì gliele rendéo. Era in quello tempo ne l'oste di Carlo, Amico e Amelio, valentissimi cavalieri di Cristo, de i quali si leggono maravigliose opere, li quali caddero a Mortaia, là dove Carlo vinse i Longobardi, e quinci fu terminato il reame di Lomgobardi, però che da indi innanzi aveano colui per re cui l'imperadori davano a quella gente. Andando Carlo a Roma, il Papa ragunò il Concilio di CLIV vescovi, nel quale Concilio diede a Carlo ragione di eleggere il Papa di Roma e d'ordinare l'apostolicale sedia, e difinìo che gli arcivescovi e ' vescovi per ogni provincia dovessono ricevere da lui, innanzi la consegrazione, investitura; e i suoi figliuoli furono unti a Roma in re, cioè Pipino sopra Italia, e Lodovico sopr'Aquitania. Alcuino, maestro di Carlo, fioriva in quel tempo. Pipino, figliuolo di Carlo, convinto di congiurazione incontr' al padre, ricevette tonsura monacale. Intorno a gli anni Domini DCCLXXX, al tempo di Irene imperatrice e del suo figliuolo Costantino, cavando un uomo in lunghe mura de la Tracia, come si legge in una cronica, trovòe un'arca di pietra, la quale poi ch'ebbe spurgata e levata, trovovvi un uomo giacere entro, e lettere che dicevano così: "Cristo nasce di Maria Vergine, e io credo in lui, sotto Costantino ed Irene imperadori, o sole anche mi vedrai!" Morto Adriano è levato in sedia papa Leone, uomo in tutto da riverire; del quale esaltamento essendo invidiosi i prossimani d'Adriano, quando i cherici andavano dicendo le letanie maggiori, commosso il popolo contra lui, sì li trassero gli occhi e mozzarongli la lingua. Ma Domenedio gli rendéo miracolosamente il vedere e la lingua; il quale quando fuggìo a Carlo, egli il mise ne la sedia sua e punìo i suoi malfattori. Sì che i romani per conforto del Papa, ne gli anni Domini DCCLXXXIV, abbandonato lo imperio di Costantinopoli, ad uno consentimento di tutti gridarono lode d'imperadore a Carlo, e coronarlo imperadore per mano di papa Leone, e appellarolo Cesare Augusto. Però che dopo il grande Costantino la sedia imperiale era in Costantinopoli, però che 'l detto Costantino lasciò la sedia di Roma a' vicarii di san Piero, e ordinossi la sedia appo la detta cittade. Ma per la dignitade furono chiamati imperadori di Roma infino a quel tempo che lo 'mperio di Roma fu trasportato a i re di Francia. Ma poscia furono chiamati quelli l'imperadori de' Greci, ovvero di Costantinopoli, e questi sono chiamati imperadori di Roma. E questa fu grande maraviglia di così alto imperadore che, mentre che visse, non volse giammai maritare neuna de le figliuole sue, però che diceva che sanza loro non potrebbe stare e, come scrive di lui Alcuino, suo maestro, avvegnadio che ne l'altre fosse avventuroso, in questa cosa pure provò elli la malignitade de la contraria ventura assai dichiarando quello che sopra ciò volesse dire. La qualcosa lo 'mperadore ricoperse, sì come di lui non fosse veruna sospeccione, avvegna che di questo fossero molte parole; onde dovunque elli andava sempre le menava con seco. Al tempo di questo Carlo fu lasciato in gran parte l'Officio Ambrosiano, e divolgato massimamente il Gregoriano, aiutando ciò molto l'autoritade de lo 'mperadore. Ché, come dice santo Agostino nel libro de le Confessioni, sostegnendo santo Ambruogio la persecuzione de la imperadrice Justina, corrotta de la ria fede d'Ario, ed essendo costretto entro la chiesa col popolo cattolico d'aguaiti, ordinòe che si cantassero gl'inni e ' Salmi al modo de li orientali, acciò che il popolo non venisse meno per tedio di tristizia. E questo andò poi discendendo per tutte le chiese. Ma san Gregorio sopravvenne poi, e rimutòe più cose e aggiunse e levò, ché i santi Padri non poterono vedere incontanente quelle cose che si appartenessono a bellezza d'Officio, ma diversi ordinarono diverse cose. Però che la cominciata de la Messa ebbe per adrieto tre varietadi, cioè che si cominciava da la elezione, come si fa ancora il sabato santo. Poscia venne papa Celestino, e ordinò che si cantassero Salmi a l'entrata de la Messa, Gregorio invero ordinò l'entrata de la Messa con canto e ritenne un verso di quello Salmo che si cantava tutto. I Salmi si cantavano da quindi adrieto intorno a l'altare, intorno stando concordevolemente ad uno modo; e quindi è detto coro. Questo ordinarono Flaviano e Teodorio, ciò è che si dice alternatamente, e questo ebbero elli da Ignazio, il quale sopra ciò fue ammaestrato da Dio. San Geronimo ordinò i Salmi e le Pistole e ' Vangeli e grande parte de l'Officio del dì e della notte, Ambrosio, Gelasio e Gregorio aggiunsero l'orazioni e 'l canto, e adattarlo a le lezioni e a' Vangeli; il graduale, e 'l tratto, e Alleluia ordinòe santo Ambruogio, Gelasio e san Gregorio che si cantasse ne la Messa; santo Ilario o secondo alcuni papa Simmaco, o secondo altri papa Telesforo, aggiunse: "Gloria in excelsis Deo" e tutto quello che seguita. Nochero, abbate di san Gallo, compuose le seguenzie e 'l suo per i neumi fu 'l primo che compuose alleluia, ma Niccolaio papa concedette che si cantassero a la Messa. Ermanno Attratto tedesco fece: "Rex omnipotens, et Sancti Spiritus adsit nobis gratia, Ave Maria" seguenzia; e questa Antefana che dice: "Alma redemptoris mater" e Simone Baryona. E Pietro di Compostella fece la Salve Regina. Tuttavia Sigiberto dice che Roberto, re de' Franchi, fece la seguenzia: "Sancti Spiritus nobis adsit gratia, etc.". Racconta Turpino arcivescovo che Carlo era bello del corpo, ma fiero nel viso, la statura sua era d'otto piedi, la faccia sua era di lunghezza d'un palmo e mezzo, la barba era lunga un palmo, la fronte era d'un piede; il cavaliere armato seggente in sul cavallo ad un colpo fendea con la spada dal capo in giù insieme col cavallo, quattro ferri di cavallo insieme stendea con le sue mani leggieremente. Un cavaliere armato stando ritto levava da terra sopra la sua mano infino al capo tostamente, una lepre intera o due galline o un'oca mangiava, poco vino bevea, e quello innacquato, tanto era temperato nel bere che a cena rado solea bere più che tre volte. Molti monasteri fece, e finìo laudabilemente la vita sua, e a la fine fece Cristo reda de le sue cose. Al quale succedette ne lo 'mperio Lodovico, suo figliuolo, uomo pietosissimo, ne gli anni Domini DCCCXV, nel cui tempo i cherici e ' vescovi abbandonaro le cinture orate e ' tessuti, e le leggiadre vestimenta, e gli altri ornamenti secolareschi. Teodolfo, vescovo d'Orliens, accusato falsamente a lo 'mperadore, fu mandato in pregione in Andegavis. E truovasi in una cronica che, valicando la processione il dì d'ulivo, a lato a la casa là dov'era in guardia, egli aperse la finestra e, fatto il silenzio, presente lo 'mperadore, cantòe quegli bellissimi versi, i quali e' medesimo compuose, cioè: "Gloria, laus et honor tibi sit, rex Christe, redemptor" e gli altri che seguitano. La qualcosa piacque tanto a lo 'mperadore che incontanente il trasse di pregione, e rimiselo nel vescovado suo. Li ambasciadori di Michele imperadore di Costantinopoli, fra gli altri donamenti, recarono a Lodovico, figliuolo di Carlo Magno, i libri di san Dionisio, ched e' fece de l'Angelica Gerarchia, traslatati di greco in latino; ed elli gli ricevette con allegrezza, e XIX infermi ne furono gueriti in quella notte. Morto Lodovico succedette a lui Lotario, al quale i suoi fratelli, cioè Carlo e Lodovico, comandarono battaglia; dove tanta mortalità fue da ogne parte d'uomini, che neuna etade ricorda che giammai fosse tanta nel reame di Francia. Finalmente fecero patto insieme, e Carlo regnò in Francia, Lodovico in Germania e Lotario in Italia e ne la parte di Francia, la quale è nominata da lui Lotaringia. Il quale lasciando poi lo 'mperio a Lodovico, suo figliuolo, prese l'abito monacale. Al tempo di costui, come si legge in una Cronica, era papa Sergio natìo di Roma; il quale fu prima chiamato bocca di porco ma, mutato il nome suo, fu chiamato Sergio. Da quel tempo fu ordinato che tutt' i Papi mutassero le nomora, sì che perché il Segnore mutò il nome a coloro i quali elli chiamò apostoli, e sì perché debbono mutarsi come ne la perfezione de la vita, come si mutano nel nome, e sì perché colui ch'è chiamato a bello officio, non sia sozzato da sozzo nome. Al tempo di questo Lodovico, cioè gli anni Domini DCCCLVI, secondo che si truova in una Cronica, ne la parocchia Magontina avvenne che i maligni spiriti bussavano le pareti de le case quasi con martelli, e manifestamente parlavano e seminavano le discordie, intanto che molestavano gli uomini che dovunque entravano, incontanente quella casa ardeva. E dicendo i preti le letanie e spargendo l'acqua benedetta, il nemico gittava le pietre, e molti ne 'nsanguinava. Finalmente, alcuna volta posando, confessòe che quando spargea l'acqua sì si nascose sotto la cappa di quello prete, come di suo famigliare, e accusollo ch'egli era caduto in peccato con la figliuola del procuratore. Per quello medesimo temporale il re de' Bulgari convertìo con la gente sua a la fede. Fu di tanta perfezione che ordinato ch'ebbe che 'l suo maggiore figliuolo fosse re, egli prese l'abito monacale; ma portandosi il figliuolo suo giovenilmente, e vogliendo ritornare al paganesimo, il padre riprese la cavalleria, e cominciollo a perseguitare, e cavogli gli occhi e misselo in prigione e ordinò che fosse re il suo figliuolo più giovane, e poi riprese il santo abito monacale. In Italia, a Brescia, si racconta che piovve sangue tre dì e tre notte da cielo. Per quello medesimo tempo apparvero in Francia grilli sanza novero, ch'aveano sei ale e sei piedi e due denti più duri che pietre, volando schieratamente come cavalieri in campo, e per ispazio d'andare d'indi si stendeano quattro o cinque miglia, e andavano guastando tutte le cose verdi ne l'erbe e ne li alberi; i quali pervegnendo insino al mare di Brettagna, e finalmente per fiato di venti profondarono tutti nel mare; ma per lo bollore del mare oceano furono gittati a la riva e per la loro puzza corruppero l'aere. Onde ne seguitò grandissima mortalità e fortissima fame, sì che poco meno che la terza parte de' nemici ne morirono. A la perfine fu imperadore primo Ottone, cioè ne gli anni Domini DCCCCXXXVIII. Il quale avendo apparecchiato il convito a i suoi baroni ne la solennità del Pasqua, e anzi che mangiasse, il figliuolo d'un prencipe a modo fanciullesco tolse una minestra de la mensa, e 'l recatore de le vivande sì l'abbattéo in terra col bastone. Vedendo ciò il maestro del fanciullo, uccise incontanente quel donzello; e volendolo lo 'mperadore punire sanza veruna audienza e condannarlo, quelli misse in terra lo 'mperadore e cominciollo ad affogare; il quale essendoli appena tratto de le mani, comandò che fosse reservato, gridandosi colpevole di ciò che non fece onore a la festa; onde il lasciòe andare libero. Al primo Ottone succedette Ottone secondo. Al tempo di costui, rompendo spesse volte que' d'Italia la pace, elli ne venne a Roma, e fece un gran convito a' baroni e a' cavalieri nobili e grandi appresso il grado de la chiesa. E mangiando loro, sì li fece tutti cignere nascosamente d'armati, poscia cominciò a muovere lamentanza de la pace rotta; laonde fece leggere per iscritti tutti coloro ch'erano colpevoli, i quali facea dicollare immantanente nel detto luogo, e gli altri costrignea di mangiare. A costui succedette Ottone terzo, intorno a gli anni Domini DCCCCLXXXIV. Questi avea per suo soprannome "mirabilia mundi". Di costui si legge in una Cronica ch'elli ebbe una moglie, la quale si volse sottoporre a un conte; ma non vogliendo quegli commettere tanta fellonia, e ella indegnata infamòe il detto conte a lo imperadore, intanto che lo 'mperadore sanza audienza lo fece dicollare. Il quale, innanzi che fosse dicollato, pregò la moglie che per giudicio di ferro rovente approvasse come non era colpevole. Or venne il dì che lo 'mperadore disse che volea fare ragione a' pupilli e a le vedove; venne innanzi la vedova e recò seco in braccio il capo del marito suo. Allora quella domandò lo 'mperadore di qual morte fosse degno chi avesse morto persona ingiustamente. Dicendo lo imperatore che quel cotale sarebbe degno di perdere il capo, e quella rispuose e disse: "Tu se' quell'uomo il quale per conforto e per fattura di mogliata facesti uccidere il marito mio sanza colpa, e perché tu pruovi ch'io dico la verità, io sono apparecchiata di toccarne il ferro rovente". Udendo ciò lo 'mperadore isbigottio tutto, e missesi ad essere punito in mano de la femmina; ma per priego de' pontefici e de' nobili ricevette indugio da la vedova X dì, e poi VIII, la terza volta VII, la quarta sei. Allora da che lo 'mperadore ebbe disaminato il piato e saputa la veritade, fece ardere la moglie viva, e per ricomperamento diede quattro castella a la vedova; le quali castella sono nel vescovado di Luni, e sono chiamate da l'indugii de' dì Decimo, Ottavo, Settimo e Sesto. Dopo costui prese lo 'mperio il beato Arrigo, il quale fu duca di Baviera, ne li anni Domini MII. Il quale diede la sua serocchia Galla per moglie a Stefano, re d'Ungheria, essendo ancora pagano, e convertìo a la fede il re e tutta la sua gente. Il quale Stefano fue di tanta onestade che Dio l'alluminò e glorificò da molti miracoli. Questo Arrigo e la sua moglie Cunegonda stettero in verginitade e, menando vita celestiale, morirono in santa pace. A costui succedette Currado, un duca di Franceschi, il quale tolse per moglie la nipote di santo Arrigo. Al tempo di costui fu veduta in cielo una trave di fuoco maravigliosamente grande, la quale correa inverso il sole in quella su ch'elli inchinava al tramontare, e poi cadea a terra quella trave. Costui misse in pregione alcuni vescovi d'Italia; e perché l'arcivescovo di Melano fuggìo di pregione, tutte le borgora di Melano misse al fuoco. E standosi lo 'mperadore il dì di Pentecoste in una piccola chiesa presso a la città per udirvi la Messa, sì gravi tuoni e saette folgori vennero, ch'alcuni n'uscirono fuori de la memoria, altri furono che ne morirono. E 'l vescovo, che avea nome Bruno, il quale cantava la Messa, e 'l segretiero de lo 'mperadore con gli altri, dissero che avieno veduto santo Ambruogio fra la solennità de la Messa minacciare lo 'mperadore. Al tempo di questo Currado, cioè negli anni Domini MXXV, come si legge in una Cronica, il conte Lupoldo, temendo l'ira del re, fuggìo in una selva con la moglie sua, e stava nascosto in una capanna. Ne la qual selva cacciando lo 'mperadore, sopravvenne la notte, e convennelo albergare ne la detta capanna. Al quale la donna albergatrice, era pregna e prossimana al parturire, servìo convenevolemente come potéo. In quella medesima notte partorìo la femmina il fanciullo, e l'imperadore udìo una voce che li venne tre volte, e disse: "O Currado, questo fanciullo che ora è ingenerato, sarà tuo genero". La mattina quando si levò, chiamò a sé due che gli portavano l'arme, suoi segretieri, e disse loro: "Andate tosto e togliete quello fanciullo per forza di collo a la madre, e sparatelo per mezzo, e recatemi il cuore". Quegli andarono tostamente, e rapparono il fanciullo di grembo a la madre e, veggendolo di bellissima forma, commossi quelli a pietade, sì 'l puosero in su uno albore, acciò che le bestie nol divorassero, e prendendo una lepre, sì la spararono e portarono il cuore e lo 'mperadore. In quello medesimo die valicando quindi un duca, e udendo piagnere il fanciullo, sì 'l si fece recare, e perché non avea figliuolo, sì 'l portò a la moglie e, faccendolo nutricare, infinsesi d'averlo ingenerato de la moglie, e puosegli nome Arrigo. Sì che quando il fanciullo fu cresciuto, era bellissimo di corpo e bello favellatore e grazioso a tutta gente. Veggendolo lo 'mperadore così bello e savio, sì l'adomandòe al padre, e fecelo stare ne la corte sua. Ma veggendo che 'l fanciullo era grazioso a tutti, e che tutti il commendavano, cominciò a dubitare che non regnasse dopo lui, e che non fosse colui ch'egli avea comandato che fosse morto. Volendone dunque essere sicuro, scrisse una lettera di sua mano e mandolla per costui a la moglie, e diceva così: "Come tu hai cara la vita tua, sì tosto come tu avrai veduta questa lettera, sì ucciderai questo garzone". Sì che quando costui andava, vennoli albergato in una chiesa, e posandosi così lasso in su una panca, la borsa dove la lettera era, stava spenzolata. Allora il prete mosso da una cotale curiositade, aperse la borsa e, veggendo la lettera suggellata del suggello del re, sì la aperse, salvo il sigillo, e leggendola sì li venne abbominazione de la fellonia scritta, e radendo sottilemente colà dove diceva: "Costui ucciderai", sì scrisse: "A costui la figliuola nostra darai". Quando la reina vidde la lettera suggellata del suggello del re, e ebbe conosciute le lettere del re fatta di sua mano, fece ragunare molti prencipi e diede la figliuola per moglie a costui e fece le nozze; le quali nozze furono fatte ad Aquisgrani. Essendo narrato a lo 'mperadore come le nozze erano fatte solennemente de la figliuola sua, quegli stupidito, e spiato la verità e saputa e da due donzelli e dal duca e dal prete, vidde che non era da contrastare a l'ordinazione di Dio, e però mandò per lo fanciullo, e approvollo per suo genero e ordinò che regnasse imperadore dopo lui. E nel luogo dove il fanciullo Arrigo nacque fu fatto uno nobile monasterio, il quale insino al dì d'oggi è chiamato Ursania. Questo Arrigo rimosse da la corte sua tutt'i giucolari, e quello ch'era usato di dare loro, dava a' poveri. Al tempo di costui fu tanta divisione ne la Chiesa che tre pape furono eletti. Ma un prete, ch'avea nome Graziano, diede molti danari a costoro, e diederli luogo, e ebbe il papato. Andando Arrigo a Roma per pacificare la divisione, Graziano gli venne incontro e offerseli una corona d'oro per averlo dal suo lato amorevole. Ma elli, ricoprendosi di tutte le cose, ragunòe il chericato, nel quale concilio commosse Graziano de la simonia e rimise un altro in sedia di Papa. Ma nel libro di Bonizzo, ched e' mandòe a la contessa Matelda, dice che 'l detto prete per sua semplicitade s'acquistò il papato per pecunia, per contrastare a la divisione, ma elli riconoscendo poi l'errore suo, dispuose se medesimo per conforto de lo 'mperadore. Dopo costui regnòe Arrigo terzo. Al tempo di costui, Bruno fu eletto Papa e fu chiamato Leone; il quale, andando a Roma per entrare ne l'apostolica sedia, udìo voci d'angeli che cantavano e dicevano: "Dice il Segnore: "Io penso pensieri di pace e non d'afflizione". Questi compuose il canto di molti santi. In questo tempo fu turbata la Chiesa per Berengario, il quale dicea che 'l corpo e 'l sangue di Cristo non era veramente ne l'altare, ma in figura. Contra quelle scrisse nobilmente Lanfranco, priore di Bec nativo di Pavia, il quale fu maestro d'Anselmo di Conturbìa. Poscia regnòe imperadore Arrigo quarto, ne gli anni Domini MLVII; al cui tempo massimamente fu molto innanzi Lanfranco, priore del monasterio di Bec; a la cui alta dottrina venne di Borgogna Anselmo, il quale adornato poi di molta vertude e sapienzia, fue priore dopo lui nel monastero di Bec. Sotto questo tempo fu presa Gerusalem da' saracini e ricoverata da' cristiani. L'ossa di san Niccolò furono traslatate a la città di Bari; del quale infra l'altre cose si legge che non cantandosi ancora la novella storia di san Niccolò in una chiesa, la quale si chiama santa Croce, sottomessa a santa Maria di Caritade, i frati pregavano sollicitamente il priore che fosse loro licito di cantarla. Il quale, non assentendo per niuno modo, disse che sconvonevole cosa era rimutare il primo modo per alcune novitadi. Soprastando ancora i frati a pregare, il priore indegnato rispuose: "Partitevi da me, frati; mai non vi fia data per me questa licenzia che novi canti, anzi di trastullo si cantino ne la mia chiesa". Sì che vegnendo la festa sua, i frati con una cotale tristizia dicevano il mattutino; e quando furono tutti tornati a letto, ecco san Niccolò apparire visibilemente al priore molto terribile, e prendendolo per li capelli, del letto del dormentoro il misse a terra per lo spazzo, e cominciando l'antefana che dice: "O pastore eterno", per ciascuna differenzia di voce cantando adagio, per ordine il venne battendo sopra il dosso, dandoli gravissimi colpi con verghe che tenea da una mano; e così fece infino ch'ebbe compiuto l'antefana. E 'l priore isvegliando tutti i frati con sue grida, fu riportato da loro come mezzo morto a letto. Finalmente ritornando a sé, disse: "Andate, e oggimai cantate la storia di santo Niccolaio". In questo tempo uscirono XXI monaci con l'abbate loro Ruberto del monasterio di Molinens, e accostarsi a la solitudine di Cestella per mantenere più strettamente la perfezione de la loro regola, e ordinarono del vecchio Ordine un novello. Ildebrando, priore di Cluniate, fu fatto Papa, e postoli nome Grigorio. Questi, essendo cherico ne' minori ordini ed essendo mandato per legato a Leone sopra Rodano, convinse di simonia l'arcivescovo d'Ebron. Ché, corrompendo questo arcivescovo con pecunia tutt'i suoi accusatori e non potendo essere convinto, il legato gli comandò che dovesse dire: "Gloria Patri et Filio et Spiritui Sancto". Ma quelli diceva bene speditamente: "Gloria Patri et Filio" e non potea dire" et Spiritui Sancto". Questo era perch'elli avea peccato contra lo Spirito Santo. Il quale, confessando il peccato suo, sì tosto come fue disposto, con chiara voce nominò lo Spirito Santo. Questo miracolo racconta Bonizzo nel libro ch'elli mandòe a la contessa Matelda. Morto Arrigo quarto a Spira, e seppellito con gli altri re, questo verso hanno gli Arrighi nel loro avello: "Filius hic, pater hic, avus hic, proaves iacet istic". A costui succedette Arrigo ne gli anni Domini MCVII, il quale prese il Papa co' cardinali e, lasciandoli, tolse il bastone, investitura di vescovi e de li abbati per l'anello e per lo pasturale. Sotto questo tempo san Bernardo con li suoi fratelli entròe in Cestella. Ne la parrocchia Legense una troia partorìo un porcello, ch'avea faccia d'uomo; e 'l pulcino de la gallina nacque di quattro maniere. Lotario succedette ad Arrigo, al cui tempo fu una femmina in Ispagna che parturìo una contraffatta cosa, cioè una criatura ch'avea doppio corpo, il suo volto le facce averse e accostate ne' corpi. Dinanzi avea simiglianza d'uomo, intero il corpo e le membra de l'uomo distintamente, di dietro avea faccia di cane, intera la propietade del corpo e de le membra. Dopo costui regnòe Currado ne gli anni Domini MCXXXVIII. In quello tempo morìo Ugo di san Vittore, dottore eccellentissimo e sommo in ogni iscienzia e riligione divoto. Del quale si racconta che, essendo gravemente infermo e non potendo ricevere cibo veruno, adomandava perseverantemente che li fosse dato il corpo del Signore. Allora i frati, vogliendo pacificare la turbazione di lui, sì li portarono semplicemente un'ostia a modo del corpo del Signore. La qualcosa quegli conobbe per ispirito, e disse: "Dio abbia misericordia di voi, frati; perché m'avete voluto beffare? Questo non è il Signore mio, quello che voi m'avete recato". Allora quegli stupiditi sì li portarono il corpo del Signore; ma elli, veggendo che nol potea ricevere, levò le mani al cielo, e oròe in questo modo: "Salga il figliuolo al padre e lo spirito a colui che 'l criòe". E fra queste parole rendette lo spirito a Dio, e 'l corpo del Signore disparve quindi. Eugenio, abbate di santo Nastagio, fu fatto Papa; il quale, scacciato di Roma in per quello che i sanatori n'aveano fatto un altro, sì ne venne in Francia, e mandossi innanzi Bernardo, il quale predicava la via di Dio e facea molti miracoli. Gilberto Porrettano fioriva in quello tempo. Federigo, nipote di Currado, fue imperadore ne gli anni Domini MCLIV. Allora eziandio fiorìo il maestro Pietro Lombardo, vescovo di Parigi, il quale compuose il libro de le Sentenzie e le chiose del Salterio e de le Pistole di san Paolo utilemente. In quello tempo furono vedute tre lune in cielo e, nel mezzo, il segno de la Croce, e non passò guari tempo che furono veduti tre soli. Allora Alessandro fue eletto in Papa regolarmente; contra 'l quale furono eletti Ottaviano e Giovanni di Renso, cardinale di san Calisto, e Giovanni di Struma; per carta furono eletti in Pape l'uno dopo l'altro, ed ebbero il favore de lo 'mperadore. E durò questa divisione XVIII anni; infra 'l quale tempo i tedeschi che dimoravano a Toscanella per lo 'mperadore, assalirono i romani a Monte Porto, e uccisonne tanti da la nona al vespro, che mai non ne furono morti tante milia, avvegnadio ch'al tempo d'Annibale ne furono tanti morti, che tre cuofani fece il detto Annibale empiere de li anelli che trassero de le dita de' nobili che erano morti, e mandolli a Cartagine. E furonne seppelliti molti a santo Stefano e a san Lorenzo, e correvano gli anni Domini, quando fu questo, MCLXVI. Quando lo 'mperadore Federigo ebbe vicitato la Terra Santa, lavandosi in uno fiume, sì v'affogò entro e morìo, ovvero, come altri dicono, che 'l cavallo suo il pinse ne l'acqua e ivi morìo. A costui succedette Arrigo, suo figliuolo, ne gli anni Domini MCXC. In quello tempo furono tante pioggie con saette e con tuoni, quante non ricorda mai veruna antichità d'uomini; però che da cielo cadevano con la pioggia mischiata pietre quadrate, grosse come uova, le quali pietre guastarono gli albori e le vigne e le biade e molti uomini uccisero. E furono veduti corbi e molti uccelli volando per aria portare carboni in bocca e accendere le case. Questo Arrigo sempre fue tiranno inverso la Chiesa di Roma, e però morto lui, Innocenzio papa terzo si contrappuose che 'l suo fratello Filippo non fosse promosso a lo 'mperio, e accostossi ad Ottone, figliuolo del duca di Sassonia, e fecelo incoronare ad Aquisgrani in re de la Magna. In quello tempo, andando molti baroni di Francia oltre mare per liberare la Terra Santa, presero Costantinopoli. In questi tempi sollevarono gli Ordini de' Predicatori e de' Minori la loro Regola. Innocenzio terzo mandò ambasciadori a Filippo, re di Francia, che dovesse assalire le terra de li Albigesi e distruggesse gli eretici, e feceli tutti prendere e ardere. A la perfine Innocenzio incoronòe Ottone imperadore, e domandolli giuramento di salvare le ragioni de la Chiesa; il quale venne in quello dì medesimo contra il giuramento e fece ispogliare i romei. Laonde il Papa lo scomunicòe e dispuoselo de lo 'mperio. In quello tempo fiorìo santa Elisabetta, figliuola del re d'Ungheria, la quale fu moglie di Langravio di Turingia, la quale infra gli altri infiniti miracoli risucitòe XVI morti e rendé il lume ad un cieco nato, com'è scritto di lei; e dicesi che infino al die d'oggi esce l'olio del suo corpo. Disposto Ottone, fue eletto Federigo, figliuolo d'Arrigo, e fu incoronato da papa Onorio. Questi fece ottime leggi per libertà de la Chiesa e contra gli eretici. Questi abbondòe di ricchezze e di gloria sopra tutti, ma usolle male in superbia; però che fu tiranno contra la Chiesa, due cardinali misse in pregione, fece prendere a' Pisani li prelati che Gregorio n'avea fatti venire al Concilio, e però fu scomunicato da loro. A la perfine morì Gregorio premuto da molte tribulazioni. Innocenzio quarto, genovese, ragunò il Concilio a Lione sopra Rodano, nel quale Concilio dispuose lo 'mperadore. Il quale disposto e morto, vacòe lo 'mperio infino al MCCCVIIII.
cap. 177, Consacraz. chiesaLa sagra de la Chiesa tra l'altre festivitadi è molto solennizzata da la Chiesa; e però che due sono le chiese, ovvero tempii, cioè la materiale e la spirituale, però del doppio sagramento di questo tempio tratteremo qui brievemente. Intorno a la sagra del tempio materiale tre cose sono da vedere. La prima si è perché si sagra; la seconda, come si sagra; la terza, per quali cose si contamina. E perché nel tempio sono due cose che si sagrano, cioè l'altare e 'l tempio, però è prima da vedere perché si sagra l'altare, e poscia perché il tempio. L'altare si sagra a tre cose. La prima si è ad offerere il sagrificio del Signore, come dice il Genesi, VIII capitolo: "Edificòe Noè l'altare a Domenedio, togliendo di tutti gli uccelli e animali mondi, e offerse sopra l'altare". Questo sagramento è il corpo e 'l sangue di Cristo, lo quale noi sagrifichiamo in memoria de la passione di Cristo, secondo quello che ci comandò dicendo: "Fate questo in mia ricordanza". Noi avemo tre memoriali de la passione di Cristo figurata ne le imagini, e questa ha a fare quanto al vedere. Però che quella imagine del Crucifisso e l'altre imagini si fanno ne la Chiesa per muovere a ricordanza e a devozione e ammaestramento, che sono quasi libri de' ladici. Il secondo si è in parole, cioè la passione di Cristo predicata; e questa ha a fare quanto a l'udire. Il terzo si è nel sagramento, cioè la passione così segnatamente espressa in questo sagramento, nel quale si contiene veracemente il corpo e 'l sangue di Cristo, e offeriscesi a noi; e questa hae a fare quanto a l'assaggiare. Che se la passione di Cristo scritta accende il nostro affetto, e più quand'è predicata, molto più forte il dee infiammare così segnatamente espressa in questo sagramento. La seconda cosa si è a chiamare il nome di Dio, come dice il Genesis, XII capitolo: "Edificòe Abraam l'altare a Domenedio, il quale gli apparve e chiamovvi il nome di Dio". Questo chiamamento ha a fare, come dice l'Apostolo ne la Pistola prima a Timoteo, ovvero per prieghi che si fanno con iscongiuramento per muovere i mali, ovvero per orazioni che si fanno per acquistare i beni, ovvero per adomandamento che si fanno per ragunare beni, ovvero per rendimenti di grazie che si fanno per conservare i beni avuti. Il chiamamento che si fae sopra l'altare, propiamente è detto Messa, in per quello che 'l celestiale messo, cioè Cristo, è mandato al Padre da noi, acciò che prieghi per noi. Onde dice Ugo da san Vittore: "Quella Ostia sagrata può essere chiamata Messa, però ch'ella trasmessa è; primieramente è mandata dal Padre a noi per la incarnazione, secondariamente è mandata da noi al Padre per la passione. Simigliantemente nel sagramento è mandato imprima dal Padre a noi per santificazione, per la quale comincia a stare con noi, poscia da noi al Padre per offerta, per la quale priega per noi. E nota che la Messa si canta in tre lingue, cioè in grecesco, in giudea e in latina, a rappresentare la soprascritta de la Croce, ch'era fatta di lettere grecesche e giudee e latine. Anche è da notare che ogne lingua dee lodare Domenedio; la quale s'intende per queste tre lingue: la latina sono i Vangeli e le Pistole e le orazioni e 'l canto; la grecesca sono i Chirie eleison, Christe eleison, che si canta nove volte, acciò che noi pervegnamo a i nove ordini de gli angeli; la Giudea sono Alleluia, Amen, Sabaoth e Osanna. La terza cosa si è a cantare, come dice l'Ecclesiastico nel XLVII capitolo: "Diede loro potenzia contra nemici, e fece stare i cantori dinanzi dirimpetto a l'altare, e nel suono loro fece dolci versi". E disse versi in plurale, però che come dice Ugo di san Vittore: "Tre sono le maniere de' suoni che fanno tre versi. Fassi suono con toccamento, con fiato e con canto. A la cetera s'appartiene il toccamento, a gli organi il fiato, cioè vento, a la boce il canto. Assegnare si puote questa concordanza de' suoni a la concordanza de' costumi, se noi volemo recare il toccamento de la cetera a le operazioni de le mani, e 'l vento de l'organo a la divozione de la mente, e 'l canto de la voce al conforto de le parole". E così: "Che giova a la dolcezza de la voce sanza la dolcezza del cuore? Rompi la voce, rompi la volontade, tieni la concordanza de le voci, tieni la concordanza de' costumi, acciò che per lo essemplo ti concordi col prossimo tuo, per la volontade con Dio, per l'obbedienza al maestro". Ché queste tre maniere di canti si reca a tre differenzie a l'Officio de la Chiesa, com'è scritto nel Mitrale de Officio, però che l'Ufficio de la Chiesa sta in tre cose: in Salmi, in canto, in lezioni. La prima generazione di canti è quello che si fa con toccamento de le dita nel Salterio e in simiglianti cose; e a quello s'appartiene lo canto del Salmo: "Laudate lui nel Salterio e ne la cetera". La seconda è quella che si fa nel canto o ne la voce; a questo s'appartiene le lezioni, come dice il Salmo: "Cantate a lui in vociferazione". La terza è quella che si fa col fiato, sì come ne la tromba; a questo s'appartiene il canto, come dice il Salmo: "Laudate lui nel suono de la tromba". Il tempio, ovvero chiesa, si sagra per cinque ragioni. La prima si è acciò che 'l diavolo e la sua potenzia ne sia cacciata fuori; onde racconta san Gregorio nel Dialago che, sagrandosi una chiesa de li ariani, la quale era stata renduta a i cristiani, ed essendovi a portare le reliquie di santo Sebastiano e di santa Agata, il popolo che v'era ragunato sentirono subitamente tra ' piedi loro andare scorrendo qua e là un porco, il quale ricercando le reggi de la chiesa, non poté essere veduto da neuno e misse grande maraviglia in tutti. La qualcosa però mostròe Domenedio, acciò che a tutti fosse manifesto che di quello luogo usciva il sozzo abitatore. La seguente notte ebbe grande strofinamento nel tetto de la chiesa, come s'alcuno andasse girando in quella; la seconda notte crebbe ancora più grave suono; ma la terza notte con tanto spavento fece risonamento come se tutta quello chiesa fosse stata stravolta dal fondamento. Poscia rimase e non apparve più quella inquietudine de l'antico nimico; ma per lo spaventamento del suono che fece, sì fu manifesto come costrettamente usciva del luogo ch'elli avea tenuto lungo tempo. Queste sono parole di san Gregorio. Nel secondo luogo si sagra acciò che siano salvi coloro i quali fuggono a quella. Onde alcune chiese poi che sono consagrate, sono privilegiate da i signori, che qualunque persona fuggirà ad essa, ch'avesse colpa, sì sia salvo. Onde dice il decreto: "I colpevoli di sangue difende la Chiesa, acciò che non perdano la vita e le membra". E per ciò fuggìo Joab nel Tabernacolo e prese il corno de l'altare. Nel terzo luogo si sagra acciò che l'orazioni vi sieno entro esaudite; e ciò fu significato nel terzo libro de' Re, VIII capitolo, ove dice che Salamone, poi che il tempio fu sagrato disse: "Chiunque pregherà in questo luogo, tu l'esaudirai nel luogo del Tabernacolo tuo in cielo, e quando avrai esaudito, sarai misericordevole". E adoriamo ne le chiese a la parte del levante; e ciò si fa per tre ragioni, come dice Damasceno nel quarto libro, capitolo V. L'una ragione si è per mostrare che noi radomandiamo il paese nostro; la seconda si è per ragguardare a Cristo Crucifisso; la terza per mostrare che noi aspettiamo il giudice che dee venire. E dice così in quel libro: "Domenedio piantòe il paradiso ne l'oriente, del qual luogo isbandìo l'uomo travalicatore, e fecelo abitare dinanzi al paradiso da l'occidente. Adunque noi richeggendo l'antico paese, ragguardando ad esso, adoriamo Dio a l'oriente. E 'l Signore crucifisso ragguardava a l'occidente, e così l'adoriamo noi ragguardando a lui; e andando in cielo ragguarda a l'oriente, e così l'adorarono gli apostoli, e così verrà com'elli il videro andare in cielo. Sì che noi aspettando lui, adoriamo a l'oriente". Queste sono parole di Giovanni Damasceno. Nel quarto luogo si sagra acciò che vi si rendano laude a Dio. E ciò si fa in sette ore canoniche, cioè nel mattutino, ne la prima, ne la terza e ne l'altre ore. E avvegna che Iddio fosse da essere lodato a tutte l'ore del die, per tanto che la nostra infermità non basta a ciò fare, è ordinato che in queste sette ore spezialmente il lodiamo, però che queste sette sono privilegiate da l'altre in certe cose. Ché ne la mezzanotte, quando il mattutino si canta, Cristo nacque e fu preso e schernito da' giuderi. Ancora in questa ora spogliòe lo 'nferno. Ché è detto nel Mitrale che ne la mezzanotte spogliò lo 'nferno pigliando largamente: cioè che risucitòe la mattina anzi die, ne la prima ora apparve. Ancora s'afferma che verrà ne la mezzanotte a giudicare. Onde dice san Geronimo: "Io affermo che quello che gli apostoli ne lasciarono, sia fermo che 'l die de la vilia de la Pasqua, anzi la mezzanotte, non sia licito di lasciare che 'l popolo aspetti l'avvenimento di Cristo; e poi che quello tempo sarà venuto, prendendo dinanzi la sicurtade, non sia licito fare tutti i dì festerecci". Adunque in questa ora noi cantiamo laude a Dio, acciò che li facciamo grazie del suo nascimento e prendimento e liberamento de' santi Padri, e per aspettare sollicitamente il suo avvenimento. Aggiungonsi anche le laudi del mattutino, però che ne la mattina profondòe quegli de l'Egitto nel mare e criò il mondo e risucitò da morte. Sì come noi in quest'ora rendiamo laude a Dio, acciò che noi non profondiamo con quelli de l'Egitto nel mare di questo mondo, e per renderli grazia de la nostra criazione e risucitamento. Ne l'ora de la prima Cristo massimamente si riduceva al tempio, e 'l popolo andava a lui in fretta la mattina. Fu anche in quest'ora menato dinanzi a Pilato. Ancora quando si rilevò, apparve in quest'ora a le femmine la prima volta. Adunque quest'ora rendiamo grazie a Dio entro la chiesa, acciò che noi seguitiamo Jesù Cristo, e a Lui risurgente e apparente rendiamo grazie, e per rendere a Lui, sì come a principio di tutte le cose, i primi frutti di quel die. Ne l'ora de la terza Cristo fu crocifisso con le lingue de' giudei, e fragellato a la colonna da Pilato, e ancora, come dicono le storie, colà dov'egli fu legato si mostrano le 'nsegne del sangue sparto, e in questa cotale ora fu mandato lo Spirito Santo. Ne l'ora de la sesta fu confitto ne la croce co' chiavelli, e furono le tenebre per tutto il mondo, acciò che 'l sole piangendo ne la morte del Signore suo, sì si coprisse con le sue veste e per non dare lume a coloro che 'l crucifiggevano Domenedio. E in questa cotale ora mangiò co' discepoli il dì de l'Ascensione. Ne l'ora de la nona Cristo mandò fuori lo spirito suo, e 'l cavaliere gli aperse il lato; la compagnia de li apostoli a quest'ora usò d'andare a l'orazione, e Cristo salette in cielo. Per queste prerogative lodiamo Domenedio a quest'ora. Nel vespro Cristo ordinò ne la cena il sagramento del corpo e del sangue suo, lavòe a' discepoli i piedi, fu disposto de la croce e messo nel monimento, manifestossi a li discepoli in atto e abito di pellegrino; e per queste cose rende la Chiesa grazie a Cristo in quest'ora. Ne la compieta Cristo sudòe gocciole di sangue; al monimento suo fu posta la guardia e in quello si riposòe, e rilevossi da morte in quel die; la sera apparve a li discepoli e annunziò a loro pace; e per queste cose rendiamo grazie a Dio. Queste cose in che modo noi le dobbiamo rendere a Dio, san Bernardo il dice: "Frati miei, quando noi sagrifichiamo sagrificio di laude congiugnamo il sentimento a le parole, e l'affetto al senso, e l'allegrezza a l'affetto e la maturitade a l'allegrezza, e l'umiltade a la maturitade, e la libertà a l'umiltade". Nel quinto luogo si sagra acciò ch'iv'entro s'apparecchino i sagramenti de la Chiesa; onde la Chiesa doventa come taverna di Dio, ne la quale i sacramenti sono contenuti e apparecchiati. Alcuni di quelli sacramenti s'apparecchiano e danno a coloro che v'entrano, sì come il battesimo; alcuno s'apparecchia e dà a coloro che n'escono, come se l'olio santo; alcuni si danno a coloro che vi stanno entro, e di questi cotali sono alcuni che li apparecchiano, e a costoro è dato l'ordine; alcuni sono che sono combattenti, e di questi cotali sono alcuni che sottostanno a la battaglia, e a costoro è data la penitenzia; alcuni stanno fermi, e a costoro è dato ardimento col quale rinvigoriscano, e questo è per la confermazione; è dato il cibo per sustentare, e questo è per lo prendere il corpo di Cristo; fassi eziandio rimovimento di pentimento, acciò che non siano abbattuti, e questo è per lo congiugnimento del matrimonio. Nel secondo luogo è da vedere in che modo si sagra; e prima diremo de l'altare, secondariamente de la chiesa. A la consegrazione de l'altare occorrono molte cose. La prima si è che in quattro cantora de l'altare si fanno quattro croci con acqua benedetta; la seconda si è che si gira l'altare sette volte; la terza si è che s'asperge l'altare sette volte con l'acqua benedetta e con l'isapo; la quarta si è che vi s'arde dentro l'incenso; la quinta che s'unge con la cresima; la sesta che si cuopre di mondi panni. E queste cose rappresentano quelle che debbono avere coloro, i quali vanno a l'altare. Primieramente debbono avere caritade in quattro maniere, cioè che amino Iddio e lor medesimi e gli amici e li nemici. E questo significa croci in quattro cantora de l'altare. E di questi quattro corni de la caritade è scritto nel Genesi, XXVIIII capitolo: "Sarai dilatata a l'oriente ch'al ponente e al settentrione e al meriggio". Ovvero che però si pognono quattro croci in quattro cantora de l'altare a significare che Cristo per la Croce salvòe le quattro parti del mondo; ovvero a significare che in quattro modi dovemo portare Domenedio, cioè nel cuore per pensamento, ne la bocca per confessione, nel corpo per mortificazione e ne la faccia per continua impressione. Nel secondo luogo debbono avere cura e vigilanza; e ciò è significato ovvero figurato per gli attorniamenti; onde allora si canta questo canto: "Trovarmi li vegghiatori ecc.". Debbono avere sollecitudine e vegghiare sopra la greggia loro; onde Gilberto pone la nigligenzia del prelato tra le cose dal ridere, e dice così: "È bene cosa da ridere, anzi è maggiormente pericolosa, lo agguardatore cieco, il corridore dinanzi zoppo, il prelato negligente, il maestro che non sa nulla, il banditore mutolo". Ovvero che per sette attorniamenti de l'altare sono significate sette meditazioni e considerazioni, che noi dovemo avere intorno a sette maniere de la virtù de l'umiltade di Cristo, e per quelle spessamente attorniare. La prima vertù si è che essendo elli ricco, diventòe povero; la seconda si è che fu posto ne la mangiatoia; la terza che si sottopuose a i parenti; la quarta che sotto la mano del servo inchinòe il capo; la quinta che sostenne il discepolo ladro e traditore; la sesta che dinanzi al malvagio giudice stette cheto mansuetamente; la settima che oròe per li suoi crucifissori pietosamente. Ovvero che però s'attornia sette volte a significare i sette viaggi di Cristo. Il primo fu di cielo nel ventre de la Vergine; il secondo dal ventre ne la mangiatoia; il terzo da la mangiatoia nel mondo; il quarto dal mondo ne la croce; il quinto da la croce nel sepolcro; il sesto del sepolcro nel limbo; il settimo del limbo risuscitando nel mondo e tornando al cielo. Nel terzo luogo dee avere ricordanza de la passione di Cristo; e ciò è significato per l'aspergimento de l'acqua. Però che sette furono gli spargimenti del sangue di Cristo. Il primo fu ne la circuncisione; il secondo ne l'orazione al Padre; il terzo nel flagellare del corpo; il quarto ne la corona del capo; il quinto nel forare de le mani; il sesto nel conficcare de' piedi; il settimo ne l'aprire del lato. Questi ispargimenti del sangue furono fatti con l'isapo de l'umilitade e de la inestimabile caritade; però che l'isapo è un'erba umile e calda. Ovvero che però s'asperge sette volte perché nel battesimo si danno i sette doni de lo Spirito Santo. Nel quarto luogo debbono avere l'orazione fervente e divota; la qual cosa è significata per l'ardere de lo 'ncenso. Però che lo 'ncenso hae in sé leggerezza ovvero vertude di salire per la levitade del fummo, e ha virtù di salire per la sua qualità, e di costrignere per la sua raccoglienza, e di confortare perché è di natura di spezie. E così l'orazione sale ne la memoria di Dio, e risalda l'anima quanto a la colpa passata, accattandole la medicina; e costringela quanto a la colpa che verrebbe, accattandole la guardia; confortala quanto a la presente, accattandole la tutela. Ovvero che si può dire che la devota orazione è significato per lo 'ncenso, però ch'ella è a salire a Domenedio, come dice lo Ecclesiastico, XXXV capitolo: "L'orazione di colui che s'aumilia passa il cielo". Anche perché hae a rendere odore a Domenedio, come dice ne l'Apocalisso, quinto capitolo: "E ciascuno avea cetare e guastade d'oro piene d'odore, che sono l'orazioni de' santi". Anche hae ad uscire del cuore infiammato come dice l'Apocalisso, VIII capitolo: "Dati sono molti incensi". E poco più oltre dice: "Tolse l'angelo il torribole, ed empiello del fuoco de l'altare". Nel quinto luogo debbono avere splendore di coscienzia e odore di buona fama, e ciò è significato per la cresima, che si fa d'olio e di balsamo. Debbono dunque avere pura la coscienzia, acciò che possano dire con l'Apostolo: "La gloria nostra è questa: il testimonio de la coscienzia nostra". Anche buona fama; onde dice san Paulo ne la prima Pistola a Timoteo, quarto capitolo: "E conviene loro avere buono testimonio da coloro che sono di fuori". Dice Grisostomo: "I cherici non debbono avere veruna macchia né in parola, né in pensiero, né in opera, né in fama, però ch'elli sono bellezza e vertude de la Chiesa e, s'elli sono rei, sozzan tutta la Chiesa". Nel sesto luogo debbono avere mondezza di buona operazione; e ciò è significato per li panni bianchi e mondi de i quali l'altare si cuopre. Però che l'uso de' vestimenti fu trovato per coprirsi, riscaldarsi e ornarsi; così le opere buone coprono la nudità de l'anima. Onde dice l'apocalisso, terzo capitolo: "Vestiti di vestimenti bianchi, acciò che non appaia la vergogna de la nudezza tua". Ornano l'anima ad onestà, onde dice san Paolo ne la Pistola a' Romani, capitolo XIII: "Rivestiamo l'armi de la luce". Riscaldano infiammando a carità, onde dice Giobbe, capitolo XXXVIII: "Non sono caldi i suoi vestiti?" Però che poco varebbe chi andasse a l'altare, s'elli avesse somma dignitade e bassa vita. Dice san Bernardo: "Mostruosa cosa è la sedia prima e la vita bassa, lo scaglione alto e lo stato disotto, il volto grave e l'atto lieve, il parlare molto e frutto nullo, l'autorità grande e l'animo non stabole". Nel secondo luogo è da vedere de la chiesa in che modo si sagra; e a ciò occorrono più cose. Che 'l vescovo la gira per tre volte, e a ogne volta, vegnendo a la porta, picchia col pastorale e dice: "Aprite, prencipi, le porte vostre". E altre parole. Dentro e di fuori si bagna quella cotal chiesa d'acqua benedetta, ne lo smalto de la chiesa si fa una croce di cennere e di sabbia per traverso canto de l'oriente insino al cantone del ponente, e quivi si scrive l'alfabeco di lettere greche e latine; ne le pareti de la chiesa si dipingono le croci, e quelle croci s'alluminano e ungonsi di cresima. Sì che la prima cosa, cioè i tre giri, significano i tre giri che fece Cristo per santificare la detta chiesa. Il primo giro fu del cielo nel mondo, il secondo fu quando discese del mondo al limbo, il terzo fu quando ritornando del limbo e risuscitando montòe in cielo. Ovvero che quelli tre giri si fanno a mostrare che quella chiesa si sagra ad onore de la santa Trinità. Ovvero che quelli tre giri significano i tre stati de la Chiesa, i quali si debbono salvare, ciò sono i vergini e ' continenti e ' maritati, i quali sono significati per la disposizione de la chiesa materiale, sì come mostra Riccardo da san Vittore: "Ché 'l santuario significa l'ordine de le vergini, il coro significa l'ordine de' continenti, l'altra parte disotto significa l'ordine de' maritati. Più stretto è il santuario che 'l coro, e più il coro che l'altra parte de la chiesa, però che men sono i vergini che i continenti e meno i giusti che i maritati. Più è santo il luogo del santuario che non è il coro, e più è santo il coro che non è l'altra parte de la chiesa, però ch'è più nobile l'ordine de le vergini che non è quello de' continenti, e più è quello de' continenti che quello de' maritati". Queste son parole di Riccardo. La seconda cosa, cioè le tre percussioni a la porta, significano tre ragioni che Cristo hae ne la Chiesa, perché gli debbia essere aperto. Ched ella è sua per creazione, per ricomperamento e per promessione di glorificamento. Di queste tre ragioni dice santo Anselmo: "Certo, Signore mio, perché tu mi facesti, io mi debbo dare tutto al tuo amore; perché tu m'hai tanto promesso, io mi ti debbo tutto dare, anzi debbo a l'amore tuo tanto più che me medesimo, quanto tu se' maggiore di me medesimo, per lo quale tu desti te medesimo, e al quale promettesti te medesimo". I tre gridare che fa quando dice: "Levate, principi, le porte vostre" significano tre sue potenzie, cioè nel cielo, nel mondo e nel ninferno. Nel terzo luogo s'asperge d'acqua dentro e di fuori, cioè d'acqua benedetta, e ciò si fa per tre cagioni: l'una si è per cacciare il demonio, però che l'acqua benedetta hae propia vertude di cacciare il diavolo. Onde quando ella si benedice, dice il prete: "Acciò che tu sia fatta acqua benedetta a cacciare via ogne podestà di nemico e a svegliere e ispiantare il detto nemico". E questa cotale acqua benedetta sì si fa d'aqua e di vino e di sale e di cennere, però che quattro sono quelle cose che massimamente cacciano lo nemico, cioè spargimento di lagrime, che s'intende per l'acqua; spirituale allegrezza, che s'intende per lo vino; matura discrezione, che s'intende per lo sale, e profonda umiltà, che s'intende per la cennere. Secondariamente per purgazione de la detta chiesa s'asperge l'acqua. Tutte le cose de la terra per o peccato sono corrotte e macchiate, e però s'asperge d'acqua benedetta questo luogo acciò che si purghi e netti da ogne sozzura e da ogne macchia. E quindi è che nel Vecchio Testamento quasi tutte le cose si mondavano per acqua. Nel terzo luogo s'asperge per rimuoverne ogne maladizione; però che la terra al principio del mondo, ricevette la maladizione col frutto suo, però che del suo frutto fu fatto lo 'nganno; ma l'acqua non fu sottoposta a veruna maladizione. Quinci è che 'l Signore mangiò del pesce, ma non si legge nominatamente che mangiasse de la carne, se non se de l'agnello pasquareccio per lo comandamento de la legge, e ciò fece per darne asemplo d'astenerci alcuna volta da le cose licite, e alcuna volta mangiarle. Acciò dunque che ogne maladizione sia rimossa e la benedizione c'entri, però s'asperge d'acqua benedetta. Nel quarto luogo sì si scrive l'alfabeco in terra, e ciò rappresenta la congiunzione di due popoli, cioè del gentile e del giudeo, ovvero la scrittura di due Testamenti, ovvero gli articoli de la nostra fede. Però che quello alfabeco de le lettere greche e latine fatte in croce, rappresenta l'unione del popolo pagano e del giudeo, fatta ne la fede per la croce di Cristo. Onde quella croce è menata d'attraverso cantone, d'oriente infino al cantone del ponente, a significare che quelli ch'era prima ritto è fatto manco, e quelli ch'era nel capo è fatto ne la coda, ed e contra. Secondariamente rappresenta la scrittura d'ambi i Testamenti che furono adempiuti per la croce di Cristo; onde morendo elli disse: "Compiuto è". La croce è menata per traverso, perché l'uno Testamento si contiene ne l'altro; però che la ruota era ne la ruota. Nel terzo luogo rappresenta gli articoli de la fede; però che lo smalto è il fondamento de la nostra fede, le lettere che vi si scrivono suso sono gli articoli de la fede, de' quali sono ammaestrati ne la Chiesa li rozzi e nuovi ne la fe' de l'un popolo e de l'altro, ma debbasi riputare polvere e cennere, secondo quello che disse Abraam nel Genesi, XVIII capitolo: "Io parlerò al Signore, con ciò sia cosa ch'io sia polvere e cennere". Nel quinto luogo sì si dipignono le croci dentro a la chiesa, e ciò si fa per tre ragioni. L'una si è per spaventare le demonia, acciò che le demonia che ne sono cacciate, veggendo il segno de la Croce, abbiano spaventamento e non v'ardiscono d'entrare. Però ch'elli temono molto il segno de la Croce; onde dice Grisostomo: "Ovunque le demonia veggiono il segno de la Croce sì fuggono, perché temono il bastone, ond'eglino ricevettoro la piaga". La seconda ragione si è per mostrare il trionfo; però che le croci sono il gonfalone di Cristo e insegne de la sua vittoria, onde a mostrare che quel luogo è sottomesso a la signoria di Cristo, però vi si dipingono le croci. E cotale modo si tiene appo la grandezza de lo 'mperio, che quando alcuna volta città gli è data, sì vi si rizza su il gonfalone imperiale. In figura di ciò è scritto nel Genesi che Jacob la pietra, che s'avea messa sotto il capo, si rizzòe in titolo, cioè in titolo di loda e di ricordanza e di vittoria. Nel terzo luogo, cioè la terza ragione, si è per rappresentare gli apostoli, ché quelli XII luminari che si pognono innanzi a le croci significano XII apostoli, i quali per la fede del crocifisso alluminarono tutto il mondo. Sì che queste croci s'alluminarono e ungonsi di cresma, però che gli apostoli con la fede de la passione di Cristo alluminarono tutto il mondo a conoscere ed infiammarono ad amare e unsero a splendore di coscienzia, che significa per l'olio, e a odore di buona vita, ch'è significato per lo balsimo. De la terza cosa, cioè per cui è macchiata la Chiesa, dovemo sapere che la casa di Dio leggiamo macchiata per tre persone: cioè per Geroboam e per Nabuzardam e per Antioco. Di Geroboam si legge nel quarto libro de' Re, nel XII capitolo, ched elli fece due vitelli, l'uno puose in Dan e l'altro in Bethel, ch'è detto casa di Dio; e questo fece per avarizia, cioè per non tornare il regno a Roboam. Per questo è significato che l'avarizia de' cherici contamina molto la chiesa di Dio; la quale avarizia è molto barbata ne' cherici, onde dice Jeremia, IV capitolo: "Dal piccolino insino al grande tutti vanno dietro a l'avarizia". E san Bernardo dice: "Cui mi darai tu del novero de' prelati, che non si studi più a votare le borse de' sudditi, ch'a divegliere i vizii?" I vitelli sono i nepoti che pongono in Bethel, cioè ne la casa di Dio. Macchiasi ancora la chiesa per Geroboam, cioè l'avarizia de gli usurai e de' rapitori, quando se ne fa chiesa de la loro pecunia. Onde si legge ch'uno usuraio avendo fatto una chiesa d'usura e di mal tolletto, fuvvi invitato il vescovo con molte preghiere a sagrarla. Sì che faccendo il vescovo con gli suoi cherici l'officio de la sagra, vidde dopo l'altare il diavolo stare in caffera in abito di vescovo. Il quale disse a quello vescovo: "Perché sagri tu la chiesa mia? Or te ne rimani, però che giurizione di questa s'appartiene a me, perché quella è fatta d'usura e di rapina". Sì che fuggendone fuori il vescovo spaventato con i cherici, immantanente il diavolo con grande strepitio distrusse la detta chiesa. Di Nabuzardam si legge nel terzo libro de' Re, XXV capitolo, ch'arse la casa di Dio. Nabuzardam, cioè a dire prencipe de' cuochi, significa coloro che sono dati a la gola e a la lussuria, i quali hanno fatto del loro ventre uno loro Domenedio, secondo che dice l'Apostolo: "Il Domenedio de' quali è il ventre". In che modo il ventre sia detto Domenedio, mostralo Ugo da san Vittore nel suo Claustrale, ove dice così: "Soglionsi ordinare tempii a gli dei, rizzare altari, ordinare ministri a servire, sagrificare pecore, ardere incensi. E così è la cucina tempio a Domenedio, la mensa è l'altare, i cuochi sono li ministri, le pecore sagrificate sono le molte carni cotte, il fummo de lo 'ncenso è l'odore de' sapori". Il re Antiochio, il quale fu superbissimo e ambizioso, sozzòe la casa di Dio e macchiolla, come si legge nel primo libro de' Maccabei, primo capitolo: "Per la qualcosa è significato che la superbia e l'ambizione, la quale regna ne i cherici, i quali non disiderano di fare prode ma di soprastare, molto contaminano la chiesa di Dio". De la cui superbia e ambizione dice san Bernardo: "E vanno onorati de· bene del Signore loro, al quale Signore non ne rendono onore; onde è quello che tu vedi tutto di splendore di meretrice, abito di buffone, ornamento di re, onde viene l'oro ne i freni e ne le selle e ne li sproni; più splendono gli sproni che gli altari, e secondamente ch'è la Chiesa macchiata per tre, così è stata sagrata per tre altri. La sagra fece primieramente Moisé; secondariamente Salamone; poscia Juda Maccabeo. Per la qualcosa è dimostrato che nel sagrare la chiesa dovemo avere umilitade, la quale è dimostrata per Moisé, e dovemo avere senno e discrezione, e questo ci è dimostrato per Salamone; anche dovemo avere la confessione de la vera fede, la quale s'intende per Giuda". Nel secondo luogo è da vedere de la consegrazione del tempio spirituale, il quale siamo noi, cioè la congregazione di tutt' i fedeli; il quale tempio è murato di pietre vive, come dice san Piero ne la sua prima Pistola, secondo capitolo: "Voi sì come pietre vive siate edificati sopra le case spirituali". Anche è murato di pietre pulite, onde si canta: "Pietre pulite di percussioni e di pressure". Anche di pietre quadrate: le quattro latora de la pietra spirituale sono fede, speranza e caritade e l'opere che sono spirituali, per ciò che come dice san Gregorio: "Quanto tu credi, tanto speri, e quanto credi e speri, tanto ami, quanto credi e speri e ami, tanto adoperi". In questo così fatto tempio, l'altare è il cuore nostro, in sul quale si debbono offerere tre cose a Domenedio. La prima si è fuoco di perpetuale amore, com'è scritto nel Levitico, VI capitolo: "Il fuoco cioè de l'amore sarà perpetuo, e mai non verrà meno ne l'altare", cioè in quello del cuore. La seconda si è incenso d'orazione odorifera, com'è scritto nel primo libro Paralipomenon, VI capitolo: "Aaron e ' suo' figliuoli accresceranno lo 'ncenso sopra l'altare del sagrificio e de lo 'ncenso". La terza cosa si è sacrificio de la giustizia, lo quale sacrificio sta ne l'offerte di penitenzie, ne' sacrificii de l'amore perfetto, e ne' vitelli de la carne mortificata. Di questi dice il Salmo: "Tu accetterai sagrificio di giustizia, offerte e sagrifici, allor porranno sopra l'altare tuo vitelli". Ma questo tempio ispirituale, il quale siamo noi, sì si sagra a similitudine del tempio materiale. Primieramente il sommo Pontefice, cioè Cristo, trovando serrato l'uscio del cuore nostro, attornialo tre volte, quando gli fa ricordare il peccato del cuore e de la bocca e de l'opera. Di questi tre attorneamenti dice Isaia nel XXIII capitolo: "Prendi la cetera", quanto al primo: "attornia la città", cioè del cuore, quanto al secondo: "meretrice data a dimenticanza", quanto al terzo. Secondariamente il detto uscio chiuso del cuore si percuote tre volte, acciò che tu gli apra. Ched elli percuote el cuore col colpo del beneficio e del consiglio e del flagello. De le quali tre percussioni è iscritto ne i Proverbi, primo capitolo, quanto a' rei: "I' ho distesa la mano". Questo è quanto a i beneficii donati: "Avete dispregiato ogne mio consiglio"; questo è quanto a le sante de' consigli: "E avete annighittito le mie riprensioni"; questo è quanto a le battiture ch'ei dà. Ovvero che percuote tre volte quando muove la forza de la ragione a conoscere lo peccato, e la concupiscibile a dolersene e l'irascibile a vendicarsene ed abbominare il peccato. Nel terzo luogo questo tempio spirituale de' essere imbagnato d'acqua dentro e di fuori tre volte. Questi tre imbagnamenti sono tre spandimento di lagrime dentro, o talora di fuori. Però che la mente del santo uomo, come dice san Gregorio, ha gran dolore considerando dove fue, dove sarà, dove è, e dove non è. Dove fue, cioè nel peccato; dove sarà: nel giudicio; dove è: ne la miseria; dove non è: ne la gloria. Sì che quando sparge lagrime o dentro o di fuori, cioè considerando ched e' fue nel peccato e di quello dee rendere ragione al giudicio, allora questo tempio è già asperso d'acqua una volta. E quando sta contrito a piangere per la miseria ne la quale è, allora è imbagnato due volte. E quando getta lagrime per la gloria ne la quale non è, allora sparge l'acqua tre volte. Con questa acqua si mischia vino e sale e cennere, però che con queste lagrime dovemo avere il vino di spirituale letizia e 'l sale di matura discrizione e cennere di profonda umiltà. Ovvero che per lo vino innacquato s'intende l'umiltà di Cristo, ch'egli ebbe in prendere carne, però che 'l vino innacquato è la parola umanata. Per lo sale s'intende la santità de la vita sua, la quale è a tutti condimento di religione. Per la cennere s'intende la sua passione. Sì che di queste tre cose dovemo aspergere lo cuore nostro, cioè del beneficio de la incarnazione, per lo quale siamo tratti ad umiltade; e de l'essemplo de la sua conversazione, per lo quale siamo informati a santitade e ricordanza de la sua passione, per la quale siamo commossi a la caritade. Nel quarto luogo sì si scrive in questo tempio del cuore lo spirituale alfabeco, ovvero la spirituale scrittura. Questa scrittura che vi si scrive entro è in tre maniere, cioè detti di cose da fare, testimoni di divini beneficii proprii e accusamento di peccati. Di queste tre cose dice san Paulo a' Romani, secondo capitolo: "Quando le genti che non hanno legge fanno naturalemente quelle cose che sono de la legge, e quelli che non hanno questa cotale legge, elli medesimi sono a sé legge, i quali hanno l'opera de la legge iscritta ne i cuori loro". Ecco la prima cosa rendendo testimonio la coscienzia loro. Ecco la seconda: "E fra loro medesimi i pensieri accusanti". "Ovvero difendenti" ecco la terza. Nel quinto luogo si debbono dipignere le croci, cioè prendere l'asprezze de la penitenzia, le quali debbono essere unte ovvero alluminate da fuoco, imperò che non solamente sono da sostenere pazientemente, ma allegramente, e ciò s'intende per l'ugnere, e anche sono da sostenere ardentemente, e ciò s'intende per lo fuoco. Onde dice san Bernardo: "Chi minaccia la paura, porta la croce di Cristo pazientemente; chi fa prode ne la speranza, porta volentieri; ma chi compie in caritade, sì la abbraccia ardentemente". Anche dice e' medesimo: "Molti veggiono le croci nostre, ma non veggiono l'unzioni nostre". Qualunque averà in sé queste cose sarà veramente tempio sagrato ad onore di Dio, e sarà degno che Cristo abiti in lui per grazia, acciò che finalmente degni d'abitare con lui per gloria. Te, Deus, laudamus, Te Dominum confitemur.
pasto ] Ed.: pato p. 381.19 un grande stoscio ] Ed.: in grande scoscio Ms.: un grande stosciop. 496.6 preso ] Ed.: dresop. 494.10 generazioni ] Ed.: generazioip. 875.1 'mperversita ] Ed.: 'mperversitàp. 809.10 le bagnora ] Ed.: la bagnorap. 119.26 tutte le borgora ] Ed.: tutta la borgorap. 1580.5 le luogora ] Ed.: la luogorap. 266.5 le luogora ] Ed.: la luogorap. 980.5 le gradora ] Ed.: la gradorap. 682.20 sagrif[ich]erò ] Ed.: sagrif[ich]rò Ms.: sagriferop. 79.1 se' sacrificato ] Ed.: s'è sacrificato p. 625.14 maravigliansi ] Ed.: maviragliansi p. 620.9 pattovìo ] Ed.: pattonio p. 333.24 lo 'ngannamento". De lo spogliamento suo, simigliantemente ] Ed.: lo 'ngannamento de lo spogliamento suo". Simigliantemente p. 147.20 menzione ] Ed.: mensione p. 1314.18 peccati ] Ed.: peccali Ms.: pecchati p. 554.26 ritorto ] Ed.: ritornò Ms.: ritorno p. 237.1 (lez. del ms. di Firenze, Biblioteca provinciale dei Frati Minori, Fondo Giaccherino I.F.2, c. 48rb) rimunerato ] Ed.: rinumerato p. 384.6 (preferita nel filgat la lez. del ms base dell'ed.) teneruzzo ] Ed.: tenerezzo p. 442.6 (preferita nel filgat la lez. del ms base dell'ed., forse refuso tipografico) rivesciavagli ] Ed.: rivensciavangli p. 783.7 (preferita nel filgat la lez. del ms base dell'ed., forse refuso tipografico)