Prologo, par. 1
Alla infinita bontà, la quale di
nulla
fuori
di
se è
bisognevole, ma è di se
stesso,
e in se stesso
abeterno contenta,
per propio
moto di carità
ineffabile piacque
producere
e
creare, e
produsse e
creò e l'
Angelica, e l'
umana
natura, e l' una e l'
altra
nel
suo essere
perfetta;
creò ancora
Cielo e
Terra, e
tutti gli
altri
brutti
animali, quali
a adornamento,
quali
a
esercizio, e
profitto
dell' una, e
dell'altra natura.
Le quali cose,
per la malizia
del peccato,
agli
erranti
converse sono in tormento, ed in
fragello. L'
uomo fu
per la
mano
potente
secondo
la carne
composto di
limo,
ma
secondo l'
anima
di
spirito
immortale.
Per
le
due
potenzie
d'
essa,
ciò sono
vegetabile, e
sensitiva,
nessuna
prerogativa
ricevette
dalle
criature, la cui anima
morendo
il corpo
si
muore; ma sì
per la
razionale,
per la quale alle
superiori
Intelligenzie è fatta
consorte. Per
questa grazia
sola, e
singulare
dono di
Dio,
ciascuno uomo è per
natura
disideroso
di
sapere. Da questo disiderio mosso
nostro
'ngegno si
profonda
nella
investigazione
delle
cose
naturali, e
delle cagioni,
sussistenzia, ed
effetti
d'
esse fa scienza, quale è
appellata naturale
Filosofia. Da questa
viva fonte
le
sette
liberali
arti
loro
origine
tolgono, e fanno l'
altissimo
fiume
dolce a gustare a chi per
assiduità
di
studio vuole
suo intelletto
esaltare. Quivi la
morale Filosofia
trae l'
ornamento
dell'
animo ben
disposto, per l'
abito
delle
quattro
virtù
cardinali,
e con
esse la
Civile Disciplina con legge
regola
i
mondani
appetiti. E quando la
nobiltà
dello
'ngegno
più alto si
leva con
umiltà, e
amore,
per la
cognizione
delle cose
create
visibili a
noi, alla
contemplazione, e
speculazione
delle superiori,
eterne, e
immortali, e
invisibili a
noi,
fa l' uomo savio di
vera
sapienza, ed è
appellato
Teologo. Queste
singulari
delizie,
ricchezze
dell'anima
speculativa, sono intra gli
scienziati
le
nuove
invenzioni, che
ridotte in iscrittura
ordinata
meritino
fama. E
non solo queste
liberali
arti, ma ancora
le
meccaniche e
materiali,
le quali per
sottigliezza di
maestero
fanno
piacere
gl'
intagli, e pietre, e i
nobili e
begli
edificj, e
partoriscono
vaghezza di sapere il
nome
dell'
autore, e maestro, e di
sua vita; perchè
tanto
è l'
opera più
gradita, quando l'
onesta,
e
moral
vita
del componitore
colla
scrittura, ed
ovra s'
accorda. Per questo
intra' mortali
vive il
nome di
Socrate, e di
Platone, e
Aristotile, e
Pittagora, e
Democrito, e
degli altri
amatori
di sapienza:
Vivono il Poeta
Omero,
Virgilio,
Orazio,
Ovidio, e
Lucano, e
Tullio, e
Demostenes,
e
Quintiliano, a
cui la grazia
della lingua,
diè
luce, e
nome: Vivono
li
meccanici
Policreto,
Fidia, e
Prasitello,
imitatori
delle naturali
forme,
colla
dolcezza
dello
scarpello. Poste
adunque
le predette
ragioni per fondamento di
nostra seguente intenzione,
secondo
nostro
mezzano
ingegno, seguendo
le
parti
della giustizia detta
ritributiva, e
fuggendo come
pessima
fiera il
maladetto
vizio
della
'ngratitudine; ancora per
non
cadere
nel
malvagio
errore di
coloro,
che
furtivamente l'
altrui nome e
fama s'
appropiano,
e l' altrui
vigilie, e
sudori
sfacciatamente s'
imborsano,
quanto che
nella fine, come al
corbo addiviene,
privati
rimangono
delle penne
del
paone;
nel principio di questa
nostra
Operetta
volemo
a quel singulare notabile e famoso, da cui
tolto
avemo la materia
d'
essa,
rendere il
debito
onore, che troppo esser
non può. Adunque così
comincieremo.
Prologo, par. 2
L' Autore, e
componitore
della
presente
fruttuosa,
e
laudabile
Cronica fu il savio e discreto
Mercatante
della Casa, e Famiglia de'
Villani,
il cui nome fu
Giovanni di
Firenze, uomo
d'
alto
'ngegno morale, e di grande
autorità,
e cittadino molto onorato per
le
sue virtù, e
bontà; il quale
non
istantechè
grammatico
non
fosse, di molte
dell'
arti liberali volgarmente ebbe
piena
notizia; il quale trovandosi l'
anno
del
generale
perdono e
jubileo,
negli
anni
della Incarnazione
del
nostro
Salvatore
milletrecento,
nell'
antica città di
Roma, veggendo gli antichi
edificj
magnifici, e
le
statue, e gli
archi
triunfali,
e altre gran cose, che
appaiono in
essa, e
considerando
le cagioni, e per
le
quali è in onore,
e
delle quali fatte furono, e le
rilevate, e
virtuose
operazioni di quelli
eccellenti, e buoni
Romani, i quali tanto l'
esaltaro, che donna la
ferono
del
mondo,
posposto ogni
privato amore e
profitto, con fede
pertinacemente
seguendo il
bene
della
loro
Repubblica: ancora recato in
considerazione,
che per
varj, e diversi
autori, e
maestri
d'
eccellentissimo
ingegno, e
d'
ammirabile
eloquenzia
l'
altissime, e
incredibili cose, fatte per
gli
antichi
Romani, erano con
supremo stile e
alto di tutto
illustrate, e
non lasciate perire, e
massimamente per
lo principe di tutti i nobili e
famosi autori, che
bene, e
rettoricamente
composono
istorie,
Tito
Livio
Padovano, ancora per
Pompeo
Trogo
Spagnuolo,
Gioseffo
Ebreo,
Salustio,
Cornelio
Tacito,
Valerio
Massimo,
Lucio
Floro,
Suetonio Romani, e altri molti, che
presono
di ciò
cura con
sollecitudine, e
piacimento:
ancora
avendosi per
lui rispetto all'
origine, e
principio di
nostra
Cittade,
del sito
della quale
primo
elettore, e
fondatore
d'
essa fu quel
magnanimo
e
grolioso
Giulio
Cesare
primo Imperadore
di
Roma,
sotto
titolo di
perpetuo
Dittatore,
al cui
animo poco fu
domare, e
sottomettere per
arme tutte
le
ferocissime
nazioni, e
quasi il
mondo
tutto, e
appellare la volle
Cesarea,
se la
Romana
invidia l' avesse
patito; per la quale alla
edificazione
d'
essa
aggiunti furono a
Cesare alquanti
Principi
Romani;
intra' quali
si crede che
fosse il
Prencipe della
Italica
eloquenzia,
Marco
Tullio
Cicerone; i quali non furono lieve agurio
allo
eminente stato, in che montare
dovea
nostra
Città, insieme col nome non
premeditato, ma
piuttosto
casuale
d'
essa; e che
populata fu
nella
sua
creazione, e
nella
sua
prima etade di
nobili, e originali Romani per la maggior parte,
e
degli
antichissimi
Fiesolani; de' quali per
Dardano
figliuolo
d'
Atalante
Re di
Fiesole fu
istratto
il
gentile
sangue
Troiano, e per
Enea il Romano;
considerando adunque tali
inizj, e
le gran
cose e
famose, che
da'
nostri maggiori, e a i
nostri
giorni per la
nostra Città, seguendo
le
vestigie
della
sua
madre
Roma, eran fatte; e che
assai
indegna cosa
pare, che di ciò non si
avesse
memoria, e che
poche, e non
ordinate
scritture
apparivano, per buon
zelo, e amore della
sua
Patria mosso l' animo,
dispose a
riducere in
nota
volgarmente i
gesti, e' fatti della Città
degna di
fama; non perchè se non conoscesse
inabile, e insofficiente
a
tanta e
tale opera, ma per
apparecchiare
materia agl'
ingegni
sottili, e
alti con
men
fatica
d' inquisizione a
dare luce alle dette
memorabili
cose. Ma perchè quando i principj
delle
cose, che l' uomo
s'
apparecchia
di
scrivere e
narrare,
sono
occulti e
omessi, il trattato è meno
grazioso; pertanto esso
Giovanni non che
a'
prossimi
principj a
sua opera,
ma eziandio a'
rimoti
ricorse, cominciando quasi
dal principio
dell'
universo,
come la Santa Scrittura
ne
'nsegna, e
distinguendo
poi per gli tempi
succintamente, e brievemente
le
cose
occorse, infino alla
edificazione
di
Roma, e da quella insino alla
natività di
nostra
Città. Ancora
considerato, che quando il
corpo
dell' uomo
d'
un
solo, e continuo cibo si
pasce
genera allo
stomaco
abominazione, e
variando
nutrica e
diletta, pensò
soggiugnere alle dette
Fiorentine
storie
le
peregrine
novità, e di
strani
paesi sì, che
d'
un
fiore non fosse
ornato il cappello,
ma
distinto di
più
colori all' occhio piacesse.
E per
conseguire la verità di essi, per
le
mani di
discreti mercatanti
Fiorentini, che per diverse
parti
del
mondo
usavano,
fedelmente
le
ricogliea.
Perchè non meno i fatti
d'
Italia, quegli di
Francia,
e
d'
Inghilterra, e della
Magna, e
d'
Ungheria,
che quegli della
nostra Città, in essi si
leggono, ancora quegli
delle Infedeli, e
barbare
nazioni. Cominciata adunque
nel detto tempo
sua
Cronica,
quella di
tempo
in tempo seguío
insino allo
stremo de'
suoi
dì, che
fu
negli
anni della
Incarnazione
del
nostro Signore
Redentore
1348 l'
anno
notabile
della generale, e
incredibile
pestilenzia
dell'
anguinaia,
la
quale quasi in
desolazione tutto il
mondo
ridusse. Della quale Opera
nostro mezzano
intelletto
oltramodo
invaghito, pensò di
ridurre
in
volgare
Commedia,
versificando la
prosa della
detta
Cronica
sobriamente
composta, non sanza
cagione;
intra le quali il
fuggire
ozio non fu la
meno degna, quanto che pensare
potemmo la cosa
essere
dilettevole, e fruttuosa. Il
diletto,
oltre
a
quel
del
sapere, può
stare
nella
melodia
delle
soavi, e
sonanti
rime; l'
utile
nell'
abbreviare, e
distinguere i versi, che la
ricordanza fanno più
abile, e
presta. La quale Opera per la
immensa
bontà
del
nostro
Creatore, e
Redentore consumata
avemo con molta sollecitudine, cura, e
vigilia.
E
rendemoci
certi per molte
ragioni, le
quali
ogni qualunque
lettore
potrà
agevolmente
ricogliere, che la detta
nostra lieve Operetta assai
porterà di difetto; ma
quello
lasciamo alla
correzione,
e
lima de' più
savj, e discreti,
a' quali e
me,
ed
essa liberamente
sottometto, pregando
coloro,
che diletto, e
frutto di
mia
fatica e
sudore
prenderanno,
che
loro
gravezza non sia il
dire
d'
un
Paternostro a
riverenzia di
Dio, e a
sodisfazione
del peccato
commesso
nell'
esercitare la presente
Operetta, considerato, che il
caso l' ha in
cento
Capitoli
conchiusa,
tuttochè per
prima
nostra
diliberazione in
ventitrè,
secondo il
numero
delle
lettere
dello
Alfabeto
latino, la
credessimo
collocare.
Ma tanta
vaghezza
dell' Opera, e
delle
bellissime storie ci
allettò, e la
mente di
rima
in
rima
sospinse, che per non lasciare in
oscuro
niente
d'
esse, e
massimamente di
nostra Città,
infino al predetto numero l' avemo
dilatata. E considerato,
che non il
nostro
proposito, ma il caso
nel numero predetto l' ha
ricolta, e conchiusa; e
che il
centinaio infra le
deche è il
primo
numero
perfetto,
Centiloquio l' avemo
titolata, e 'l
nostro
nome avemo
ne'
principj de' Capitoli
nascosto,
per fuggire il nome della gloria vana, nondimeno
togliendo pensiero a chi
nostra fatica si
volesse vestire.
Prologo, par. 3
Leggesi
nella Santa Scrittura,
che per le mani
di
Dio fu
piantato
nella sommità della
terra il
Paradiso
terresto,
nel quale dopo la
sua
creazione
traslatato fu il
nostro
primo
parente
Adamo, e quello gli fu dato
a
possedere per
arra
di quello, dove si
vede il
sommo bene, il
quale ogni
ragionevole
criatura vedere
disidera;
e posto in quello piacque al
suo
Criatore di mettere
sonno in
lui,
nel quale gli
trasse
una
costola,
della quale
fece
Eva,
prima
nostra madre;
e nel quale, secondochè per molti Savj si
tiene,
lo spirito fu
delle mortali
membra
levato insino
al
Cielo,
dove e la
essenzia della
Deità
più
perfettamente
si vede;
nella
cui
visione esso vide le
future cose, per le quali svegliato
profetò della
prima donna,
come
veduta l' ebbe, e
disse:
Quest'è
osso
dell'
ossa
mia, e
carne della
mia carne: per
costei l' uomo
abbandonerà
padre e
madre, e
accosterassi
alla
sua
mogliera, e
saranno
due
in
una
carne. Ma poco gli fu
profittabile la
scienza, e
virtù,
perocchè più
potè l'
amore della
donna,
che 'l
comandamento
del
Criatore; il quale all'
uno,
e all'
altro
concedette in
cibo ogni frutto
del
Paradiso,
salvochè di quello, che nel
mezzo
d' esso
era
situato, e detto,
legno di
scienza e di
bene, e
di
male, ed
arbore di
vita, il quale loro
vietato
fu; ma per
conforto e
consiglio
del
nimico
dell' umana
natura
prima la femmina
schiantò il
frutto, e
gustò, e
poi
ne
porse al marito; il
quale prese il cibo per non
contristare la
sua
compagnía,
tuttoch'egli
conoscesse il peccato. Per
la
qual cagione da
Dio
come
prevaricatori, e
inobbidenti furo
del Paradiso cacciati, nel quale
stati erano per
ispazio di
sei
ore, e
dannati a
temporal
morte
nella
maladizione di
Dio ed essi,
e 'l
loro futuro
seme. Cacciati
adunque
del
Paradiso
i peccatori, e posti in questa
miseria si dierono
a
procacciare
loro
vita nel sudore della
faccia
loro, e
insieme
carnalmente si
congiunsero;
nel quale la madre della
nostra
morte
generò e
partorì il
primogenito
del
peccato appellato
Cain, poi in
soccesso di
tempo
Adamo
cognobbe
la
sua
donna, e partorì
Abel, il quale fu detto
il
principe de'
giusti. Costui per invidia
del fratello
Cain fu morto; per la qual
cagione
maladetto
da
Dio fu
Cain, e
sempre
stette
pauroso,
e
fuggitío
sopra la
facciata della
terra, e per
la
smisurata
temenza fondò per
sua
sicurtà la
prima
Città, la quale chiamò
Enoc per
lo nome
di
suo figliuolo.
Visse
Cain
lungo
tempo,
del
cui
sangue nacque
Lamech, che fu il
primo, ch'
a
un
tempo
prese
due
donne; e
pertanto fu detto
bigamo,
che tanto
è a
dire,
quanto di
due
mogli
marito. Questo
Lamech uccise
Cain, e
delle
dette
due
sue donne, ciò fu
Adda, e Sella,
ebbe molti
famosi figliuoli,
fra' quali ebbe
d'
Adda
Iabel, il quale fu principe de'
pastori, e il
primo,
che facesse
trabacche, e
padiglioni, e
Tubal,
il quale fu il
primo
inventore
d'
organo, di
cetere,
e di
tromba; e per
lui
ancora il nome
riserva
la tromba, che in
grammatica è appellata
Tuba; ebbe
Tubalcain
primo
fabbro, e
maestro
di
ferro, e di
rame; ebbe ancora
Noema, la
quale
prima
ordì
tela, e
tessere. Ancora
Adamo
ebbe
d'
Eva
Set
sustituto in luogo
d'
Abel; il quale
fu padre e principe de' figliuoli di
Dio, cioè,
de' giusti. Di costui
nacquero intra gli altri
Enoc,
il quale
tanto piacque a
Dio, che ancor vive per
lui, posto nel Paradiso terresto, e
riservato per
testimone, al tempo
del grande
Anticristo, della
mondana vita, e
scelerata, ed
avanti al diluvio
di
Noè, di cui
sotto
diremo; ma non è da
lasciare
in
silenzio quello, che per gli
savj si
dice,
cioè, che avendo la
prima
gente per detto
d'
Adamo
ferma
certezza, che
due
volte il
mondo
dovea
perire; l' una per
acqua, e l' altra per fuoco,
non
sappiendo
qual prima piacesse alla Divina
Giustizia, e avendo per lunghezza di
vita, e
per lungo
immaginare
trovati i
fondamenti
delle
scienze, e naturale filosofia, e temendo non si
perdesse
lor
fatiche,
due
colonne fecero, l' una di
marmo,
perchè
dall'acqua non fosse
corrotta, e
l' altra di
mattoni, perchè si difendesse
dal fuoco,
nelle quali le dette scienze scrissero, e l' una di
esse, cioè quella
del marmo
ancora si vede
nelle
parti
d'
Assiria.
Tornando a
nostra matera, secondochè
la Santa Scrittura ne
parla, i figliuoli
di
Dio, cioè il
seme
giusto di
Set, veggendo le
figliuomini, cioè le
discendenti
del
dannato seme
di
Cain, le quali erano bellissime, con
loro
matrimonio
contrassero,
del quale nacquero i
giganti.
Perchè
veggendo
Iddio,
che
molta
era la
malizia
umana
sopra
terra, e che nel
suo
cospetto
tutta la
terra era corrotta,
comandò a
Noè,
uomo
giusto e perfetto
nella
sua
generazione, il quale
era di età di
cinquecento
anni, che facesse la
grande arca, la quale insino al
presente giorno
si vede in
Erminia sopra i
monti
d'
Ararat,
nella
quale esso
se, e la
sua donna, e
tre
suoi figliuoli,
Sem,
Cam, e
Iafet, e
lor
mogli, e 'l
seme di
ciascuno
animale, che sopra la terra
vivesse; nel
maestero della quale
cento
anni
consumò; infra 'l
qual tempo ben si poteva riconoscere, e
ritornare
a
Dio la
pessima e
iniqua generazione. Ma non
tornando a penitenzia,
Iddio lasciò all'
ordine della
natura la
sentenza del
suo
finale
giudizio; perchè
dopo
sette dì,
che
Noè fu
rinchiuso
nell'
arca,
l'
acque
coprirono
tutta la terra, e
aperte le
cateratte
del
Cielo, per
quaranta dì
continui non
ristette la
piova, e l' acque
quindici
gombiti
alzaro
sopra tutti
i monti del
mondo; e
alcuni
dicono,
che
Enoch, ch'era nel Paradiso terresto,
fu
nell'arca con
Noè, alcuni
affermano, che per
grazia di
Dio il detto luogo non fu
coperto
dall'acque.
L' acque
stettono
cento
cinquanta dì
nella
detta
altezza, poi
cominciaro a
scemare, e nel
settimo
mese l' arca si
pose
nella
sommità de'
monti
d'
Erminia. Nel
decimo mese le
vette
delle
montagne
cominciarono a
apparire, e nel
dodecimo
mese la terra
rimase
arida, e
Noè, e tutti
gli animali
uscirono
dell'arca,
essendo
Noè
d'
anni
secento
uno, e poi visse
anni
trecento
dopo il
diluvio.
Passati
settecento
anni, e della
creazione
del
mondo
anni
domila
trecento
nove,
Nebrot
Gigante
del seme di
Cam, uon
pessimo, e 'l
primo,
che lasciato il
vero
coltivamento di
Dio, cominciò
a fare
adorare il
fuoco, per tirannia prese
il
dominio del
mondo, e fatto
verso
Iddio
superbo,
credendo, come molti Savj
stimano, fuggire
il
giudicio del
fuoco, e altri dicono, per
propia
superbia credendo tanto
salire, che
Iddio potesse
prendere tutta l' umana
generazione, nel campo
di
Sennaar
raunò, e incominciò la
inconsumabile
opera della Città, e Torre di
Babel. Onde
Iddio
irato
visitò la
sua
superbia, e
mise
negli
edificatori le
confusioni
delle
lingue, e in
settantadue
linguaggi gli
distinse; perchè l'
uno l'
altro
non
intendendo, lasciarono l' opera, e
appellaro
l'
edificio fatto
Torre di
Babel;
cioè
a dire, Torre
di
confusione, nel cui magisterio
centosette
anni
appassaro. Le genti, che
congregati erano a quella
opera
fare, tornaro a loro
provincie, e
li discendenti
di
Sen ebbono per
possessione la
parte
orientale, detta
Asia, la quale si crede, che
sia
più, che la
metà della
Terra
abitabile. La parte
meridionale presero i
discendenti di
Can, la qual
è detta
Affrica; e
a' discendenti di
Iafet
toccò la
nobile
Europia,
nella quale è
situata la
Donna
del
mondo, e
Firenze per gli Romani, come nel
passato Prolago è detto; la quale
oggi nel
mondo
tiene il
principato della libertà, della quale e
noi, e
nostro Autore
Giovanni
singularmente
parliamo,
cominciando nel nome di
Cristo.
c. 1, argumento
Della Torre di Babello, e del Re Nino,
e di Noè, che fe l' arca, e de' suoi,
di Fiesole, di Roma, e poi di Nino,
alle Città di Toscana, e di botto
siccome i Gotti fur messi di sotto.
c. 1
A laude, ed onor del vero Iddio,
di fatti antichi intendo ragionare,
a diletto d'ogni uom grosso, com' io.
E perchè attedia il lungo sermonare,
e par, ch' alcuna volta se ne doglia
colui, che legge, e chi lo sta a ascoltare;
venne un giorno a me talento, e voglia
di breviar la Cronica per rima,
se morte in prima vita non mi spoglia;
non rimutando sentenzia, nè stima,
ma raccorciar le parole, e trasporre,
com' io saprò, colla mia grossa lima.
Nebrotte di Babel fece la Torre
dopo il diluvio anni settecento,
siccome chiaro per la Bibbia corre.
E poichè 'l mondo ebbe cominciamento
anni dumila trecento cinquanta
e quattro, ebbe la Torre finimento.
E fu, secondochè la Bibbia canta
alta la Torre quattromilia passi,
e girava di cerchio miglia ottanta.
E trovo, non perch'io la misurassi,
che mille passi fur grosse le mura,
faccendo ognun, che le tre braccia passi:
e penossi, secondo la Scrittura,
a dificare, e far cotal muraglia
centosett' anni di buona misura.
Nino di Bel fu il primo, che battaglia
di gente contro a gente al mondo fe,
ma non, com' oggi, coperta di maglia.
La Terra universal si partì in tre,
cioè Asia, Africa, ed Europia,
siccome piacque a' figliuol di Noè.
Asia fu di molto maggior copia,
nella qual è il Paradiso terresto,
e questo a Sen primo figliuol s' appropia.
Africa toccò in parte dopo questo
a Can, ch' è il secondo figliuolo,
ch'ebbe Noè, com' io ti manifesto.
Europia, ove noi facciamo stuolo
ebbe Giafet, ed in questi paesi
poscia sentì Noè di morte duolo.
Atalante, che fu de' suoi discesi
quinto, passò in Italia, e la Cittade
di Fiesole fondò co' suoi arnesi.
E fu la prima per la sua bontade
dell' Europia, come ancor s' impetra,
e 'l nome ancor ne mostra veritade.
E quivi tre figliuoli ebbe d' Elletra,
Italo, Dardano, Sicano, i quali
udirai, come usciron di faretra.
Italo fu il primo de' Reali,
signoreggiando Italia sanza fallo,
e fu il suo nome alla Provincia iguali.
Dardano prima cavalcò cavallo
con sella, e freno, sanza alcuna noia,
ch' altro, ch' al mondo allora avesse stallo.
Questi fondò la gran Città di Troia,
che fu per lui chiamata Dardanía,
e funne il primo Re con molta gioia.
Tremilia dugent' anni allor avía
dall' edificazion del mondo, infino
al far di Troia, alla veduta mia.
Di Dardano figliuol verace, e fino
fu poi Tritanio, di cui nacque Troio,
per cui si chiamò Troia in suo dimino.
Questi ebbe tre figliuol, s'i' non ti noio;
l' uno Ilion: lasciamo andare i due,
e dician di costui, che fu men croio.
Perochè 'n Troia per le bontà sue
fu dificato il Castel d' Ilione,
che poi per lui così chiamato fue.
Di costui nacque il Re Laumedone,
e Tritomiti, di cui Menelao
discese poi con gran discrezione.
Al tempo, che costui signoreggiao,
Troia distrutta fu sanza conforto
la prima volta dal franco Ercolao,
perchè vietato stato gli era il porto.
E di Laumedon fu poi Priámo,
ch' a rifar la Città fu bene accorto.
Troia girò, se saper lo vogliamo,
sessanta miglia: e per diritta via
all'altro fil d' Atalante torniamo.
Sicano il terzo ebbe signoria
della Cicilia, e funne Re con posa,
per lui chiamata Sicanía di pria;
e fece la Città di Seragosa,
la qual fu capo di tutto quel Regno,
siccome aperto la Cronica chiosa.
Lascio più cose, e brievemente vegno
a dir, che de' Troian con bella chioma
Romolo, e Remol nacquer pien d' ingegno.
I qua' fondar la gran Città di Roma,
e per memoria, non senza cagione,
come si vede, ancor per lor si noma.
E questo fu dopo la struzione
da quattrocento cinquantaquattr' anni
di Troia, e dopo l' edificazione
di questo mondo furon sanza inganni
da quattromila quattrocento ottanta
e quattro; e passo schifando gli affanni.
Ottavian fu (secondochè si pianta
nella Scrittura) di Cesar nipote,
e 'mperador di quella Città santa:
e 'l primo fu, come veder si puote,
che nell' oro portò l' Aquila nera,
che ad ogni Imperador si dà per dote.
Or di Toscana la scrittura vera
racconta i Vescovadi a verbo a verbo,
benchè qualche Città non abbi intera.
Roma, Sutri, Orbivieto, e Viterbo,
Perugia, Arezzo, Castello, e Cortona,
Chiusi, ed Orti, e Nepi non riserbo;
Civita, e Toscanella, si ragiona,
Firenze, Fiesole, Siena, e Volterra,
e Bagnoreggio, Castro, con Saona;
Pistoia, Pisa, e Lucca bella Terra,
e Luni, e Massa, e l' ultimo è Grosseto,
de' ventisei, che la Toscana serra.
Di Fiesole, e di Roma fei decreto
di lor principio, ed or vo' ciascun fare
dell'altre, ch'io saprò, contento, e lieto.
Saturno padre di Giove, mi pare,
che fu di Grecia dal figliuol cacciato,
ed in Italia venne ad abitare,
e la Città di Sutri d' ogni lato
fece murare, onde poi Saturnina
chiamata fu pe 'l suo nome pregiato.
Di Roma poi fuggito Catellina
in Fiesole, con altri paesani,
a Roma guerreggiò sera, e mattina.
Ed assediato ch'e' fu da' Romani,
non potendo resistere all'assedio,
fuggì a Pistoia, e lasciò i Fiesolani.
I quali non avendo altro rimedio,
dieder la Terra, e quella disfer tutta,
infino a' fondamenti ogni risedio.
E poiche' Roman l' ebber distrutta,
edificar la Città di Fiorenza
nel pian, lasciando la montagna asciutta.
E per la gran vittoria, e riverenza
di Marti loro Iddio della battaglia,
vi fero un Tempio con gran provvedenza;
nel mezzo una colonna di gran vaglia,
con un uomo a caval molto robusto,
che a quel cotale Iddio per lor s' aguaglia.
E fu al tempo d' Attaviano Augusto
anni secent' ottantadue di poi
che Roma fatto avea 'l capo, e lo 'mbusto,
e settant' anni, come appare a noi,
innanzi che venisse il Salvatore,
che a ciascun tolse i peccati suoi.
Ed al tempo di Decio Imperadore,
dugento venticinque anni di Cristo,
sua Camera era la Città del Fiore.
E governossi, secondoch'ho visto,
settecento cinquanta dall' un lato
dell' Arno, sanza far dall'altro acquisto.
Questi tagliò la testa a San Miniato,
allora figliuol del Re d' Erminía,
dov' oggi Santa Candida ha lo stato;
e Santo Cresci gli fe compagnía,
perchè di Cristo andavan predicando:
Cresci morì, e Miniato andò via
al Poggio, dove Messer Ildebrando,
Vescovo pio di Firenze, fece
la Chiesa, ov'ell' è oggi al suo comando.
Correva il mille col tre, e col diece,
quando ciò fece quel Pastor sovrano,
e or di lui più parlar non mi lece.
Ma il primo Imperador, che fu Cristiano,
fu Gostantino nel trecentoventi,
e trent' anni regnò tra infermo, e sano.
Ed in quel tempo degl' Idoli spenti,
uscì del Tempio Marti con suo' inganni,
e posto fu all' Arno in su' conventi.
E 'l Tempio si nomò poi San Giovanni,
poi fu dato a guidare a' Mercatanti,
correndo mille cento cinquant' anni.
E questo fu, secondo il dir d' alquanti,
nella seconda edificazione
della Città, e de' suoi abitanti.
Or torno alla materia, ove si pone
delle Città, ch'i' lasciai in esilio,
e l' armi, ch'ebber certe per ragione.
Dico, che al tempo di Numa Pompilio
in Roma cadde uno scudo dal Cielo
vermiglio tutto, per divin concilio;
e li Roman vi miser di buon zelo
d'oro alla schisa S. P. Q. R.
e di tal arme non mutar mai pelo.
E la vermiglia diedero alle Terre
per loro edificate, e s'io non manco,
usaron quelle in tutte le lor guerre.
Firenze poi vi pose il Giglio bianco,
e 'l Perugin vi pose su il Grifone,
ed Orbivieto l' Aquila mise anco.
Pisa mantenne il rosso Gonfalone,
così Viterbo ancor non la magagna;
or vi dirò di parte la nazione.
Tornando a Roma l' oste della Magna,
il Consol Perosus era chiamato,
e vittoria recò con sua compagna.
Ma perch'era all'acquisto soprastato,
e non poteva a Roma ritornare,
dov'è Perugia si fu riposato:
e li Romani il vennero a assediare,
ma finalmente si pacificaro,
per rispetto del bene adoperare.
E quivi una Città edificaro,
che pe 'l nome del Consolo appellata
Perogia fu, ed a Roma tornaro.
A lungo tempo poi multiplicata,
Totile venne di paese strano,
e tutta la disfè con sua brigata.
E fe martirizzar Santo Erculano
Vescovo di Perugia, che pe 'l prezzo
a vita eterna andò a mano a mano.
Aurelia prima fu chiamato Arezzo;
ma poichè Totile Flagellondei
l' arò, e seminò, si mutò vezzo,
e fu chiamata, come saper dei,
Arezzo, e pare a chi diritto avvisa,
che ben seguiti il nome a' fatti rei.
Alfea prima fu chiamata Pisa;
ma perchè si pesava ivi il tributo,
ch' allo 'mperio venía da ogni guisa,
Pisa fu poi, e 'l nome le è cresciuto;
la viziata Volpe vi s' annidia,
e 'l gran serpente sempre le è in aiuto.
Lucca chiamata fu Aringa, e Fridia;
ma perchè prima tornóe alla luce
di quella fede, che Dimonio invidia,
chiamata Lucca fu, e funne duce,
e Vescovo, e Pastor Santo Fridiano,
e 'l nome suo colla Città riluce.
Luni principio ebbe molto lontano,
e poi per una donna fu disfatta
quella Città da uno Oltramontano.
Quando a Viterbo fu la Città fatta,
fu primamente chiamata Vigenzia,
e non senza cagion, come quì tratta.
Poi per gli bagni, con gran diligenzia
molti Roman v' andavano a guarire,
e 'l nome le mutò la sperienzia;
perchè Viterbo quasi viene a dire
Città di vita, se nel ver ti specchi,
poichè facea le 'nfermità guerire.
Orvieto viene a dir, vita di vecchi,
perchè i Roman, che venieno in vecchiezza,
la compiacieno agli occhi, ed agli orecchi.
Cortona è antichissima Fortezza,
e fu chiamata Turna dalla prima,
per lo Re Turno; e poi per la cortezza,
che non prendendo del poggio la cima,
nè 'l pian giugnendo, si chiamò Cortona,
e 'l nome ben coll' effetto s' azzima.
Chiusi Città fu, come si ragiona,
prima che Roma, e funne Re Porsena,
che per Tarquin mise avere, e persona.
Assai è nuova la Città di Siena,
perchè negli anni secento settanta
fu, per la Veglia, d' autorità piena:
fondata da' Franceschi tutta quanta
di prima fu, come si testimonia,
dove la storia più di ciò si vanta.
Volterra prima fu chiamata Antonia;
e indi nacque, e fu l' antico Buovo,
di cui cantar di nuovo ancor si conia.
Origine di più Città non truovo;
ma come i Gotti col crudel talento
in Italia passaro a dir mi muovo.
Regnando Imperador nel quattrocento
Arcadio, e seco Onorio, quella gente
guastò più Terre nel suo avvenimento.
Poi si partiro, e tornar doppiamente
a 'ntendimento di guastar lo 'mperio,
con Rodogaso lor Signor possente.
Onorio Imperador con Disiderio
dall' un lato percosse, il Fiorentino
dall'altra parte fe ben suo mesterio.
Sicchè sconfitti gli misero al chino,
e Rodogaso fu tutto tagliato,
con molti gran Baron, ch' avíe 'n dimino.
Gli altri furon venduti, e fu l' un dato
per minor prezzo, e per maggior derrata,
che non si dà la pecora al mercato.
Questo fu il dì di Santa Reparata;
per la qual cosa Santo Salvadore
si levò, donde quell' è edificata,
siccome volle il Vescovo, e Pastore
Santo Zanobi, che nel Vescovado
metter lo fe, per fare a quello onore.
Gli anni di Cristo passavano il grado
del quattrocento quindici; ma i Gotti
non poteron passar dell' Arno il guado.
Non dico più degli sconfitti, e rotti;
ma dirò dell'asprissima vendetta,
che Totile ne fe, co' suo' condotti,
contro a Firenze, e contro a sua setta.
c. 2, argumento
Siccome Totile Flagellumdei
guastò Firenze, e come Carlo Magno
la fe rifare a dispetto de' rei,
e come della Casa de' Franceschi
Imperador fur sette, e poi Tedeschi.
c. 2
Benchè nel quattrocenquarantacinque
fosse Papa San Leo, e Teodozio
Imperadore alle cose propinque,
Totil Fragellondei non stette in ozio;
ma per vendetta far di Rodogaso,
(credo, che 'l Diavol seco ebbe per sozio,)
com' uon crudele, e di superbia vaso,
passò in Italia; ma prima Aquilea
distrusse, e disertò per questo caso.
In Lombardia con quella gente rea,
Vicenza, Brescia, Bergamo, e Melano,
e Bologna guastò, con ciò che avea;
e 'l suo Pastore, e Vescovo sovrano
San Brocol fece uccidere, e Romagna
prima guastò, e poi si fe Toscano.
E Firenze assediò con gente magna;
ma veggendo, che metterla a tal serra
gli rilevava men d' una castagna,
a' Pistolesi le fe muover guerra,
e tanto amor mostrò con gli occhi biechi
a' Fiorentin, che 'l miser nella Terra.
E se vuo', ch' alla mente più ti rechi,
guastò la Terra, ed a molti diè morte;
onde chiamati fur Fiorentin ciechi.
E fu tra gli altri a sì malvagie sorte
da Totile perverso, e pien di vizio,
in prima ch'egli uscisse dalle porte,
morto 'l Beato Messer San Maurizio,
il qual, secondochè la storia tratta,
di Santa Reparata fu su' ospizio.
E da quel dì, che Firenze fu fatta,
al dì, che fu diserta, com' è detto,
cinquecento venti anni ebbe di tratta.
E per fare allo 'mperio più dispetto,
Totile fece Fiesole disfare,
ed abitolla co' suoi un tempetto.
E po' volendo ad effetto menare
suo mal volere, a Roma cavalcando
guastò più Terre, come ancor si pare.
E poi per la Maremma ringirando,
finì sua vita, e altri poi in sua vece
il seguitò, Toscana tormentando:
ciò fu negli anni cinquecento diece;
il qual chiamato fu Teodorigo,
che a suo senno di Toscana fece.
Questi ebbe Roma, com' io scrivo, e rigo;
ed in quel tempo fu morto a Pavia
Boezio, per cui molto mi gastigo.
Regnando il sopraddetto in signoria,
per l' aspre cose, che fece, di botto
cacciato fu colla sua gente via.
Correva allora cinquecentrentotto,
e furo accomiatati sì, che tardi
del tornar dovrebb' esser vago il Gotto.
Gli Ungheri fur chiamati Lungobardi,
e conquistaro Italia, ed abitarla;
onde noi fummo chiamati Lombardi.
Ver' è, che 'l nome tra' Toscani intarla,
ed è rimaso tutto in Lombardia,
siccome chiaro si vede, e si parla.
Il lor Signore abitóe in Pavia;
Santo Alessandro Fiesolan Pastore
si dolse a lui di certa villania:
onde lo 'ntese con divoto cuore,
benchè fosse Pagano, e volentieri
fe ciò, che domandò sanza temore.
Quando tornava, da' masinadieri
rubato, ed affogato fu nel Po;
e certi allor con divoti pensieri
lo ritrovaro appunto, ove non so;
ma con solennità ne fu portato
a Fiesole, dov'è il suo Tempio mo.
E Santo Romol fu martirizzato
nel detto tempo, ed altri Santi molti,
ch' avien di Gesò Cristo predicato,
e poi nella Badia furon sepolti;
al quale Altare divotamente andando,
assai ne sono da' peccati sciolti.
Nel settecenventicinque Aliprando,
de' Lungobardi Re, e non Latino,
per la Sardigna tanto andò cercando,
che trovò il Corpo di Santo Agostino,
ed in Pavia ne recò l' ossa sue
a una Chiesa, ch' ancora l' ha in dimino.
Questo Signor medesimo po' fue
contro alla Chiesa, e contro al suo stello,
temendo il Padre Santo men, ch' un bue.
Richiese il Papa allor Carlo Martello,
ed e' con molta gente fu cortese,
e liberollo dal Tiranno fello.
Questi fur quei, che la Città Sanese
edificaro, come prima contai,
perchè malati posar nel paese.
E dopo d' Eliprando, ch'io nomai,
regnò Eracco, e tenne la sua via
contro alla Chiesa, e tribololla assai
al tempo del buon Papa Zaccheria,
che di parole gli fe tale intonaco,
ch'ei rifiutò mondana signoria,
riconoscendo se di Dio erronico,
nel settecencinquanta, e non fu ciolfo
niente, perocch'ei morì Monaco.
E poi regnando il Fratello Aristolfo
di Santa Chiesa nemico mortale,
più che alla paglia non è il fuoco al zolfo,
e' prese Roma, e lo spirituale
arse, e rubò; e di Val di Spuleto,
e di Toscana fe l' altrettale.
E Papa Stefano savio, e discreto
scomunicollo, ed egli il tenne a ciancia,
e fessi beffe d'ogni suo decreto.
Appresso il Papa scrisse al Re di Francia,
che 'l soccorresse, e subito si mosse
il Re Pipin con ogni sua pro lancia;
e per tal modo gli avversi percosse,
che gli sconfisse, e fecegli ubbidenti
di Santa Chiesa, e viepiù la riscosse:
che per l' ammenda de' santi ornamenti,
che fur tratti di Roma, fu mestiero,
che 'l Papa ricevesse da' perdenti
di Puglia, e Patrimonio di San Piero
ogni ragione, e fec' essere amico
quell' Aristolfo, che fu tanto fiero.
Settecento cinquantacinque, dico,
correva, quando sì fatto guadagno
la Chiesa fe con quel Tiranno antico.
E dopo il Re Pipin fu Carlo Magno,
ed al suo tempo fu Papa Adriano,
al quale e' fu verace, e buon compagno;
perchè da lui richiesto a mano a mano
si mosse, per difender Santa Chiesa
dallo Re Desiderio aspro, e villano.
Ed assediollo in Pavia, e difesa
far non possendo s' arrendè pregione;
e poichè Carlo ebbe la Città presa,
in Francia ne mandò sanza tencione
lui, e la moglie, e' figliuoli a morire
in carcere con molta dilegione.
Poi fe agli altri la Chiesa ubbidire.
Così perdèr lo Stato i Lungobardi,
che trecento anni avuto avien l' ardire.
Correan gli anni di Cristo, se ben guardi,
settecento settantacinque, e pare,
che 'l Re non vi fu poi, e fievi tardi.
Poi Carlo Magno n' andò oltremare
con molta gente, e con que' Paladini,
la cui prodezza non si può stimare;
e tolse molte Terre a' Saracini,
e fu Gerusalemme sanz' appello
di quelle, che' Cristian fe cittadini.
E 'l legno della Croce, ed un chiavello
di Gesù Cristo ne mandò a Parigi,
che ancora v'è, come 'l primo dì, bello.
Agli uditori ne farò servigi,
pensando, ched ognuno si contenti,
ch' i' lasci que' sermon, ch' a noi son bigi.
Partomi dal parlar di quelle genti
della Saracinía, ed al buon Carlo
tornerò poi; ma de' suo' discendenti,
che furo Imperador, prima vi parlo,
e Re di Francia, e com' alla sua schiatta
venne alla fine transitorio tarlo.
Luigi dopo Carlo quì s' accatta,
e poi Lottieri, e Carlo Calvo appresso
Re della Magna, e di Baviera adatta.
Poi fu Luigi suo figliuolo, ad esso,
che lo 'mperio non ebbe, e 'mperadore
Luigi di Lottieri fu chiaro espresso.
Carlo Semprice poi ebbe l' onore,
ed altro Carlo Magno, dopo lui
Luigi, poichè questi ne fu fuore,
e Carlo Grosso fu dopo costui
Imperadore, e poi per certo male
ne fu privato, e conceduto altrui.
Ed Aristolfo appresso Imperiale
Signor fu fatto, e non fu del linaggio
di Carlo, nè di sua Casa Reale.
Perderono i Franceschi il signoraggio,
che Imperador non ne fu poi niuno,
ch' a Santa Chiesa lasciar fare oltraggio.
Correvan gli anni allor novecent' uno:
nel novecento dieci poi perdero,
che ciascun della Magna fu digiuno.
E poi ad ottant' anni tutto intero
Ugo Ciappetta ebbe 'l Regno, e gli onori
del Reame di Francia; e questo è vero.
Sette ne fur di Francia Imperadori;
durò cento anni, e tornò a' Taliani,
perchè del Papa non fur difensori.
Di Francia Re fu fra gli altri Sovrani
Oddo figliuol del buon Conte Ruberto,
poi gli fu il titol tratto dalle mani.
Perch'egli er' ito in Guascogna per certo,
elessero i Baron, se 'l dir non erra,
un Carlo Semprice, savio, ed esperto.
Oddo tornò, e fecegli gran guerra,
il qual morì, e dopo Carlo poi
regnò Ridolfo, e poichè fu sotterra,
fu Re Luigi, che fra gli altri suoi
figliuol del detto Carlo per ragione
fu, come mostra la scrittura a noi.
Questi fu preso da Ugo in Vignone
negli anni novecenquarantasette,
il quale il tenne buon tempo in prigione.
Ed Otto Imperador, che ciò sentette,
perch'egli era Cognato di Luigi,
con molta gente a suo scampo premette;
ed assediò il Re Ugo in Parigi,
e di pregion fe cavare il Cognato,
e poscia tanto fe, che furo amici.
Poi fu Lottier di Francia coronato,
ed un altro Luigi ebbe tal preda,
quando quei d' esta vita fu passato:
questi morì non lasciando reda.
Fu da' Baroni eletto Ugo Ciappetta,
e così vuol la storia, che si creda.
Gli anni di Cristo con vita perfetta
correan novecento novantotto;
e più parlar di lor non mi diletta,
perchè del Re Pipin discreto e dotto,
e del buon Carlo Magno venne meno
la schiatta, perchè morte le diè il botto;
e 'l lor legnaggio al mondo fu sereno,
con pregio, anni dugento trentasei:
e quì a lor matera pongo freno.
Ma trapassar volendo, non potrei,
ch'io non tornassi a Firenze disfatta,
bench'io trasponga alquanto i versi miei.
Più volte saria stata rifatta,
se non che i Fiesolani, e' Conti Alberti,
contro a cui muravan, facien tratta.
Ver' è, che pur ve n' abitavan certi
in alcun Borghicciuol, ch'era d' allato
a San Giovanni, ed agli altri diserti,
perchè quivi facevano il Mercato
i Fiesolani un dì la settimana,
ed era Campo di Marti chiamato.
E stette la Città diserta, e vana
trecento cinquant' anni, poichè Toto
l' avia disfatta con sua gente strana.
Ed in quel tempo, com' io vi fo noto,
i discendenti di que' Cittadini,
ch' avien lasciato prima il luogo voto,
erano allor nobili Contadini;
ciò furo i Figiovanni, e Firidolfi,
e Fighineldi antichi Fiorentini.
Per esser più sicuri, e star più golfi
si ristrinser con que' pochi abitanti,
i qua' non mostra, ch'e' fosser micciolfi:
e di concordia insieme tutti quanti
a Carlo Magno allotta Imperadore,
ed a Papa Leon n' andar davanti,
recando loro a mente il grande onore,
che acquisterebber, di rifar Fiorenza,
ch'era disfatta per lor disinore.
Onde il buon Carlo con gran diligenza
l' esercito mandò, e fe rifare
questa Città di minore apparenza,
con quattro porti mastre, ciò mi pare,
Porta San Piero, e Porta Santa Maria,
poi la terza si fece chiamare
di San Brancazio, e così par, che sia,
la quarta parte del Duomo si piglia;
così mutata, fu minor che pria.
E pare a me, che non sia maraviglia,
poich' a rifarla Carlo fu sì presto,
se ancor Firenze per suo amor s' ingiglia.
Cresciuta la Città si partì in sesto,
Oltrarno, e Borgo furon per vantaggio
degli abitanti loro aggiunti al resto.
Porta Santa Maria mutò linguaggio,
l' altre rimaser nel lor primo stato,
e questa fu di San Piero Scheraggio;
e fu San Pier così soprannomato,
perchè gli andava allato un fossatello,
da tutta gente Scheraggio appellato.
Come che poi s' andasse il tempo bello,
Carlo arrivò nella Città con presa,
ed alcun fece Cavalier novello;
e fe di Santo Appostol far la Chiesa,
e del tesoro suo le fe tal dota,
che' Preti farne potien buona spesa.
Correva allor, come per me li nota,
ottocento cinque anni, e quell' egregio
Imperador l' amò, come divota.
Ed a Firenze fece privilegio,
che fosse esente (che 'l poteva fare)
da ogni Imperadore, e suo Collegio,
nè fosse mai tenuta di pagare
alcuna spesa, fuorchè ventisei
danar per anno ciascun focolare.
E governossi, come saper dei,
gran tempo, come Roma, degli onori;
ma sempre i Fiesolan fur contro a lei.
Due Consoli ebbe, e cento Sanatori,
e dugent' anni stette in tal maniera,
ch'ella non fec' i suoi cerchi maggiori.
Di molti Imperador seguiva schiera,
i qua' regnaro in quella etade antica,
ch'io lascerò, tornando a mia matera,
perch'io non voglio in lor durar fatica.
c. 3, argumento
Del conquisto di Fiesole, e di certi
casati Fiorentin, ch'erano allora,
e di Messer San Giovanni Gualberti,
e come preso fu Papa Pasquale,
e poi Papa Bondin con maggior male.
c. 3
Col primo Imperador nomato Arrigo,
che della Magna certamente fue,
come per rima seguitando rigo,
i Fiorentin negli anni milledue
della Città di Fiesole pigliaro
fuor della Rocca le Fortezze sue.
Ma prima insieme molto guerreggiaro,
e non possendo per forza acquistarla,
fecer la pace, e poi s' imparentaro.
E poi, secondochè la storia parla,
il dì, che' Fiesolani facean festa
di Santo Romol, sotto vicitarla,
di Fiorentin v' andaro una gran gesta,
ed ordinaron, che per certo cenno
la gente armata fosse lassù presta.
Preser le porti, e quel sembiante fenno,
ch'era ordinato, e così la Cittade
di Fiesole pigliaron per lor senno.
La qual disfero, e ogni dignitade,
che v'era, ne recarono a Fiorenza,
negli anni milledieci in veritade.
E' Fiesolan con tutta lor semenza
vennero in Fiorenze ad abitare,
ond' ella crebbe il cerchio, e la potenza.
E di concordia fero, ciò mi pare,
delle due Armi, ch' egli aveano, una,
bianco e vermiglio, come ancora appare.
Del bianco Fiesolan trasser la Luna
i Fiorentin, del rosso il bianco Giglio,
e così l' Arme ancora s' accomuna:
come allora vi si diè di piglio,
per far memoria de' tempi passati,
sempre fu poi di bianco, e di vermiglio.
Crebbe Firenze di Borghi, e fossati;
sessantotto anni, dice la scrittura,
ch'ella regnò con que' Borghi steccati;
Arrigo terzo poi le fe le mura.
Ma dopo il primo Arrigo fu Currado
Imperador nel quindici, e Proccura.
Al cui tempo dirò di grado in grado
le schiatte, che Fiorenza avien fiorita
di nobiltà, legnaggio, e parentado.
Firenze in quattro allora era partita,
com' io v' ho detto, e fu porta del Duomo
l' una così nomata, e stabilita.
Al Duomo usava ogni Gentile uomo,
e matrimonj, e pace sanza inganni
si facean quivi; e ora le cose nomo.
Eran di quel Quartiere i Figiovanni,
Palermi, Scali, Ghineldi, e Barucci,
e' Figliuol della Tosa fur quegli anni,
que' della Pressa, Sizj, ed Arrigucci,
Bisdomini, che ancora ce n' ha certi,
non collo stato, che l' antico fucci.
Di San Brancazio erano i Lamberti,
i qua' mi par, che per antichi sughi
disceser della Magna savj, e sperti,
que' della Rocca Catellini, ed Ughi,
che Santa Maria a Ughi volentieri
fero, e fu loro il Poggio di Montughi.
Vecchietti, e Pigli, e Figliuol di Tieri,
e Migliorelli nobili, e cortesi,
ed appresso di loro i Soldanieri.
Porta Santa Maria aveva accesi
gli Uberti quì discesi della Magna,
Cappiardi poi, e Chelli, e Borgolesi,
Filippi, e Guidi facean lor compagna,
e Greci, di cui fu tutto quel Borgo,
che ancora oggi del nome lor si bagna;
e per Ormanni i Foraboschi scorgo,
que' della Pera, Sacchetti, e Bostichi,
e que' della Sannella ancor vi porgo,
e Importuni, e Gualterotti antichi,
e quelli della Bella, ed Infangati,
e Buondelmonti, e Pulci vo', che dichi.
Conti da Gangalandi, e Giandonati,
Ciufagni, e Nerli d'Oltrarno è palese,
che furon grandi tra gli altri nomati;
e l' arme, ch'han, diè loro Ugo Marchese,
che fec'edificare il Monastero
della Badia di Firenze a sue spese.
E nel Quartier di porta San Piero
erano gli Alberighi, ch' a lor mani
Santa Maria Alberighi fer di vero;
e Galigari, Ardinghi, e Ravignani,
Chiaramontesi, Giuochi, ed Elisei,
e Caponsacchi Grandi Fiesolani;
e Donati, e Calfucci non vorrei
dimenticar nella Famiglia bella
degli Adimari; pognian, ch'i' non potrei,
e que' della Cosa, che fer la Cappella,
cioè, Santa Maria Nepote - cosa,
che pe' nipoti suoi così s' appella.
O quanti, de' qua' non dice la Prosa,
poveri antichi, son poscia d' ingordo
montati per fortuna graziosa!
E quanti, de' qua' non fu mai ricordo,
se non da jeri in quà, tengon lo stato,
e fann' a ognun coll'aver cieco, e sordo!
Lascio di loro, e torno al nominato
Imperador, cioè Arrigo secondo,
quarantacinque col mille passato.
Alla cui signoria, con grieve pondo
fu nel dett' anno mortalità, e fame
per tutto quanto l' universo mondo.
E dopo il tempo delle cose grame,
il detto Imperador, per forza, e prove
Vettorio Papa fe del gran Reame.
Gli anni corrien mille cinquantanove;
poco vivette: dopo lui fu tosto
Stefano Vicario del Sommo Giove.
Questi abitò in Firenze, e ben disposto
morì sotto l' ammanto di San Pietro,
e in Santa Liperata fu riposto.
E dopo lui fu il Pastor di Velletro,
che men d' un anno stette in eccellenza;
e nel Papato poi gli tenne dietro
un Borgognon Vescovo di Fiorenza,
che fu chiamato Papa Niccolaio:
lascio degli altri, e prendo altra sentenza.
San Giovanni Gualberti fu col vaio
Cavalier di Petroio in Val di Pesa,
e vegnendo a Firenze allegro, e gaio,
trovò colui, che gli avia fatto offesa
d' avergli morto un suo fratel carnale,
qual vendicar potea sanza contesa;
ma colui, ch'era stato il micidiale,
che gli perdoni umilmente il priega,
per amor del Signore celestiale.
E 'l Cavalier benigno non gliel niega,
offerselo alla Croce in San Meniato,
la qual per umiltà a lui si piega.
Giovanni, pe 'l miracol dimostrato,
monaco diventò tanto sovrano,
che in brieve tempo fu santificato.
Morì nella Badia da Passignano
correndo gli anni del nostro Signore
mille sessantatrè; quest'è certano.
Lascio del Santo, e dello Imperadore
Arrigo terzo il mio trattato canta,
perchè fu contro alla Città del Fiore.
Questi regnò negli anni mille ottanta,
nemico della Chiesa, e di coloro,
che s' accostavan colla Chiesa Santa.
Regnava allora Papa Ghirigoro,
di cui i Fiorentini erano amici,
onde lo 'mperio nemicò costoro.
Perchè l' entrate gli fur vietate, quici
e' pose l' oste ov'è oggi Cafaggio,
che 'nfino all' Arno stese le pendici;
e faccendo d' intorno gran dannaggio,
combattendo la Terra notte, e día,
e d' acquistarla non veggendo saggio,
partissi quasi a rotta, ed andò via,
lasciando ogni suo arnese veramente;
e siccome fu giunto in Lombardia,
e la Contessa Mattelda valente,
come divota della Chiesa, ardita
sconfisse lui, e tutta la sua gente.
Arrigo nella Magna fe reddita,
e dal figliuolo fu messo in prigione,
scomunicato lì finì sua vita.
Ed in quel tempo nacque la cagione,
che quasi tutta Italia si divise,
faccendo tra lor sette, e contenzione.
Chi per lo 'mperio la sua forza mise,
chi per la Chiesa mostrò suo podere,
e così chi ne pianse, e chi ne rise.
E quinci crebbe molto, al mio parere,
la division, ch' addietro si dicrina,
trallo 'mperio, e la Chiesa, dei sapere.
Parto da queste cose mia dottrina,
per dir, come il secondo Papa Urbano
andò contro alla gente Saracina.
Con furia presa dal popol Pagano
Gerusalemme, dove incontanente
fu quasi preso, e morto ogni Cristiano.
Laonde il detto Papa Urban valente
ben dugento miglia', come quì vedi,
d' uomini mosse di verso Ponente,
de' qua' fu Capo Duca Gottifredi;
passar di là, e presero Antioccia,
Gerusalem, e molti altri risedi.
E 'l detto Gottifredi Franca Broccia,
Re ne fu fatto, ma non coronato,
perchè non volle sì mondana roccia,
considerando, ch' al tempo passato
di spine coronato vi fu Cristo,
la rifiutò col cuore umiliato.
Nel mille centoventi fu l' acquisto.
Ritorno addietro al mille centosette,
perch' è di necistà, come quì listo.
Allor Firenze Contado crescette,
quando mise per terra Monte Orlandi,
che di lei prima poco si temette.
Tenendosi i Pratesi molto grandi,
da' Fiorentin si rubellar quell'anno,
faccendo contro a tutti i lor dimandi.
Quello assediaro, e dopo molto affanno,
ebber la Terra, e tutta si disfece,
sicchè sopra di lor tornò lo 'nganno.
L' anno corrente mille centodiece
Arrigo quarto Imperadore eletto
ambascieria a Papa Pasqual fece;
dicendo, che volea esser suggetto
di Santa Chiesa, e della sua persona,
e render ciò, ch' avea per indiretto;
da lui voler ricever la corona,
siccome da maggiore; e 'l Papa scrisse,
ch'egli accettava ciò, che si ragiona.
Con molta gente allor per via si misse;
e verso Roma, sanza verun calo
nel cavalcar, con sua gente s' affisse.
Appressandosi a Roma ficcò il palo,
per riposarsi, e tutto il Chericato
gli andò incontro insino a Monte Malo.
Da tutti i Cardinali accompagnato
entrò in Roma, e vide il Padre Santo,
e dismontò, e 'l piè gli ebbe baciato.
E 'l Papa dismontò veggendo tanto,
baciollo in bocca, e menollo in San Piero,
e poichè 'l Teddeo ristette il canto,
il Papa fe venir quivi il Saltero,
e disse: Arrigo giura d' osservare
quel, che tu mi scrivesti, tutto intero.
Quegli sdegnò, e dopo il consigliare,
a Cavalieri, che seco avea armati,
il Papa, e' Cardinali fe pigliare;
e mandogliene bene accompagnati
nella pregion della Città di Legge:
e pochè furon quivi un tempo stati,
si fe l' accordo, e siccome si legge,
il Papa, e' Cardinali a lui giuraro
di non far contro a suo dicreto, o legge.
E di ciò, ch'egli era stato avversaro
di Santa Chiesa, o delle lor persone,
il Papa l' assolvè sanza riparo.
E poichè furon tratti di prigione,
il Papa celebrò, e per fermezza
si comunicò poi con quel Barone,
e 'ncoronollo con molta allegrezza
di fuor di Roma; e 'l Papa si rimase,
ed egli andò dov'egli avea vaghezza.
Poi si levaron tre Cheriche rase,
e ciascun si fe Papa indegnamente;
ma poco onor n' acquistar le lor Case.
L' uno ebbe nome Alberto certamente,
e l' altro Angulfo, e l' altro misleale
Teodorigo, e ciascun fu perdente.
Morto che fu 'l detto Papa Pasquale,
i Cardinali fer Papa Galasso;
onde turbossi Arrigo Imperiale,
perchè non fu richiesto a questo passo,
e fece un Papa nomato Bondino;
onde il primier, per non venire al basso,
con tutti i Cardinali entrò in cammino,
andonne in Francia, e giunsevi sì tristo,
che 'n pochi dì morte il mise al dichino.
E' Cardinali si fer Papa Calisto,
questi scomunicò Arrigo quarto,
e inverso Roma andò ardito, e visto.
Poich' a Bondino il suo venir fu sparto,
fuggì di Roma, e in Sutri assediato
fu dal popol di Roma, com' io incarto.
E poichè l' ebber preso, fu legato
sovr' un Cammel col viso inver' la groppa
per diligione, e a Roma menato.
E in prigione con maestrevol toppa
in campagna fu messo, ove ancor giace,
perchè morì di fame sanza poppa.
Papa Calisto si rimase in pace,
ed al suo tempo Arrigo quarto detto
si ricognobbe siccome fallace;
e pentuto che fu d'ogni difetto,
restituì la Chiesa, e fu in concordia
col Padre Santo, dandosi nel petto.
Ed egli ebbe da lui misericordia,
e assolvettelo delle cose ladre,
non riguardando la vecchia discordia.
E perchè fe in prigion morire il padre,
piacque a Dio, che morisse sanza reda,
e così fa il Signor cose leggiadre.
Correva, quando fu di morte preda,
mille cenventicinque, l' anno adorno,
che Iddio a noi, e a lui pace conceda.
In tal matera omai più non soggiorno,
perochè già s' è l' animo piegato
alla patria mia, dov' io ritorno;
cioè Firenze, della qual son nato:
pognian, che d' altre cose alcuna volta
m' ingegno di fiorire il mio trattato,
per dilettar chi legge, e chi ascolta
i' sare' molto di biasimo degno,
s'i' non avessi alcuna storia tolta.
Sicch'io mi sono ingegnato, e m' ingegno
di metter con Firenze tanti fiori,
che 'l libro la simigli in nome, e 'n segno;
ed hocci messi Papi, e 'mperadori,
e metterò, con altre cose assai,
purch'io creda piacere agli uditori.
Da lei mi parto, e vegno al dì omai.
c. 4, argumento
Di San Domenico, e Santo Francesco
fur confermate le Religioni,
e San Pier Martir fu morto di fresco.
Del primo Podestà di questa Terra,
e de' Sanesi cominciò la guerra.
c. 4
De' Fiorentin ragiono volentieri,
e ne' lor fatti antichi mi distendo,
perchè a ciò mi corrono i pensieri.
Il mille centosedici correndo,
Castel di Montecasoli assediato
da' Fiorentini fu, s'io ben comprendo;
perocchè da lor s' era rubellato
per lo Vicario dello 'mperadore,
che sempre dimorava in Sanmeniato,
per conservar le Terre al suo Signore;
e del Tedesco sempre quel Castello
fu appellato per cotal tenore.
Soccorse allora il Vicario il rubello,
da' Fiorentin vi fu sconfitto, e morto,
e fu disfatto insino a terra quello.
E nel detto anno furono a mal porto
i Fiorentin, perchè il fuoco s' apprese
a Santo Apostolo, e senza conforto
arse della Città un gran paese;
e poi nel mille centodicessette
del rimanente poco si difese.
Ispesso insieme combattien le sette
de' Fiorentin, per cagion della Fede,
ed in quella resia tanto si stette,
che li Santi Campion d'ogni mercede
Santo Domenico, e Santo Francesco
di ciò mostraron ciò, che si richiede.
Sicchè allor, com' è detto di fresco,
la Santa Chiesa fu fortificata,
perchè fu nel ben far ciascun manesco.
San Piero Martire allora una fiata
da' Paterini fu morto a Melano,
e fece di miracoli brigata.
Nel detto tempo armata fe il Pisano
sopra a Maiolica; e sendo in cammino,
Lucca fece oste a Pisa a mano a mano.
Onde mandar pregando il Fiorentino,
che gli piacesse aver guardia di Pisa,
e que' v' andaro, e color si partiro.
E' Fiorentin, per onestà s' avvisa,
di lungi alla Città stetter due miglia,
e 'l Capitan bandir fe in questa guisa:
che niun di sua gente, ovver famiglia
entrasse in Pisa a pena della testa,
ed uno, che v' intrò, subito piglia;
e volendo guastarlo senza resta,
vietarono i Pisan, che in lor terreno
e' nol facesse per lor si protesta.
E colui, ch'era di giustizia pieno,
pe' Fiorentini comprò di presente
un campo, ed ebbe 'l guasto in un baleno.
Tornati da Maiolica la gente,
recaronne una porta di metallo,
ch' al Duomo in Pisa ancora sta evidente,
e due colonne, che parean corallo,
sì rilucevan di bel profferito,
e a' Fiorentini disser senza fallo:
Perchè il Comun da voi si tien servito,
ch' avete ben guardato nostre donne,
de' due gioielli l' un v' ha consentito;
prendete qual vi piace: e le Colonne
pe' Fiorentin si dimandar di patto;
onde fur malcontenti, ed ancor sonne.
Prima l' abbacinaro, e fecier matto
il lor vago colore, e con affanni
le ci mandar coperte di scarlatto.
Ritte fur poste innanzi a San Giovanni,
acciocchè ognun, che le vede, e le tocca,
si rechi alla memoria i vecchi inganni.
Nel mille cenventicinque la Rocca
di Fiesole assediaro i Fiorentini;
e non avendo che mettersi in bocca,
que' dentro s' arrendèr come tapini;
e fu disfatta con molta allegrezza,
ed ordinar per legge i Cittadini,
che fosse pena, siccom' ho fermezza,
la testa a chi vi facesse murare,
sanza licenza del Comun, Fortezza.
Nel detto tempo ancora, ciò mi pare,
si fe, che 'l miglio fosse mille passi,
tre braccia il passo al nostro misurare.
Nel mille centotrentacinque cassi
i Buondelmonti fur di Montebuoni,
del qual camparo in terra alquanti sassi.
E gli altri Nobili udendo que' tuoni,
temendo di non dir per piova, omei,
con Firenze ballar secondo i suoni.
E poi nel mille cenquarantasei
furo a Monte di Croce i Fiorentini
per isdegni sconfitti, saper dei,
da' Conti Guidi, e con lor gli Aretini,
che' Fiorentin per grandigia sdegnaro,
e poi a rotto si partir meschini.
Nel mille cencinquantatrè tornaro
i Fiorentini a quel Monte di Croci,
sicchè a lor forza non trovar riparo;
ed avuto il Castel, per quelle foci
il fecer voltolar, forte piangendo
i Conti, e gli altri ad altissime boci.
Nel mille cenciquantaquattro avendo
que' di Pistoia guerra co' Pratesi,
i quali ad oste a Carmignano essendo,
quivi sconfitti fur da' Pistolesi,
ed a Pistoia, secondo ch'io sento,
una gran parte ne menaron presi.
Negli anni poi millesessanta e cento,
acciocchè gli Aretini erano stati
co i Conti, a dare a' Fiorentin tormento,
i Fiorentin sopra lor furo andati,
e sconfissergli sanza far dimoro,
e molti ne menar presi, e legati;
e gli altri per riaver i prigion loro,
renderon pace a' Fiorentin, giurando
di non esser giammai più contra loro.
Appresso a questo poco dimorando,
Fiorentini, e Sanesi per Istaggia
preser la guerra, l' un l' altro sdegnando.
Firenze, che batteva ov'è oggi Piaggia,
prese difesa di Montepulciano
contro al Sanese, che ancor l' oltraggia.
Nel mille censettantaquattro a Asciano
da' Fiorentin fu sconfitto il Sanese,
che non lasciava quel fornir di grano.
Nel detto tempo il Poggio Bonizzese,
ch'era dov'egli è oggi, per paura
de' Fiorentini, la montagna prese.
Dove chiamato fu nella pianura
Borgo di Marti, fu poi per lo nome
di Bonizzo, di cui era l' altura,
chiamato Poggibonizzi; e le some
di più Comun si raunaron quivi,
ed afforzarlo; lascio andare il come.
Ma per que', che son morti, e per gli vivi
si tenne quel bilico di Toscana,
cioè, il mezzo di tutti altri rivi:
e perchè s' accostaro alla balzana,
il Comun di Firenze fece Colle,
come udirai, appresso alla fiumana,
acciocchè fosse a quella un battifolle,
e fosse freno alla Città di Siena,
che con Firenze poco ben si volle,
ed al fondar si fer pugner la vena
que' da Firenze, come quì s'impetra,
e col sangue mischiar calcina, e rena,
colla qual poi fondar la prima pietra:
questo per segno di gran fratellanza,
la qual' è poi cresciuta, e non si arretra.
Nel mille censettantasette danza
dal vecchio Ponte al Mercato vecchio
il fuoco sì, che poco ben ci avanza.
E d' acqua poi si fe tale apparecchio,
che 'l detto Ponte cadde, ed a memoria
molti si recar questo per ispecchio,
dicendo; Iddio ci dà spesso vittoria,
e non gliene rendian loda nè grazia,
anzi montiamo in superbia, e in boria:
più volte ha fatta nostra Città sazia,
e sianne istati poi malconoscenti,
e quest'è la cagion, perchè ci strazia.
Gli Uberti allora, come più possenti,
volendo a lor piacer guidar la Terra,
incontro a' Consoli, ed altri Reggenti,
incominciaro zuffa, ed aspra guerra,
e molte Torri altissime si fero,
con manganelle, se 'l libro non erra.
Così le sette insieme combattero,
e durò tanto, che dimestichezza
prendeano insieme dopo l' atto fero,
e su per gli ridotti con vaghezza
si ragionavano, insieme vantando,
ciascun dicendo: i' fe la tal prodezza.
Così tra lor si venien contastando,
e tanto tenner sì fatta matera,
che appoco appoco si venne annullando.
Nel mille cento ottantadue cert' era,
quando per forza i Fiorentini al piano
recaron Montegrossoli a bandiera.
Soldi otto valse allor lo sta' del grano,
e fu allora gran caro tenuto,
per la moneta, che per terzo abbiamo.
Nel mille cento ottantaquattro issuto
i Fiorentini andaro ad oste a Pogna,
ed ebberlo, e disfecerlo a minuto.
E nel detto anno raccontar bisogna,
che fu in Firenze Federigo primo
Imperador, che le fe gran vergogna;
che per richiami, ch'ebbe, com' i' stimo,
che i Fiorentini i Nobili abbattieno,
per crescere il Contado, ch'era grimo,
fuor delle porti tolse loro appieno
tutto il Contado, e fe simile oltraggio
a tutti que', che col Papa tenieno.
E poi appresso si fece il passaggio
laddove Federigo in mar fu rotto,
sicchè tra pesci compiè suo viaggio.
Negli anni poi mille cento ottantotto,
quasi che tutta la Cristianitade
con Santa Chiesa faceva ridotto.
E venne allor nella nostra Cittade
a predicare il Pastor di Ravenna,
e' Fiorentin v' andar tal quantitade,
che oltremare, come scrive la penna,
fer da parte per lor campo, e brigata;
e, come chiaro la storia n' accenna,
e' furo i primi, ch'entraro in Damiata,
e recarne per segno uno stendardo,
che in San Giovanni ancora oggi si guata.
E perchè il Fiorentin fu lì gagliardo,
lo 'mperadore, e 'l Papa trenta miglia
dier di Contado al Fiorentin, s'i' guardo.
Nel mille cento novanta si piglia,
che in Firenze venne il Santo Braccio
di San Filippo, per gran maraviglia:
lasciamo star, di cui fosse il procaccio;
che fu di certi di questi paesi,
e di più altri, ch'io non mi do impaccio.
Nel mille cento novantasette intesi,
che per discordia la Terra gioconda
disfero al Poggio de' Sanminiatesi,
e' Borghi San Ginegi, e Santa Gonda
nel piano appresso buon tempo abitaro.
E nel detto anno, come quì seconda,
i Fiorentini il Castel comperaro
di Montegrossoli, ch'era rifatto;
e Consol di Firenze buono, e caro
era Compagno Arrigucci quel tratto,
e tutta Italia avia pace magna,
regnando allora Papa ad ogni patto
Innocenzio terzo di Campagna,
che l' Ordine approvò de' Fra' Minori,
cioè, di San Francesco, e suo compagna.
Nel detto tempo spegnendo gli errori
San Domenico andava predicando,
e fe il Convento de' Predicatori.
Non s' affermò quell' Ordine regnando
il detto Papa; ma il suo successore
il confermò ad ogni suo dimando,
correndo gli anni di Dio Salvatore
mille dugentosedici con posa.
Cento novantanove, che il maggiore
essendo Consol Conte della Tosa,
i Fiorentini assediar Frodigliano,
ed ebberlo, e disfecero ogni cosa.
Mille dugento si levar dal piano
que', che lasciaro di Sanmeniato il monte,
e ritornarsi al lor poggio sovrano.
Nel mille dugendue, con chiara fronte
assediò, e disfece il Fiorentino
il Castel di Combiata, e Simifonte,
essendo de' Barucci Aldobrandino
Consolo di Firenze, a lor davanti.
Mille dugentotrè seguì il cammino
Brunellin di Brunello de' Razzanti,
al cui tempo si sfece Montelupo,
che' Fiorentin non volea per amanti.
Nel detto tempo mise mano al cupo
il Pistolese, e Monte Murlo tolse
a' Conti Guidi, se 'l ver non isciupo:
al cui priego il Fiorentin si volse,
racquistollo, e rendello a' detti Conti,
e poi il comperò, come Iddio volse;
e cinquemila lire n' ebber pronti,
che vaglion cinquemila Fiorin d' oro,
se la moneta valse, come conti.
Mille dugentosei correva in coro;
l' anno presente i Fiorentin di botto
Podestà forestiere ebber tra loro,
il qual fu da Melano Gualfredotto;
che 'nfino allora per altre maniere
s' era il Comun di Firenze condotto,
per quattro Consoli, uno per Quartiere,
con cento Consiglieri, e, com' è detto,
sempre ebber poi un Rettor forestiere,
e ciaschedun durava un anno netto;
e bastò tanto, che li Popolani
furo i maggiori, e 'l Nobile suggetto.
Allora si criaron gli Anziani,
i qua' sovra' Sanesi fero assalto,
ed aspramente vennero alle mani.
Il Fiorentin gli sconfisse a Montalto,
mille trecento di lor menò presi,
e 'l Castel fer cader nel piano smalto.
L' anno seguente poi sopra' Sanesi
i Fiorentin tornaro, e Rugomagno
disfero, ed arson tutti que' paesi:
di preda, e di pregion fer gran guadagno,
e tornati a Firenze, Siena in quella
chiese la pace, ed ebbela con lagno.
Per riaver lor prigion dier più Castella,
di Montalcino, e di Montepulciano
promiser di non far mai più novella.
Era allor Consol Messer Catalano
de' Tosinghi, e sappi, che 'l maggiore
era nomato, e gli altri erano invano.
E benchè forestier fosse il Rettore,
nientemeno i Consoli regnaro
infinchè gli Anziani ebber valore.
Come in Firenze prima si criaro
i Guelfi, e Ghibellini intendo dire
nel quinto Canto, ed a cui costò caro,
e col quarto più oltre non vogl' ire.
c. 5, argumento
Origine di Guelfo, e Ghibellino,
e della guerra tra noi, e' Pisani,
com' ella nacque per un Catellino
di Buondelmonti, e della Torre antica
di Carmignan, che ci facea la fica.
c. 5
Eran gli anni di Cristo, ciò mi pare,
mille dugentoquindici, nel Monte
quando promise, e giurò d'osservare
de' Buondelmonti Messer Buondelmonte
di tor per moglie una degli Amidei,
poi cavalcando con allegra fronte,
una donna il chiamò, ed andonne a lei,
perch'era de' Donati, e non fu sola
quando gli disse: Messer, ben vorrei,
ch' avessi avuto questa mia figliuola,
e dispregiò la prima tanto, ch'ello
volgendo gli occhi alla dolce viuola,
innamorò di lei, sicchè di quello,
ch' avie promesso, non si curò nulla;
prese costei per carta, e per anello.
Onde i Parenti dell'altra fanciulla
furono insieme, e disser con dolore:
Questi ci ha data dell' erba trastulla,
ed hacci fatto grande disonore;
sicchè pensian, per che modo si merti
il Buondelmonte del suo grande errore.
Dove consiglio sopra ciò dier certi;
ma cosa fatta capo ha; disse poi
ultimamente il Mosca de Lamberti.
Che fosse morto inteser gli altri suoi,
ed e' così diceva; donde appresso
ne seguitò, come quì intender puoi.
La mattina di Pasqua Resurresso
era vestito il Cavalier di bianco
sopra un palafren bianco da se stesso:
giugnendo al Ponte vecchio, dov'era anco
la statua dell' Idolo di Marti,
fu morto, avendo di soccorso manco.
Firenze, benchè fosse molte parti,
per la detta cagion si turbò tutta,
e furne molti fuor cacciati, e sparti.
Questa divisa ha ancor Firenze brutta;
chi con gli Uberti, e chi co' Buondelmonti
allor fe setta, ond' ella n' è distrutta.
Gli Uberti, e lor seguaci furon pronti,
collo Imperador tenner compagna,
e gli altri colla Chiesa si fer Conti.
Ragionasi, che allora nella Magna
due Castellani avie, ch'eran nemici,
ed era forte ognun sanza magagna.
E per metter l' un l' altro alle pendici,
si guerreggiar gran tempo in tutte guise,
e ciaschedun richiedeva gli amici.
Sicchè la Magna tutta si divise;
chi tenne l' un, e chi l' altro cammino;
or udirai ciò, che 'l Diavol commise.
Quelle Castella avien per lor latino,
secondochè la Cronica ne pone,
nome l' un Guelfo, e l' altro Ghibellino.
E durò tanto quella tencione,
che l' un diceva: I' son Guelfo scorto;
e l' altro: I' son Ghibellin per ragione.
Poichè Messer Buondelmonte fu morto,
Guelfi fur quei, che s' accostar co' suoi,
e gli altri Ghibellini, com' io t' ho porto.
E quì, Lettore, aperto veder puoi,
che 'l Diavol battezzò le Sette allora,
che Guelfi, e Ghibellin si chiamar poi.
Le maladette parti sono ancora;
se l' una monta, l' altra va di sotto.
Lascio costor; che l' un l' altro divora.
E poi nel mille dugentodiciotto,
essendo Podestà de' Fiorentini
un Melanese, ch' avea nome Otto,
giurarono a Firenze i Contadini,
che prima a' Conti tutti rispondieno,
secondoch'eran fra loro i confini.
E nel detto anno, com' io dico appieno,
si fe di nuovo il Ponte alla Carraia.
E per le molte carra, che venieno
da quella parte di verso Verzaia,
così fu appellato dalle genti,
ed ancor oggi mostra, che si paia.
Negli anni poi mille dugentoventi
lo 'mperador Federigo secondo,
fe del Castel di Prato i fondamenti.
E per guardar le Terre tutte a tondo
a Sanminiato fe la bella Rocca,
dove il Vicario suo stava giocondo.
Alla consegrazion, come quì tocca,
del detto Imperadore ambasceria
d'ogni Cittade fece a Roma ciocca.
Del Fiorentino ambasciador v' avia,
e del Pisan, secondo il temporale,
e come ciaschedun si convenia.
Allora un grazioso Cardinale
diè desinare a que' del Fiorentino;
e l' un di loro, quasi più Caporale,
chiese a quel Cardinale un Catellino;
ed e' rispose molto lietamente:
Manda per esso ad ogni tuo dimino.
Poi il detto Signore il dì seguente
a que' di Pisa diede disinare;
de' qua' l' un chiese il Catellin presente.
E 'l Cardinal, ch' avea fors' altro a fare,
non pensando d' averlo altrui promesso,
disse: Manda per ello quando ti pare.
Mandò in prima il Fiorentin per esso,
il Pisan poi rimase con iscorno,
pensando peggio, che non era appresso.
Onde per Roma poi andando un giorno,
i Fiorentin si scontrar ne' Pisani,
con più altri compagni a lor dintorno;
e rimbrottarsi molto, ed alle mani
vennero insieme, e' Pisan disinore
fecero a' Fiorentin con altri strani.
Fiorentin, ch'eran collo 'mperadore,
e con quel Papa, molti mercatanti,
ed altri di Firenze, a quel sentore
si raunaro insieme tutti quanti,
e fecion Caporal della lor setta
il buon Messer Arrigo de' Sifanti.
E fer sopra' Pisan più che vendetta,
sicch'egli scrisser la gran villania,
che ricevuta avieno, a Pisa in fretta;
ond' essi fecion la mercatanzia
de' Fiorentin tutta quanta arrestare
in Pisa, e 'n Porto, e dovunque n' avía.
I Fiorentin gli mandaro a pregare,
ed essendo negate lor proposte,
riscrisser lor, che se non volien fare,
ch'egli aspettasser di subito l' oste;
e que' risposer d' ammezzar la strada,
e d' esser loro a petto, ed alle coste.
Mossesi il Fiorentin con sua masnada,
e 'l Pisan, se bene il ver cognosco,
colla sua gente non istette a bada.
E riscontrandosi a Castel del Bosco
l' una parte coll'altra, diè il Leone
alla Volpe marina amaro tosco.
Quivi i Pisani con affilizione
sconfitti furono, e mille dugento
ne menaro a Firenze a lor pregione.
Nel dugentoventotto e mille sento,
che i Fiorentini andar sopra Pistoia,
col Carroccio, e con grande assembramento,
perocch' a Montemurlo davan noia,
e disfecer le Torri a Montefiori,
e Carmignano assediaron con gioia,
e pel gran guasto, che davan di fuori,
que' dentro s' arrendero al Capitano,
di che Pistoia ebbe sommi dolori.
Avevavi una Torre in Carmignano,
sopra la quale eran di marmo antiche
due braccia d' uomo, e con ciascuna mano
verso Firenze facevan le fiche.
La Torre fu disfatta incontanente,
sicchè le fecer poi tralle formiche.
Grande allegrezza ne fece la gente,
perocch' a noia se l' avean recata,
gli artefici, più ch' altri, veramente.
E quando alcuna cosa era mostrata,
alcun di lor diceva, io non la veggio,
perocchè l' occhio la tal Torre guata.
E' Pistolesi allor temendo peggio,
de' Fiorentin fero i comandamenti,
e l' oste si tornò al suo riseggio.
L' anno seguente i Sanesi attenti
contra Montepulciano fer procacci,
rompendo paci, patti, e saramenti.
Essendo allor Podestà, vo' che sacci,
della Città di Firenze col vaio
il buon Messer Giovanni de' Bottacci,
il Comun di Firenze allegro, e gaio
in quel di Siena fece allor gran danno,
e mise a terra il suo Monte Liscaio.
I Fiorentini appresso nel detto anno
Caposelvoli presero, e disfero
colla lor forza, sanza troppo affanno.
Or ti dirò un gran miracol vero,
che un Prete Uguccion di Santo Ambruogio,
avendo detta Messa al Munistero,
siccome vecchio, e di spirito mogio,
del Sacrificio vi lasciò alquanto;
e nota quì, che da me non ci arrogio.
Un altro Prete l' altro dì daccanto,
volendo Messa dir, trovò, che quello
diventato era Carne, e Sangue Santo.
Veggendo il Prete miracol sì bello,
mostrollo alla Badessa, ed alle Suore,
e tutti i vicin trassero a vedello.
Ispartasi la boce poi di fuore,
il Vescovo v' andò, e sanza fallo
con Preti, e Frati con divoto core:
in una bella ampolla di cristallo
la detta orliqua misero, ed allora
trasse la gente tutta in quello stallo;
ed ogni anno alcun dì si mostra ancora.
Lascio di questo, perchè mi contenta
di tramutar vivanda ad ora ad ora.
Negli anni poi mille dugentotrenta
il Fiorentino andò sopra 'l Sanese,
col carroccio, e con gente d' arme attenta;
ed Otto di Mandella Melanese
Podestà di Firenze, e per ragione,
era in quel tempo, com' è quì palese.
Guastaro, ed arsero 'l Bagno a Vignone,
e contro a Perugin passar le Chiani,
che di Siena pigliavan difensione.
Poi si partiro a priego de' Romani,
e in quel di Siena misero al dichino
venti Fortezze de' suo' paesani.
A Monte Cellese tagliaro il pino,
tornaro a Siena faccendo gran vampo
d' ardere, e di rubar per lo cammino;
e appresso alla Città fermaro il campo,
entrar nel Borgo, e dugento pregioni
ne menaro a Firenze sanza inciampo.
Mille dugentrentadue anni buoni
corrieno allora del Signor Sovrano,
che per comun Cavalieri, e Pedoni
di Siena andar sopra Montepulciano,
e tagliargli le mura, essendo a lega
co' Fiorentini; donde a mano a mano
Firenze rifornì la sua bottega
di ciò, che bisognò di grado in grado,
e sopra Siena sua bandiera spiega.
E guasto ch'ebbe in parte il suo Contado,
l' oste fermata intorno a Querciagrossa,
che tanto bel Castel si vede rado,
e quella Terra tanto fu percossa
la notte, e 'l giorno da molti trabocchi,
che s' arrendér, non veggendo riscossa,
forte piangendo col cuore, e con gli occhi
furon prigion con danno, e con vergogna,
e di tutto il Castel fu fatto rocchi.
Allora Messer Iacopo da Pogna
era in Firenze Podestà per certo.
Appresso poi, come talor bisogna,
della Maremma il buon Conte Ruberto
de' Fiorentin si fe raccomandato,
e dava a San Giovanni ogni anno merto
per la sua Festa, com' era ordinato,
una Cerbia vestita di scarlatto,
che n' era tutto il popol rallegrato,
nè ruppe mai alla sua vita il patto;
ma da' Sanesi morto a tradimento
fu, forse per cagion di questo fatto.
Ed alla fine per suo testamento
il Comun di Firenze lasciò reda
di suo' Castella, e d' altro tenimento.
Port' Ercole in mare fu della preda,
ed altre Terre, ch'io non ho quì scorte,
fur di Firenze, e non par, che si creda.
I Fiorentini dopo la sua morte
contro al Sanese, per l' atto crudele,
più che di prima si crucciaron forte.
E l' anno detto in Orto San Michele
s' aprese il fuoco, ed arse casa i Macci,
e diede a ventidue amaro fele.
Ritorno a Siena, prima ch' altro abbracci,
che nel dugentotrentaquattro e mille
i Fiorentin le raddoppiar gl' impacci,
il suo Contado mettendo a faville;
cinquantatrè dì stettero, ch' al piano
miser quarantatrè Castella, e Ville,
de' qua' fu l' uno Orgiale, e l' altro Orgiano,
essendo allor Podestà di Fiorenza
Messer Giovanni Giudice, Romano.
E nel dett' anno fu la pistolenza
del fuoco in Piazza, ed arse casa i Rossi,
e poco di quel Borgo ne fu senza.
L' anno seguente si fer molto grossi
i Fiorentin, per ritornare a Siena;
ma i Bessi prima, ch'e' si fosser mossi
chieser la pace per non crescer pena,
e in questa parte niente fur matti,
ma molto savj chinando la schiena.
I Fiorentin la fecer; ma ne' patti
fu, che 'l Sanese facesse rifare
alle sue spese i dificj disfatti,
le mura, ch'egli avea fatto tagliare
al bel Muntepulciano; e fer quetanza
di ciò, che potieno addomandare.
E Montalcin, che perfetta amistanza
avie con noi, promiser di fornire,
e di non fargli mala vicinanza.
E molte cose, ch'io lascio di dire,
per non attediar colui, che legge,
nè que', che stanno per diletto a udire.
Rettor di quella Fiorentina gregge
era in quel tempo Messer Compagnone,
come la Podestà oggidì noi regge.
E per la detta pace, di prigione
cavarono i Sanesi lor brigata,
e piacque lor per uscir di tencione;
ch'era la guerra sei anni durata,
perch'egli spesso rompean la fede,
ed arrogieno al danno ogni fiata.
Lascia il trattato di loro, e procede
alquanto del secondo Federigo
Imperador, perocchè sì richiede.
E dal quinto Capitol mi distrigo;
non però lascio di lui il parlare,
ma 'l fine del presente Canto rigo,
sperando sua matera seguitare.
c. 6, argumento
Come i Pisan crudeli, e dispiatati
contro a' Cherici furo alla Meloria,
e come i Guelfi quinci fur cacciati:
battaglie tra' Cristiani, e' Saracini,
de' Rubaconte, e miracoli fini.
c. 6
Federigo secondo pien di stizza,
di Santa Chiesa nemico, sentendo,
che molti Cardinali erano a Nizza,
ed altri molti Prelati dovendo
quindi partirsi, con dugento legni
de' Genovesi, se chiaro comprendo,
come Signor, con maliziosi ingegni
mandò a Pisa un suo figliuol bastardo,
ed a' Pisan, che seguisser suo' segni
que' comandò, ed e' fer del gagliardo,
con cinquanta galee, dice la storia,
e seguitar costui sanza riguardo.
Giugnendo quella gente alla Meloria,
percosser loro, e sopra il Chericato
acquistarono allora gran vittoria.
Qual si gittò in mar, qual fu gittato;
com' egli avvien talor, che alcun si buglia,
per migliorare, e peggiora suo stato.
Que', che campar, n' andar pregioni in Puglia,
e poi, per la bontà del Re di Francia,
fu liberata quella gente truglia.
E Papa Ghirigor non l' ebbe a ciancia;
tutti i Pisani ebbe scomunicati,
a suo poter gravando la bilancia.
E d'ogni benificio fur privati,
e pare a me, ch' a loro bene stette,
pe' Cardinali, ch' avien mazzerati.
Ciò fu nel mille dugentrentasette,
e bastinti, Lettor, sanz' altra pruova
di tal matera le parole dette.
Nel dett' anno sconfitti a Cortenuova
presso a Melano furo i Melanesi
da Federigo, come quì si truova,
perocch' avieno i Cherici difesi;
e molti in Puglia ne fece menare,
e poi de' Caporal, che v'eran presi,
qual tormentò, e qual fece impiccare;
e molti incarcerar fece di loro,
che 'n prigione moriron, ciò mi pare.
Pensando a questo Papa Ghirigoro
di dolor si morì; e Cilestrino
da Melan fatto fu nel Concestoro.
Questi vivette nel Papato infino
a dicessette dì, se ben compresi,
e poi la morte lui mise al dichino.
E sanza Papa si fe venti mesi,
e non ardiva a far la Chiesa santa
contra 'l voler chi i suoi aveva offesi.
Negli anni mille dugentoquaranta
tutta Romagna, salvochè Faenza,
tolse alla Chiesa chi di sopra canta.
E quella acquistò poi per sua prudenza,
e non avendo danar da pagare
la gente, ch' avea seco a ubbidenza,
una moneta di cuoio fe fare,
dov'era per impronta sua figura,
e per Agostan d' or la fe contare.
E poi tra per amore, e per paura
in mercatanzia, e in ogni lavoro
fu accettata molto alla sicura.
E Federigo poi del suo tesoro,
per soddisfar chi n' avea di coiame,
fece coniare una moneta d'oro.
E fe bandir per tutto suo Reame,
ch' ognuno andasse a cambiar la moneta,
e così contentò uomini, e dame.
Onde la gente ne fu molto lieta,
che prima avien di quella della pelle
fatto fra lor segretamente pieta.
A tutte quante le dette novelle
fur di Firenze Guelfi, e Ghibellini,
nè sanza lor si facea covelle.
Un figliuol grande con due piccolini
aveva allora il detto Federigo,
che' Cherici tenea per Saracini.
E 'l suo maggior, ch' aveva nome Arrigo,
di quelle cose il riprendea tanto
per coscienza, come quì ti rigo,
che 'l si recò a noia, e fe d' accanto,
che accusato gli fu falsamente,
ond' el fe lui, e' fratellin con pianto
incarcerare, e non volle niente
udir di loro, ed in quel luogo alpestro
moriro, com' hai inteso, crudelmente.
Poi fece abacinare il Gran Maestro,
che nominato fu Pier dalle Vigne,
e 'nvidia il fe morir, e non sinestro;
del quale il mondo ancor la fama cigne,
e non credo, che mai finisca il tuono,
che per virtù a ragionar costrigne.
L' anno seguente Messer Ottobuono
dal Fiesco, Genovese, nel Papato
salì con triunfale, e magno suono.
Papa Innocenzio quarto fu chiamato,
e fue eletto per grande amistade,
ch' avia con Federigo nominato,
acciocchè poscia per la sua bontade
tra Santa Chiesa, e lui mettesse amore,
sicchè vi fosse pace, ed unitade.
Questa lezion turbò lo 'mperadore,
e domandato allora da uno antico;
perchè mostrava di questo dolore?
Ed e' rispose: Come nostro amico
è stato mentre che fu Cardinale,
ed or ch' è Papa ci sarà nemico.
E così fu per lo spirituale,
che com' egli ebbe l' ammanto, fu fatto
di Federigo nimico mortale.
E fegli comandare al primo tratto,
che ciò, che possedea di Santa Chiesa
restituir dovesse ad ogni patto;
e poi sentendo, che in grande offesa
da lui teneva tal comandamento,
la sua minaccia da lungi ebbe intesa;
e per paura di suo avvenimento,
di Roma ei si partì, ed a Leone
sopra Rodano fe suo parlamento.
E, come me' poteva di ragione,
diè contro a Federigo la sentenza
della maggiore scomunicazione.
E siccome uom di mala coscienza,
eretico, nemico tuttavia
di Santa Chiesa, e di sua eccellenza,
fu dello Imperio, e d'ogni Signoria
privato, per gli suo' modi crudeli
contro alla Fede, pien d'ogni resia;
e tutti i suoi per addietro fedeli,
dal detto Papa furon liberati,
nè fur tenuti più seguir suo' zeli.
Appresso fur tutti scomunicati
i suo' seguaci, e chi participasse
con lui per alcun modo di' vietati,
chi l' ubbidisse, e chi gli favellasse,
generalmente qualunque persona
di parole, o di fatti l' aiutasse.
E molto più, che quì non si ragiona,
nella detta sentenza si contenne,
che al presente per me s' abbandona.
Or torno addietro, perchè si convenne
mettere innanzi le parole dette,
volendo seguitar chi forma dienne.
Negli anni mille dugentrentasette
fondato fu il Ponte Rubaconte,
e cotal soprannome ben gli stette,
perocchè 'l Podestà con chiara fronte,
per cui la prima pietra fu fondata,
fu il Melanese Messer Rubaconte.
Ed al suo tempo tutta lastricata
fu la Città di Firenze di prima,
ch'era gran tempo innanzi brutta stata.
E nel mille dugentrentotto stima,
ch'essendo il Sol di Giugno chiaro, e bello
a Nona, il terzo dì, quasi che 'n cima,
iscurò tutto, e fecesi rubello
da ogni luce, sicchè buia notte
istette parecchi' ore; onde per quello
molte persone si furon ridotte
a penitenzia; e poi senza dimoro
l' anno seguente rimise le dotte;
e morì il nono Papa Ghirigoro.
E nel detto anno i Tartari passaro,
ben trentamilia Cavalier di loro
in Europia, e vettoria acquistaro
in Ungheria, e misero alle spade
piccoli, e grandi; e que' che ne camparo,
soli rimasi per quelle contrade,
poichè partito si fu il grande stuolo,
ebber di fame grande avversitade
sì, che la madre si mangiò il figliuolo,
pascevansi dell' erba, e della terra,
e molti ne sentir di morte duolo.
Già nella Magna eran iti a far guerra
que' maladetti, ed al passar di un fiume
la gente de' Cristian, se 'l dir non erra,
mancando quasi lor del giorno il lume,
l' acqua era cupa, e non potien passare,
nè di leggier voltare il gran volume,
e li Cristian cominciaro a 'mberciare,
e perch'egli avien caro d' armadura,
a cento a cento si vedien cascare;
onde poi gli altri hanno avuto paura
di valicar di quà, pensando a quegli,
che fecer del Danubio sepultura.
Or ti vo' dire un miracol de' begli,
che fu nel tempo, ch' è detto davante,
e nota ben, Lettor, questi vergegli.
Regnando nella Spagna il Re Ferrante,
nelle contrade avvenne di Tolletta,
che un Giudeo cavando a poco stante,
una pietra trovò pulita, e netta
d'ogni fessura, ed era sì leggiere,
che d' ammirar sua mente fu costretta.
Levandola alta gli venne in pensiere:
Veracemente questa pietra è vota;
poi la fiaccò, volendola vedere.
Quiv'era un libro, (e quì amico nota)
nel quale scritte avea cose assai,
ch'io non dirò; ma d' una più divota,
perchè mi piace di non tacer mai,
la qual dicea: Lo Figliuol di Dio
verrà nel mondo, siccome udirai,
prenderà carne sanza niun rio
d' una Vergine pura per ragione,
(nom' è Maria) con santo disio;
e poi sosterrà morte, e passione,
ricomperar volendo la salute
di tutta umana generazione.
Ed altre cose, ch'io non ho volute
scriver quì, di sì alta dottrina,
che mi mancava a 'ntender la virtute,
in lingua Greca, Ebraica, e Latina;
onde il Giudeo incominciò a pensare:
Questo debb' esser per virtù divina;
e incontanente si fe battezzare,
e diventò verace, e buon Cristiano,
e di molti altri condusse a ben fare.
E quando il detto libro venne a mano
del Re Ferrante, fu divoto, e presto
a piuvicare il miracol sovrano.
E poichè l' ebbe fatto manifesto,
fu sì pieno della Cristiana fede,
che poi vivette più, che prima, onesto.
E questo si credette, e ancor si crede,
che 'l Signore del Ciel veracemente
facesse questo per nostra mercede;
perchè nel detto libro ultimamente
dicea: Sarà, quand' io sarò trovato,
Ferrante Re del Ream presente.
Ed in quel dì, ed in quel modo ordinato
fu in Gostantinopoli il simile,
e l' uno, e l' altro al Papa fu mandato.
Lascio di questo, per seguir lo stile
dell'altre cose; ma non di tal pregio,
come par quello a chi ha il core umile.
E dico, che il Borgo a San Ginegio
mille dugenquaranta si rifece,
pognian, che poco regnasse in Collegio:
perchè nel quarantotto si disfece
mille dugento, e non si rifè mai,
sicchè di più parlarne non mi lece.
Negli anni mille, siccom' udirai,
dugenquarantaquattro par, che fosse,
siccome nella Cronica trovai,
quando di Tarteria Bacco si mosse
con trentamila franchi Cavalieri,
e di Pedoni molte schiere grosse;
e, come il Padre volle, volentieri
coll' esercito andò sovra 'l Soldano,
e sopra i Turchi, ch'erano aspri, e fieri.
E come s' appressarono in un piano
que' del Soldan, a loro andar diritti,
e dieder la battaglia a mano a mano;
e quivi fur da' Tarteri sconfitti,
e furne più di ventimilia morti,
e tanti, e più ne camparono afflitti:
ma pur tra lor così fortuna porti.
Lascio di loro, e seguito il trattato
di Federigo, e di suo' vizj forti.
Veggendosi dal Papa spodestato
del titol dello 'mperio, e d'ogni onore
della Corona, e d'ogni ben privato,
subitamente si fermò nel core,
di metter suo poder, fatica, ed ana
contra gli amici del Sovran Pastore;
e da tutte le Terre di Toscana
Sindachi volle Guelfi, e Ghibellini,
per far la forza della Chiesa vana,
fra' quali furon que' de' Fiorentini;
poi gliene mandò tutti in Sanmeniato,
e quivi i Guelfi fece star tapini;
e poi co' Ghibellini fe trattato,
spezialmente con que' di Fiorenza,
ched ogni Guelfo ne fosse cacciato;
e mandovvi il Figliuol sanza fallenza,
Re Federigo, e de' suo' Cavalieri
gli diè millesecento ad ubbidenza.
E quando s' appressaro i Forestieri,
i Cittadin Ghibellin cominciaro
ad esser contro a' Guelfi arditi, e fieri.
Attanto dentro i Cavalieri entraro,
e' Guelfi poi si difeser tre giorni,
e non possendo a lor far più riparo,
lasciar Firenze i Cittadini adorni,
ciascun, come colui, che non sa quando
alla sua vita a casa sua ritorni.
Rubati si partiron sospirando
la notte Santa Maria Candellaia,
gli anni di Cristo allora nominando
mille dugento scempj, e venti paia,
e cinque; poi con molti rammarchi
ne rifuggiro una parte in Capraia,
in Pelago, in Magnale, e in Montevarchi,
ed in più altri luoghi, infino a Cascia
andaron trafelando con gl' incarchi.
E perchè immaginando loro ambascia,
e loro distruzione, e lor molesto
mi pesa sì, che rimar non mi lascia,
partomi dunque dal Capitol sesto,
per dare alquanto posa alla memoria:
ben puoi veder con qual parte mi vesto;
nell'altro Canto seguirò la storia.
c. 7, argumento
A Capraia i Guelfi fur prigioni,
di nuovo quì si fer Gonfalonieri,
e' Guelfi ritornaro a lor magioni;
e come a sesto la Terra partia,
ed i Priori stavano in Badia.
c. 7
Già s' era il Re partito da Fiorenza,
ed ottocento Cavalier lasciati
aveva a' Ghibellini a provvedenza,
quando i Castaldi di sopra nomati
avien sopra Firenze fatto lega,
poichè avieno i Guelfi ricettati.
Chiamaronsi allor que' della Sega,
e Montevarchi più, che gli altri, pieno
più volte mise i Ghibellini in piega.
E' Ghibellini per tenergli a freno
dimandar gente, e come furon giunti,
furon da' Guelfi sconfitti al sereno.
Non fa mestier di dir, se furon punti;
dessi pensar, che da quella brigata
una gran parte fur di sangue munti.
Torno a Firenze, che fu rifermata,
da' Ghibellini, e le Torri, e le case
de' Guelfi eran disfatte ogni fiata.
Palazzo de' Tosinghi non rimase,
ch' avie novanta braccia alto il ciuffetto,
ma tutto quanto di terra si rase.
La Torre, ch'era con quel ch'i' ho detto,
er' alta centotrenta, e di bellezza
passava ogni altra, secondoch'i' ho letto.
Quest' era la più nobile Fortezza,
che in Firenze fosse, e più adatta,
e fu da piè tagliata con asprezza.
Pochè Firenze era stata rifatta
da Carlo Magno, non si può trovare,
che una casa in lei fosse disfatta
infino al dì, ch'hai udito contare.
Ben puoi vedere omai, ch' anticamente
da' Ghibellin si cominciò il disfare.
Se' Guelfi fur disfatti primamente,
come diren più innanzi, alla tornata
di chi il fe far, fu fatto similmente.
Nel detto tempo fu Parma assediata,
dal detto Imperadore, e di bastia
tutta così dintorno circundata
cinqu' anni stette; poi per una spia
seppe, che poco potien più durare
que' dentro, sicchè per morti gli avia.
Un giorno, ch'egli er' ito ad uccellare
co suo' Baroni, e que' dentro il sentiro,
e' percossoro al Campo, ciò mi pare,
popolo, e Cavalieri; e que' fuggiro
dalla altra parte, e molti morti, e presi
allor ne furo, e dentro da quel giro
campò la vittuaglia, e loro arnesi
d' argento, e d'oro, e la ricca Corona
del detto Imperadore, s'io ben compresi,
che nel lor Vescovado si ragiona,
ch' ancor si vede; e poi sentendo il botto,
lo 'mperador si rifuggì in Chermona.
Ciò fu nel mille dugenquarantotto,
e la Bastia, ch' avia nome Vettoria
disfatta fu, poichè pagò lo scotto.
Lascio di lui, per seguitar la storia
de' Ghibellini, ch' assediar Capraia,
dove di Guelfi avea gente notoria.
Lo 'mperador con sua gente non gaia
venne a Firenze, e non ci volle entrare
per far contra l' agurio la pescaia.
Giunse a Capraia, e piacquegli lasciare
de' suoi nell' oste, ed e' n' andò a Fucecchio,
e la guerra a Caprai' fe raddoppiare.
Que' dentro, che facien del campo specchio,
cominciaro a pensar sopra lor fatti,
e sbigottiti del grande apparecchio,
diliberaron d' arrendersi a patti,
ed avrebbongli avuti a colmo staio
a' lor piaceri in tutti quanti gli atti;
ma un de' Guelfi usciti, Calzolaio,
perchè non fu richiesto a tal mestiere
a chiamare i nimici fu 'l primaio:
Venite dentro a far vostro volere,
ch'egli è diliberato per migliore,
perocchè più non ci possian tenere.
La gente corse con tanto furore,
che que' dentro si dier liberamente
al piacimento dello 'mperadore.
Ed egli ne menò colla sua gente
pregioni in Puglia, e poi sollecitato
da' Ghibellin con lettere sovente,
a ciaschedun, che gli fu nominato
fe cavar gli occhi, e poi gittarlo in mare,
salvo, ch' un Cavalier molto pregiato,
il qual fe solamente abacinare;
de' Buondelmonti fu Messer Rinieri,
magnanimo, e cortese senza pare.
Questi seguitò poi il buon pensieri;
nel Monte Cristo sì si fe romito,
dove finì sua vita volentieri.
E pare a me, che da quel, ch'hai udito
nascer dovesse il soprannome nostro,
più che da quel, che dinanzi hai sentito.
Nel mille poi, come chiaro ti mostro,
e dugentocinquanta il Re Luigi,
e suo' frate', come dice lo 'nchiostro,
apparecchiato a tutti i suo' servigi
Carlo Conte d' Angiò, e quel d' Artese
Conte Ruberto, ed altri da Parigi,
con esercito andò sopra 'l paese
de' Saracini, ed entrato in Egitto
molte Fortezze, e Terre di lor prese.
E poi, secondochè si trova scritto,
fu dal Soldano ad un malvagio passo
il Re Luigi, e sua gente sconfitto.
Molti ne furon morti, ed egli al basso
pregion rimase con ambo i frategli;
ma Carlo si fuggì, e quivi lasso
campò Luigi, e Ruberto per quegli
sì diede lor la Città di Damiata,
e di molta pecunia per avegli;
ed in una moneta allor coniata
fe far memoria, com' el fu prigione,
perchè la 'ngiuria fosse vendicata.
E nel dett' anno, come quì si pone,
lo Re Enzo figliuolo naturale
di Federigo Imperial Campione,
siccome suo Vicario Generale,
con molta gente andò sopra Bologna,
essendov'entro il Legato Papale;
il qual veggendo il tempo, e la bisogna,
il detto Re percosse, ed isconfisse,
e lui ne menò preso con vergogna.
Ed in pregione, in una gabbia il mise,
dove con vitupero, e con istento
finì sua vita, prima che n' uscisse.
Onde lo 'mperio n' ebbe abbassamento,
e Santa Chiesa ne fu esaltata,
ed ogni Guelfo assai ne fu contento.
I Fiorentin Ghibellini assediata
avendo col Vicaro Imperiale
Ostina, per gli Guelfi rubellata,
ed in Figghine sopra 'l Mercatale
istando a guardia gran parte dell' oste,
perchè soccorso non avesse a tale,
e que' di Montevarchi colser poste
la notte dell' Apostol San Matteo:
subitamente fur loro alle coste.
E quivi gli sconfissero, e Giudeo
fu ciascun contra lor sanza pietade;
onde all'avanzo seppe sì di reo,
che la partenza lor fu nicistade,
e levarsi da campo quasi in rotta,
e tornar con vergogna alla Cittade.
E dopo la tornata in poca dotta
il popol cominciò a mormorare
delle gravezze, ch'eran fatte allotta.
I nobili volien tiranneggiare,
e facien molte ingiurie agl' impotenti,
ed altri, ch' avien voglia di ben fare.
Quai dopo molti sospiri, e lamenti
levarono un romor, e raunarsi
a San Lorenzo del tutto vincenti,
che contro a lor niuno ardì levarsi;
onde chiamar trentasei Caporali
di popol, con balía di riformarsi.
I quali privaron tutti gli Uficiali,
e fecer popolo, ed un Capitano,
e dodici Anzian buoni, e leali.
Messer Uberto da Lucca sovrano
fu il primo, che ci venne in signoria,
per conservar lo stato popolano.
E gli Anziani in quel della Badia
allor si raunarono ad udire,
e tornavansi a casa tuttavia
a bere, ed a mangiare, ed a dormire;
non ispendean di quel del Comune,
nè tenevan Donzelli al lor servire.
E per chiarificar le cose brune,
fero statuti con riformagioni,
tirando al ben comun tutti una fune.
Ed ordinaron venti Gonfaloni,
che si chiamavan delle Compagnie,
partiti a sesto per molte ragioni.
E' sesti eran partiti dalle vie,
e 'l Capitano avea con sua famiglia
il Mastro Gonfalon con più balíe,
col campo bianco, e la Croce vermiglia,
e tutti gli altri dovean trarre a questo
per ciaschedun romore, ovver capiglia.
E tre, e quattro n' aveva per sesto,
e 'l detto Capitano con gli Anziani
d' Ottobre fu di prima a darli presto.
E davansi a' solenni Popolani,
perchè tutta la guardia della Terra
avieno interamente fralle mani.
Ed ordinar le 'nsegne della guerra;
com' eran fatte non bisogna porre,
perocchè poco al dì d' oggi se n' erra.
E fecer porre nella comun Torre,
una Campana, che fece le genti
trarre a' bisogni, come ancor si corre.
Gli usciti Guelfi, siccome valenti,
disiderosi di tornare in quella
Città, dov'eran gli amici, e parenti,
avevan prese già molte Castella,
e guerreggiavano insino alle porte
della Città, come quì si novella.
Veggendo il popol così fatte sorte,
rimise i Guelfi in casa, e fegli amici,
per aver pace, e per esser più forte.
Tre anni s' erano stati alle pendici,
e poi tra lor per uscir di tormento
si fer parenti, e comunar gli uficj.
Un dì faccendo in piazza parlamento
quel Calzolaio, fu raffigurato,
ch' avia fatto a Capraia il fallimento.
Dal popolo a furor fu lapidato,
e posciachè fu morto, da coloro,
a cui servì, al fosso fu gittato.
E poi pe 'l Capitan sanza dimoro
appresso alla Badia fero un palagio,
che prima non istava in fermo coro.
Oggi vi sta il Podestà con più agio,
perch' è cresciuto; ma il vecchio col nuovo
si fa, come scarlatto coll' albagio.
Poichè Firenze, come quì vi pruovo,
fu riformata dentro in ogni grado,
e que', secondochè scritto truovo,
appresso riformarono il Contado
di leghe, e di pennoni, e d'ogni cosa,
e dal Comun gravato era di rado.
E quando al popol parve stare in posa,
recò le Torri alle cinquanta braccia,
ch'eran campate, e più alzar non s' osa.
E delle pietre si fece la faccia
delle mura d' Oltrarno, che murato
non era ancor con tutta la bonaccia.
Lo 'mperador Federigo arrivato
in Firenzuola della Puglia piana,
come pe' Ghibellini era ordinato,
ad ogni Terra Guelfa di Toscana
scrisse, che gli mandasse Ambasciadori,
per dare a tutti quanti morte strana.
Ed ogni Terra gli mandò i migliori;
fra questo egli infermò dal capo a' piedi
di febbre, e d' altri asprissimi dolori.
E 'l suo figliuol bastardo Re Manfredi,
per aver quel tesor, che non gli tocca,
l' uccise per lo modo, che tu vedi.
Ponendogli un pimaccio insulla bocca,
di questa vita tosto il fe passare,
come giustizia spesse volte accocca.
Non mostra, ch'e' sapesse interpetrare,
quando il Dimonio per agurio disse:
Tu morrai in Fiorenza, non v' intrare.
E mostra pur, che la nostra fuggisse,
e a Firenzuola poi con grieve duolo,
com' è detto, convenne, che morisse.
Questi avea fatto morire il figliuolo;
or dei saper, che l' altro uccise lui,
come piacque al Signor dell'alto Polo.
Ritorno agli Ambasciador Guelfi, di cui
lasciai, che per Maremma cavalcando
sentir di ver la morte di colui;
e' Cavalier, che gli andavan guardando,
si dipartiro, e non fu maraviglia,
che se n' andar, la novella ascoltando.
Gli Ambasciador se n' andar in Campiglia,
e ciascun, poichè si vide prosciolto,
si tornò volentieri a sua famiglia.
Lo 'mperio di questo abbassò molto,
e tutta quanta parte Ghibellina;
e Santa Chiesa, e' Guelfi con buon volto
ne sormontaro, e fu grazia divina,
perchè Papa Innocenzio tornò a Roma,
e dava a' suoi favor sera, e mattina.
Milledugento cinquantun si noma,
che' Pistolesi furono assediati
da' Fiorentini, e posto lor la soma,
perchè da loro s' eran rubellati;
ed uscir fuori, e furono sconfitti,
e furonne a Firenze assai menati.
Tornata l' oste, che gli avea trafitti,
i Guelfi, e 'l Podestà, Messer Uberto
da Melan, punì poi altri delitti,
perchè da' Ghibellini avien sofferto
il contradir, di questa Cavalcata,
per invidia, ch' a' Guelfi avien per certo,
nè vollon cavalcar quella fiata,
molti gran Ghibellin furon cacciati
dal popol di Firenze alla tornata.
I Ghibellin, come di prima usati
ritenner per lor arme il bianco Giglio
nel campo rosso; ed i Guelfi avvisati,
al contrario di questo dier di piglio,
e portar sempre, e portan per insegna
il campo bianco col Giglio vermiglio.
La dimezzata regnò sempre, e regna,
e rappresenta, come quì diroccio,
tutto il Comune; e siccome più degna,
con allegrezza, e festa in sul carroccio
sempre si pone, e niun' altra mai:
non so, Lettor, se con tal dir ti noccio.
Lascio di questo, e vo' parlare omai
di Currado, che fu Re della Magna,
figliuol di Federigo, ch'io contai,
e di molt' altre cose in sua compagna.
c. 8, argumento
Del Re Manfredi, e di Monte a Cinico,
e siccome di prima fiorin d'oro
battè Firenze; e nota ciò ch'i' dico;
di Montaia, e Pistoia, e poi di Pisa,
che al Ponte ad Era ebbe caro di risa.
c. 8
Onorevolemente il Re Currado,
sentito ch'ebbe, che 'l Padre era morto,
cavalcò in Puglia, e trovò in alto grado
Manfredi suo fratel, che s' era a torto
fatto Vicaro, ed avea conservate
Puglia, e Cicilia, come quì t' ho porto,
salvochè due Città molto pregiate,
Napoli, e Capova, che per la morte
di Federigo s' eran rubellate.
Currado assediò Napoli sì forte,
che finalmente l' ebbe, e contr' a' patti
mise per terra le mura, e le porte,
ed a Capova fe simili fatti;
e 'n breve tempo, più dolce che mele,
il Regno l' ubbidiva in tutti gli atti.
Se Federigo era stato crudele
contro alla Chiesa, ben cento cotanti
mostrava già Currado amaro fele.
Ma ciò rincrebbe tanto a Dio, e a' Santi,
ch'egli infermò, e 'l suo fratel Giudeo
fu verso lui, e con molti contanti
a' Medici gli fe fare un cristeo
avvelenato, onde morì tapino:
così riceve l' un dall'altro reo.
Lasciò Currado un fanciul piccolino
della figlia del Duca di Baviera,
il quale avea nome Curradino.
Mille dugencinquantadue a schiera
correan gli anni di Dio Redentore,
quando divenne la detta matera.
Morto Currado, rimase Signore
Manfredi della Magna pe 'l fanciullo;
ma di Cicilia ebbe poco l' onore:
Papa Innocenzio quarto ne 'l fe brullo;
che come con su' oste intrò nel regno,
tutto si volse, come volge il frullo.
Il detto Papa d'ogni pregio degno,
poco regnò, perocchè per gli affanni
in Napoli morì, com' io disegno.
Allor vacò la Chiesa per due anni,
ed infra 'l tempo, che stette vacata,
Manfredi tra per forza, e per inganni
ebbe Cicilia, e Puglia racquistata,
e videsi temer da tutte bande,
tant' era la sua forza sormontata.
E mentre ch'egli avea lo stato grande
esso pensò d' acquistar la Corona,
com' udirai, con malvage vivande.
Benigno fessi a ciascuna persona,
e mostravasi amico de' nemici,
più che colui, che volentier perdona,
e tutti i gran Baron si fece amici
con gran presenti, e con maggior promesse
di dar lor per innanzi grandi uficj.
Quando gli parve ben, ch' ognun tenesse
dal lato suo, ed e' gli ebbe a consiglio,
e disse lor, come dolor n' avesse:
Del Re Currado ne rimase un figlio,
ch' è mio nipote, e saputo ho d' altrui,
ch'egli è infermato, e di morte a periglio,
e la corona apparteneva a lui;
sicchè sarebbe ben, se si morisse,
d' aver dinanzi provveduto a cui
la Signoria dappoi si convenisse,
però, Signor, piacciavi provvedere,
e consigliare; onde l' un di lor disse:
Piacciavi di volerne il ver sapere,
e dove morto sia; altro che voi
non si fa per lo regno, al mio parere,
e gli altri disser: Così pare a noi,
e di concordia fecer la lezione
del Re Manfredi, com' è detto, e poi
Manfredi ambasciador fece un Barone
ammaestrato di molta malizia,
incontro a Curradin piccol garzone;
e mandol nella Magna con letizia
al suo Nipote con più cose ladre,
che gli donasse con falsa amicizia:
ed a Plaga il trovò colla sua madre,
e con più altri fanciulli a diletto,
che si vestien con lui cose leggiadre.
L' Ambasciador domandò con effetto:
Madonna qual' è Curradin di questi;
ed ella il ver nascose per sospetto.
E uno degli altri, ch'erano ivi presti,
mostrogli, e disse: Quegli è mio figliuolo
donagli quel, ch' a me dar non volesti.
E que' gli diè il presente, che con duolo
cadere lo fe morto sanza fallo,
poi si partì, e dietrogli lo stuolo.
L' Ambasciador, ch'era bene a cavallo,
mai non ristette, che fu in Vinegia,
ed entrò in mar sanza far lungo stallo.
Di ner la vela, e se, col legno fregia,
e da Manfredi di lungi guardato
fu conosciuto; onde tutto si spregia:
diessi nel viso, e com' era ordinato,
giunto l' Ambasciador si fe un lamento,
e poi Manfredi funne incoronato
a Monreale nel mille dugento
cinquantacinque; ed allor di Campagna
fu fatto Papa con gran sentimento
il buon Messer Alessandro d' Alagna;
il qual sentendo, che Manfredi presa
Puglia, e Cicilia avia con suo compagna,
e contro a volontà di Santa Chiesa,
s' avea con arte fatto coronare,
perchè la grazia non gli era contesa,
incontanente gli fe comandare,
che dovesse lasciar la Signoria:
non ubbidendo il fe scomunicare.
E poi con molta gran Cavalleria
addosso gli mandò un Cardinale,
che 'n Puglia trasse della sua balía
di molte Terre, e poi gli venne un male,
del quale e' si morì, e incontanente
l' oste tornò sanza il suo Caporale.
E 'l Re Manfredi allor colla sua gente
strinse le Terre, che perdute avea,
e racquistolle molto brievemente.
Mille dugento cinquantasei correa,
quando Manfredi fece questa cosa,
e per ancora moglie non avea.
Poi tolse la figliuola per isposa
del Sir di Romania, e di costei
ebbe figliuoli, e figliuole con posa.
La sua bellezza dir non ti potrei;
ma, come vedi, ancor fama non perde,
ed e' non era già men bel di lei.
Ei sempre si vestia di drappo verde,
e 'n diletti mondani, e 'n van disio
l' animo suo stava sempre verde.
Ma poca riverenza avea in Dio,
e Santa Chiesa sempre nemicava
a suo poder, secondo il parer mio.
Nel bianco l' aquila nera portava;
la madre fu di Francia de' Marchesi,
con cui lo 'mperador si dilettava.
Regnando il Re Manfredi co' Pugliesi
fe disfare una Terra molto idonia,
perchè non avia porto, e san paesi;
e fondò la Città di Manfredonia,
che fu per lui così nomata, e detta,
siccome ancora il nome il testimonia.
Della qual nacque Manfredi Bovetta,
e fevvi fare una sì gran campana,
che poi sonar non si potè per fretta.
Dal detto Re la penna s' allontana,
per non abbandonar la storia antica
di Lombardia; ma prima di Toscana.
E torno addietro, non sanza fatica,
perchè nel cinquantuno gli Ubaldini
nel Mugel fecer di più gente bica;
cioè di Romagnuoli, e Ghibellini,
volendo fare a Monte a Cinico oste.
La qual cosa sentendo i Fiorentini,
vi cavalcaro, e fur loro alle coste,
e percossero a loro arditamente,
sicchè a difesa fecion poche soste;
che sconfitti furon subitamente,
e morti, e presi ne fur centinaia:
e questo basti di tal convenente.
Nel detto tempo i Ghibellin Montaia
rubellarono, e fersi manifesti,
come chi quel, che fa, vuol, che si paia.
Di Firenze v' andaron quattro sesti
di Cavalieri, e volendo accamparsi,
que' dentro usciron fuor molto rubesti.
E' Guelfi allor niente furo scarsi,
e rupperli per modo, che fuggiro,
e de' tre l' un non potè rintanarsi.
Quando a Firenze gli altri ciò sentiro,
non lasciar, perchè fosse di Gennaio,
popolo, e Cavalier di fuori usciro.
Nè per neve lasciar, nè per rovaio,
che non si fermassono all'assedio,
e de' Lucchesi v'ebbe col cuor gaio;
e brievemente, per non darti tedio,
popolo, e Cavalier di Siena, e Pisa,
e lor Soldati al soccorso, e rimedio
di quel Castello andar sanza divisa;
perocch' allor per Ghibellina parte
insieme si tenieno in ogni guisa.
Ed accampati, che furon da parte
i Fiorentin forniro i battifolli,
e inverso loro andaro con molt' arte.
Quando color gli vidon su pe' Colli,
diersi a fuggire, come gente stolta,
nè seguitati fur pe' Poggi molli;
ma saviamente i Guelfi dier la volta,
e dal Castel Cavalieri, e Pedoni,
com' arrabbiati can, ciascun s' affolta:
e per non peggiorar lor condizioni,
que' dentro domandar misericordia,
ed a Firenze ne venner prigioni.
Allotta erano insieme di concordia
i Cittadini, e veniva lor fatto
ciò, che volien sanza alcuna discordia.
Podestà di Firenze a questo tratto
era Messer Filippo Ugon Bresciano,
che se fe questo, niente fu matto.
E mostra, che di guerra Capitano
fosse a que' tempi sempre il Potestade,
perchè al bisogno andava a mano a mano.
Mille dugencinquantadue l' etade
era di Cristo, quando il Pistolese
si rubellò dalla nostra Cittade.
I Fiorentin v' andaro, e 'l suo paese
guastaron tutto, e fermarsi a Tizzano,
il qual da lor fece poche difese:
e patteggiando di queto, e di piano,
venne nel campo chi disse: i Lucchesi
son rotti dal Sanese, e dal Pisano;
e' Fiorentini di niquizia accesi,
preso il Castel, non lasciar per la sera,
che subito n' andaro in que' paesi,
e giunsero i nimici a Ponte ad Era,
che de' Lucchesi avien molti legati,
e messi tutti dinanzi alla schiera,
e altri verso Siena eran menati.
Giugnendo i Fiorentin con grande ardire,
a' Cavalier percossero schierati;
i qua' si dieron tutti insul fuggire,
e' Lucchesi prigion, ch'erano sciolti,
gli cominciaron forte a perseguire,
e a Lucca ne menar prigioni molti
de' Pisani, e Sanesi, ed in Firenza
ne venner mille, e più furo i sepolti:
fra' quali fu menato a penitenza
Messer Agnol da Roma con effetto
da Pisa Podestà di gran valenza.
E nostro Podestà era 'l predetto
Messer Filippo Ugoni Bresciano,
discreto, e savio, e di valor perfetto.
Mentreche' Fiorentin facien mercato
co' Pisani, e Sanesi, il Conte Guido
co' Ghibellini fu dall'altro lato,
e 'l Castel di Figghine fer lor nido.
Tornati i Fiorentini vittoriosi,
sanza posar vi cavalcaro a grido,
non isforzati, ma volonterosi,
e tanto combatterono il Castello,
che s' arrendèr con patti graziosi:
che tutti i Ghibellin, ch'erano in quello
tornassero in Firenze e salvi, e sani
tutt' altri, e quel Conte Guido Novello.
Cacciati i Forestieri, e Terrazzani,
i Fiorentin contra' patti mandaro
per terra quel Castel colle lor mani.
Ed allora i Sanesi cavalcaro
a Montalcin nostro raccomandato,
e contra' patti allora il guerreggiaro.
E 'l Fiorentin v' andò sì bene armato,
che sconfisse i Sanesi, e Montalcino
fornì, dappoichè l' ebbe rinfrancato.
Era allor Podestà del Fiorentino
quel ch'io contai, Messer Filippo Ugone
da Brescia, caro, e nobil cittadino.
Ed in quel tempo, ed in quella stagione
il Ponte a Santa Trinita fu fatto,
del qual dificio si fece Campione
Lamberto Frescobaldi a questo tratto,
ch'era nella Città molto possente,
e savio, e valoroso in ciascun atto.
Lascio di lui, per recarti alla mente,
che 'nfino allotta non s' era battuta
moneta d'or nella Città presente.
Ma perchè in grande stato era venuta
Firenze, allora piacque a' Mercatanti
di far moneta di maggior valuta.
Allor fer di fin' oro Fiorin tanti,
ch'egli ebber corso, e di quella moneta
valeva l' un dieci soldi contanti.
Pistoia, che non sa regnar quieta,
l' anno mille dugencinquantatrè
i Guelfi cacciò fuor di se con pieta.
Recando il Fiorentin la 'ngiuria a se,
vi cavalcò, e dintorno assediolla,
che nè uscir, ned entrar vi si potè.
Veggendosi que' dentro a tal colla,
e non avendo già, che manicare,
nè per lo innanzi lavorato zolla,
sì s' arrendero a patti, ciò mi pare,
e rimisero i Guelfi in casa loro,
ed un Castel pe' Fiorentin fer fare.
Tornata l' oste, sanza far dimoro
a Siena cavalcò, e Rapolano
guastar, con più fortezze per ristoro,
e fornir Montalcino a mano a mano.
L' oste tornò; e Podestà valente
era allor Messer Paol da Foiano.
A Siena ritornar l' anno seguente,
ed assediaro il suo Monte Reggione,
e fer la pace; e tornando la gente
fermaro a Poggibonizi l' unghione,
e que' dentro alla fine s' arrendero
a patti, salvo l' avere, e le persone.
Tornò la gente, e come fu mestiero,
in altra parte andò; ma non ti gravo
del dove quì; che 'l nono il dirà intero;
e quì finisce il Capitolo ottavo.
c. 9, argumento
Siccome i Fiorentini ebber Volterra,
e come i Pisani fer larghi i patti
a' Fiorentin per tema della guerra:
d' Aldobrandino, e d' altre cose strane,
che furon nel paese del Gran Cane.
c. 9
I Fiorentini magnanimi, e arditi,
vittoriosi, poich'ebbon la Terra,
si fur da Poggibonizi partiti,
e cavàlcar sopra quel di Volterra,
che si teneva a parte Ghibellina,
ed a' Guelfi vicini facien guerra,
per darle intorno alcuna disciplina,
ed a Firenze subito tornare,
che luogo non v' avia altra dottrina;
perchè la Cittade era, ed ancor pare,
di poggio, e di muraglia tanto forte,
ch' è da guardarla, e da lasciarla stare.
Quando que' dentro insino insulle porte
videro i Fiorentin con tanto oltraggio,
uscir gridando, alla morte, alla morte.
Perchè del poggio avevano il vantaggio,
i Fiorentin rincular sanza sosta
con maestria, ma non senza dannaggio.
Quando i nimici vider nella costa,
con tanto ardire inverso lor montaro,
che que' fer colle spalle la risposta.
I Fiorentin con lor si mescolaro,
dando, e togliendo, e tennero una porta,
tantochè gli altri dentro valicaro.
La gente dentro allor si tenne morta,
e 'l Vescovo co' Preti, e colle Croci
incontro si fe lor, con grande scorta
di donne scapigliate, ad alte boci,
misericordia con pace gridando,
per Dio, Signor, non siate sì feroci.
E 'l Podestade allora mandò il bando,
che Persona non fosse ingiuriata,
poichè la Terra faccea 'l suo comando.
Allor la gente si fu racchetata,
cacciarne i Ghibellini, e molto tosto
la Città fu da' Guelfi riformata.
Ciò fu il dett' anno del mese d' Agosto
dugencinquantaquattro, se ben guardo,
col mille innanzi, benchè sia trasposto.
E 'l valoroso, e 'l buon Messer Guiscardo
di Firenze era ancora Potestade,
e 'l popol sempre fu con lui gagliardo.
Di buona guardia fornì la Cittade,
appresso si partì dal Volterrano,
per dimostrare altrove sua bontade.
Coll' oste cavalcò sopra 'l Pisano,
qual sentendo venir quel popol franco,
incontro gli mandò a mano a mano
le chiavi della Terra, e 'l foglio bianco,
dicendo: scrivi i patti, che tu vuoli,
che saran fatti sanza niun manco,
e vogliamo esser frategli, e figliuoli
de' Fiorentini, e mandaron cinquanta
stadichi di loro, non senza duoli,
per sicurtà d' osservar tutta quanta
la lor domanda; alla qual poser freno
i Fiorentin, veggendo umiltà tanta.
Frall'altre cose disser, che volieno,
che que' di Pisa per terra, e per mare,
dove i Pisan balía, o forza avieno,
la lor mercatanzia uscire, e entrare
sempre potesse per gli lor paesi
sanza gabella, o passaggio pagare,
e sempre tutte lor misure, e pesi
dovien tenere al modo di costoro,
e la moneta, e lor lega compresi,
nè mai doveano esser contro a loro;
dovevan dar Piombino, o Ripafratta
a' Fiorentin, qual più piacesse in Coro.
La Cronica di più patti non tratta;
ma pur veggendo questi a poco stallo
i Pisani a consiglio, ognun si gratta.
Disse un di lor chiamato Vernagallo:
noi non possian negar, che son proferti,
i patti, che domandan sanza fallo.
Ma se pigliasson Piombin, siate certi,
che lasceranno il Porto nostro poi,
onde tener ci potremo diserti.
Ma un rimedio ci ha, che tutti noi
di Ripafratta mostrian più timore,
che di Piombino; e quì conoscer puoi,
che credendoci far maggior dolore,
vorranno Ripafratta, e non Piombino;
e così fu, non senza grande errore.
O quanto sormontava il Fiorentino
avendo preso Piombin, per lo Porto,
che poi avrebbe avuto in suo dimino.
Ancora a me ne par ricever torto,
e volentier sarei ad arder l' ossa
di chi ciò consigliò, benchè sia morto.
Fecer la pace quella gente grossa,
e non si sepper guardar dallo 'nganno;
ma poco durò poi sanza percossa.
E ciò fu di Settembre nel detto anno,
il qual chiamato fu vittorioso
da' Guelfi, che montar nell' alto scanno.
De' fatti di Firenze mi riposo,
per tramezzar d' altre cose sovrane,
poi torneremo al trattato gioioso.
Nel detto tempo trovo, che 'l Gran Cane,
per consiglio del buon Re d' Erminía,
volle ubbidire alle leggi Cristiane,
e battezzossi, e poi sua Baronía
mandò a racquistar la Terra Santa,
per renderla a' Cristian, come dovía.
E 'l suo Fratel col Re, ch' appresso canta,
in Persia l' esercito guidaro,
e contro a lor non ti potre' dir, quanta
gente si fe; ma niente smagaro,
e tutti quanti avendogli per acca,
sconfitti, e morti fur sanza riparo.
Quivi si pose il Califfo in istracca,
qual è di là, com' è il Papa tra noi,
ed Antioccia presero, e Baldracca.
Dov'eran tutti quanti i tesor suoi,
in una Torre d'oro, e d' ariento,
incarcerato fu il Califfo poi,
dicendo: Poichè tanto t'è in talento,
per avarizia crescere il tesoro,
or te ne pasci, senz' altro formento.
E fatto quivi otto giorni dimoro,
si trovò morto, ed aveva la bocca
aperta sovra d' una massa d' oro.
Questi ben fe, come persona sciocca,
che non volendo l' avere scemare,
perdè l' avere, e la persona in ciocca.
Alonne avea nome sanza errare
colui, che 'l vinse, del Gran Can fratello,
mille dugencinquantasei, mi pare.
Poi in Soría conquistò senza appello
una Città, che si chiamava Lappo,
e presevi il Soldan, ch'era ribello.
Quindi partì su' oste sanza incappo,
questo nel mille dugentosessanta,
ed a più Terre poi non diè di grappo.
E mosse quella gente tutta quanta,
per acquistar Gerusalemme bella,
principio, e capo della Terra Santa.
Di suo paese gli venne novella,
come Magotte Gran Cane era morto;
e per esser Signor, come s' appella,
partissi dall'acquisto molto accorto,
e tanto cavalcò, che 'n suo paese
si vide a salvamento giunto al porto;
e 'l signoraggio de' Tarteri prese,
e lo Re d' Erminía da lui partito
inver la sua contrada si distese.
Ed in quell'anno, ch'hai di sopra udito,
in Acri Viniziani, e Genovesi
per zuffa insieme furo a mal partito.
La cagion si rimanga; ma gli offesi
furono i Viniziani quella fiata,
e tornar con vergogna in lor paesi.
Poi a due anni vi fecer tornata
con grande sforzo, e di nequizia gravi;
e' Genovesi colla loro armata
di cinquanta galee, e quattro navi
furono a battaglia, e sconfitti furo
da' Vinizian, che fur più di lor savj.
E trovo, e chiaramente ti sicuro,
che molti più di mille settecento
ne furo morti sovra 'l mare scuro;
e disfecero insino al fondamento
la Ruga Genovese, e conquistaro
il Castel di Mongioia, il qual fu spento,
e ventiquattro galee ne menaro.
Così vettoriosi i Viniziani
della Soría a casa lor tornaro.
L' anno dinanzi i Guelfi Orbevietani
co' Viterbesi, ed altri Ghibellini
essendo in guerra, e ben spesso alle mani,
mandaro a lor soccorso i Fiorentini
Cavalier cinquecento, se non erra
il Libro, ond' io levai questi latini;
de' qua' fu Capo il Conte Guido Guerra.
Giunse in Arezzo, e contro al suo mandato
i Ghibellin pinse fuor della Terra,
faccendo contro al pacifico stato
d' Arezzo, e di Firenze; onde coll' oste
il popolo a furor vi fu mandato:
e non essendo intese lor proposte,
infino ch'e' non ebber la Cittade,
mai non le si partiron dalle coste.
Allora il Conte sì diè quantitade
di dodici migliaia di Fiorini,
perchè si ritornasse in sue contrade,
i qua' prestò Firenze agli Aretini:
e della Torre Messer Alamanno
fu Podestà de' Guelfi Cittadini.
Al tempo di costui nel seguente anno,
i Pisani, a calor del Re Manfredi,
rupper la pace, non senza lor danno,
e sopra Lucca andar, come quì vedi.
E' Fiorentin sentendo tal soperchio,
vi mandar gente a cavallo, ed a piedi.
Dall' un lato i Lucchesi fer coperchio,
dall'altra parte i Fiorentini armati
e' ruppono i Pisani al Ponte a Serchio;
e senza i morti, ed in Serchio affogati,
in Lucca, e in Valdinievole prigioni
più di dumila ne furon menati;
e con vettoriosi gonfaloni
inverso Pisa tornò il Fiorentino
adoperando le scuri, e' falcioni;
e in Valdiserchio a Sa' Iacopo un pino
tagliaron, sopra 'l qual fecero allora
per memoria coniar nuovo fiorino.
Se conoscer, Lettor, ne vuoli ancora
or guarda, che tra gambe del Batista,
un ramuccello in ciaschedun dimora.
E li Pisan veggendo cotal vista,
chieser la pace, ed ebberla a piacere
de' Fiorentini, e de' Lucchesi mista.
Nella qual si contenne, a mio parere,
che' Fiorentin potesser di Mutrone
fare, e disfare ad ogni lor volere.
E com' egli ebbon la possessione,
i Pisan, per sospetto, e per temenza,
che non ne dessero a Lucca ragione,
subitamente mandaro a Fiorenza
con quattromilia fiorini un Pisano,
che riparasse a sì fatta sentenza.
Aldobrandino Ottobuoni Anziano
era in Firenze, e con gli altri avie fatto
per segreto consiglio a mano a mano,
che 'l Castel di Mutron fosse disfatto.
L' Ambasciadore a Firenze venuto,
Chi ci è da più? domand' al primo tratto.
E poichè chiaramente ebbe saputo,
che Aldobrandino Ottobuoni era quello,
ch'era in Comun sopra gli altri creduto,
andonne a lui con un saluto bello,
e domandol, poichè l' ebbe da parte,
se preso era partito del Castello.
Rispose, no; e quel Pisan con arte:
Mutrone è stato cagion della guerra,
e per Mutron son molte sangui sparte;
onde a salute di ciascuna Terra,
di Firenze, di Lucca, e poi di Pisa
sarebbe il me', ch'e' fosse messo in terra:
questo è giusto, e diritto in ogni guisa;
s' a nullo è grave, debb' essere a noi,
e sian contenti, per fuggir divisa:
e perchè Pisa abbia pace con voi,
se fai far quel, ch'io t' ho ragionato,
quattromilia fiorin tè, che son tuoi.
Aldobrandin, come molto avvisato,
disse: Serba i fiorin, ben n' ho bisogno;
ma non voglio anzi tratto esser pagato.
Fu nel Consiglio, e disse: I' mi vergogno
di quel, che di Mutron vi consigliai,
nè a contraddir sanza cagion mi pogno.
Dico, che quel non si disfaccia mai,
rimanga in piedi; e tacette lo 'ndizio,
e riformato fu, com' udirai.
Non fece più di lui il buon Fabbrizio.
Questi non era ricco, e cose brune
non volle far, per arricchir con vizio,
amò, più che 'l ben propio, il ben comune.
Così ci avesse molti de' suo' pari,
che nel ben far tirassono una fune.
Deh cari Cittadin, ciascuno appari
dal nostro anticessor, di cui si scrive,
perch'egli amò virtù, più che danari.
Quando costui, ch' ancor per fama vive,
a morte venne, onorato fu molto,
perchè gli spiacquer le cose cattive.
E 'n Santa Liperata fu sepolto
per lo Comune in una sepoltura,
con pregio tal, che mai non gli fu tolto:
e sopra 'l marmo dice la scrittura
quel, che ancora nella Camera è scritto
del Comun, dico, dov'è sua figura.
Ma poichè 'l nostro Comun fu sconfitto,
come dirò più innanzi, a Monteaperti,
tornaro i Ghibellin sanza respitto,
ruppero il Popolo, e poi di lor certi
guastaro, ed abbattero il monimento
d' Aldobrandin, per gli contrarj merti,
e 'l corpo suo, ch' ancor non era spento,
benchè tre anni fosse dimorato,
ne trasser fuori, e per ogni convento
di questa Terra fue strascinato,
e poi per diligion gittato a' fossi,
ed a ciascun parv'esser vendicato.
Pensa, Lettor, se furo uomini grossi,
che ciò, che in vergogna ricevette,
gli fu corona, come veder puossi.
L' anno mille dugencinquantasette
Castel di Poggibonizi disfece
il Fiorentin, perchè di lui temette.
Ed in quel tempo dirti ancor mi lece
ch' un Prete in Francia, levando il Signore,
gli apparve in mano un fanciullo in sua vece;
il quale a priego il tenne ben due ore.
Essendo detto al Re Luigi, disse:
Vadavi chi non l' ha, com' io, nel cuore.
E molta gente, prima che sparisse,
trasse a vederlo, grandi, e piccolini;
e più oltre di questo non si scrisse,
per cacciar di Firenze i Ghibellini.
c. 10, argumento
Cacciati di Firenze i Ghibellini,
e del crudele Azzolin di Romano,
e di quel buon Ser Brunetto Latini,
e come que' del Re Manfredi a Siena
da' Fiorentini ricevetter pena.
c. 10
Calen di Agosto, ovver di Luglio al fine
era nel mille dugencinquantotto,
quando gli Uberti, e Case Ghibelline
trattar, che 'l popol fosse guasto, e rotto
a caldo di Manfredi, e d' altri strani,
che' Guelfi volien mettere al disotto.
Quando sentito fu da' popolani,
richiesti furo, ed e' battero il Messo,
e la Famiglia ancor colle lor mani.
All' arme, all'arme, il popol grida appresso,
e trasse con furor senza dimoro,
dov'è la piazza de' Priori adesso.
E fuvvi morto Schiatozzo di loro,
e lor famigli, e lor fanti pregiati,
ch' alla difesa trasser di costoro.
Uberto Uberti, col Mangia Infangati
vi furon presi, e 'n Orto San Michele
subitamente furon dicollati;
e fur cacciati con atto crudele,
con tutti lor seguaci, e aderenti,
siccome gente con amaro fele,
e' lor ben guasti infino a' fondamenti;
le pietre andaro a San Giorgio alle Mura,
ed a ruba legname, e ferramenti.
Di que', che fur cacciati la Scrittura
non fa menzion di tutti, ma di certi,
che appresso conterò, e quì procura.
I principali, e capo fur gli Uberti,
e po' Fifanti, e Guidi, e Soldanieri,
Scolari, Abati, Infangati, e Lamberti,
e Tedaldini, Galigai, e Amieri,
Caponsacchi, Amidei, e que' da Cersína,
e Migliorelli, e Ubriachi altieri,
que' della Pressa, e Razzanti di Crina,
tutti n' andaro alla Città Sanese,
nemica di Firenze, e Ghibellina.
E di molti altri di nostro paese,
Grandi, e Popolani, e Contadini
si tirar dietro con simili offese.
Di Settembre seguente i Cittadini
richieder fer l' Abate a Valembrosa,
perchè trattar dovia co' Ghibellini?
Ed ei negando così fatta cosa,
per forza gli fu fatta confessare,
e poco termine ebbe, e viemen posa:
che 'n sulla piazza di San Pulinare,
presso al Palagio della Signoria
gli fu tagliato il capo, ciò mi pare.
Questi era Gentile uomo, e da Pavia,
dove de' Fiorentin, pochè fu morto,
per questo ricevetter villania.
Poi si trovò, che ricevette torto,
e' Fiorentin furo scomunicati
dal Papa allor, come si legge, scorto.
Erano allora i Fiorentini usati
d' amar più il ben comun, che 'l propio assai,
e per questo eran molto sormontati.
Un Anziano, secondoch'io trovai,
un pezzo di chiusura del Leone
nel fango rotta, siccome udirai,
ne fe portare in villa a sua magione;
e per quel fu d'ogni uficio privato,
con mille lire di condennagione.
E Podestade a ciò, ch'io t' ho contato,
era Messer Iacopo Bernardi,
donde, no 'l scrivo, che non l' ho trovato.
E seguitando appresso, se ben guardi,
l' anno mille dugencinquantanove
fer gli Aretin, com' uomini gagliardi,
bontà del Podestà lor, da cui muove
Messer Istoldo Iacopo de' Rossi,
che gli condusse a far veraci prove.
Popolo, e Cavalier d' Arezzo mossi
di notte cavalcarono a Cortona,
e colle scale, che miser ne' fossi,
quasi sanza contasto di persona
preser la Terra, e disfer di presente
le mura, e le Fortezze, si ragiona,
e 'l Comun fecero a loro ubbidente.
Tornarsi a casa, e di sì fatte imprese
il Fiorentino fu molto dolente,
perocch' a lega era col Cortonese.
Onde 'l Febbraio, ch' allora s' appressa,
per vendicarsi di cotali offese,
del Vescovo d' Arezzo assediar Gressa,
ed avuto il Castello, e poi disfatto,
a Vernia fecer quella grazia stessa.
Allor Mangona s' arrendè a patto;
rimanga la cagion, perchè que' danni
si fero a' Conti Alberti a questo tratto.
Nel detto tempo, appresso San Giovanni,
il Lion del Comun fuggì di stia,
onde tutta Firenze n' ebbe affanni.
In Orto San Michel correndo via
prese un fanciullo, e recolsi tra branche,
onde la madre, che più non n' avia,
e questo in corpo rimaso l' er' anche
quando il marito, e padre del fanciullo
morto era stato da persone manche,
udendo quel, non le parve trastullo,
gittossi fuori, e con disperazione
si mise, dov' andar non ardia nullo,
e 'l figliuol trasse di branche al Lione,
che non fe male nè a lui, nè a lei,
ma sol guardando; onde nacque quistione,
la quale assolver da me non potrei,
se l' animal per sua gentil natura
lasciò i modi suoi feroci, e rei,
o se di quella donna ebbe paura,
quando la vide così scapigliata
venire inverso se alla sicura,
o se fortuna per quella fiata
campò il fanciullo, acciocchè vendicasse
il padre, come fece a lunga andata.
Mostra, che 'l Lion poi si ripigliasse:
lasciamo andar, come fu ripigliato,
ch' a dirlo non so, benchè si notasse.
Orlandin del Lion fu poi chiamato
sempre colui, che di cotal sentenza
per miracol di Dio era campato.
Vivea allora la gente di Firenza
di grossi cibi, e di grosse robette,
e molti vestien pelli panno senza,
e tutti in testa portavan berrette,
e in piedi tutti usatti, ovver calzari,
nè sapien, che si fossono scarpette;
sicchè vivean di pochi danari,
e mostra, ch' ognun fosse più contento,
che non son oggi co' vestir più cari.
Le maggior donne avien per vestimento
una gonnella di scarlatto gaio,
collo scheggial sanz' altro adornamento,
ed un mantel foderato di vaio,
qual portavano in capo; e smeraldino
l' altre vestien di Luglio, e di Gennaio.
Era la comun dota al Cittadino
le cento lire, e tenuta più bella
quando n' avia cinquanta il Contadino,
e smisurata era tenuta quella,
ch' al Gentiluom giungeva alle trecento;
vent' anni stava ognuna per pulcella.
Ma era ognun d' un buono intendimento,
eran leali, e colle lor grossezze
ciaschedun era al ben comune attento;
e fecer con virtù maggior prodezze,
che comparite poi non sono a loggia
con tutte quante nostre sottigliezze.
Ed ogni dì ci si muta una foggia,
e que', che non ha pan, vuol contraffare
que', che n' ha l' anno più di cento moggia.
De' portamenti d' oggi lascio stare;
ma solamente ti basti, Lettore,
che si fa contra ciò, che si suol fare.
Nel detto tempo essendo 'mperadore,
cioè, in Costantinopoli il Sovrano
di Francia Baldovin di gran valore,
il Paglialoco Imperador lontano
di Grecia mosse, e con lui il Genovese
v' andò, per nimicare il Viniziano;
Costantinopoli assediò, e prese,
caccionne fuor Viniziani, e Franceschi,
che mai non racquistaron quel paese,
rimase il Paglialoco, e suoi Greceschi;
a' Genovesi diè ricchezza tanta,
che si partiron molto gai, e freschi.
Negli anni mille dugento sessanta
sopra Buemia lo Re d' Ungheria
di Cavalier menò migliaia ottanta.
Quel di Buemia gli ammezzò la via,
con più di centomilia Cavalieri,
che a lor percosser con gran vigoría;
e pe' cavagli allor correnti, e fieri
un polverío di terra fu levato,
che non si conoscieno i battaglieri.
Come il Re d' Ungheria fu innaverato,
gli Ungheri dier la volta in isconfitta,
ed al passar d' un fiume cupo, e lato,
se della prosa non mente la scritta,
quattordici migliaia n' affogaro,
sanza la gente coll'arme trafitta.
Que' di Buemma in Ungheria n' andaro,
temendo peggio: il Re domandò pace;
e fatta ch'ella fu, s'imparentaro.
Nel detto tempo il gran Lupo rapace,
crudel Tiranno, Azzolin di Romano,
il quale ancora a tutta gente spiace,
signoreggiando tutto il Trevigiano
per forza, e quasi tutta Lombardia,
odi, che fece contro al Padovano.
A' maggior cavò gli occhi, e mandò via,
e molti fe morire in male stato,
e tolse a ciaschedun ciò, ch' egli avia.
I poveri mandò tutti in un prato,
e fecelo steccare intorno intorno,
e tutto empier di stipa in ogni lato;
poi metter fuoco fe senza soggiorno
da molte parti, e undici migliaia
di persone arder fe sanza soggiorno.
Moriro a torto, e Dio vuol che si paia,
che mai non nacque poi in quel prato erba,
ma sempre sta come di Luglio l' aia.
Or nota il fine di sua vita acerba:
essendo ad oste a Melan con sua gente,
per sottoporla a suo voglia superba,
fu sconfitto dal popolo valente,
fedito a morte, e menato a pregione,
e in carcere morì villanamente;
e come piacque a Dio, delle persone
di suo legnaggio non campò radice;
e questo basti di sua condizione.
Nel detto tempo la Cronica dice,
che nella Magna que', ch'eran Lettori
a riformar quello 'mperio felice,
per discordia chiamar due Imperadori;
l' un fu Alfonso, e l' altro fu Ricciardo:
e buon pezzo duraron questi errori.
La Chiesa avendo a' suo' fatti riguardo,
favoreggiava Alfonso, acciocchè poi
facesse con Manfredi del gagliardo:
il quale era in Toscana contro a noi;
per la qual cosa ancora il Fiorentino
al detto Alfonso mandò uno de' suoi
Ambasciador, Ser Brunetto Latino,
promettendogli aiuto ogni fiata,
se tosto si mettesse per cammino.
Ma prima che fornisse l' ambasciata,
i Fiorentini furo a Monte Aperti
sconfitti da Manfredi, e sua brigata.
E pochè i Guelfi fur così diserti,
Manfredi montò molto, e Santa Chiesa
ne dibassò; e per sì fatti merti
Alfonso dello Imper lasciò la 'mpresa,
Conte Ricciardo ancor lasciò l' amena
fortuna, essendo con Manfredi accesa.
Gli usciti Ghibellin, ch'erano in Siena,
mandarono a Manfredi per soccorso,
perchè de' Guelfi aspettavan la piena.
E 'l Re di Puglia concedette un sorso
di cento Cavalieri a lor setata;
gli Ambasciador non gli apprezaro un torso.
Quel degli Uberti, Messer Farinata,
disse: Non ce ne caglia, prendian questi
con sua bandiera; e la gente accettata
fur con gli Ambasciadori a muover presti.
Quando i Sanesi di lor vider saggio,
si fecer beffe di chi gli avea chiesti.
E poi appresso del mese di Maggio
il Fiorentin coll' oste cavalcava
sovr' a' Sanesi, dando gran dannaggio.
Ed in quel tempo il carroccio s' usava
condurre in ogni oste generale,
com' era quella: Or nota, come andava.
Con quattro ruote un Carro principale
era tutto vermiglio, se ben guardo,
con due antenne di colore iguale,
sopra le quali avea uno stendardo
bianco, e vermiglio, come ancor si vede
in San Giovanni, dond' egli esce tardo.
Un par di buoi, e 'l Carradore a piede
vestiti di scarlatto, come tinti
erano i Carri, e così si richiede.
E così il Carradore, e suo' procinti
eran francati da ogni fazione:
versi di lui non trovo più distinti.
Quando uscía fuori il Mastro Gonfalone
i Conti, e' Cavalier, siccome truovo,
dell' Opera il cavavan per ragione;
e conducevanlo in Mercato nuovo
a una pietra, ch' ancor v'è 'ntagliata,
e quivi si posava: e così pruovo.
Allora al popolo era consegnata
la magnifica insegna triunfante,
e con gran diligenza poi guardata.
E bandivasi l' oste un mese avante,
la Campana di Por Santa Maria,
nel canto di Mercato Nuovo stante,
la notte, e 'l dì sonava tuttavia;
e questo per grandigia, com' i' narro,
perchè 'l nimico si fornisse pria.
Al muover si poneva in su 'n un carro,
poi tutta l' oste a questa Martinella
si governava, s'i' ben l' occhio sbarro.
Allora a Siena tolser tre Castella,
Vicchio, e Mezzano, e Cacciole, e per torre
altro, fermarsi a Santa Petornella.
E per memoria fero ivi una Torre,
sopra la qual si pose la campana,
al cui sonar tutta la gente corre.
La gente, ch'era in Siena, Oltramontana,
avvinazzata percossero al campo,
e fuggir fecer molta gente vana.
Ma que', che son della vil gente scampo
volsero a loro, e come scritto vedi,
niuno di lor campò di male inciampo.
E morti, e presi fur que' di Manfredi,
e la sua Insegna funne strascinata
pe 'l Campo, e per Firenze agli altrui piedi;
e la Torre, che' Guelfi avien murata
empièr di terra, e poservi un ulivo,
e fecer con vettoria la tornata;
ma come costò cara appresso scrivo.
c. 11, argumento
Come sconfitti furo a Monte Aperti
i Fiorentin per colpa degli usciti,
che furon più che li Sanesi sperti,
e fu Manfredi Signor di Firenza,
e' Ghibellin tornar con sua potenza.
c. 11
La gente uscita di Firenze allora
per quella rotta, ch' è dinanzi detta,
si sgomentò; ma Siena li rincuora:
che accattar da' Salimbeni in fretta
ventimila fiorini, ed impegnaro
la Tentennana, ed altre Castelletta.
Ed a Manfredi subito mandaro
Ambasciadori, che tutta la matera
ornando, i fatti lor gli raccontaro,
dicendo: I Fiorentin vostra bandiera
strascinaro: se voi ci date gente,
noi faren, che ne sia vendetta intera:
e la pecunia gli donar presente;
onde il Re Manfredi a mano a mano,
ch'era turbato già del convenente,
il Maliscalco suo, Conte Giordano,
con ottocento Cavalier diè loro,
ed essi il fer General Capitano:
e cavalcaron sanza far dimoro,
e furo in Siena per Calen di Agosto,
onde i Sanesi molto allegri fuoro:
e tutta l' amistà richieser tosto,
e poi bandiron l' oste a Montalcino,
ma brievemente mutaron proposto,
dicendo: Questo val men d' un lupino,
che' Fiorentini a campo non verranno:
sicchè tener convienci altro cammino.
Ma se trattian con lor con qualche inganno,
(disse un di quegli usciti) siate certi,
che noi faren lor gran vergogna, e danno.
In Messer Farinata degli Uberti
allora fu tutto il fatto rimesso,
ed in Messer Gherardo de' Lamberti.
E con due Fra' Minori furo appresso,
e ordinaron dieci gran Popolani,
che così loro aprissono il processo.
La Signoria di Provenzan Salvani
(disse un di lor) c' è sì gran penitenza,
che noi vorremmo uscir dalle suo mani;
e se 'l Comune, e 'l Popol di Fiorenza
donasse a noi diecimila fiorini,
fornito il fatto ad ogni lor sentenza,
daremmo volentieri a' Fiorentini
liberamente Porta Santo Viene,
ed e' mostrando fornir Montalcini
venisser con grande oste a schiere piene,
e sovra 'l Fiume dell' Arbia fermati
daremmo il segno, ch' a ciò si conviene.
E con questo dier più lettere a' Frati
suggellate di tutti i lor suggelli,
dicendo: Andate, ed e' furo avviati.
Furo in Firenze, e ragionar con quelli,
ch'eran Signori, ed Anziani allotta,
e disser ciò, che bisognò con elli.
E 'l segreto rimesso in poca dotta
fu in due Maggiorenti de' compagni,
ch' a lor piacer facesser la condotta.
De' qua' l' un fu Messer Gianni Calcagni
di Vacchereccia, e l' altro fu Spedito
di Porzampiero, e men savj, che magni.
Come color, che n' avieno appetito,
tra' Grandi, e Popolan fecer proposte,
tacendo quel, ch' avien da' Frati udito.
Egli è di nicistà, che si faccia oste
per fornir Montalcino, ch' è alla serra,
disse un di loro; e quì fate risposte.
Prima rispose il Conte Guido Guerra,
e contraddisse poi dopo 'l primaio,
se 'l libro della Cronica non erra,
disse degli Adimar Messer Tegghiaio,
che si poteva per gli Orbivietani
fornir la detta Terra a colmo staio.
E contraddisse uno degli Anziani,
disse: Tratti le brache, se hai temenza;
onde rispose a' suo' detti villani,
e disse: Salva la tua riverenza,
tu non andresti ov' io, per sei ronzini,
e proverelti per isperienza.
Volendo Messer Cece Gherardini
ancor dir contro, disse l' Anziano:
Sie' giù a pena di cento fiorini.
E volendo pagare a mano a mano,
e l' Anziano, a pena di dugento
gli comandò, che giù sedesse al piano.
Ed e' volendo dir suo intendimento,
volle pagare, e l' Anziano protesta,
ch'e' non favelli, a pena di trecento.
E veggendogli ancor la borsa presta,
disse Spedito: Siedi Cavaliere,
e non parlare a pena della testa.
Ben la potre' pagar, ma vo' tacere,
rispose il Cavalier con aspro piglio,
strinse le spalle, e tornossi a sedere.
E gli Anzian fer tanto col consiglio
de' Popolani, che fur vincitori
delle proposte, e misersi al periglio;
ed al piacer di que' Frati Minori
diecimilia fiorin dipositati
furono, ed ordinaron di uscir fuori,
com' è detto, si mossono ordinati,
cioè, colla campana, e col carroccio,
e sopra l' Arbia furono schierati.
So ben, che or per lungo dir ti noccio;
ma priegoti, Lettor, che mi perdoni,
che vedi ben, perch'io divento chioccio.
Tremila Cavalieri, e di Pedoni
trenta migliaia fur sovra' Sanesi,
com' io racconterò, di più regioni,
Lucchesi, Volterrani, e Pistolesi,
Perugin, Bolognesi, Orbivietani,
e que' di Prato, co' Sanminiatesi,
e Sangemignanesi, e Colligiani,
e cinquecento Cavalier soldati,
e ottocento a cavallo Terrazzani,
e tutti i Gonfalon v'erano andati,
od uno, o più per casa, e per famiglia,
a piede, o no, secondo loro stati.
Stando così con baldanzose ciglia
i Fiorentin tra Siena, e Monte Aperti
con sì bell' oste, ch'era maraviglia,
i traditor d'ogni malizia esperti
scrisser nel Campo a color del trattato,
che da Firenze ancor venisser certi.
A Firenze mandar dall'altro lato
agli amici, e parenti Ghibellini,
che ciascun s' ingegnasse esser mandato.
E venuti nell' oste alli confini
della battaglia, ciaschedun fuggisse,
e ritrovasse gli antichi cammini,
acciocchè l' altra gente sbigottisse,
ed e' potesson ritornar vincenti
in casa loro. E come quegli scrisse,
molti si mossero amici, e parenti,
che per procaccio vi furon mandati,
ed altri assai sanza comandamenti.
E aspettando gli Anziani nomati,
che fosse lor mandato il segno, e 'l fante,
e fosser dentro alla Città chiamati,
un Ghibellin, ch' avea nome Razzante,
fiatato ch'ebbe quel, che s' aspettava,
in Siena andò al traditor davante,
e disse, siccome si ragionava,
che Siena allor dovesse esser tradita,
e che dell' uscir fuor non consigliava;
e che non vide mai gente fornita,
com' era l' oste, nè così ordinata,
nè gente da battaglia tanto ardita.
Allora disse Messer Farinata:
Noi sian pur fermi d' essere alla giostra,
e di voler morir tutti in brigata.
O noi ritorneremo in casa nostra;
che meglio ci è morire quì ad onore,
che tapinando far pe 'l mondo mostra.
Or va, e fa per Siena di buon cuore
tutta la gente; so, che m' hai inteso,
e dì il contradio di cotal tenore.
E 'l traditor, che bene ebbe compreso,
d' ulivo una ghirlanda portò in testa,
e cavalcando con un viso acceso,
dicea per Siena: Non si faccia resta
all' uscir fuori; i' vegno quì da parte
de' Ghibellini, e l' ambasciata è questa:
che nel Campo non ha 'ngegno, ned arte;
sconfitti son, se voi uscite fuori,
e fien dal vostro lato una gran parte.
Allor gli usciti nostri traditori,
co' Cavalier del Re fecer la scorta,
volendo esser dinanzi feditori.
Appresso loro uscir fuor della porta
Pisani, ed altri, con loro alle coste,
e 'l popol poi, che tutto si conforta.
E quando gli Anzian Capo dell' oste
vider tal gente contro a lor venire,
disser: queste non son buone risposte.
I Ghibellin cominciaro a fuggire
fuor delle schiere, com' era ordinato,
per far tutt' altra gente sbigottire.
E dagli Abati fu incominciato,
e poscia seguitar que' della Pressa,
ed altri, di cu' io non ho parlato.
Allor la gente nemica s' appressa,
ed assalir la Fiorentina schiera,
i qua' sostenner ben tal manimessa.
Ma Messer Bocca Abati, che 'n quell' era,
colla spada le braccia taglia, e placa
le mani al Cavalier della bandiera,
e 'l buon Messere Iacopo del Vaca
di casa i Pazzi rabbracciò la 'nsegna
co' moncherin, ma pur sua forza vaca;
perocchè 'l traditor di tal convegna,
non restò mai, che quella insegna allotta
in terra cadde sanza più ritegna.
Abbattuta la 'nsegna in poca dotta,
si gridò forte: Omè noi sian traditi;
onde la gente subito fu rotta.
E poi in Monte Aperti rifuggiti,
dumilia cinquecento da' Sanesi
ne furon quivi tra morti, e fediti.
E ben tremilia, e più furono i presi
di que' da piede, e gli altri sanza fallo
sì si fuggir per diversi paesi.
Perchè prima degli altri uscir del ballo:
non vi rimaser, se non trentasei
de' Fiorentin, che v'erano a cavallo.
La campana, e 'l carroccio saper dei,
che ci rimase, e per farci vergogna
nel Duomo lor si mostra a' buoni, e a' rei:
degli altri arnesi dir non ti bisogna,
che furon tai, e tanti, ch'io ti prometto,
che s'io il dicessi, parrebbe menzogna.
A' quattro dì di Settembre, anno detto,
la rotta fu, che d' allegrezza rase
Firenze col Contado, e col distretto.
Non pianse l' una, ma tutte le case;
qual piangeva il fedito, e quale il morto,
e qual colui, che prigion vi rimase.
E veggendosi i Guelfi a sì mal porto,
prima sconfitti, e poi perseguitati,
temendo di ricever maggior torto,
si dipartiron sanza esser cacciati
con lor famiglie, ed andarsene a Lucca,
a riposar con gli altri tribolati.
Parve, ch' avesser poco sale in zucca,
perchè Firenze era murata, e forte,
e cotal Terra in van si badalucca.
Il Giovedì usciron delle porte,
e la Domenica appresso vegnente
venner gli usciti colle loro scorte,
e senz' alcun contasto d' altra gente
si rientrar nel loro antico nido,
e 'l popol fu disfatto incontanente.
Firenze fu del Re Manfredi a grido,
e Vicario ne fu 'l Conte Giordano,
e Podestà il Novello Conte Guido;
il qual fece disfare, e porre al piano
cinque Castella, come fu di patto
con Siena, a lei ciaschedun prossimano.
Lascio qua' furon quelle a questo tratto,
e qua' furono i Guelfi, che n' andaro
a Lucca, per fuggir lo scacco matto.
Se tutto vuo' veder disteso, e chiaro,
leggi nel dir di Giovanni Villani,
che fu cortese, dov' io sono avaro.
Dieci anni avien regnato i Popolani
vittoriosi, faccendo tremare
della lor forza vicini, e lontani.
Gran doglia mostrò il Papa, ciò mi pare,
quando sentì sconfitti i Fiorentini,
e 'l suo nimico Manfredi montare.
Ver' è, che un Cardinal degli Ubaldini,
ch' avea nome Messer Attaviano,
festa ne fe con altri Ghibellini.
Un altro Cardinal molto sovrano,
astrolago de' buon, ch' al mondo avesse,
disse, veggendo il fatto di lontano:
Se 'l Cardinal degli Ubaldin sapesse
quel, che apparecchia la fortuna a' suoi,
non credo, che cotal festa facesse.
Diss' un degli altri: Deh ditelo a noi;
ed e': Parlar degl' infuturi mali,
non sta a me il dir, nè l' ascoltare a voi.
Allor pregaron tutti i Cardinali
il Papa, che per suo' comandamenti
facesse dir, de' sopraddetti quali
dovevan della guerra esser vincenti:
e 'l Padre Santo pien di provvedenza,
volendo fare i suo' frati contenti,
gli comandò per virtù d' ubbidenza,
che palesasse ciò, che conoscea
di Guelfi, e Ghibellini per sua scienza.
E 'l Cardinale allora rispondea:
A corto andare i Guelfi torneranno
nella Città, che loro esser solea,
e' Ghibellin, che allor si partiranno,
la ritornata loro in abbandono
in perpetua poi metter potranno.
E ancor disse: Più, ch'io non ragiono
vi potre' dir di ciascheduna parte;
ma perch' è me' tacer, chieggio perdono:
ver' è, che Dio ciò, che mi mostra l' arte,
puote annullar, e dove ciò non sia,
le mie parol saranno vere carte.
O come seppe bene astrologia
que', che chiamato fu Cardinal Bianco,
che ciò, che disse, è stato profezia.
Perocch' ognun di loro al mondo è manco,
e que', che poi son discesi di loro,
si posan volentier, come lo stanco.
Dette queste parole in Concestoro,
il Cardinale Attavian fu turbato,
e gli altri s' allegrar sanza dimoro.
Onde rimase quasi che scornato,
perocchè di cosíe acceso male
doleva a tutti, ed e' n' era allegrato.
E quando il dir del Bianco Cardinale
seppero i Ghibellin, ch'eran tornati,
siccome quegli, a cui molto ne cale,
del male annunzio fur molto turbati.
Quì faccian fine al Capitol presente,
perchè non passi gli altri misurati,
e seguiremo il fatto nel seguente.
c. 12, argumento
Di Messer Farinata, s'io ben veggio,
e come i Guelfi fur cacciati a Lucca,
e come uccisero il Cacca da Reggio,
e come Carlo d' Angiò fu chiamato
Re di Cicilia, e Manfredi privato.
c. 12
Montando allor la parte Ghibellina,
i Guelfi d'ogni Terra di Toscana
cacciati fur da sera, e da mattina,
ed in tutto era parte Guelfa vana,
salvo che Lucca, siccom' io ti porgo,
si fe de' Guelfi camera, e fontana.
I Fiorentini abitaron nel Borgo
appresso San Friano, ed in quel sito
Messer Tegghiaio, che di sopra scorgo,
ritrovato si fu collo Spedito,
che gli avie detto: Cercati le brache;
ed era pover di Firenze uscito:
e disse a lui: Le brache tue son vache,
che ci sapesti mettere alla corsa,
con molte fregiature di lumache,
ed io l' ho piene; e trassesi una borsa
de' cavaglion con fiorin cinquecento,
dicendo: Più per te non se ne 'mborsa.
Nel detto tempo stretti a parlamento
ad Empoli fur tutti i Ghibellini,
e ragionar di lor con fermamento.
Al qual furon Pisani, ed Ubaldini,
Sanesi, Conti Guidi, e Conti Alberti,
e que' da Santa Fiore, e più vicini,
e Baroni, e Signori savj, e sperti,
e Tirannelli della vicinanza,
e tutti di concordia e' disser certi:
Volendo a' Guelfi torre ogni speranza
della tornata, non ci ha miglior modo,
che disfare Firenze, e sua possanza.
Essendo quasi tal dir posto in sodo,
disse Messer Farinata giocondo,
com' udirai, ch'io scrivendol godo:
S' altri ch'io non ne fosse nel mondo,
prima morrei (e trasse fuor la spada)
ch'io consentissi, ch'ell' andasse a fondo.
E que', che stavan per udirlo a bada,
perocch'egli era Cavalier da molto,
rivolser lor pensier per altra strada.
Temendo, che non fosse il nodo sciolto
di parte Ghibellina, ognun tacette,
e per vergogna bassò gli occhi, e 'l volto.
Per le parole buone, ch' avea dette,
al mio parere, il Cavalier sovrano
meritav' altro, ch'e' non ricevette.
Appresso si partì il Conte Giordano,
e 'l Conte Guido Novel della taglia
fu dopo lui Vicario, e Capitano.
Il qual diè poi tanta briga, e travaglia
a Guido Guerra, ed al Conte Simone,
perch'eran Guelfi, che non tenner maglia;
e fermò tutta sua intenzione
d' abbattere in Toscana ciascheduno,
che Guelfo fosse, a torto, ed a ragione.
E nel mille dugentosessantuno
assediò Lucca, e vegnendogli manco,
delle Castella non tornò digiuno.
Acquistò Santa Croce, e Castel Franco,
e Monte Calvi, e Santa Maria a Monte,
e Pozzo, ed anche non si vide stanco.
Ed assediò Fucecchio, e passò il ponte,
ma perchè l' acquazzon gli fu contrario,
a Firenze tornò con turba fronte.
E alla state seguente quel Vicario
cavalcò a Lucca, de' Guelfi magione,
a stanza del Pisan suo avversario.
Ed i Lucchesi, e' Guelfi a Castiglione
da lui furo sconfitti, e Messer Cece
de' Buondelmonti allora fu pregione
di Messer Farinata, che li fece
un bel servigio, che a sua richiesta
se 'l pose in groppa, e 'l fratello il disfece;
che d' una mazza gli diè insulla testa
Messer Pier tal, che 'n groppa del fratello
l' uccise, come quì si manifesta.
Nondimeno il Vicaro ebbe il Castello,
e poi ebbe Mozza, e 'l Ponte a Serchio,
Rotaia, e Serezzano, e fe drappello.
Veggendosi i Lucchesi di soperchio
spogliar delle Castella, e della gente,
pensar di porre a tal fatto coperchio;
e trattar col Vicar segretamente
di riaver lor Castella, e prigioni
da Monte Aperti, e del tempo presente,
e di cacciar di loro abitazioni
tutti i Guelfi, che v' erano; e quando
fu dato compimento a ta' sermoni,
per la Città di Lucca mandar bando,
ch' ogni Guelfo sgombrasse lor Terreno,
a pena della vita a lor comando.
I Guelfi, che sentito non l' avieno,
di ciò si fecer grande maraviglia,
che star sicuri quivi si credieno.
Ciascuno si partì con sua famiglia,
e parte degli usciti Fiorentini
a Bologna n' andaro, e qual più miglia
oltra' Monti pigliarono i cammini,
e diersi al mercatar con allegrezza;
onde ne recar poi tanti fiorini,
che fondamento fur della ricchezza
della Città di Firenze. Ora torno
al Conte Guido, che con sua fortezza
perseguitò tanto i Guelfi dintorno,
che non avia in Toscana alcuna Terra,
dove un Guelfo potesse far soggiorno.
E 'n questi tempi, se 'l libro non erra,
la Camera Comun, ch' avea doppj
gli arnesi bisognevoli alla guerra,
tolse, e mandogli al suo Castel da Poppi.
Lascio di lui, che più dir non bisogna,
e pur di quel, ch'ho detto, par ch'i' scoppj;
e torno a' Guelfi, ch'io lasciai in Bologna,
quale avie soldo appiè, quale a cavallo,
altri in miseria stava con vergogna.
Mentre che quivi facevano stallo
si cominciò in Modana baruffa
tra' Ghibellini, e' Guelfi sanza fallo;
e stando in piazza apperecchiati, a zuffa,
i Guelfi mandaro sanza dimoro
pe' Guelfi da Bologna, a non dir buffa.
Tutti que', ch'eran dell'animo loro,
usciti Fiorentini, ed altri molti
subito andaro a soccorrer costoro.
Passati dentro, non furono stolti,
a' Ghibellin mostraron lor bontade
per modo tal, ch' addietro furon volti.
E così gli cacciar della Cittade,
e di lor case ruppero i serragli,
poi le rubaro, e della quantitade
si fornirono d' arme, e di cavagli;
e 'n quella Terra faccendo riseggio,
com' udirai, simiglianti travagli
tra' Guelfi, e' Ghibellin furono a Reggio,
e per soccorso a Modona mandaro
i Guelfi a' Guelfi, per tema di peggio.
Ed e' volonterosi allor v' andaro,
e fecer Capitan Messer Forese
degli Adimari valoroso, e chiaro.
Nella Città entraro sanza contese,
e valorosamente insulla piazza
co' Ghibellini vennero alle prese.
Lor Capitano er' un di franca razza,
e di statura quasichè giogante,
che ognuno atterrava colla mazza.
E veggendogli far prodezze tante,
da parte si tiraro i Fiorentini,
per riparare a sì fatto sembiante.
E fer di lor dodici Paladini,
e poserli d' appetto alla contesa,
dicendo: E' converrà, ch' a terra chini.
E 'l valentre uon dopo lunga difesa
fu atterrato, e morto là a sdraione,
e poco durò poi la zuffa accesa;
perchè veggendo il Cacca lor Campione
insulla terra morto, per paura
lasciar l' avere, e fuggir le persone.
Così cacciati fur fuor delle mura
i Ghibellin di Reggio, e' Guelfi appresso
rubar le case loro alla sicura.
Se prima guadagnato avieno, adesso
si rifornir di ciò, che fu mestieri
adorni sì, che niun pareva desso.
Ed eran quattrocento Cavalieri
tra in Modena, ed in Reggio bene armati,
di Guelfi Fiorentini arditi, e fieri.
Lascio di lor, che son rincavallati,
e ritorno a parlar del Re Manfredi,
che gran tempo gli avea perseguitati.
Come per la scrittura chiaro vedi,
sormontò molto a Ghibellina parte,
perch' a sua forza non avea rimedj.
La Chiesa dibassò dall'altra parte,
e' Guelfi sì, che non potean verbo
trall'altra gente usar, se non ad arte.
Papa Alessandro si morì a Viterbo,
e la Chiesa vacò a mano a mano
per cinque mesi, pe 'l Collegio acerbo.
E poi elesser Papa quarto Urbano,
di vilissimo stato per nazione,
ma di senno, e d' ardir molto sovrano.
Trovò la Chiesa a mala condizione,
per quel Manfredi, che co' Ghibellini
molte Terre tenea contra ragione,
e avea fatto venire Saracini
addosso al Patrimonio di San Piero,
perchè d' attorno non volea vicini.
Onde spirato da santo pensiero
la Croce predicò contr' a que' cani,
e molta gente mosse di leggiero.
Sentendo la venuta de' Cristiani
i Saracini, in Puglia si fuggiro
per iscampar la vita da lor mani.
Manfredi nondimen, se chiaro miro,
la Chiesa, e' suoi ognor perseguitava
colla sua gente, con aspro martiro.
Ed egli in Puglia, e in Cicilia si stava,
prendendo ogni piacere, ogni diletto,
che 'l mondo vuol, nè di Dio si curava.
Veggendo il Papa in lui tanto difetto,
e fatti essendo due Imperadori,
siccome per addietro è stato detto;
l' un fu di Spagna a magnifici onori,
e l' altro d' Inghilterra, e non avea
tra lor concordia a spegner tali errori.
E Curradino, a cui appartenea
di Puglia, e di Cicilia il gran retaggio,
era sì piccol, ch' ancor non potea
contra Manfredi vendicar l' oltraggio;
onde Papa Urban sollecitato
da' Guelfi Fiorentini a suo vantaggio,
Carlo Conte d' Angiò ebbe chiamato
Re di Cicilia, e di Puglia, e Campione
di Santa Chiesa, e Manfredi privato.
E ricevuta ch'ebbe la lezione,
col Re Luigi ne prese consiglio,
col Conte Artese, e Conte di Lanzone;
che ciascun fu del Re di Francia figlio,
sicch'eran tutti suo' frate' carnali,
e d' un volere al bene, ed al periglio;
e di molti altri gran Baron Reali,
e ciascun disse: Facciasi la 'mpresa
contra Manfredi tanto, che quì cali,
e rifrancata sia la Santa Chiesa;
e ciaschedun proferse suo podere,
apparecchiato a portare ogni spesa.
Quando la donna sua di gran savere
figliuola di Ramondo Berlinghieri
seppe del fatto le novelle vere;
le quali intese molto volentieri,
sperando esser Reina; e cotal fine
disideravan tutti i suo' pensieri,
perchè le sue sirocchie eran Reine,
e facienla seder più bassa un grado,
e questo l' era al cuor pungenti spine;
ed una volta, che le fu a grado,
disse al marito suo quasi con lagno:
Così m' è fatto dal mio parentado.
Ed e' rispose coll'animo magno:
I' credo farti ancor tanto maggiore,
ch' alla lor testa tu terrai il calcagno.
Alla Contessa crebbe tanto il core
della lezione, ch'ella pose pegno
quanti gioielli avea di gran valore.
E molta gente richiese del Regno
di Francia, e di Provenza, ch' alla mossa
del nuovo Re seguissero il suo segno.
Attanto Carlo apparecchiò sua possa,
e tutto il fior di Proenza, e di Francia,
colla Contessa, fece schiera grossa.
E 'n quel paese non rimase lancia,
che non seguisse Carlo con disio,
sicchè non era da tenerlo a ciancia.
Così si mosse nel nome di Dio;
di che la Santa Chiesa fe gran festa,
e tutti i suoi seguaci, al parer mio.
Manfredi udendo sì fatta tempesta
venirsi contro, pensò del riparo,
e parte Ghibellina ebbe richiesta.
E la lor forza, e taglia raddoppiaro,
ed e' mandò per gente nella Magna,
e niun soldo allor gli parve caro.
E molti Signorelli a sua compagna
per moneta recò, ch' assai n' avía,
e quì non gli ebbe cari una castagna.
E fece suo Vicaro in Lombardia
Pallavicino suo stretto parente,
che 'l somigliava più, che uom che sia.
E per mare, e per terra grandemente
facea guardare, e chiamava Carlotto
il Re novello, avendolo a niente.
Perchè chi prima scrisse fu più dotto,
che non son' io, seguirò la prosa,
bench' a me stesso paia dir corrotto.
Lascio di Carlo, e dico alcuna cosa
della sua donna, e però mi perdona
Lettor, ch'io dirò, come fu sua sposa.
Il padre fu di Casa di Raona,
e di Tolosa, e per chiara sentenza,
secondochè la Cronica ragiona,
signoreggiò per retaggio Provenza
di quà da Rodano tutto 'l paese,
ed era tanta sua magnificenza,
ch' al piccolo, ed al grande era cortese,
e ciascuno il pregava con letizia,
perchè facía così larghe spese,
ed un Romeo, che venía di Galizia
passò a riposarsi nella Corte,
e piacquegli veder tanta grandizia.
Poi ragionando con parole accorte,
al Conte piacque tanto il suo bel dire,
che innamorato, ch'e' fu di lui forte,
della sua Corte no 'l lasciò partire:
riposesi il bordone, e la scarsella
il Romeo, pochè fu dato al servire.
E piacque al Signor tanto sua novella,
ch'egli 'l fece maestro, e tesoriere,
e spenditor della suo Corte bella;
e seppe sì ben far cotal mestiere,
che 'l Conte l' avea car come fratello,
perchè crebbe l' entrata in più maniere.
Nell'altro Canto tornerò a cancello.
c. 13, argumento
Del buon Romeo, che 'l Conte Ramondo
aveva alzato, e della Guelfa parte,
a cui il Papa diè l' arme nel mondo,
e quel morì; poi fu Papa Clemento,
ch' avie moglie, e figliuol; di ciò non mento.
c. 13
Non era ancor partito da Ramondo
il Romeo, quando il Conte di Tolosa,
che 'l maggior Conte fu, ch' avesse il mondo,
gli mosse guerra sì pericolosa,
che bisognò gran gente d'ogni lato,
e gran tempo durò sanza aver posa.
E 'l buon Romeo, ch' avea molto avanzato,
da ogni parte faceva venir gente
al suo Signor, per rifrancar suo Stato.
E poichè della guerra e' fu vincente,
disse il Romeo: Tu hai quattro figliuole,
che maritar si vogliono altamente.
Lasciami far, che la prima si vuole
allogar sì, che l' altre domandate
sien per vaghezza, come far si suole:
e tanto con denari, e con derrate
fece, che 'n Francia ne mandò la prima
al Re Luigi con solennitade.
Sentendo posta la maggior sì in cima,
Re d' Inghilterra chiese la seconda
per lo figliuol, nè fe di dota stima.
E poich' andata fu la cosa tonda,
il fratel di colui, ch'ebbe costei,
veggendo la fanciulla sì gioconda,
chiese la terza, come saper dei,
più per aver Luigi per cognato,
che per vaghezza, ch' avesse di lei.
E 'l buon Romeo saputo, ed insegnato
disse: Questa minor voglio che abbia
un valentr' uom del Reame pregiato.
E diella a Carlo, ch' avie buona labbia,
fratel carnal del detto Re Luigi,
e d' acquistar onor menava rabbia.
Non vo', ch' ora più di Carlo invaligi,
ma vo', che sappi, come il buon Romeo
fu meritato di tanti servigi.
Lascio e la 'nvidia, ch' ogni buon fa reo,
che mosse certi a parlar di costui
col suo Signor coll' animo Giudeo,
dicendo: Vogli riveder da lui
ragion di ciò, che gli è venuto a mano,
la spesa mostri, e perchè, ed a cui.
E Ramondo il chiamò da canto, piano
dicendo: Pensa di mostrarmi conto,
se tu hai speso il mio tesoro invano.
E 'l buon uomo fu alla risposta pronto,
e disse: I' non saprei render ragione
per iscrittura, ma com' io ti conto:
egli è ciò, che ci è tuo, salvo il bordone,
e la scarsella vota, e la schiavina,
colla quale i' entrài in tua magione:
e tolse le sue cose, e poi cammina.
Credendo il Conte, che si motteggiasse,
lasciollo andare, e que' d' andar non fina.
E mandandogli dietro, che tornasse,
il buon Romeo non si rivide mai,
nè potessi saper dove arrivasse.
Ver' è, che si credette per assai,
che questi fosse messaggio di Dio,
dappoich'egli sparì, com' udirai.
Convienmi dipartir da questo, ch'io
t' hoe innarrato, ed un' altra fiata
ritornerò dove tornar disio.
Mille dugensessantaquattro, guata
che 'n Cielo apparve una stella, che' saggi
non sanza gran cagion chiaman comata;
la qual faccendo ritti i suo' viaggi,
teneva da Levante a mezzo il Cielo
verso Ponente luminosi raggi,
e tre mesi durò sì fatto telo,
e que', che san cernir bianco dal perso
dicean per la scienza con buon zelo,
che quando stella appar per questo verso,
significa d' appresso, e di lontano
gran novità per tutto l' universo.
E ciò si dimostrò per Papa Urbano,
ch' apparendo la stella, quì non bugia,
la 'nfermità fu nel suo corpo umano,
e gravol sì, che si morì in Perugia,
e puossi dir, che per gli suoi affanni
la venuta di Carlo allor s'indugia.
Questi fu Appostolico quattr' anni.
Manfredi, e' suoi, secondochè si disse,
molto contenti fur de' detti danni,
credendosi, che Carlo non venisse,
perchè 'l detto Papa era Francesco,
e 'l suo voler pensava, ch'e' seguisse.
E' non si fe però Papa di fresco,
che la Chiesa vacò per cinque mesi,
innanzichè Pastor mettesse a desco.
Ed altre mutazion per più paesi
ne seguitaron più di centomilia,
ch'io non intendo quì farti palesi.
L' anno vegnente in Puglia, ed in Cicilia
fu mutazion di gente, e grande strazio,
e del mio dir non ti far mirabilia.
Che della stella Lucano, ed Istazio
approvan vera tal significanza.
Or ti farò dell'altro Papa sazio.
I Cardinali, secondo loro usanza,
si raunaro insieme a parlamento,
e fecer Papa sanza dimoranza.
Il qual chiamato fu quarto Clemento,
fu di Provenza, e prima volentieri
seguitò il mondo, ch'e' fosse a Convento.
Ed ebbe sposa, e figliuol Cavalieri,
che seguitaro in tutte le sue voglie
il Re di Francia, e fur suo' Consiglieri.
E poi quando si fu morta la moglie,
Cherico diventóe, e seguitando,
Vescovo fu, ma donde non si scioglie.
E poi di bene in meglio adoperando
Arcivescovo poi fu di Nerbona,
e quinci tanto venne sormontando
la sua operazione, e fama buona,
che di Savina fu poi Cardinale,
e come per addietro si ragiona,
vacò la Chiesa, donde in generale
Concestor Sommo Pontefice fatto
fu, ricevendo l' ammanto Papale.
Questi con Carlo fu ad ogni patto,
e 'n buono stato la Chiesa ripose,
tenendo santa vita in ciascun atto.
Regnò quattr' anni, e fe di molte cose,
ch'io non racconto, per tornare a Carlo,
ch' a nemicar Manfredi si dispose.
Del suo pregio, e valor niente parlo,
perchè sarebbe tedio a te, Lettore,
e gran fatica a me di raccontarlo.
Ma io non credo, che giammai Signore
movesse tanto valoroso, e forte,
quanto costui per acquistare onore;
che quando si partì della sua Corte
fe Capitan di mille cinquecento
buon Cavalieri il Conte di Monforte;
al quale disse suo intendimento,
che 'l Re Luigi, e gli altri suo' frategli
in Lombardia ponesse in salvamento.
E poi co' suo' Baroni adorni, e begli
a Marsilia n' andò, come si dee,
e quivi si posò quanto volle egli.
E poi si mosse con trenta galee,
e fugli detto: Per mar si rauna
dimolta gente, che son contra tee.
Ed e' rispose: Di gente veruna
i' non mi curo, perocchè si canta,
che 'l buono studio rompe la fortuna.
E verso Pisa di passar si vanta;
e sappi, che Manfredi con sue bande
armate avea delle galee ottanta.
Giugnendo Carlo, e la fortuna grande,
i legni de' nemici fece scemi
ed anche i suoi, che 'n quà, e 'n là gli spande.
Ma con tre legni per forza di remi
Carlo passò fin a Porto Pisano,
e fu a gran pericol negli estremi.
Perocchè 'l Conte Guido Capitano,
e Vicar di Manfredi con sue scorte,
uscì di Pisa incontro a mano a mano.
Ma furgli dietro serrate le porte
da' Cittadini, che 'l Casser di Mutrone
gli dimandaro; e per sì fatte sorte
Carlo, ed i suoi camparon le persone,
perocchè la tempesta era cessata,
e dier di remi in acqua per ragione,
tantochè ritrovar la loro armata
appresso al Tevero, e 'nsiem posati
seguitar verso Roma loro andata,
i Guelfi Fiorentin, che raunati
eran ben quattrocento in Lombardia
bene a cavallo, e tutti bene armati,
al Papa avevan fatto ambascieria,
che gli raccomandasse a Carlo, ed esso
rispose: Volentieri in fede mia;
e d' altro gli provvide, e disse: Adesso
i' vuo', che l' arme mia con lui portiate,
ed io farò più, ch'io non v' ho promesso;
e se vincete, vo', che la tegnate
sempre per arme della Guelfa parte;
e' Guelfi l' accettar per degnitade.
L' aguglia rossa fu coll' ale sparte,
che sopra un drago verde tien l' artiglio
nel campo bianco; e' Guelfi poi con arte
le fero in capo un giglietto vermiglio,
per memoria di Carlo, e di Firenza,
dov'ella s' ama, come padre figlio.
E giunto Carlo colla sua presenza
a Roma, il grande, e 'l mezzano, e 'l minore
gli fece grande onore, e riverenza;
e fu di Roma fatto Sanatore,
come fu di piacer del Padre Santo,
ch'era a Viterbo, e pregol per amore,
(poichè star quivi gli convenie tanto,
che giunta fosse la Cavalleria,
che 'nverso Lombardia n' andò d' accanto;)
ch'egli accettasse quella Signoria;
e fu contento, perchè l' aspettare
non gli paresse tal malinconia;
che la sua gente non potè passare,
come credette per la sua bisogna,
perchè Manfredi facie ben guardare.
E tennero il cammin per la Borgogna,
e per Savoia, e passar la montagna
del Monsanese, che poco s' agogna.
Standosi Carlo a Roma, e per campagna,
gli venne un Messo, ch'era giunto ad Asti
il Conte di Monforte, e sua compagna.
E la sua donna co' begli occhi casti
avea menato seco bella schiera
perchè niuno a suo poder contasti.
E vo', che sappi, che 'n quella gente era
Messer Broccardo buon Conte d' Arnoldo,
e 'l suo fratel con gente a suo bandiera.
Messer Guido di Bellugio caldo,
e 'l buon Messer Guglielmo di Belmonte,
Messer Piero di quel luogo di saldo,
Messer Ruberto del Fiammingo Conte
gener di Carlo, e Messer Giglio Bruno
Conestabol di Francia a chiara fronte:
del Maliscalco non ti fo digiuno
di Mirapesce valentre, e gagliardo,
e Messer Gianni con gli altri rauno:
e 'l buon Messer Guglielmo da Standardo,
nobile Cavalier d' arme pregiato,
ed altri, ch'io di raccontar mi guardo.
E quivi il buon Marchese Monferrato,
ch'era Signor di tutti que' paesi,
a tutti fece onore smisurato.
E per condotto poi de' Melanesi
inverso Parma presero il cammino,
e trovar tutti quanti i passi presi.
Perocchè 'l Capitan Pallavicino
guardavagli con tremilia Tedeschi,
e colla forza ancor del Ghibellino.
Ma Conte di Monforte, e suo' Franceschi
passar sanza battaglia alla primiera,
tutti schierati, valorosi, e freschi.
Poichè passati furo in tal maniera,
si disse: E' son passati per danari,
bontà di Messer Buoso da Duera,
che fe sì, che non trassero a' ripari;
per la qual cosa il popol di Chermona
tutti que' da Duera fece pari,
e disertogli in avere, e 'n persona.
Pallavicin rimase addolorato,
dicendo: La mia gente m' abbandona;
e 'l Conte di Monforte in Parma entrato
fu onorato da quelli della Terra,
ed a sua posta poi prese commiato.
E quattrocento Guelfi ad una serra
bene a cavallo (della lor brigata
fu Capitano il Conte Guido Guerra
colla 'nsegna, che 'l Papa avea lor data,)
gli andaro incontro quasi ch' armeggiando
infino a Mantova a quella fiata.
E' Cavalier Franceschi riscontrando
tanta fiorita gente, e bene armati,
disson tra lor quasi maravigliando:
Questi non paion di terra cacciati;
ed ebber cara la lor compagnia,
e tutti quanti furon rincorati.
Ed essi li guidar per Lombardia,
e per la Marca, e pe 'l Ducato bello,
che di Toscana era tolta la via.
E non vi avea Città, nè Castello,
che parte Ghibellina non tenesse,
onde convenne far lor gran drappello.
E fu Dicembre, prima che giugnesse
la gente a Roma; e pare a me, che Cristo
mille dugensessantacinque avesse.
Allora Carlo appariscente, e visto
intese a voler prender la Corona
di Puglia, e di Cicilia, e farne acquisto.
E 'l Papa, ch' a Viterbo era in persona,
due Cardinali con piena balía
mandò, per fornir quel, che si ragiona.
E 'l giorno della Pasqua Pifania
di Puglia, e di Cicilia incoronato
fu Carlo, siccome si convenia.
E poichè come il Re fu consecrato,
incoronata fu come Reina
la donna sua, che gli sedeva allato.
E finita la festa, poi cammina
inverso Puglia con tutta sua gente,
per campagna da sera, e da mattina.
E cavalcando il Re Carlo possente,
dimolte Terre, Città, e Castella
della sua Signoria furon contente;
perchè veggendo tanta gente bella,
ciascun temea di non ricever danno,
e di non peggiorar la sua novella.
E prese le tenute sanza affanno,
Carlo, come Signor giusto, e saputo
non lasciò mai a' suoi far loro inganno,
ma ciò, ch'era promesso, era attenuto:
e quest'è la cagion, perchè da molti
fu volentier per Signor ricevuto.
Lascio i Franceschi, che con chiari volti
vanno acquistando sanza malificj,
e sono in ogni parte ben raccolti,
e vengonsi appressando a' lor nimici.
c. 14, argumento
Come il Re Carlo per suo ardimento
cavalcò tanto per dì, e per notte,
che 'l Re Manfredi giunse a Benevento,
e quivi lo sconfisse, e come morto
Manfredi fu dal detto Carlo accorto.
c. 14
O come si turbò Manfredi quando
sentì venuto Carlo tanto innanzi,
sanza periglio ogni passo passando!
Dicendo: A me par, ch'e' movesse dianzi
di Francia, ed emmi sì subito addosso,
che un uccello non credo, che l' avanzi.
E raddoppiò le guardie più di grosso,
a guardi fu al Ponte a Cepperano,
dove Carlo dovia passare il fosso.
Quel da Conserta, e 'l buon Conte Giordano,
e tutto il fior della sua Baronia
di Puglia mise a guardia in Sangermano,
confidandosi molto tuttavia
di queste due tenute forti, e magne
fornite ben, come si convenia.
Dall' una parte sonvi alte montagne,
e poi dintorno paduli, e marosi
sì, che di rado vedi le campagne.
Forniti i passi sì maravigliosi,
mandò a Carlo, per trattar di pace
Ambasciador discreti, e valorosi.
E dopo la proposta lor verace,
rispose Carlo: Ove non se ne vada,
nè patto, nè concordia non mi piace;
ma per forza convien, che colla spada,
od e' mi mandi in santo Paradiso,
od io lui cacci per piggiore strada.
E misesi in cammin con altro avviso
di Cepperano, e passò Fresolone,
che poco spazio era da lui diviso.
Conte Giordano a Cepperan Campione
s' armò, e volle il passo contastare,
e 'l Conte di Conserta Compagnone
disse: Egli è il meglio lasciarne passare
alquanti, e quegli avuti a salvamento,
potren degli altri a nostro senno fare.
Ed egli acconsentì al suo talento,
credendosi, ch'e' fosse in buona fede,
ned operar volesse a tradimento;
onde passaro a cavallo, ed a piede
tanti, che poi veggendoli passati,
Giordan far volle ciò, che si richiede.
E 'l Conte, che gli avea sicurati,
disse: Oggimai or chi li riterrebbe?
Non vedi tu, come sono avviati?
E quel, che molto del fatto gl' increbbe,
la Terra, e 'l Ponte in tutto ebbe lasciato,
dove tagliato per pezzi sarebbe.
Disse quell'altro: Or io son vendicato
del Re, che la mia donna m' avia tolta,
et ad un suo Castel se ne fu andato.
Passato Cepperan Carlo s' affolta,
ed ebbe Aquino, ed una forte Rocca
sanza contasto alcuno a questa volta.
E poichè presso a San German s' accocca,
le guardie se ne fer beffe di botto,
e questo dire a molti uscì di bocca:
Per lo miglior torna addietro Carlotto,
che San Germano il tuo podere apprezza
per questa volta men d' un bicchier rotto;
rendendosi sicur della Fortezza
là, dov'egli eran, che sanza speranza
d' acquisto aver, se ne potien vaghezza;
e perchè quivi avien grande abbondanza
di gente, e d' arme, e d'ogni guernimento,
che fa bisogno a così fatta danza;
e per disdegno nel cominciamento
mandaron fuori alquanti lor ragazzi
a badalucco con molto ardimento.
Onde i Franceschi, quasi con sollazzi,
de' lor mandar contra quegli avvisati,
che non men di lor furo arditi, e pazzi.
E poichè 'nsieme furon riscaldati,
que' de' Franceschi avanzar bene, e bello,
ed ebbergli in un punto rincalciati,
tantoch'entrar con lor nello sportello
e quel guardaron tanto, ch' al romore
si levò il campo, e corsono al Castello
con tanta voglia, e con tanto furore,
che ne fur molti morti sanza inganni;
ma pur l' entrata tenner di buon core.
Il Conte di Vandomo, e Messer Gianni,
e tutti i lor seguaci allora in quella
non curaron fatica, ned affanni;
ma molto in capo ognun portò la sella
del suo caval per guardia della testa
chi non avia targia, nè rotella.
La gente, ch'era dentro non fu presta
alla difesa, anzi era disarmata,
che non credien la subita tempesta;
e la notte dinanzi v'era stata
gran zuffa tra Cristiani, e Saracini,
onde la gente ancora era indegnata.
Valentremente i Guelfi Fiorentini
passarono dentro sforzati, e grossi,
ch' a molti di que' dentro dier confini.
Messere Stoldo Fiorentin de' Rossi
la Guelfa insegna pose insulle mura,
onde i Franceschi tutti si fur mossi.
Allor que' dentro fuggir per paura,
veggendo dentro i Franceschi sì forti,
e della Terra abbandonar la cura,
e molti di lor furo presi, e morti,
e rubata la Terra; e di Febbraio
Carlo passò con vettoria le porti,
e quivi riposando allegro, e gaio,
colla sua gente ordinava il viaggio,
che seguir dovia del popol primaio.
Quando Manfredi ebbe inteso il dannaggio,
che di sue Terre aveva ricevuto,
e i morti, e' presi del suo Baronaggio,
isbigottì, ma siccome saputo
nol dimostrò, ma per consiglio fino
degl' infrascritti Baron fu renduto,
Conte Giordano, e Conte Cafaggino,
Conte Bartolommeo di Valimento,
e 'l Conte Camarlingo a lor vicino,
che 'l meglio era ritrarsi a Benevento,
e la battaglia prendere, e lasciare
potevan poi a suo contentamento,
dicendo: Carlo in Puglia non può andare,
se non di quinci, e farem testa grossa,
e così fecer sanza dimorare.
Ma come Carlo seppe la sua mossa
fornì ben San Germano, e seguitollo,
non pe 'l cammino, ove Capova ha possa;
(perchè tu dei sapere, ed anch'io sollo,
la fortezza del Ponte, e la fiumana,
dove fiaccato forse avrebbe il collo:)
ma e' passò con gran fatica, ed ana
il fiume di Voltone, e Taliverno,
e la Montagna poi Beneventana
per cammini aspri più, che quel d' Inferno,
con gran disagio di pane, e di biada,
e di ciò, ch' alla gente dà governo.
E poi chinaron giù nella contrada
appiè di Benevento, si può dire,
benchè due miglia più oltre digrada.
Quando Manfredi di lungi apparire
vide il Re Carlo, e le persone lasse,
che per la fame eran presso al morire,
non pensandosi forse, ch' aspettasse,
uscì di fuor co' suoi incontanente,
per assalirlo innanzi, che posasse.
Ma mal partito prese certamente;
che se fosse indugiato un giorno, o due,
sanza colpo di spada era vincente,
perchè di Carlo, e delle genti sue
il dì dinanzi sanza biada, o strame,
cavoli, ed erbe lor vivanda fue;
sicch'eran tutti per cascar di fame,
ed a Manfredi, com' acqua per doccia,
tornava gente di tutto il Reame,
perchè Messer Currado di Antioccia
era in Abruzzi con molta famiglia,
e 'l Conte Federigo Franca-Broccia
era in Calavria, e 'l Conte Ventimiglia
era in Cicilia; con un piccol cenno
gli avrebbe avuti ad un batter di ciglia.
Ma cui Iddio vuol mal, si toglie il senno,
così addivenne a lui, al mio parere,
perchè d'ogni savere allor fu menno.
Uscì di fuori, ed ordinò tre schiere,
passato ch'ebbe Ponte di Calore,
com' udirai, se quì poni il pensiere.
La prima fu di Tedeschi, ch' amore
portava lor, e fur mille dugento,
buon Cavalieri, e di molto valore;
de' qua' fu Capo con grande ardimento
Conte Calvagno fra gli altri gagliardi,
e la seconda dello assembramento
di mille fu tra Toscani, e Lombardi,
e 'l buon Conte Giordan Caporal n' era;
e la terza più grossa, se ben guardi,
Pugliesi, e Saracin fur di Nocera
da mille quattrocento Cavalieri,
sanza i Pedon, che fasciavan la schiera,
ch'eran gran quantità di buoni Arcieri
dall' una parte, e poi dall'altro lato
erano i Palvesari, e' Balestrieri.
Nel mezzo di costoro era guardato
il Re Manfredi da tutto periglio,
ed e' guardava dintorno, e dallato.
E Carlo allor domandò suo Consiglio,
qual era meglio, o 'ndugiar la battaglia
nell'altro giorno, o di darvi di piglio.
Diss' un de' suoi Baroni: E' non s' aguaglia
a gente riposata gente stracca;
oggi posian, diman sia la visaglia.
Messer Gilio Brun, persona Franca,
disse: Lo 'ndugio è reo, ond' a me pare
meglio a combatter, poichè 'l mangiar manca.
Allora Carlo cominciò a gridare:
Alla battaglia ciascun sia pro lancia,
e cominciò le schiere ad ordinare.
L' una fur mille Cavalier di Francia,
de' qua' Messer Filippo, e 'l Mirapesce
fur Capitani a così fatta mancia.
E la seconda, ch' al campo riesce,
si furo i Cavalier della Reina,
a cui l' affanno niente rincresce,
e Provenzali, e gente Campagnina,
ed erano ottocento, se ben guardo;
e la 'nsegna Real gioconda, e fina
avea Messer Guiglielmo da Stendardo,
e 'n questa fu il Re Carlo, e 'l Conte Guido,
ch' alla battaglia parve leopardo.
La terza poi d'ottocento fu nido
di Cavalier Fiamminghi, e Bramanzoni,
ed Arnieri, e Piccardi col lor grido.
E sopra tutte queste imbandigioni
fur quattrocento di Firenze usciti,
ed altri Guelfi, siccome Baroni.
Molti prima, che fossero a' partiti,
fe Carlo Cavalier con molta gioia,
acciocchè fosser nello stormo arditi.
E 'l buon Messer Riccardo da Pistoia
avea la 'nsegna Guelfa loro in mano,
e 'ndugiar la battaglia gli era a noia.
E 'l Conte Guido Guerra Capitano
era de' Guelfi, ch'eran tanto begli,
che rilucean per tutto quel piano.
Disse Manfredi: che gente son quegli,
che veggio là delle schiere vicini,
e paion tanto adorni, e tanto snegli?
Diss' uno: E' sono i Guelfi Fiorentini;
ed e' rispose: Omè, dov'è l' aiuto,
che mi ritrovo quì de' Ghibellini?
Or veggio ben, ch'i' ho in tutto perduto
ogni servigio, ch'io ho fatto loro;
della qual cosa i' son molto pentuto.
Niente perderanno quì coloro,
perchè s'i' vinco, i' sarò loro amico
più, ch'i' non sono stato di costoro;
e se vincente sarà il mio nimico,
e paia a lui quel, che ne pare a me,
e' li meriterà più, ch'io non dico.
Ordinate le schiere de' due Re,
come dett'è, nel pian delle Grandella,
e ciascheduno a' suoi il nome diè.
Per lo Re Carlo Mongioia s' appella,
e da Manfredi fu per nome dato
Soavia a' suoi, come quì si novella.
Il Vescovo d' Alzurro era, Legato
del Padre Santo, con Carlo nell' oste,
ed assolvette i suoi d'ogni peccato.
E poi appresso sanza far più soste
sonar le trombe, e cominciar lo stormo,
le prime schiere, come quì son poste.
E li Tedeschi, siccom' io t' informo
fer sì ben, che' Franceschi rincularo
più, che non ha da Empoli a Pontormo.
E 'l Re Carlo co' suoi corse al riparo,
e la seconda schiera degli avversi
i lor Tedeschi di buon cuore attaro.
E dov'egli eran per esser sommersi,
ripinsero i Franceschi tanto addietro,
che furon quasi per esser dispersi.
Carlo veggendo romper come vetro
i suoi, gridò: Agli stocchi, agli stocchi,
date a' cavalli; onde mutaron metro.
E' Fiorentin, che sempre avevan gli occhi
addosso a Carlo, veggendol piegare,
alla riscossa non furono sciocchi.
Allor Manfredi prese a confortare
tutta la schiera sua con molto ingegno;
ma e' fu mal seguito, ciò mi pare.
Perocchè molti di Puglia, e del Regno,
e 'l Conte Camarlingo, e di Lacerta
legati insieme trassero ad un segno;
ed altri più col Conte di Conserta,
o per viltà, ovver per tradimento
lasciar Manfredi, ed e' fuggiro all' erta.
Ma egli, come Signor di buon talento,
volle morire in battaglia ad onore,
anzi che viver con vergogna, e stento.
E mettendosi l' elmo quel Signore,
l' aquila argentà, ch' avie per cimiero
cadde, onde prese sospetto, e dolore.
E nondimeno alla battaglia fiero
si mise sanza alcuna sopravvesta,
per non mostrarsi Re, ma sì scudiero.
L' ultima schiera di Carlo fu presta
alla battaglia, e fe sì, che i nemici
volser le spalle, ov'egli avien la testa.
Manfredi allor fu messo alle pendici,
e morto con molti altri suo' Campioni,
e li Franceschi rimaser felici.
E seguitarli con battuti sproni
a Benevento, e menaronne certi
gran Caporali, tra' qua' fur pregioni
Conte Giordano, e Messer Piero Uberti,
i quali incarcerar fece in Provenza,
e quivi fur della vita diserti.
La donna di Manfredi, e sua semenza,
cioè i figliuoli, e la sirocchia ancora
moriron tutti a simile sentenza.
Di tal matera non vo' più dir ora,
perch'i' son giunto al termine proposto,
ma 'l seguente Capitol ti ristora,
e caveratti d'ogni dubbio tosto.
c. 15, argumento
Siccome Don Arrigo per Sardigna
dello Re Carlo diventò nimico,
e come i Saracini acquistar tigna,
che da' Cristiani furono sconfitti,
e d' altri fatti, che non son quì scritti.
c. 15
Poichè 'l Re Carlo ebbe sconfitto, e morto
il Re Manfredi, più giorni di saldo
ne fe cercare, e per nullo era scorto;
e 'n fine il ricognobbe un suo ribaldo,
e poselo insull' asino a traverso,
e condusselo a Carlo allegro, e baldo.
Quand' egli il vide sì di color perso,
fe venire i pregioni a mano a mano,
e disse: È questi il vostro Re diverso?
Risposer sì: ma il suo Conte Giordano
si diè nel viso, e con grieve dolore,
gridò: Omè, omè, Signor sovrano.
E funne commendato, e poi di core
tutti pregaron quel Signor pregiato,
che gli facesse al soppellire onore.
Ed e' rispose: Egli è scomunicato,
e fecel sotterrare appiè d' un ponte,
siccome indegno d' essere in sagrato,
e fegli far di pietre addosso monte;
ma poi il Papa quindi il fe levare,
e presso al Fiume Verde gli diè fonte.
A' Cavalier di Carlo vo' tornare,
che furon tutti ricchi, e' gran vantaggi,
che ricevetter, non potrei contare;
cioè, di gran Contee, e Baronaggi,
che prima avie la gente di Manfredi,
e quasi acquistar tutti i Signoraggi.
Credo, Lettor, che coll'animo chiedi
sapere il quando fu questa battaglia:
or sappi, ch'ella fu, come quì vedi,
l' anno mille dugento, e poi ragguaglia
sessantacinque coll' ultimo giorno
del mese di Febbraio, se non ti abbaglia.
Ver Napoli n' andò il Signore adorno,
e nel Castel di Capova dimoro
alquanto tempo fe per suo soggiorno.
Quivi trovò tutto quanto il tesoro
del Re Manfredi, e fecelsi recare,
ch'era gran quantità d' argento, e d'oro,
sovra tappeti, e poscia fe chiamare
Messer Beltran del Balzo, e disse: Parti
questo tesor pe 'l modo, che ti pare.
E 'l Cavalier magnanimo tre parti
ne fe co' piedi, e disse di buon cuore,
come colui, che ben sapeva l' arti:
La prima parte sia di Monsignore,
l' altra della Reina, e' Cavalieri
abbian la terza, che ci han fatto onore.
E quel Signor, ch' avia magni pensieri,
Capova gli donò, e fecel Conte,
e 'l Cavalier l' accettò volentieri.
Poi seguitando le sue voglie pronte,
a Napoli n' andò, e' Terrazzani
lo ricevetter con allegra fronte.
Messer Beltramo allor mise le mani
a far lasciar tutti i prigion Pugliesi,
per acquistar l' amor de' Paesani.
E riebber lor beni, e loro arnesi,
Benchè n' avesse mal merito poi
da certi, che più innanzi fien palesi.
Regnando il Conte in Capova co' suoi,
gli spiacque l' abitar, siccome suole
tal volta fare a ciaschedun di noi,
e fe fare il Castel di Bilanciuole,
e pe 'l tesoro, che partito avia,
gli pose nome, come il caso vuole.
Regnando Carlo nella Signoria
di Puglia, e di Cicilia a suo dimino,
per ogni modo, che si convenia,
e Don Arrigo suo fratel cugino,
e secondo figliuol del Re di Spagna,
che 'n Tunisi era al soldo Paladino,
udendo risuonar la boce magna
di Carlo suo cugino, e 'l grande stato,
passò in Puglia colla sua compagna;
e dal Re Carlo fu bene accettato,
ed in suo luogo Sanator di Roma
subito fu eletto, e confermato.
Tutta Campagna, siccome si noma,
e 'l Patrimonio a sua guardia teneva,
e dopo questo gli pose altra soma;
che sentendo il Re Carlo, ch'egli aveva
di Tunisi recato molto avere
richiesel di prestanza, se 'l poteva.
E Don Arrigo per fargli piacere,
sessantamilia doble, e più d' assai
gli prestò, sanza alcun gaggio volere,
la qual pecunia non riebbe mai;
onde tra lor nacque scandalo, e briga,
come più innanzi aperto troverai.
E quel, che all' odio fe crescer la spiga,
si fu, che Don Arrigo procacciava
col Padre Santo, come quì si riga,
il Signoraggio, come allor s' usava,
di tutta quanta l' Isola Sardigna,
e Carlo ancor per se la domandava.
Veggendo il Papa discordia maligna,
che ne seguiva, non ne fece degno
nè l' un, nè l' altro, ma per se l' avvigna.
Onde poi Don Arrigo per disdegno
nemicò Carlo, e fu quasi ragione,
poch' a lui non bastava tutto il Regno.
E disse: Poich' è nata la cagione,
al cor di Dio, ch' o i' matterò lui,
od el matterà me di tal quistione.
Di Carlo lasceremo or, per la cui
vittoria Firenze ebbe mutamento,
e seguiremo alquanti fatti altrui.
L' anno sessantasei mille dugento,
de' Saracini più di cento milia,
con molta salmeria, e fornimento
passaron per lo stretto di Sibilia,
per acquistar la Spagna, e l' Araona,
e nella Giunta dier mala vigilia.
Il Re di Spagna vi corse in persona,
quel di Raona, e quel di Portogallo,
mostrando ognun poder di sua Corona,
con molti altri Cristian, che sanza fallo,
per la indulgenza di colpa, e di pena,
pareva a tutti quanti andare a ballo.
Fecer le schiere, e percosser di vena:
quivi perdèr molto sangue i Cristiani;
ma in fine i Saracin volser la schiena.
Sconfitti furo, e morti come cani,
e non ne campò un di quella gente,
che pervenisse alle Cristiane mani.
E nota quì, Lettore, e tieni a mente,
che siccome i Cristian fanno l' armata
per Terra Santa, e i Pagan similmente
fan per la Spagna, Raona, e Granata;
e ciaschedun veracemente crede
servire a Dio, come tu di tua andata.
D' uccidere un Cristian quella mercede
si crede aver, che si crede il Cristiano,
s' egli uccidesse lui per la sua fede.
perchè di lor mi par parlare invano,
basti quel tanto, ch'io n' ho ragionato,
ed in un' altra storia metto mano.
Quando il Re Carlo fu incoronato,
d' Arezzo Vescovo un degli Ubertini,
perchè nel Vescovado era oltraggiato
dal Vicar di Manfredi, e dagli Artini,
benchè Ghibellin fosse per natura,
diede agli usciti Guelfi Fiorentini
delle suo Terre la guardia, e la cura,
i qua' sentendo, che Carlo veniva,
fecero a' Ghibellin danno, e paura;
e come gente valorosa, e viva,
conquistaro in Valdarno Castel Nuovo,
che per Firenze allora si forniva:
onde, secondoch'io scritto truovo,
i Fiorentin v' andar subit' a oste,
ed assediarlo, come quì ti pruovo,
e combattevangli spesso le coste,
sicchè l' avrebbero avuto per certo,
durando la battaglia in poche soste,
sed e' non fosse il buon Messere Uberto
de' Pazzi di Valdarno, Spiovanato,
che n' era Caporal saputo, e sperto,
e nipote era del detto Prelato;
che avendo una sua lettera in suggello,
a terra tutto inter n' ebbe levato,
e fenne un' altra, e posevi su quello;
la qual dicea: Non temete niente,
ma fate buona guardia del Castello,
che soccorsi sarete incontanente
da ottocento Franceschi, ch' a corsa
mossi si sono, e fienci di presente.
Poi suggellata la si mise in borsa,
con altre lettere, e danari alquanti,
ed uscì fuor, siccome verro, od orsa,
come soleva tal volta, co' fanti
a badalucco, e la borsa schiantata
lasciò, dove gli parve, a se davanti.
Ed un, che la trovò, l' ebbe portata
al Capitano, e leggendo la scritta
pensò di subito far la levata.
La gente si partì quasi sconfitta,
perchè que' dentro uscir fuor bene armati,
e diero alla codazza gran trafitta.
Per la qual cosa tutti rubellati
si fur da' Ghibellin que' del Valdarno,
e' Guelfi si fur tutti rincorati.
I' non intendo, ch' abbia scritto indarno
chi prima scrisse; ma ogni sentenza
com' io la trovo, Lettor, la rincarno.
In questo tempo arrivò in Fiorenza
un Saracin, ch'ebbe nome Buzzeca,
che degli scacchi seppe ogni scienza.
Secondochè lo scritto innanzi reca,
con tre buon giucatori a tre scacchieri
giucò, e vinse i due, e 'l terzo imbieca;
forse, ch' altrove gli andaro i pensieri,
dappoich'ebbe del terzo giuoco tavola,
presente il Conte, ed altri Cavalieri.
Non so se si fu vero, o se fu favola;
ma maggior fatto a crederlo mi pare,
che se mio padre suscitasse, e l' avola.
Ma quando penso, ch'i' vidi sonare
cinque stormenti a un con mente sana,
e tutti quanti insieme concordare;
le nacchere, la tromba, e la campana,
con essi il cembalo, e mezzo cannone;
non mi par del giucar sì cosa strana.
Lascio di questo, e torno a far menzione,
che quando per Toscana fu palese
del Re Manfredi la distruzione,
tutti i Tedeschi, ch'eran nel paese,
e' Ghibellin cominciaro a 'nvilire,
e di valore a' Guelfi il cor s' accese;
ed in Firenze mandarono a dire
a certi, a cui piaceva il ragionare,
che Carlo in lor favor dovea venire.
Que' dentro cominciaro a mormorare
celatamente l' un coll'altro, e certi
in questo modo usavan di parlare.
Per le gravezze, omè, son questi i merti,
che noi abbiam, della morte, e del danno,
che' nostri ricevero a Monte Aperti?
E' par, che quante spese ci si fanno,
vadan pur sopra noi meno possenti;
ma queste cose non si sosterranno.
Sentendo questo molti de' Reggenti,
due Podestà da Bologna chiamaro,
amendue Frati, e Cavalier Godenti:
i qua' potieno, e dovien por riparo
ad ogni spesa, e con questo latino
andò la lezione, ch' accettaro.
L' uno era Guelfo, e l' altro Ghibellino,
e fu il Guelfo Messere Catalano,
e Messer Lodorigo l' Aquilino.
Vennero, e preser l' uficio sovrano,
e benchè fosser dell'animo varj,
fur d' un volere al guadagno di piano;
e miser i pensieri in far danari,
e stavan dirimpetto alla Badia,
nel Palagio, che fu de' Popolari;
e sott' ombra di falsa ipocrisia
chiamaron trentasei buon Cittadini,
uomini d' arte, e di mercatanzia,
al lor consiglio Guelfi, e Ghibellini;
e raunarsi nel nuovo Mercato
là, dove i Cavalcanti son vicini.
E ragionavan quivi il buono stato,
e po' co' Frati ad esecuzione
mettevan ciò, ch' avevano ordinato.
Frall'altre cose ordinar per ragione
le sette Arti maggior con Capitudine,
e ciascheduna ebbe suo gonfalone,
com' ancor hanno, e con sollecitudine
dovean trarre alla comun difesa
contra chi batter volesse la 'ncudine.
Per la cagion, che puoi aver compresa,
i Grandi tutti, come saper dei,
preser sospetto di sì fatta impresa,
parendo lor, che detti trentasei
fossero a lor più, ch' a' Guelfi contrarj:
e furon questi più, che gli altri rei,
Fifanti, Uberti, Lamberti, e Scolari,
e pensar metter la Terra a romore,
e dare a' trentasei tormenti amari.
Veggendo il Conte Guido tale errore,
e le novelle, ch' avea avute adesso,
come rimaso era Carlo Signore,
per la paura, ch'ebbe di se stesso,
tutti gli amici dintorno richiese,
come alla taglia ognuno avea promesso.
Ciò furon gli Aretini, e 'l Pistolese,
e con loro il Pratese, e 'l Volterrano,
Sangimignano, e 'l Pisano, e 'l Sanese.
E trovossi in Firenze il Capitano,
contando i Cavalier dell'amistade,
con mille cinquecento alla sua mano;
e volendo pagare sue masnade,
volie, che si facesse certa imposta;
di che que' trentasei ebber pietade.
Non fu pagato subito a sua posta;
onde i Lamberti, con molti Pedoni
usciron fuor, gridando sanza sosta:
Dove son questi trentasei ladroni?
Ed essendo a consiglio, incontanente,
sentendo ciò, tornaro a lor magioni.
Gli Artefici serrar subitamente
le lor botteghe, e 'l popolo fu armato,
e corse a Santa Trinita la gente.
E Messer Gianni Soldanier nomato
si fe Capo del popol, per montare;
ma non gli venne, come avia pensato.
La cosa andò, com' ella dovia andare,
perocchè noi pensiamo una nel core,
e Dio fa il suo piacere adoperare.
Ver' è, che 'l Cavalier mostrò valore
in difesa del popol, com' è detto,
disideroso d' acquistare onore.
E mosse a ciò coll'animo perfetto;
ma se mancata venne la speranza,
non si de' riputare in suo difetto,
perocchè pur mostrò la sua possanza.
Non posso più seguir questa novella,
che mi rompe la via l' ultima stanza.
Ferma l' orecchie, ch' or ne vien la bella.
c. 16, argumento
Come si dipartir sanza commiato
i Ghibellini, ed i Frati Godenti,
che tenean quì di Podestà lo stato,
e come tornar Guelfi, e Ghibellini,
e dier la Terra a Carlo i Fiorentini.
c. 16
Quando il Conte Novel vide gli affanni
della Città, colla Cavalleria
armata trasse appresso a San Giovanni.
A casa i Tornaquinci poi s' invia,
ed ischierarsi, per andare addosso
al popol, ch'era asserragliato pria.
Un Tedesco al Serraglio ebbe percosso;
trovo, che le balestra rispondieno,
e dalle Torri pioveva più di grosso.
Tornossi addietro, e disse tutto appieno
al Capitan quel, che gliene pareva,
onde per ira si rodeva il freno.
E poi veggendo, che non si poteva
niente con quel popolo acquistare,
volse le 'nsegne onde mosse l' aveva.
E 'nsulla piazza di San Pulinare
presso ai duo Podestà si fur fermati,
i quali 'ncominciarono a gridare:
Tornate a casa co' vostri soldati,
Messer lo Capitano, e non vi gravi,
e noi ordinerem, che fien pagati.
E 'l Conte chiese delle porti chiavi,
perchè temeva di se, e de' suoi,
al qual non bisognava, essendo savj.
Ed uscì fuor per la porta de' buoi,
e tenne a Santa Croce, dove tetto
non avia ancora, come saper puoi.
Passar per Pinti, e non sanza sospetto
inverso Prato presero il cammino,
e giunti là si posar con diletto.
E questo fu il dì di San Martino,
mille dugensessantasei correndo,
siccom' è detto, e come ancor dicrino.
E quivi il Conte, e gli altri provvedendo,
cognobber, ch'essi avien fatto follía,
della Città sanza commiato uscendo;
che già non fu lor fatta villania,
e preser per partito di tornare
il dì seguente, e fursi messi in via.
Mad e' non fur lasciati rientrare
per niun modo; onde volser le spalle,
veggendo cominciato a saettare.
Tornando a Prato, combattèr Capalle;
ma poco si curò della lor guerra,
che si difese, ed essi andaro a valle.
I Fiorentini riformar la Terra,
e, i Frati Podestà di fuor cacciati,
ad Orvieto mandar, se 'l dir non erra,
per Podestà, e Cavalieri armati;
e cento franchi Cavalier Tedeschi
furon di là a' Fiorentin mandati.
E 'l buon Messer Ormanno Moneldeschi
fu Podestà, ed anche un altro fue
di popol Podestà; non ti rincreschi,
perch' a quel tempo ce n' avesse due:
questi in pace trattar tra' Fiorentini,
ciascuno adoperò le bontà sue.
E 'l popol vago de' suoi Cittadini
tra lor criaron parentadi assai,
e rimaserci i Guelfi, e' Ghibellini.
Messer Forese Adimari, che quì hai
tolse la figlia del Conte Novello,
e Messer Bindo, siccom' udirai,
del sopraddetto Cavalier fratello
una degli Ubaldin tolse davante,
e con gran festa le diede l' anello.
E Guido poi di Messer Cavalcante
di Messer Farinata degli Uberti
genero fu, e di sua figlia amante.
Per questi parentadi, ed altri certi,
i Guelfi preson grande gelosia,
e dicevan tra lor: Noi sian diserti.
Poco durò però tal compagnia,
che rientrati i Guelfi a mano a mano,
mandaro a Carlo loro ambasceria,
per la sua gente, e per un Capitano.
E mandò il Conte Guido di Monforte,
con ottocento, ed e' ne fu Sovrano.
Sentendo i Ghibellin sì fatte sorte,
la notte, ch' è dinanzi al Resurresso,
sanza commiato uscir fuor delle porte;
e 'l Conte sopraddetto, ch'era presso,
la mattina di Pasqua ebbe ripiena
della suo gente la Città adesso.
De' Ghibellin fuggiron parte a Siena,
e parte a Pisa sanza alcun conforto,
nè mai del ritornar trovar la vena.
E nota, ch'era in tal dì stato morto
quel Messer Buondelmonte; donde Iddio
forse gl' indusse a sì malvagio porto.
I Guelfi Fiorentin con gran disio,
dieder Firenze al Re Carlo, e quegli
non la volea, secondo il parer mio.
Anzi rispose: I' vi vo' per frategli;
e' Guelfi: Noi voglian, che così sia;
onde il Re fece ciò, che vollon' egli:
e di Firenze prese signoria,
e suo Vicaro ogni anno ci mandava,
che nel governo tenea questa via:
che dodici buoni uomini chiamava,
ed e' metteva ad esecuzione
ciò, che per que' cotai si consigliava.
Poi ordinaron, non sanza cagione,
cent' altri Consiglieri, e Popolari,
sanza la cui diliberazione
non si poteva far caffo, nè pari,
che prima vinto non fosse tra loro,
nè cavar della Camera danari;
e benchè vinta fosse tra costoro,
le Capitudin delle maggiori Arti
anche facean simigliante lavoro.
Mettiesi poi, se più vo' ch'i' t' incarti,
tra que' della Credenza di presente,
ch'erano ottanta, e vinto in tutte parti,
si rimetteva l' altro dì seguente
a' due Consigli della Potestade,
di novant' uomini l' un veramente,
Grandi, e Popolani in unitade,
e Capitudini; e tal petizione
poich'era vinta in quella quantitade,
ancora si metteva per ragione
al general Consiglio di trecento
uomini d' arte, e d'ogni condizione.
I Castellani, ed ogni reggimento
ogni anno, come vedi quì davanti,
si riformava in tale ordinamento.
E Camarlinghi i Frati d' Ognessanti,
e que' di Settimo eran per sei mesi,
di sei in sei delli Comun contanti.
E così ogni anno di nuovo eran presi
uomini valorosi, e provveduti,
e di sì fatte cose bene attesi,
sopra a corregger tutti gli statuti,
ed eran poi pienamente servati,
com' eran fermi per gli più saputi.
In questi tempi i Ghibellin cacciati,
i Guelfi, che tornar, ebbon quistione
de' ben, che' Ghibellini avien lasciati.
Con Papa Urbano, e Carlo lor Campione,
di detti beni ordinar per sentenza,
di far tre parti, per fuggir tencione.
La prima fu del Comun di Firenza,
la seconda de' Guelfi fu per menda
del danno ricevuto alla partenza.
Poi della terza, fa', che tu m' intenda,
si fece il Ceppo della Guelfa Parte,
ch' è poi cresciuto per nuova vicenda.
E sormontando i Guelfi, con loro arte
fer, che di tutti i ben, che detti sono,
la Parte Guelfa ricevesse carte:
la quale incominciò, com' io ragiono,
ad avanzar per poter por mano
a rifrancare il loro stato buono.
Degli Ubaldin Cardinale Attaviano
disse, sentendo tal mobile fare:
I Ghibellin s' affaticano invano.
E 'l Papa, e Carlo appresso fer chiamare
tre Cavalier, ch' avessono i pensieri
di far la Parte crescere, e montare.
Consoli si chiamar de' Cavalieri,
tre di tre Sesti, Grandi, e Popolani,
e due mesi facean cota' mestieri.
Appresso si chiamaron Capitani,
i quali in Santa Maria sopra Porto
si ragunavan, per istar più sani;
perchè di Guelfi era verace porto,
ed era luogo molto comunale,
ad esservi ciascun presto, ed accorto.
Questi ordinar consiglio segretale
di quattordici Guelfi, e di sessanta
Grandi, e Popolan fu 'l generale.
Tra i detti Guelfi, che il Capitol canta,
si facean tutti Uficiali, e Rettori
di Parte Guelfa, onor di Chiesa Santa.
E fecer la lezion de' se' Priori,
tre Grandi, e tre Popolan, che di quello,
ch' avien d' entrata fosser guardatori.
E chiamaro un, che teneva il suggello,
ed un altro Uficiale accusatore
di ciascun Ghibellino di rappello.
La cassa degli uficj a tutte l' ore
tenieno i servi di Santa Maria;
e questo basti di cotal tenore.
Nel detto tempo tutta l' Erminía
fu guasta dal Soldan di Bambillonia:
la gente uccise, e l' aver portò via.
E secondochè 'l Libro testimonia,
i Saracini fer questo di Maggio,
ch' or de' Ghibellin per me si conia:
che credendosi far di lor vantaggio,
preser Santellero, e quivi afforzati
facevano a Firenze grande oltraggio.
E di Firenze due sesti mandati
vi furon, colla gente del Re Carlo,
che furono ottocento bene armati;
e intorno intorno subito assediarlo,
ed ebbon per battaglia il Castel forte,
che aveva secento uomini a guardarlo.
Poichè gittate in terra fur le porte,
i Guelfi passar dentro con furore,
ed alla maggior parte dier la morte.
Tra' quai rimase degli Uberti il fiore,
e poi degli Scolari, e de' Fifanti,
ed altri Ghibellin di gran valore,
e lor seguaci, di più ragion fanti.
Un degli Uberti, giovane gentile,
veggendo uccider gli altri a se davanti,
in terra si gittò del Campanile,
per non venire a' Buondelmonti a mano,
ch'eran nemici; ma fe come vile.
Con più consorti Tier da Volognano
ne fu menato preso, e 'ncarcerato,
dove il suo soprannome non fu vano;
che sempre il Volognan fu poi chiamato
quella pregion; e di sì fatta pressa
il Ghibellin fu molto dibassato,
e perdè allor Quaracchi, e Campi, e Gressa,
e molte delle Terre di Toscana
tornate a parte Guelfa, e cacciar d' essa
i Ghibellini, e la Città sovrana
fu Lucca, e poi Sangimignano, e Prato,
Pistoia, e Colle, e Terra Volterrana.
Co' Fiorentin ciascun si fu legato,
e 'l Maliscalco del Re Carlo fue
Capitan della Taglia allor chiamato.
E 'n parte Ghibellina campar due
frall'altre, Pisa, e la Città di Siena,
contra a Firenze, ed alle Terre sue.
Così Toscana, e Lombardia ripiena
di Guelfi fu, e questo ci dimostra,
vegnendo il mondo con sì poca lena,
che por dobbiamo in Dio la mente nostra,
perocchè 'l mondo sottosopra puote
volger più tosto, che quì non s' inchiostra.
Di Luglio l' anno delle cose note
andati i Fiorentin contra 'l Sanese
col Maliscalco, ed altre genti arrote,
il Ghibellin Poggibonizi prese,
onde sentendo il Maliscalco quello,
coll' oste in là di subito si stese;
ed isteccato per modo il Castello,
che uscir non ne poteva un de' rinchiusi,
sed e' non diventasse prima uccello,
la notte, e 'l giorno diventaron usi
di traboccarlo per sì fatto modo,
ch' a que' dentro pareva esser confusi.
Attanto venne, che io ancor ne godo,
il Re Carlo in Toscana per la Chiesa,
che 'mperador non era posto in sodo.
Giunse in Firenze, e la Cittade accesa
fu d' allegrezza, e molti armeggiadori
gli andaro incontro, non curando spesa;
e col carroccio, e con molti altri onori
tutto il popolo uscì fuor della Terra
danzando, grandi, e mezzani, e minori.
Era d' Agosto allor, se 'l dir non erra,
e molti Cavalier fe sanza fallo;
ma poi sentendo i fatti della guerra,
più ch' otto dì non gli piacque lo stallo,
che nell' oste voll' essere in persona
colla sua gente a piede, ed a cavallo.
E quattro mesi, come quì si sona,
istette il franco Re al detto assedio,
e giorno, e notte a suo poder lo sprona.
Non veggendo soccorso, nè rimedio
i Poggibonizesi, s' arrendero
a patti al Re, per non darti più tedio.
Fornì il Castel di ciò, che fe mestiero
l' alto Re Carlo, e con grande conforto
sovra i Pisani cavalcò di vero,
e conquistò più Terre, e guastò il Porto;
a priego de' Lucchesi di Febbraio,
n' andò a Mutron, che 'l tenea Pisa a torto;
del quale arebbe tardi avuto maio,
se non che fece viste (vo' che facci)
di far tagliar da piè col viso gaio,
e d' altronde recare i calcinacci
facea la notte, e por presso al cavato,
mostrando, che le mura a terra cacci.
Quando que' dentro l' ebbero avvisato,
disser la cava par giunta alle mura:
nè soccorso da Pisa c' è mandato.
Allora s' arrenderon per paura
allo Re Carlo, salvo le persone,
ed egli fe porre in parte sicura.
Quando color, ch' usciron di Mutrone,
vider gl' inganni alla cava palesi,
raddoppiò lor la grande afflizione.
E Carlo, e' Fiorentin come cortesi,
ed amici perfetti, la tenuta
di quel Castel donarono a' Lucchesi.
E lo Re Carlo la sua gente muta
di quel paese, e tornossi a Fiorenza,
con festa viemaggior, ch' alla venuta;
e mentrech'egli stette in lor presenza,
i Fiorentini in giostre, e in armeggiare
istavan sempre alla sua riverenza.
Ma perch'io non intendo di passare
l' ordine dato, e già son giunto al segno,
sì faren fine al presente parlare,
e brievemente a Curradin ne vegno.
c. 17, argumento
Siccome della Magna Curradino
passò in Puglia, e siccome il Re Carlo
colla sua gente gli si fe vicino:
e cominciar la battaglia aspra e dura,
come veder potrai per la scrittura.
c. 17
Regnando Carlo in Toscana Vicario,
Don Arrigo di Spagna suo Cugino,
e Sanatore, fatt' era suo avversario.
Onde il Sanese, e 'l Pisan Ghibellino,
e dimolti altri con lui fecer lega,
per metter Carlo, e Parte Guelfa al chino.
Ed ordinaron, come quì si piega,
che in Puglia, ed in Cicilia più Castella
si rubellaron, per metterlo in piega.
Nocera prima si fe sua ribella,
e parte della Terra di Lavoro
seguitò poi così fatta novella.
E in Calaura, e in Abruzzi tal lavoro
anche fer molti sanza alcuno schermo,
e di Cicilia, e del suo tenitoro
non campò Terra, che tenesse il fermo
in tutta quanta quell' Isola magna,
se non Messina, ed appresso Palermo.
E Don Arrigo rubellò Campagna,
e Roma, e tutto il paese dintorno,
e Pisani, e Sanesi, e lor Compagna.
Centomilia fiorin sanza soggiorno
mandaron nella Magna a Curradino,
perch' el venisse di sua gente adorno.
La madre, perch'egli era ancor fantino
insofficiente a così fatti affanni,
non volea, che si mettesse in cammino,
perocch' allor compieva i sedici anni;
ma niente il Garzon lasciò per lei,
nè riguardò a' suo' profitti, o danni:
ma con tal Baronia, ch'i' non potrei
raccontarla, si mosse suo persona,
e cavalcando, come pensar dei,
del mese di Febbra' giunse a Verona,
l' anno mille dugensessantasette,
con diecimila a caval, si ragiona.
De' qua' tremila più franchi prendette,
mancandogli danari, e mandò via
l' avanzo, e poco poi quivi ristette.
Che cavalcò da Verona a Pavia,
e poi per la Riviera Genovese
da Saona a Varagine s'invia.
E quivi entrò in mar sanza contese
con venticinque galee, che di botto
apparecchiate trovò nel paese.
Di Maggio mille dugensessantotto
arrivò a Pisa, e sua Cavalleria
venne per terra con salvocondotto.
Lasciamo star de' lor cammin la via:
giunsero in Pisa, e la festa fu grande
sì, ch' a 'mperador più non si faria.
Quando agli orecchi di Carlo si spande,
che Curradino in Talia era passato,
e le Castella sue da tutte bande
sentiva or l' uno, or l' altro rubellato
da' traditor, ch' avendogli in pregione,
aveva a tutti quanti perdonato,
e' ripensando sua tribolazione,
andonne in Puglia, e Vicaro in Toscana
Messer Guiglielmo fe da Barsalone.
Quel da Stendardo colla mente sana
Messer Guiglielmo rimase con lui,
con ottocento, di valor fontana.
Quando Papa Chimento udì d' altrui,
che Curradin contro a Carlo venía,
mandogli a dir per gli Messaggi sui:
ched e' faceva male, e villania,
venir contro al Campion di Santa Chiesa,
e comandogli, ch'e' s' andasse via.
E Curradin pur seguita la 'mpresa,
parendo a lui aver giusta cagione,
di Puglia, e di Cicilia far contesa.
E non curando scomunicazione,
andonne ad oste a Lucca, e dentro v'era
il Maliscalco di Carlo, Campione,
di Fiorentini, e d' altri Guelfi schiera,
e grande quantità di Crociati,
che mandò il Papa sotto sua bandiera.
Ed uscir fuori, e furonsi accampati
appetto a Curradino a Ponte Tetto,
partendo la Guisciana gli assembrati.
E stati già più giorni appetto appetto,
fu da ciascuno il combatter vietato,
e ritornarsi al nido con diletto.
Curradin da' Pisan prese commiato,
e cavalcò a Poggibonizi, dove
con gran disiderio era aspettato.
Perchè solieno aver l' animo altrove
i Terrazzani, ma per Curradino
si ribellaro, e fero insegne nuove.
Ed egli a Siena prese suo cammino,
e fugli fatto onore, e riverenza;
e quivi soggiornando a suo dimino,
e 'l Maliscalco di Carlo a Fiorenza
già venuto era, il dì di San Giovanni
verso Arezzo n' andò con sua potenza,
per contraddir con senno, e con inganni
l' andar di Curradino; e' Fiorentini
infino a Montevarchi con affanni
l' accompagnar, siccome amici fini:
e 'l Maliscalco fe quì del gagliardo,
e non gli volle più a se vicini.
Al Ponte a Valle quel da Lostendardo,
con trecento suoi franchi Cavalieri,
passò il Ponte con senno, e con riguardo.
E 'l Maliscalco non avea pensieri
di dubbio alcuno, e però sprovveduto
con cinquecento andava di leggieri.
Un degli Uberti malvagio, e saputo
avie riposto in guato molta gente
al Ponte a Valle, e poichè fu venuto
il Maliscalco, e que' subitamente
a lor percosser con tanto valore,
ched isconfitti furo incontanente.
Qua' fuggir verso la Città del Fiore,
qual verso Arezzo, e qual fuggì in disparte,
credendosi campar da tal furore.
Ma morti, e presi furon d'ogni parte
da nimici, e d' amici, abbi compreso,
e poi, secondochè dicon le carte,
il Maliscalco a Siena n' andò preso
a Curradin con molti altri Baroni:
onde fu molto di superbia acceso
con gli altri Ghibellini; e tre bottoni
non avieno i Franceschi a capitale:
questo a' dì ventisei di Giugno poni.
Al Re Carlo ne parve molto male,
quando sentì, che parte Guelfa china,
e così parte Ghibellina sale.
Era a oste a Nocera Saracina,
ed in quel tempo più Terre del Regno
si rubellar per cotal disciplina.
E Curradino di superbia pregno
n' andò a Roma, e ricevette onore
da' Romani più, che non era degno.
Appresso Don Arrigo Sanatore
mostrò di sua venuta più letizia,
che sed e' fusse stato Imperadore.
Posato Curradin con suo grandizia,
spogliò la Chiesa d'oro, e d' ariento,
per aver di danar maggior dovizia.
E ritrovossi in Roma assembramento
di Cavalier cinquemilia alle coste,
apparecchiati al suo comandamento.
Sentendo Curradin, che Carlo a oste
era a Nocera, e rubellate assai
delle suo Terre, tra' suoi fe proposte.
Non mi par da 'ndugiar più tempo omai;
intriamo in Puglia valorosamente,
che Carlo dove fu non torna mai.
Diè nelle trombe, e mosse con sua gente,
e Don Arrigo, e molta Baronia
il seguitò, e' Romani similmente;
e tanto cavalcar per aspra via,
che furon giunti a Santo Valentino,
che presso a Tagliacozzo par, che sia.
Quando il Re Carlo udì, che Curradino
in Puglia con suo gente era passato,
lasciò l' assedio, e misesi in cammino.
E poichè funne all' Aquila arrivato,
i Cittadin pregò umile, e piano,
che gli fosser leali in quello stato.
Rispose allor di subito un villano,
e disse: Carlo, l' amistade antica
non dubitar, che ora torni invano:
non perder tempo, non curar fatica,
cavalca a spron battuti, e non mostrare
di curar troppo la gente nemica.
Ond' el si mosse, e poi di cavalcare
mai non posò collo scuro, e col lume,
che' suoi nimici il vidono accampare
dove non tramezzava altro, che un fiume,
ed ordinò, che 'l buon Messere Alardo,
che sapea della guerra ogni costume,
guidasse l' oste, ed egli ebbe riguardo,
che Curradino aveva viepiù lance,
e come savio, discreto, e gagliardo
fece tre schiere, e a quel di Soance
Messer Arrigo la prima fu presta;
la qual prese, e con ardite guance
volle portar la Real sopravvesta,
mostrando d' esser ei Carlo in persona,
e 'l cimiero Real portava in testa.
E Provenzali, e Toscani, si ragiona,
Campagnini, e Lombardi sanza inganni
guidava questi in luogo di corona.
Di quella de' Franceschi Messer Gianni
di Crati fu Capitano, e coll' elmo
in testa li guidò non senza affanni.
La terza si guidò Messer Guiglielmo
dallo Stendardo; e con parole pronte
di questa storia volentier mi smelmo.
I Provenzali ebbero a guardia il Ponte,
ed el con Carlo, e con sua Baronia
in guato si ripose appiè d' un monte.
Sicch'erano ottocento in compagnia
di Carlo, come volle il buon guerriere,
per giucar co' nemici a maestria.
Appresso Curradin fece tre schiere,
Tedeschi l' una, e questa si convenne
piuttosto a lui, che ad altro Cavaliere;
e con lui fu il gran Duca d' Astenne,
e molti altri Baroni, di cui compagno,
e non Signore a sua vita si tenne.
La seconda guidò il Conte Calvagno
de' Talian, che siccome figliuoli
tutti gli amava più, ch' altro guadagno.
E Don Arrigo guidò gli Spagnuoli,
e tutti quanti standosi avvisati,
per dare altrui, e per ricever duoli.
E li Baron di Carlo rubellati
fittiziamente, per isbigottire
della battaglia Carlo, e suoi armati,
fecer davanti a Curradin venire
adorni molto falsi Ambasciadori
con chiavi in mano, e con sì fatto dire:
I nostri cari amici, e servidori
dell' Aquila v' han data Signoria
come di noi fedeli, ed amatori,
pregando voi, che della tirannia
di Carlo li caviate, che a freno
li tenne più, che non si convenia.
E Curradino, e gli altri suoi credieno,
che così fosse, e con grande allegrezza
già la vettoria in mano aver parieno.
Quando il Re Carlo sentì tale asprezza
isbigottì più per la vittuaglia,
che per aver perduto la Fortezza.
E mossesi la notte di gran vaglia,
e non ristette mai di cavalcare,
che all' Aquila ne fu, se Dio mi vaglia.
E poi le guardie prese a dimandare:
Per cui si tien la Terra? E fu risposto:
Per lo Re Carlo la vogliam guardare.
E Carlo all' oste sua ritornò tosto,
e per l' affanno, ch'egli avie portato
del cavalcare, a posar si fu posto.
E Curradino acconcio, ed ischierato,
credendosi co' suoi, che vero fosse
ciò, che dell' Aquila gli era contato,
colla sua gente subito si mosse,
e guadò il fiume il quale era abbassato,
ed assalì al Ponte le riscosse.
Sentendo Carlo, ch'egli era varcato,
co' suoi si fu riposto nel Vallone,
e gli altri trasser, com' era ordinato.
Già erano sconfitti per ragione
la schiera, che guidò Messer Arrigo
quel di Cosance, nobile Barone,
e credendo ciascun, come quì rigo,
che fosse il Re, per la vesta gioconda,
quivi fu morto, e però me ne sbrigo.
E rotta questa schiera, la seconda,
che guidò Messer Gianni, ebber percossa,
e siccome la prima andò alla tonda.
Messer Guiglielmo trasse alla riscossa,
e combattendo molto francamente
Curradin trasse colla schiera grossa;
onde Messer Guiglielmo, e la sua gente
non possendo durar dieder la volta,
sicchè sconfitti, e rotti fur presente.
La gente Curradina allor s' affolta
sopra a rubare, ed a legar pregioni,
sparti tutti, come gente stolta.
E lo Re Carlo, ed altri suo' Baroni,
che bene avevano al fatto riguardo,
dicevan: Diamo a' cava' degli sproni.
E 'l valoroso buon Messer Alardo
disse, veggendo a' nemici far balle
di loro arnesi: Ciascun sia gagliardo.
E stretti, stretti usciron della valle,
e Curradino avendogli per suoi,
non si partì, che gli furo alle spalle,
gridando: Tu se' morto, tu, e i tuoi;
e percossero a loro, onde storditi
fur tutti quanti, come pensar puoi.
E que' di Carlo, che s' eran fuggiti
riconoscendo la Reale insegna,
come lion diventarono arditi,
e strinsersi con lui per tal convegna,
che Curradin co' suoi in isconfitta
diede la volta, e di campar s'ingegna.
Con lui fuggendo, secondo la scritta,
Duca d' Astenne, e 'l Conte Gualferano,
Conte Calvagno, e tra costor si gitta
in fuga il Conte Gherardo Pisano,
e più altri Baroni, allo ver dire,
n' andar con lui fuggendo per lo piano.
Veggendo rotti i nimici fuggire
Messer Alardo, la sua gente sgrida,
che alcun di schiera non deggia partire.
Lasciatevi guidare a chi vi guida,
non gli seguite, che voi non sapete,
se altra gente d' intorno s' annida:
se piena la vittoria aver volete,
non vi partite. Ed e' fur contenti,
e 'nsieme stretti stavano a parete,
sonando sempre tutti gli stormenti,
e fu lor di bisogno così fare,
com' udirai per gli versi seguenti:
l' ordine preso non si vuol passare.
c. 18, argumento
Da Carlo Curradino a Tagliacozzo
fu sconfitto, ed a molti Baroni
con lui insieme fu tagliato il gozzo,
e i Sanesi sconfitti furo a Colle
da' Fiorentin, come fortuna volle.
c. 18
Se Carlo avesse la sua gente sparta,
perseguitando i fuggenti nemici,
egli era morto, e questo abbi per carta.
Che Don Arrigo, ch'era alle pendici,
seguendo que', ch' avia prima sconfitti,
al campo ritornò co' suoi felici;
e vide Carlo, e' suoi insieme fitti,
vide, che la suo parte era perdente,
poichè de' suoi non vide al campo ritti.
Ma nondimen, com' uon savio, e valente,
appetto a Carlo schierato si stava,
e di spronar ver lui era temente.
Messer Alardo a Carlo ragionava:
Follia sarebbe mettere a partito
il giuoco vinto; sicch' ognun posava.
Appresso disse ad un Barone ardito,
che con trenta compagni si partisse,
con atto di fuggire sbigottito.
E questo fe, perchè la schiera aprisse
di Don Arrigo, a seguitar costoro;
e quando vide ciò, agli altri disse:
Siate valentri, e percuotete a loro.
Non bisognò di dir quì più novelle,
e furon mossi senza alcun dimoro.
E questa fu delle battaglie belle;
ma gli Spagnuoli eran sì bene armati,
che non curavano i colpi cavelle.
Carlo gridò, che fossero abbracciati;
onde i Franceschi ognuno il suo avvinghia.
E così fur per forza, scavallati.
Diersi a fuggir, che non tenner più cinghia,
e' cavalli prendendo lor cammino,
quale annitrisce, e qual con gli altri ringhia;
Don Arrigo fuggì in Monte Casino.
Dicendo: Carlo è sconfitto; e l' Abate,
ch'era Signore, credette il suo latino.
Sentendo poi d' altrui la veritate,
con molti suo' Baroni il fe pigliare,
e mettere in pregione: or lo sacciate.
A Carlo omai mi convien tornare,
ch' è insul campo insino a notte scura.
Le trombe non ristetter di sonare,
per liberare i suoi d'ogni paura,
e per avere con gran giubileo
piena vettoria, gioconda, e sicura.
La vilia fu di San Bartolommeo,
mille dugensessantotto d' Agosto,
ch'e' disse a Curradin cotanto reo.
E lo Re Carlo fe quivi far tosto
per l' anime de' suoi, e per memoria
una Badia, e non guardò al costo.
Ciò fu Santa Maria della Vittoria;
e poi n' andò a Napoli contento:
or nota quel, che seguita la storia.
Il dì seguente poi Papa Chimento,
sermonando in Viterbo, che n' aveva
di spazio delle miglia più di cento,
lasciò il sermone, e gridando diceva:
Siate alle strade, che 'l nimico mio
è sconfitto, ed il sermonar taceva:
mostra, ch'e' fosse spirato da Dio.
Lasciamo star di questo, e ritorniamo
a Curradin, dov' io avia il disio:
che si fuggì, come noi ragioniamo
nelle piagge di Roma alla Marina,
con molti gran Baron, di ramo in ramo.
E quivi entrò in mare una mattina.
E credendo fuggir maggiori affanni,
diè nelle reti d' aspra disciprina;
che un da Roma, della Fragnapanni
era padrone, e menogliene presi
a Carlo con malizia, e con inganni.
E 'l Re Carlo gli diè, s'io ben compresi,
libera Signoria della Pilosa,
ch' è presso a Benevento a' suo' paesi,
e Curradino, e' suoi sanza più posa
di subito fe mettere in prigione,
e preso suo consiglio d'ogni cosa,
fece formare una inquisizione
incontro a Curradin con provvedenza,
e così contro ad ogni suo Barone;
e questo fu il tenor della sentenza:
che come traditor della Corona,
e contro a Santa Chiesa, e suo potenza,
ciaschedun fosse menato in persona
nella piazza notoria, e manifesta,
appresso dove il Carmino sermona.
E quivi a tutti fe tagliar la testa,
e Curradin fu il primo; che 'l legnaggio
di Soavia finì per tale inchiesta.
E 'l Duca di Starlich per tal viaggio
seguì, e poi il Conte Gualferano,
e poi Conte Calvagno ardito, e saggio.
E 'l Conte Donoratico Pisano,
Conte Bartolommeo, con due figliuoli,
ed a più altri di paese strano
fe dar la morte con diversi duoli,
come dett'è, in Napoli al Mercato
allato al fiume; e nota, se tu vuoli,
ch'e' non sofferse, che in luogo sagrato
fosse riposto alcun, ma nel sabbione,
avendo ognun per iscomunicato.
E Don Arrigo, ed alcun suo Barone,
che avia mandati presi quell' Abate,
che di Monte Casino era Campione,
come ne' patti fu, vo', che sacciate,
gli condannò in prigion perpetuale,
e 'n Puglia fur loro opere purgate.
Di Curradino al Papa parve male,
ch'e' fosse condannato per lo certo,
siccome traditore, e misleale.
E 'l fil del Conte di Fiandra Ruberto,
e genero del Re, quand' ebbe udita
dar la sentenza, ch'e' fosse diserto,
presente Carlo, diede una fedita
al giudice, dond' el trasse gran guai,
e subito passò di questa vita.
Disse Ruberto: I' non vo', che giammai
tu dia sentenzia più, pochè a torto
sì nobil sangue fatto spargere hai.
Turbossi Carlo, e po' prese conforto
della discrezione, e valentría,
che nel Genero vide a cotal porto.
Non ne fu più; quel fu portato via,
ebbesi il danno, e questi montò in pregio,
che di far quello, e più avea balía.
Dopo la morte di cotal Collegio,
e lo Re Carlo intese a racquistare
le Terre, che lui ebbero in dispregio.
Molte ne fur, che sanza domandare,
gli mandaron le chiavi, profferendo
ciò, che per lor si potea dire, o fare.
Egli accettava, e venne rifornendo
di buona guardia, e forte ciascheduna,
i traditori ad uno ad un punendo;
dicendo: Gran mercè alla fortuna,
che prosperato m' ha, se sì non fosse
l' aria serena, ciò sarebbe bruna.
E mandò suo' Baroni alle riscosse
dell' Isola in Cicilia coll' armata
di più galee, ed altre navi grosse;
la qual, secondo il Libro, fu guidata
da Messer Guido di Monforte Conte,
e dal fratel, Messer Filippo, ornata,
e da Messer Guglielmo di Belmonte,
e quel dello Stendardo; ed arrivaro
nell' Isola con molta ardita fronte,
nè Città, nè Castello ritrovaro,
che fosse per lo Re Carlo tenuto,
se non Messina, e Palermo suo caro.
Messer Currado, vocato Caputo,
e discendente dello 'mperadore,
di tutte l' altre era Signore issuto.
Quand' e' sentì, che con tanto valore
la gente, di cui egli era rubello,
era arrivata ov'egli era Signore,
si rifuggì in un forte Castello
chiamato Santo Orbe, ed assediato
fu da' Franceschi con forte drappello;
e poichè l' ebber per forza acquistato,
prima a Messer Currado gli occhi tratti
fur della testa, e poscia fu impiccato.
Così molti altri, ch' avien rotti i patti
allo Re Carlo, fur di grado in grado
delle persone diserti, e disfatti.
Non bisognò di più tastare il guado
quando per la Cicilia sì s'intese,
che mort' era il Signor Messer Currado;
ma ciascheduna Terra del paese
mandò le chiavi per quella fiata,
ed e' per lo Re Carlo tutto prese.
E poich'egli ebbe tutta racquistata
l' Isola di Cicilia, quel Campione,
e di nuovo ogni Terra riformata,
e lo Re Carlo con discrezione
meritò il Conte, che si convenia,
e poi di grado in grado ogni Barone.
A qual diè d' un paese signoria,
a qual d' un altro, e riposossi in pace
di tutto il Regno, con sua Baronia.
Di tal materia omai per me si tace,
ed a Firenze mia ritorno dove
ogni onoranza mi diletta, e piace.
L' anno mille dugensessantanove
Sanesi, ed altri vicini, e lontani
co' Fiorentin si misono alle prove;
ed un Messer Provenzan de' Salvani
di Siena, quasi com' un tirannello,
perocchè tutto andava per suo mani,
una con quel Conte Guido Novello,
ch'i' raccontai, con molti altri soldati,
che Siena aveva allora a suo pennello,
e colla forza de' Pisani armati
gli usciti di Firenze Ghibellini,
ed altri molti, ch'i' non ho contati,
passar di Giugno i Sanesi confini,
e fermar l' oste al bel Castel di Colle,
ch'era alla guardia allor de' Fiorentini.
E 'l Comun di Firenze non fu molle,
ma, come il franco Messer Gian Bertaldo
allor Vicario del Re Carlo volle,
si mosse di Firenze allegro, e baldo
sabato, avendo la novella avuta
il venerdì, nè mai ristette saldo.
E sentendo il Sanese sua venuta,
da Spugnole levossi volentieri,
ed in più franco luogo il campo muta.
Con mille quattrocento Cavalieri
v'era il Sanese, e con molti Pedoni,
in vista, ed in parole arditi, e fieri,
e Messer Gian Bertaldo Compagnoni
avie settecento uomini a cavallo
tra Franceschi, e Tedeschi, e Borgognoni,
e poco popol v'era sanza fallo.
Giugnendo si fermaro al fiumicello,
che dagli alberghi è chiar, come cristallo;
e 'l Capitan veggendo il tratto bello,
non aspettò la gente, che premea,
ma passò l' acqua, e tagliò il ponticello.
E domandaro, perchè ciò facea,
disse: Perchè niun possa fuggire,
ma contro agl' inimici ciascun dea.
Fece lì schiere, ed un gli prese a dire:
Ricordivi di quel, che Carlo saggio
a Napoli vi disse insul partire;
cioè, che sanza gran vostro vantaggio
non combatteste; ed or con poca gente
pensate a duo cotanti fare oltraggio?
Ed e' rispose: sed i' son vincente,
ogni buon patto arò con Monsignore,
nè mai ritorno a lui, s'i' son perdente.
O voi tremate! disse il servidore;
ed e': La carne misera ha paura,
ma tosto t' avvedrai, s'io ho buon cuore;
e con altissima boce, e sicura
gridò: Signor, quì non ha altro scampo,
che vincere i nimici per ventura.
Accomandossi a Dio, ed insul campo
percosse agl' inimici, e in poca dotta
diede alla prima schiera male 'nciampo.
Volendo gli altri percuotere, allotta
il franco Gian Bertaldo mise un grido:
Valentri Cavalier, la gente è rotta.
I Sanesi voltaro, e 'l Conte Guido
si fuggì via, e Messer Provenzano
rimase ivi prigion, ben te ne fido.
E 'l valoroso, e Guelfo Capitano,
acciocchè scriver non potesse in Francia,
gli fe tagliar la testa a mano a mano;
la qual fu fitta in punta d' una lancia,
portata intorno, e lo 'mbusto disteso
rimase in terra, e fu tenuto a ciancia.
Non mostra, ch'egli avesse ben compreso,
quando al Diavol domandò consiglio,
quel, ch'ei rispose di loica acceso.
E' 'l domandò, s' egli andava a periglio:
e 'l Diavol disse: Andrai, e vincerai
no; morrai in battaglia sotto il Giglio;
e dicoti, che tu sormonterai,
e fia la tua la più alta testa
di tutto il campo; e così troverai.
Quel, che seguì di lui, ciò manifesta;
e così fa chi lascia la diritta
per sì selvaggia via, come fu questa.
Or vi ritorno alla grande sconfitta,
che in quel giorno ebbe il Comun di Siena,
che forse mai non ebbe tal trafitta;
perocchè 'l campo, ed ogni fossa piena
era di que', ch' allora fur diserti,
forati chi nel capo, e chi in ischiena;
perchè de' Fiorentin dicevan certi,
quando mettevan loro al cor la punta:
Vattene a star con que' da Monte Aperti.
E se la popolaglia fosse giunta,
che da Firenze veniva a stagione,
la gente, che campò, era difunta.
Pognian, che pochi menati a prigione
ne fur pe' Fiorentin, quest'è palese,
e Monte Aperti ne fu la cagione:
e questo fu dell'anno detto, e mese,
a poco tempo poi concordia nacque
tra 'l Fiorentino, e 'l superbo Sanese,
e per tema di peggio a ciascun piacque;
ma puossi dir, ch'ella fosse la fine
di quella guerra, che del tutto tacque;
e cacciar certe case Ghibelline,
e rimisero i Guelfi lor partiti,
ch'eran di fuor per le Terre vicine.
Poi di Settembre i Fiorentini usciti
Ostina rubellaro, e 'ncontanente
v' andaro i Guelfi, e quegli sbigottiti
di notte se n' uscir segretamente;
ma nondimen però in quel baratto
ne furon presi, e morti una gran gente.
Preso il Castello i Guelfi al primo tratto,
rubar la roba, e 'nfino al fondamento,
prima che si partisser, fu disfatto.
Parmi, Lettor, che debbi esser contento,
che io non passi il termine composto,
di fare ogni Capitol versi cento;
e perch'i' vi son giunto, sì mi scosto.
c. 19, argumento
Di Lucca, d' Arno, e degli Uberti morti,
e come morto fu quel d' Inghilterra
presso all' Altar dal Conte di Monforte,
e come Papa Ghirigor fe pace
tra Guelfi, e Ghibellin, ma non verace.
c. 19
Tornata l' oste, insieme co' Lucchesi
in Valdiserchio andaro a Castiglione,
e de' Pisan guastaron più paesi.
Ebbero Asciano sanza gran tencione,
e battèr presso a Pisa la moneta,
e tornar sani, e salvi a lor magione.
Poi in Calen di Ottobre fu gran pieta
in Firenze, perocchè la gran piova
turbò la gente, ch'era tutta lieta.
Di questo ragionar poco mi giova,
perocchè l' Arno allagò la Cittade,
sicchè la pena altrui a me rinnuova.
Che d' uomini affogar gran quantitade,
perchè subitamente ogni callaia
ripiena fu di tale avversitade.
Quel degli Spini, e 'l Ponte alla Carraia
caddero, e poi si cessò tutta quanta
l' acqua, poich'ebbe rotta ogni pescaia.
Negli anni mille dugento settanta
il Neracozzo, e Messer Azzolino
degli Uberti, siccome il mio dir canta,
con Messer Bindo Grifon da Fegghino,
ed altri molti, faccendo partenza
da Siena, per andar nel Casentino,
tutti fur presi, e menati a Fiorenza,
poi fu scritto al Re Carlo, che scrivesse,
pochè gli avien costoro in lor potenza,
quel che volie, che di lor si facesse.
Carlo rispose sanza lunghe tele,
che a tutti il capo tagliar si dovesse.
Di Maggio andando il dì di San Michele
tutti a guastarsi, disse Neracozzo:
Dov' andian noi con atto sì crudele?
E Messer Azzolin con viso sozzo
rispose: Andiam ora a pagare i prezzi,
che' nostri padri ci lasciaro in gozzo.
E poi fu fatto di ciascun duo pezzi,
ed io per me ancora n' ho riprezzo,
perchè allevati fur con molti vezzi.
Di Giugno appresso andaro a Pian di mezzo
i Fiorentin, perch'era rubellato,
e poco tempo diede all' oste rezzo;
ch'el s' arrendéo, e per terra cacciato
fu con più altre Fortezze de' Pazzi.
E fatto questo, com' io t' ho contato,
a Poggibonizi andar con sollazzi,
ed avuto il Castello a mano a mano,
disfatto fu, che non ne campò sprazzi.
Per la superbia lor fur posti al piano
di borgo in borgo, e s' allor parve ciancia,
ed oggi par d'ogni Castel sovrano.
Nel dett' anno Luigi Re di Francia,
che co' frate' fu preso alla Monsura
da' Saracin, com' io dissi, per mancia,
siccome buon Cristian sanza paura,
si botò, se campasse, di tornare
sopra di loro, a provar sua ventura.
Tesoro, e gente fece raunare,
e con tre suoi figliuoli, giovan d' anni,
ne andò in Provenza, ed ivi entronne in mare;
ciò fu, Luigi, Filippo, e Giovanni,
e col Genero suo, Re di Navarra,
e più altri Inghilesi, ed Alamanni:
quindicimilia Cavalier per arra,
e dugento migliaia di Pedoni
si ritrovò, secondochè si narra.
E prese per miglior co' suo' Baroni
d' andare in Tunisi, e siccom' è scritto,
avviarono a Cartagine i timoni,
a 'ntenzione di passare in Egitto,
per impedir la gente di Granata,
e gli altri; ch'era lor cammin diritto.
Ed eran presso a men d' una giornata
a Tunisi, e giugnendo a quella Terra
sani, ed allegri, tutta quell'armata,
subito l' ebbon, per forza di guerra,
e poi volendo a Tunisi passare,
siccome piacque a Dio, che mai non erra,
si cominciò a corrompere, e turbare
l' aria per modo tra 'l popol Cristiano,
ch' ad uno ad un cominciaro a cascare.
Morì fra gli altri il Cardinal d' Albano,
e 'l Re Luigi, che innanzi alla morte
tale orazion fece al Signor sovrano.
O Salvatore etterno, fammi forte
a odiar sempre la prosperitade
di questo mondo, che fa le vie torte;
sich'io non tema alcuna avversitade,
ma sempre porti in pace di buon zelo
ogni tormento, ed ogni quantitade.
Poi levò gli occhi, e disse: O Re del Cielo,
il tuo popol Cristian fa forte tanto,
che quì non tema nè caldo, nè gelo;
e dona grazia a me, (disse con pianto)
se partir mi convien di questa vita,
ch'io venir possa nel tuo Regno santo.
E com' egli ebbe l' orazion finita,
morto prima Giovanni suo figliuolo,
e l' anima dal corpo fu partita.
Morir Conti, e Baron con simil duolo,
e dimolti altri; donde sgomentato,
e sbigottito fu tutto lo stuolo.
Filippo Re di Francia fu chiamato,
e lo Re Carlo, fratel di Luigi,
ch' avia per lui a sua vita mandato,
con molta gente giunse a ta' servigi:
trovò morto il fratel; ne fu dolente;
ma pur da canto pose le valigi,
e cominciò a racconciar la gente.
Lasciamo star, che molti Saracini
ebbero a petto, e non mento niente;
e pur passar di Tunisi i confini,
e con molti trabocchi, e manganelle
alla Città si fecero avicini,
e combatterla con ogni cavelle,
e 'l Re di Tunisi savio Signore
temendo della Terra, e della pelle,
trattò col Re Carlo di valore
di pace far con gl' infrascritti patti;
e Carlo fu contento pe 'l migliore.
E fu tra gli altri capitoli fatti,
che tutti quanti i Cristian, ch'eran presi,
subito fosser delle prigion tratti;
e che per tutti quanti que' paesi
potessero i Cristiani edificare
Chiese, e Spedali, e Munister palesi.
E i Fra' Minori, e gli altri predicare
la Vangelica legge, e chi volesse
seguir Gesù potesser battezzare.
E che Carlo le spese riavesse,
e dugento miglia' di doble d'oro
il Re di Tunisi ogni anno gli desse.
Per la mortalità, ch'era tra loro,
fatto l' accordo, i Cristian si partiro,
e poi entraro in mar sanza dimoro.
A Trapali arrivati in lungo giro,
come Iddio volle, venne una tempesta,
che una gran parte de' Cristian periro;
e tutti i loro arnesi sanza resta
andaron sotto, ch'eran di valuta
inistimabile, assai manifesta.
Dissesi, ch'era tal cosa avvenuta,
perch'e' s' eran partiti dalla 'mpresa,
per la pecunia, ch' avien ricevuta.
In quel tempo vacò la Santa Chiesa,
che morì il Papa: ed or ti fo ritorno
a quella gente di fortuna offesa.
Que', che camparo col Re Carlo adorno,
per la Cicilia in Puglia se n' andaro.
Pochè fatt' ebbero alquanto soggiorno,
di Puglia si partiro, ed arrivaro,
col Re Filippo, insieme col Re Carlo,
Arrigo, e Adoardo fratel caro;
alla Città di Viterbo, vi parlo,
dove la Corte era sanza Pastore;
ma i Cardinali v'eran per chiamarlo.
Qual volev' uno, e quale altro Signore,
e poi fu Papa Ghirigor chiamato,
ch'era Legato in Soría, e Maggiore,
e fu per lui subito mandato;
e siccome a Viterbo giunto fue,
con gran solennità fu coronato,
corrie mille dugensettantadue.
Lasciamo alquanto Papa Ghirigoro,
ch' ancor diren più dell' opere sue.
Faccendo allora in Viterbo dimoro
i sopraddetti Signori, addivenne
diversa cosa contra l' un di loro.
Ch' a baldanza di Carlo quivi venne
il suo Vicaro Guido di Monforte,
che Toscana per lui guardoe, e tenne.
E nella Chiesa, passate le porte,
trovò Arrigo fratel d' Adoardo,
e collo stocco gli diede la morte;
ned ebbe della Messa alcun riguardo;
ma celebrandosi il Corpo di Cristo,
ogni soccorso a questo mal fu tardo.
E così il fece per vendetta tristo
del padre suo, ciò fu il Conte Simone,
che in Inghilterra fe di morte acquisto.
Che hai tu fatto? (disse alcun Barone)
tuo padre fue istrascinato; e quegli
tornò addietro, e per quella cagione
quel Signor morto prese pe' capegli,
e strascinollo infin fuor della Chiesa,
dicendo: I' vo', che tu vada com' egli.
Tutta la Corte di cotale impresa
si fu turbata, e tenuta gran fallo
di Carlo, che sofferse tale offesa.
Ma il Conte era venuto in quello stallo
di gran vantaggio, e bene accompagnato
di buona gente a piede, ed a cavallo;
e sano, e salvo, sanz' altro commiato
si dipartì, ed andonne in Maremma
dal suocer suo Conte Rosso aspettato.
Quivi posò, come in anello gemma,
nè bisognogli quivi di temere
malinconia, nè collera, nè flemma.
Poi Adoardo, come dei sapere,
veggendo il suo fratello a tal sentenza,
appresso a se volle il suo cuore avere.
E dipartissi, e ne venne a Fiorenza,
avendo Carlo per mortal nimico,
e quivi alquanto fece risistenza,
e fe più Cavalieri, i quai non dico,
poi si partì, e tornò di presente
in Inghilterra, suo Reame antico.
Poi fecion fare onorevolemente
sopra 'l Ponte di Londra un colonnello,
come si richiedeva il convenente;
e 'n cima pose il cuor del suo fratello
in una coppa d'oro per memoria
degli Inghilesi, e dell' oltraggio fello.
Per simil modo, secondo la storia,
si partì il Re Filippo conturbato
della morte d' Arrigo sì notoria.
E 'l corpo del suo padre ebbe portato
in Francia, e pochè l' ebbe soppellito
a grande onore, ed e' fu coronato.
E nel dett' anno Banducar ardito
Soldan de' Saracin, che d' Erminía
avie messa gran parte a mal partito,
passò con suo esercito in Turchia,
e racquistolla, e con suo tradimento
i Tarteri, che v' eran cacciò via.
E lo Re d' Erminía presto, ed attento,
al Gran Signor de' Tarteri ricorse,
e chiese aiuto, ed e' ne fu contento.
L' anno seguente in tal modo il soccorse,
che tutta l' Erminía per forza prese,
e la Turchia, e non te 'l metto in forse.
E lo Re d' Erminía rendè il paese,
e la Turchia si tenne a' suo' confini:
pogniam, che poco tempo la difese;
che la si racquistaro i Saracini
a colpa de' Cristian: ma la vergogna
fu più de' Greci, perch'eran vicini.
L' anno seguente raccontar bisogna,
che 'l fil di Federigo Imperadore,
ch' avie nome Enzo, in pregione in Bologna
morì, e fugli fatto grande onore.
Di Federigo in lui, come quì vedi,
finì la schiatta, dice l' Autore.
Ver' è, ched un figliuol del Re Manfredi
avocolato nel Castel dell' Uovo
morì o prima, o poi, qual vuo' si credi.
Or mi convien seguitar, com' io truovo,
del detto Papa, che come fu fatto,
Concilio general criò di nuovo
a Lion sopra Rodano, e di fatto
elegger fe, siccom' io ti porgo,
a' Baron della Magna al primo tratto
Ridolfo, allor Conte di Luzinborgo,
Imperador, benchè fosse impotente,
ma valoroso più, ch'i' non ti scorgo;
che Starlicchi, e Soavia brievemente
conquistò tutta, e fecesi ubbidire
per forza, e per amore a tutta gente.
L' anno seguente il Papa volend' ire
al Concilio ordinato entrò in cammino
con più Signor, che non conta il mio dire.
Fuvi il Re Carlo, e Messer Baldovino
Imperador di quel Costantinopoli,
che nominato fu per Costantino.
Conti, e Baroni, e genti di più popoli
il seguitar, finchè giunse in Firenze,
che non gli parve entrare in Reginopoli.
E siccom' uom di grandi sofficienze,
Sindachi fe far Guelfi, e Ghibellini,
per far pacificar lor differenze.
Delle Castella, ch' avien tra' confini,
gli usciti dierono a Carlo le chiavi,
e stadichi dier essi, e' cittadini.
E 'l Padre Santo, e gli altri Signor savj
fer di legname far molti balconi
nel greto d' Arno, per istar soavi.
E que' Signor, con tutti lor Baroni
istettero in quel loco, e 'l Padre Santo
sopra la pace fe molti sermoni.
Quì raunato il popol tutto quanto,
i Sindachi di ciascheduna parte
fecer la pace con festa, e con canto,
baciati in bocca; e 'l Papa con molt' arte
scomunicò chi in ciò fosse fallace,
e furonne rogate molte carte.
Nel detto dì questo Papa verace
fondò la Chiesa di San Ghirigoro
appresso al Ponte, ove si fe la pace:
i Mozzi la fer far; che in casa loro
tornava il Papa quando questo fe,
nè fece altrove, che quivi dimoro.
L' anno mille dugensettantatrè
dì due di Luglio la pace fu fatta
tra' Guelfi, e' Ghibellini, come dett'è.
Poco durò; ma quì non se ne tratta.
So, ch'io ti lascio con bramosa voglia
di sapere, in che modo fu disfatta;
ma per non dir più lungo, ch'i' mi soglia,
rompo la storia, con intendimento
di liberarti tosto di tal doglia,
e 'l seguente Capitol fia l' unguento.
c. 20, argumento
Come mancò la pace, che fatt' era,
tra' Guelfi, e' Ghibellini, e che' Pisani
da noi furo sconfitti a Ponte ad Era;
e che 'l Papa sdegnò col Re di Francia
perchè il suo parentado tenne a ciancia.
c. 20
Volendo risanar la rotta storia,
dico, che' Mozzi, essendo mercatanti,
la detta Chiesa fer far per memoria
della pace, che fatta era davanti:
San Ghirigoro ebbe nome, per nome
del detto Papa con costumi santi.
Se della pace vuo' sapere il come
si ruppe, te 'l dirò, pochè t'è a grado;
ma prima ti vuo' dar d' un altro pome.
Lo 'mperadore stette in Vescovado,
e lo Re Carlo in casa i Frescobaldi,
nel giardin, che sì bel si vide rado.
Gli staggi Ghibellin, dell'aver caldi,
fur mandati in Maremma al Conte Rosso,
e' Guelfi nella Terra stetter saldi.
Levossi appresso una boce di grosso,
che 'l Vicaro del Re, co' Guelfi insieme,
a' Sindachi dovian dare addosso.
Quando il sentir, come colui che teme,
della Città fuggir segretamente,
nè rimase in Firenze di lor seme.
Della qual cosa fu molto dolente
il Padre Santo, e tennesi ingannato
da Carlo alquanto; donde immantinente
col Cardinal degli Ubaldini andato
ne fu in Mugello, lasciando intradetta
Firenze, che l' avia molto onorato.
Passato il caldo, colla gente detta
al Concilio n' andò, e come saggio
ordine diede a sì fatta ricetta,
incominciando nel Calen di Maggio,
e durò 'nfino a' quattro dì d' Agosto
mille dugensettantaquattro l' aggio.
E nel detto Concilio fu proposto,
che 'l Paglialoco Imperador de' Greci,
e 'l Patriarca, (ciascheduno scosto
da Santa Chiesa, perchè gli occhi bieci
avevan verso Iddio, e la lor fede
in molti casi non valea tre ceci;)
ch'e' promettevan ciò, che si richiede:
e 'l Papa gli assolvette di vantaggio;
ma poco stette lor promessa in piede.
Questo fe il Papa, per fare il passaggio,
e confermò al detto Paglialoco
Costantinopoli al suo signoraggio.
Onde al Re Carlo ciò non parve giuoco,
perocchè 'l sopraddetto Baldovino
doveva di ragion tener quel loco,
e sdegnò molto; ma men d' un lupino
vi diede il Papa, e confermò Ridolfo,
siccome Imperador verace, e fino.
Perchè mostrava d'ogni virtù golfo,
e promise venire, e poi non venne,
e trattò il Papa peggio, che micciolfo;
che la promessa fatta non attenne;
ch' avie promesso d' essere a Melano
a certo tempo, e nicistà il ritenne;
e 'l Papa l' avea fatto Capitano
general del passaggio, e premiato
l' aveva sì, che non veniva invano;
e non venendo, fu scomunicato,
perchè seguì suo imprese nella Magna,
disubbidendo chi l' avie chiamato;
e poi riconoscendo sua magagna,
chiese la perdonanza, e ricevuta,
privilegiò la Chiesa di Romagna,
e sempre poi per sua l' ha posseduta.
Ritorno al Padre Santo, che di vena
del passaggio seguì la voglia avuta;
e perdonando a tutti colpa, e pena,
per la Cristianità bandì la Croce,
come dett'è, colla Indulgenza piena;
e nel detto Concilio a piena voce
scomunicò gli usurai tutti quanti,
che 'n palese venissero a tal foce:
e vietò tutti i Frati Mendicanti,
salvi i Minori, e' Predicatori,
e dimolt' altre cose fe davanti.
Nel detto tempo fur cacciati fuori
Ghibellin di Bologna a mano, a mano.
I Ghibellin, che 'n Pisa eran maggiori,
Giudice d' Alboréa, ch'era Pisano,
con altri Guelfi cari cittadini,
cacciar di Pisa colla spada in mano.
E colla forza poi de' Fiorentini
Monte Topoli prese, e Sanmeniato,
di questa vita poi passò i confini.
E nel settantacinque poi cacciato
per parte Guelfa fu il Conte Ugolino,
col rimanente de' Guelfi d' allato.
E questi ancor col braccio Fiorentino
guastar Vico Pisano, e più Castella
di Pisa conquistaro in lor dimino.
Altra fiata presso tal novella,
insieme co' Lucchesi, e co' soldati
de' Fiorentini fer cosa più bella:
ch'essendo a Ascian di Pisa cavalcati,
i Ghibellini usciro alle difese,
e fur da' Guelfi sconfitti, e legati;
ed ebbero il Castel sanza contese,
e con vittoria a casa si tornaro,
e concederono Asciano al Lucchese.
Nel detto tempo i Bolognesi andaro
coll' oste sopra Forlì, e Faenza,
perchè a petto a lor si raunaro
gli usciti di Bologna, e di Firenza,
ed altri molti, e sconfisser costoro,
e questo basti di cotal sentenza.
Tornando appresso Papa Ghirigoro
dal Concilio ch' è detto, nel Contado
di Firenze arrivò sanza dimoro.
L' entrar nella Città non gli era a grado,
ch'era intradetta, per la pace rotta
de' Ghibellin, che non montò un dado.
Ma color, ch'ebbero a far la condotta,
dentro la Terra gli fecer la scorta,
e ricomunicò Firenze allotta.
E poi, com' egli uscì fuor della porta,
da capo come prima la 'ntradisse,
e ad Arezzo n' andò per la più corta.
Quivi ammalò, e convenne ch' uscisse
di questa vita, e per lo detto fatto
i Fiorentin fur lieti, ch'e' morisse.
E' Cardinal chiamaro al primo tratto
Papa Innocenzio quinto con gran suono,
qual fu di vita l' altr' anno disfatto.
Poi fu eletto Messer Ottobuono
da Genova, che non era men sano,
e trentanove dì vivette al tuono.
E poi eletto fu Papa Adriano,
ch' a pochi mesi poi gli tenne dietro;
e fu di Spagna eletto un buon Cristiano,
qual ebbe nome Messer Martin Pietro,
chiamato fu ventun Papa Giovanni,
e 'n capo d'otto mesi come vetro,
la vita sua si ruppe con affanni,
perch' una volta addosso gli cadette,
ch'era abitata prima per molti anni.
Corrie mille dugensettantasette;
vacò la Chiesa non senza cagione,
sicchè sanza Pastor sei mesi stette.
Or nota quì la vera visione,
che della morte del Papa davante
avvenne a uno in quel tempo, e stagione.
Berto Forzetti nostro mercatante
avia in costume levarsi dormendo,
e di nuova matera era parlante.
Quando il Papa morì, se ben comprendo,
era a Viterbo; il detto Berto in mare,
ch' andava in Acri, mercatar volendo:
la notte, che morì il Papa, mi pare,
dormendo Berto si levò per certo,
gridando: Omè, omè, che veggio fare?
Ed uno il domandò: Che vedi Berto?
Rispose: I' veggio un Grande far cadere
la Volta, ched il Papa tien coperto.
Poi disse: Ell' è caduta, al mio parere,
addosso al Papa, ed ha 'l disfatto, e morto;
e' suo' compagni n' avien gran piacere.
Ed un di loro a scrivere fu accorto
ciò, ch'egli avea detto, e 'l punto, e l' ora;
e poichè in Acri furon giunti al porto,
quivi posati per lunga dimora,
ed un Corrier con lettere fu giunto,
che raccontavan ciò, ch'i' v' ho dett' ora.
E chiaro si trovò, ched in quel punto,
che disse Berto, la volta era addosso
caduta al Papa, e avevalo difunto.
Ben' è, al mio parer, di pasta grosso,
chi non crede, che Dio ogni parola
possa far dire a quel, ch'ha volto il cosso.
Appresso Papa fu il terzo Niccola,
che Messer Gianni Guatan degli Orsini
tra' Cardinal chiamato fu in iscola.
Poco vivette, e come quì dicrini,
in piccol tempo quattro ne passaro,
come ciascun convien, ch' a terra chini.
Valse in Firenze allora, quest'è chiaro,
lo sta' del gran quindici soldi il meno,
e fu tenuto a quel tempo gran caro.
Mille dugensettantasei corrieno,
quando i Fiorentin, per non divisa
insieme co' Lucchesi, sanza freno
andaro a oste sopra quel di Pisa,
ciò fu al Ponte ad Era, e al Fosso Arnonico,
che fu per l' Arno chiamato in tal guisa,
e l' oste de' Pisan, come t' incronico,
stavano forti dentro agli steccati,
serrati più, che pietra nello 'ntonico.
Dall' una parte i Fiorentini armati
dier la battaglia, e combattendo forte,
dall'altra parte fur dentro passati,
gridando in boce: Alla morte, alla morte.
Quando i nimici li vidon venire,
non aspettaron più malvage sorte;
ma verso Pisa si diero a fuggire
in isconfitta, e' Guelfi seguitando,
e raddoppiando la forza, e l' ardire,
gli andavano uccidendo, e dirubando,
e seguitargli infin presso alle mura,
e poi fermaro il campo trionfando.
Que' dentro avendo di peggio paura,
fer pace, e feron le comandamenta
de' Fiorentini, e poi alla sicura
la parte Guelfa, ch'era fuori attenta,
rimiser dentro, e' prigion fur lasciati,
e tornò l' oste a Firenze contenta.
Mille dugensettantasei nomati,
que' della Torre, Signor di Melano,
furo sconfitti, e di Melan cacciati,
con tutti i Guelfi, ch'erano a lor mano;
e sappi, che 'l Casato della Torre
fu di poder sopr' ogni Taliano;
regnaro assai; poi cominciaro a porre
ragion dallato, e far del tirannesco,
ch' a ogni suo voler subito corre.
Era di lor Signor Messer Francesco,
quando sconfitti fur dal Monferrato,
com' io ti dissi, ed ora ti rinfresco;
per la qual cosa perderon lo stato:
e tornò l' Arcivescovo Visconti,
co' suoi, ch'era di fuor gran tempo stato:
bench' altri Capitan vi fosser pronti,
Messer Maffeo Visconti fu il primo,
che là signoreggiò il piano, e' monti.
L' anno seguente, come quì ti rimo,
il Re di Francia tutti i prestatori
fece pigliar, che non ne campò nimo,
perchè al Concilio il Pastor de' Pastori
avie vietati tutti gli usurari,
siccome sopraggravi peccatori.
Sotto quest' ombra, per aver danari
trattò con tutti que' de' suo' confini;
poi fero i presti più che prima cari.
Quarantamila lire Parigini
fecero il concio, e poi gli lasciò stare,
ma tristo a qual s' attaccavan a' crini.
Come dinanzi dissi, ciò mi pare,
Papa Niccola fu di Dio Vicario
fatto, perch'era di nobile affare.
Prima era buono, e poi fu il contrario
per aggrandire i suoi, e simonia
per lui si cominciò nel Santuario.
Magnanimo però fu tuttavia;
fe sette suo' parenti Cardinali,
e del guadagno a molti diè la via.
E fece fare i palazzi Reali,
e prese l' amistà con dolci note
del Re di Francia, e degli altri Reali.
Poi gli mandò a dir, che la Nipote
al suo Nipote volea dar, per gaggio
dell' amistà, con sofficiente dote.
E lo Re Carlo disse, come saggio,
perchè 'l suo calzamento sia vermiglio,
non si conviene il suo col mio legnaggio.
E pur del detto suo mi maraviglio:
non è retaggio, come 'l mio, il Papato,
sich'io non voglio imbastardire il Giglio.
Quando l' Ambasciador fu ritornato
al Papa, e detto ciò, che quì ti dico,
il Padre Santo fu molto adirato,
e 'n tutto abbandonò l' amore antico,
e 'n segreto, e 'n palese adoperare
s' ingegnò contro a lui, come nimico,
e fecegli il Sanato rifiutare,
ed il Vicariato dello 'mpero,
ch'egli avie della Chiesa nel vacare.
Ogni vergogna, ed ogni vitupero,
che gli poteva fare a tutte l' ore,
sempre il faceva per cotal mestiero.
E mandò per Ridolfo Imperadore,
come dicemmo; or mi convien seguire
di lui, lasciando del Papa il tenore.
Perchè lo Re di Buemma ubbidire
non volle, addosso gli andò con sua gente,
e que' co' suoi contr' a lui prese ardire,
e 'nsieme combatterono aspramente:
Re di Buemma fu morto, e sconfitto,
e preso il suo Reame incontanente;
e un figliuolo, ch' avia, di duolo afflitto,
veggendosi diserto, per discordia,
ch' avuta avia con quel Signor diritto,
gli fece domandar misericordia.
Lo 'mperador la sedia in un gran brago
fece portare, e quivi di concordia
a' piè gli si gittò quel Garzon vago
d' acquistar grazia, e chiesela con doglie,
stando ginocchion nel brutto lago.
Lo 'mperadore allor mutò sue voglie:
rizzar lo fece, e rendégli il Reame,
e la figliuola gli diede per moglie.
Ridolfo temer poi Signori, e Dame,
e Carlo fece con lui parentado
più per paura, che per altre brame;
e se di quà passato avesse guado,
veracemente, ch'egli era signore
sanza contasto d'ogni Vescovado.
E nel dugentottanta Ambasciadore
mandò a Firenze il Vescovo di Trievi,
e tutti i Fiorentin n' ebber timore:
lo 'mperador non venne, e campar lievi.
c. 21, argumento
Del tradimento, che fe di Cicilia,
com' hai inteso, Messer Gian di Procita,
che fe morir Franceschi diecimilia,
e tutta rubellossi dal Re Carlo,
salvo Messina, e pur le toccò il tarlo.
c. 21
Cristo Figliuol di Dio Padre Divino
avie mille dugensettantanove
anni, secondo l' uso Fiorentino,
quando il Re Carlo con veraci pruove
era il maggior Signor, che tra' Cristiani
fosse, per grazia del superno Giove.
Lo 'mperador Baldovin de' Sovrani
Costantinopoli aveva perduto,
e 'l Paglialoco, e' Greci con lor mani
gliel' avian tolto, ed egli era venuto
a richiamarsi a Carlo, come Genero,
ch'egli era a lui, ed era del dovuto.
E Carlo, ch'era di lui molto tenero,
per rifrancarlo ordinò grand' armata,
soldando legni infino a Porto Venero.
Di dugento galee fe raunata,
e venti navi, con dugento uscieri
da portar Cavalieri ogni fiata,
e dimolti altri legni passeggieri;
e colla Chiesa, ed ogni Baronaggio,
con più di diecimila Cavalieri
s' apparecchiò di far cotal passaggio
l' anno seguente, e fatto gli venía
sanza contasto, e sanza alcuno oltraggio;
perocchè 'l Paglialoco non avía
gente da riparare a tal disio,
e 'l suo paese mancando venía.
Avvenne appresso, come piacque a Dio,
che, per battere la Francesca gente,
monta sì in superbia in atto rio,
che ogni altro quasi avevan per niente,
e spezialmente il Ciciliano;
della qual cosa sdegnò fortemente,
che Messer Gian di Procita villano
della dett' Isola quasi il maggiore,
e sottoposto al Re Carlo Sovrano,
con suo senno, ed industria, nel core
si pose di sturbar la detta impresa,
e d' abbassar la forza al suo Signore;
e venne fatta in parte la suo impresa.
Andò segretamente al Paglialoco,
e narrogli l' offese, e la difesa,
dicendo: I' credo far sì fatto giuoco
allo Re Carlo, se tu vorrai spendere,
che di passar di quà curerà poco.
Ed e' rispose: Al tutto voglio attendere
al tuo consiglio, e spesa non curare,
purchè ci sia il modo del difendere.
Ed a suo senno appresso gli fe fare
nella Cicilia a costui, ed a colui
lettere, com' e' le seppe dettare;
e per Ambasciador mandò con lui
un suo Nipote, con molti gioielli,
e gran pecunia, per donare altrui.
E Messer Gianni il menò a tutti quelli
Gran Ciciliani, che sapea per certo,
ch'eran di Carlo nimici, e rubelli;
ed a loro il trattato ebbe scoperto,
prima a Messer Alamo Gran Barone,
ed a Messer Palmieri, Abate esperto,
poi a Messer Gualtier da Castiglione,
ed a molti altri, come si ragiona,
e ciascuno gli diè buona intenzione.
E Messer Gianni fece, che 'n persona
ciascuno scrisse di sua propria mano
in cotal tenore al Re di Raona:
Come a Signor vi ci raccomandiamo,
che di concordia già v' abbiamo eletto,
e sovra ogni altro Signor vi tegnamo,
che ci caviate di tanto dispetto
di tanta fedeltade, quant'è quella,
dove noi siamo straziati a diletto.
Compreso ch'ebbe il Re cotal novella,
e Messer Gianni se ne venne a Roma,
siccome Frate, e col Papa favella;
e del trattato scoperse la chioma,
dicendo ciò, ch'egli aveva ordinato,
e 'l Papa volle parte di tal soma.
E chiar si disse, che per suo trattato
il Paglialoco contro a Carlo mosse,
perchè con lui non s' era imparentato.
Siccome addietro con parole grosse
ti dissi, come il Papa il minacciava,
e 'n segreto, e 'n palese lo percosse.
Danar nè gente a Carlo non mandava,
come gli avie promesso; onde 'l passare
nell'anno poi seguente s' indugiava.
E 'l detto Messer Gianni fece fare
lettere al Papa al Re Pier, che Cicilia
venisse tostamente a conquistare.
Po' come quel ch' a uccel s' aomilia,
del cavalcar, per fornir la bisogna,
men di due miglia apprezza le domilia.
Partito quinci andò in Catalogna
al Re di Raona, e ciò fu l' anno
mille dugento ottanta, si sampogna.
Giunse al Re Piero, dopo molto affanno,
e disse: A voi mi manda il Padre Santo,
e quel ch'e' vuol, le lettere il diranno.
Poichè gliel' ebbe date, e 'l Re daccanto
vide le gran proferte, che facea
il Papa, e 'l Paglialoco, tutto quanto
ciò, che per que' Baron si promettea;
di rubellar la Cicilia da Carlo,
che in quel tempo per lui si tenea,
e come Pier giugnesse, d' accettarlo
per lor Signore; e 'l Papa ancor propose,
di quel Reame al tutto incoronarlo.
Onde vedute tutte queste cose,
il Re promise di portar gli affanni
di tale impresa, ed in segreto il pose.
E rimanendo addietro Messer Gianni,
e gli altri Ambasciadori a ordinare,
ed a seguire i ragionati inganni,
pecunia, e gente fare apparecchiare,
com' era di bisogno a tale scuola,
chente tra loro era ordita di fare.
Attanto si morì Papa Niccola
in Viterbo, d' Agosto; e questo fatto
alquanto stemperò la sua viuola,
e, siccome io ti dissi innanzi tratto,
Carlo fu molto lieto di suo morte,
non che il trattar sentisse in niun atto;
ma sol perch'egli il nimicava forte,
che rifiutato l' avia per parente,
com' hai compreso per le rime accorte.
Trovandosi in Toscana allor presente,
quando morì il detto Papa a Viterbo,
ed e' vi cavalcò subitamente.
Per procacciar con danari, e con verbo,
che Papa fosse, che gli fosse amico,
non come l' altro gli era stato acerbo.
Trovò tra' Cardinal più, ch'io non dico,
discordia, e setta, e gran divisione,
che chi 'l volea novello, e chi antico.
Gli Orsin volevan, che la lezione
si facesse a lor modo, e gli altri accesi
eran con Carlo d' una intenzione.
Non trovando concordia, i Viterbesi
Messer Matteo, Messer Giordano Orsino
ne trasser fuori, e tennergli sospesi
tanto, che eletto fu Papa Martino
di Francia, il qual Messer Simon del Torso
Cardinal fu chiamato per latino.
Questi di Carlo fu grande soccorso;
scomunicò il Paglialoco, e' Greci,
ch' a Santa Chiesa avien dato di morso.
Pognan, che ne curar men di tre ceci,
e dispregiar la scomunicazione,
siccome que', ch'eran di fede bieci.
Questi fu Papa con discrezione,
e la suo Signoria fu molto magna,
pognan, ch'e' fosse basso di nazione;
e fece allora Conte di Romagna
Messer Gian Depa, e privò degli Orsini
Messer Bertoldo, e tutta sua compagna.
Questi non volle i Parenti a vicini;
regnò tre anni con due mesi, e meno,
e poi la morte pur gli giunse a' crini.
E quegli Orsin, che' Viterbiesi avieno
di Concestor con vergogna cacciati,
ancora pregni d' ira, e di veleno,
a loro spese a oste furo andati
sopra Viterbo, e consumaro invano
molti fiorin, ch' avien male acquistati.
E vo', che sappi, che si fece a mano
del detto Papa quel Palazzo forte,
che di Monte Fiasconi è 'l più sovrano.
Lasciamo star Santa Chiesa, e la Corte;
ch' a Messer Gian di Porcita tornare
mi stringon le parole, ch'i' t' ho porte.
Milledugento ottantun anno, pare,
che correa, quando con gli Ambasciadori
di Paglialoco ritornò a formare
il suo trattato, ed a molti Signori
della Cicilia lettere gli porse,
come di lui si tenien servidori:
e di pecunia gli empieron le borse,
acciocchè poi non potesse nascondere
quel, che promesso avea sanza forse.
Ma nondimen penò molto a rispondere,
perchè Martin succedette a Niccola;
con Carlo insieme il potevan confondere.
Ma la 'ndottiva, e dottrinale scuola
di Messer Gian di Porcita per mancia
gli fece raffermare ogni parola,
dicendo: Que' della Casa di Francia
t' ucciser l' avol tuo, e Carlo poi
lo Re Manfredi, (e non lo avere a ciancia)
e Curradin, con molti altri de' suoi;
e per ragion di Madonna Gostanza
succede la Cicilia tutta a voi.
E Pier, considerata ogni sustanza,
e la pecunia, che gli avie mandata
il Paglialoco, ch'era in abbondanza,
con saramento ebbe confermata
la suo promessa, presente coloro,
che allor gli avevan fatto l' ambasciata.
Poi comandò a lor sanza dimoro,
che 'l tenesser sagreto, e compimento
ordinasson di dare a tal lavoro.
E poich'egli ebbe fatto il saramento,
e ricevuto, siccome detto ée,
trentamill' once d'oro a suo talento,
fe di presente apparecchiar galee,
e dimolti altri legni armati, e fini;
e niuno sa, dove passar si dee.
Ma diè la boce sopra i Saracini,
soldando Marinaj, e Cavalieri
quanti poteva lontani, e vicini.
Sentendo il Re di Francia suo' mistieri,
allo Re Piero mandò profferendo
gente, e pecunia, e molto volentieri
appresso a questo gli mandò dicendo,
che gli scrivesse dove, e 'n qua' paesi
andar voleva. E Pier, questo tacendo,
quarantamila lire di tornesi
gli domandò; e 'l Re Filippo adesso
alla suo Corte li mandò palesi;
e poi considerato scrisse appresso
allo Re Carlo, il quale era suo zio,
ciò, ch'el sentiva di cotal processo:
questi rauna molta gente, ed io
perchè non so, perchè da me si guarda;
sicchè procura tue Terre per Dio.
E lo Re Carlo allora niente tarda,
subitamente gío al Padre Santo,
ed innarrogli ciò, che quì s' imbarda.
Maravigliossi il Papa allora alquanto,
e scrisse allo Re Piero: I' ho saputo,
che contro a' Saracin t' hai dato vanto:
e quest'è quel, ch'i' ho sempre voluto,
mad iscrivimi dove, ed in che parte
andare intendi, ed io ti darò aiuto.
Disse il Re Pier, che giucava con arte:
Se la mia destra alla sinistra mano
dicesse quel, che volete per carte,
i' la mi taglierei a mano, a mano;
però nol dico, ma io vi ringrazio
della proferta, Signor mio Sovrano.
E 'l Padre Santo, poichè non fu sazio
di saper quel, di che avea appetito,
riscrisse allo Re Pier sanza più spazio,
e comandogli, ch'e' non fosse ardito,
che contro alcun Cristiano e' guerreggiasse.
Ed el ne rise; e poichè l' ebbe udito
Carlo, di ciò non parve, che curasse;
ma quando è detto: Tu non hai il naso,
si converrebbe, che l' uom si cercasse
sì, che poi non venisse piggior caso.
E Carlo non provvide al tradimento,
del quale era in Cicilia pieno il vaso.
Ma chi da Dio è giudicato attento
è chi procede all' esecuzione,
e dopo il fatto non val pentimento.
Milledugento ottantadue, si pone,
Venerdì santo, e cotanti eran gli anni,
quando della Cicilia ogni Barone,
come ordinato avia Messer Gianni,
andarono a Palermo, per pasquare,
e dare effetto a' sopraddetti inganni.
Fuor di Palermo andando a festeggiare
a Monreal, che v'è presso a tre miglia,
uomini, e donne di nobile affare,
ed un Francesco ad una bella figlia
volle far villania; al cui romore
il popol corse con irate ciglia
contro a' Franceschi con sì gran furore,
che d'ogni parte molti ne fur morti;
ma i Palermesi n' ebbero il peggiore,
e inverso la Città corsono accorti,
e prendèr l' arme, e tornaro alle mani
con que', che prima più di lor fur forti.
E seguitati fur da' Ciciliani,
gridando in Piazza: Muoiano i Franceschi;
com' ordinato era co' Terrazzani;
e colle spade in man furon maneschi,
non riguardando Signor, nè Scudiere,
e corsero al Castello arditi, e freschi,
e quello ebber di botto; e 'l Giustiziere,
che v'era per lo Re, fu preso, e morto,
e poi degli altri fer simil mistiere.
Ed ogni Cicilian fu poi accorto,
a cavalcare inverso la sua Terra,
e fecer peggio, che quì non t' ho porto.
Per tutta la Cicilia fu tal guerra,
e tutti rubellar, fuorchè Messina,
che alquanti dì sostenne cotal serra.
Poi quando sepper della medicina,
ch' adoperata avien que' di Palermo,
si rubellar, seguendo lor dottrina.
E vo', Lettor, che abbi per lo fermo,
che quattromila, e più quella fiata
fur di Franceschi morti sanza schermo.
Così fu la Cicilia rubellata
dal Re Carlo, per malizia, ed ingegno
di Messer Gianni, e d' altra sua brigata.
Ma perchè valicar non voglio il segno
di cento versi, ch' è l' ordine mio,
acciocchè tu non ne prendessi sdegno
dall' icchesi mi parto, e vengo al fio.
c. 22, argumento
Come il Re Carlo andò sopra Messina,
pot' ella avere a patti, e non la volle,
e poi se ne pentè sera, e mattina,
perocch'egli era poco dilungato,
quando le mura cadder dall' un lato.
c. 22
Idoneo amico sì certamente
l' Arcivescovo fu di Monreale,
che del misfatto scrisse il convenente
al Padre Santo, ed a Carlo Reale,
ched in quel tempo era con lui in Corte,
ed a ciascun ne parve molto male.
Sentendo Carlo sì malvage sorte,
alzò le ciglia, e disse: Ah Sire Iddio,
pochè fortuna mi minaccia forte,
deh fa pitetti passi al calar mio,
sicch'io al fondo in un punto non cali,
come dimostra lo principio rio.
E poi richiese il Papa, e' Cardinali
del braccio della Chiesa, e fu risposto,
che volentier, con tutti i lor segnali.
Ad un Legato subito fu imposto,
che n' andasse con lui, per concordare
i Ciciliani; ed esso molto tosto
con Carlo insieme prese a cavalcare,
che n' andò in Puglia, e con piatose note
richiese l' amistà, per acquistare.
E prima il Re di Francia suo nipote,
e 'l suo figliuolo, e Prenze di Salerno,
e 'l Conte Artese, perchè molto puote,
ciascun si mosse, come quì discerno.
Furon col Re di Francia, e quel d' Artese
molto si dolse di cotal governo.
I' temo, il Re disse tutto palese,
ch' a petizion del Re di Raona
fatte non sieno a Carlo tali offese:
ma non poss'io giammai portar Corona,
s'i' non ne fo chiarissima vendetta,
se ci arà colpa, come si ragiona.
Ed appresso mandò con molta fretta
col detto Conte gran Cavalleria
in aiuto di Carlo, che l' aspetta.
Sentendo i Cicilian la Baronia,
che Carlo apparecchiava contro a loro,
mandaro al Papa loro ambasceria.
La qual dinanzi a lui in Concestoro
disse: Agnus Dei qui tollis peccata,
miserere di noi sanza dimoro.
Rispose il Padre Santo all'ambasciata:
Iddio ti salvi, dicieno i Giudei,
dando nel viso a Cristo la gotata.
I Messi ritornar, dicendo: Omei!
che 'l Padre Santo non ci vuole udire,
ed ha ragion, che troppo fummo rei.
Il Comun di Firenze, per servire
al Re Carlo mandò di sua gente
cinquanta Cavalier, sanza fallire,
tutti a spron d'oro, e poi similemente
con lor cinquanta nobili donzelli,
per farsi Cavalieri orrevolmente,
e cinquecento bene armati, e snelli
di lor soldati, e fu lor Capitano
il Conte Guido, che con tutti quelli
giunse in Calaura, dove a mano a mano
Carlo volendo passare a Messina
tutti li fe Cavalier di sua mano.
E della nostra Città Fiorentina
vi portò il Conte il gran Padiglione,
che là rimase per memoria fina.
E Toscani, e Lombardi per ragione
gli mandar gente; ma più fur graditi
i Fiorentin, che tutt' altre persone.
Da Napoli per terra gli altri arditi
in Calaura n' andaro, ed a Brandizia
n' andò il Re Carlo, dov'eran forniti
i legni, che dovevan con letizia
verso Gostantinopoli passare,
se non gli avesse impediti malizia.
Centotrenta galee fur, ciò mi pare,
e gli altri legni, che facean cespuglio,
pareva, che coprisser mezzo il mare.
Giunse a Messina dì sette di Luglio,
milledugento ottantadue, e quivi
con cinquemila Cavalier fu truglio,
e Pedon sanza numero giulivi.
Temendo i Messinesi dello 'nciampo,
della speranza del soccorso privi,
Ambasciador mandaro al Re nel campo,
ed al Legato con grande umiltade,
chieggendo perdonanza al loro scampo,
apparecchiati a render la Cittade,
e di gittar tutte in terra le porte,
se il Re di lor volesse aver pietade.
E Carlo allora insuperbito forte
isfidò loro, e gli altri Ciciliani,
siccome traditor, degni di morte,
dicendo: Se mai più, malvagi cani,
verrete a domandar perdono, o patto,
vi taglierò a pezzi con mie mani.
Onde si dipartiro al primo tratto;
ma a cui Iddio vuol mal, gli toglie il senno;
che il Re non disse bene in niun atto.
Poi fe passar di là il Conte di Brenno
presso a Messina, e poi dall'altro lato
passò quel di Monforte, al primo cenno.
Essendo presso a Melazzo arrivato
i Messinesi soccorser Melazzo
contra 'l Barone, che s' era accampato.
E 'l valoroso Conte non fu pazzo;
ma l' uno, e l' altro subito sconfisse,
e mille uccise di quel popolazzo.
Quando la cosa a Messina si disse,
veggendosi il Comune in tanto rio,
piatosamente al Cardinale scrisse,
pregandolo umilmente, che per Dio
d' andar dentro alla Terra gli piacesse,
ed esso soddisfece al lor desio.
Com' el fu dentro, la lettera lesse,
come intradetti, e scomunicati
eran, se la Città non si rendesse.
Veggendosi così male arrivati,
i Cittadin domandar certi patti,
ed ebbongli nel campo al Re mandati.
Carlo rispose: Sete voi sì matti,
che voi venite per misericordia,
avendomi di testa gli occhi tratti?
Se voi volete aver meco concordia,
i' vo' di voi statichi ottocento,
i quai domanderò, sanza discordia,
e potervi gravare a piacimento:
e questo disse con viso adirato,
come colui, ch' aveva mal talento.
L' Ambasciador dal Re Carlo tornato,
palesemente lesse i patti suoi;
onde il popol gridò per disperato:
Mangiamo innanzi l' un l' altro di noi,
che meglio c' è in casa nostra morire,
che andar morendo per lo mondo poi.
Quando il Legato si venne a partire,
a' Preti comandò per ubbidenza,
che 'nfra tre dì ne dovessero uscire.
Al Comun protestò in lor presenza,
che per sindaco fosse comparito
fra certo tempo in Corte alla sentenza.
E poi quando nell' oste fu reddito,
a' Baron parve mal; che 'l Re superbo,
troppo era stato a prendere il partito.
Ma nullo ardiva a ragionarne verbo,
che ciaschedun pensava, se 'l dicesse,
e' l' arebbe per mal; tant'è acerbo.
E consigliaron, che si combattesse
Messina da più parti ogni fiata,
sicchè al postutto la Città s' avesse.
Avevavi una parte non murata;
ma era di legname sì ristucco
il passo, ch'era assa' dura l' entrata.
Dandovi i Fiorentini un badalucco,
si strinser sì, che se 'l parer non erra,
ciascun diceva dentro: Donde mucco?
Se gli altri avesser seguita la serra,
veracemente, che a quella volta
si conquistava per forza la Terra.
Ma Carlo fece sonare a raccolta,
acciocchè de' fantin fosse rimedio,
a cui la vita saria stata tolta,
dicendo: Voglio vincer per assedio;
ma non pensava, quanti son perduti
di be' partiti per lo lungo tedio.
I Messinesi essendo combattuti
da quella parte, ond' egli avien paura,
di subito ordinar, come saputi,
che le lor donne, ed ogni criatura,
che v'era dentro, aiutasse murare,
sicchè 'n tre giorni rifecer le mura.
E la Canzon sene fe, ciò mi pare,
che si cantò per tutta la Marina,
e dicea così nel suo cantare:
Peccato è delle donne di Messina,
che vanno per la Terra scapigliate,
portando per murar pietre, e calcina.
Le rime di Messina ho quì lasciate,
per lo Re Pier, che di sua Baronia
fue Ammiraglio con molta bontate.
Messer Ruggier valentre dell' Oría,
rubel di Carlo, che di Catalogna
mosse nel detto tempo, ed andò via,
in Tunisi arrivò sanza menzogna,
ad Angole, e più volte combattella,
aspettando corriere a suo bisogna;
e com' era ordinata la novella,
e Messer Gian di Procita dallato
giunse con molti dell' Isola bella,
Sindachi, Ambasciador, con pien mandato,
pregando Pier, ch' andasse pe 'l Reame,
che di Cicilia gli era apparecchiato;
Messina soccorresse, che per fame
non si potia tener contra 'l potere
dello Re Carlo, che n' aveva brame.
E lo Re Piero allor volle sapere,
con quanta gente Carlo er' a quel porto,
e poichè 'l seppe incominciò a temere.
Dall' Angole si mosse, per conforto
di Messer Gianni, che l' avie guidato,
ed a Palermo fece suo diporto.
Quivi a grido di popol coronato
fu a' dì dieci del mese d' Agosto
dal Vescovo, secondo il modo usato.
E poi in parlamento ebbe proposto,
che consigliasser quel, ch'era da fare;
e' Baron Ciciliani insieme tosto
prima tra lor: Pier non potrà durare
con Carlo, perch'egli ha più Cavalieri;
e cominciaron forte a dubitare.
E fu risponditor Messer Palmieri,
che ringraziatol della sua venuta,
aggiunse: Ben verremmo volentieri;
che maggior gente d' arme avesse avuta,
perocchè Carlo ha infinita gente:
Messina avrà, se tosto non si aiuta.
Allora Pier della 'mpresa si pente,
e pensasi dell' Isola partire,
se Carlo verso lui si fa niente.
E da Messina allora un venne a dire,
che tener non si può più, ch' otto giorni,
che a Carlo poi le conviene ubbidire.
E lo Re Pier co' suo' Baroni adorni
si consigliò, e poi tenne il consiglio
di Messer Gianni; onde sanza soggiorni
iscrisse a Carlo, e mandogli un famiglio
in questa forma; onde non pare a me,
ch'e' dubitasse troppo del periglio.
Pier di Raona, e di Cicilia Re,
venuto per mostrar nostra potenza
in questa parte, comandiamo a te,
Re di Gerusalem, e di Provenza
Conte, che incontanente con tua oste
facci dalla nostr' Isola partenza.
E dove non ti parta, sanza soste
nostri fedeli aspetta in tuo dannaggio,
che senza indugio ti sieno alle coste.
Ricevuto, e veduto tanto oltraggio
Carlo, che 'nver di lui non si adumilia,
così riscrisse, e mandò suo messaggio.
Re di Gerusalem, e di Cicilia,
Prenze di Capova, Angiò, e di Folchieri,
di tuo venuta, Pier, si maravilia,
come avesti sì vani pensieri,
che tu venisti in sul Reame nostro,
con Catalani, ed altri forestieri?
Comandiam, che veduto questo inchiostro
partir ti debba, come traditore
di Santa Chiesa, e mio più, ch'io non mostro;
e se ciò non farai, a mal tenore
te ne faren pentere a nostra posta,
allor vedrai, chi debba esser Signore.
Veduta, ch'ebbe il Re Pier la risposta,
prese partito, e seguì l' avvisaglia
di Messer Gianni, che gli era alla costa.
Con quaranta galee da battaglia
l' Ammiraglio mandò a bocca del Fare,
donde a Carlo venia la vettuaglia.
Sentendo Carlo i nimici appressare,
isbigottito disse: Or foss'io morto!
poichè fortuna pur mi vuol disfare.
Dogliomi molto, ch'io non fui accorto
a ricever Messina con quel patto,
ch'io la potev' avere, ed ebbi il torto.
E per lo suo miglior si partì ratto,
passò in Calavra, e quì lasciò in guato
domilia Cavalier, per far bel tratto.
Ma 'l popol dentro, non meno avvisato,
della Città non aperse porta:
furo scoperti, e presersi il commiato,
e quando a Carlo ritornò la scorta,
raddoppióe il dolore da ogni banda,
e di quel, ch' è di Messina, si conforta,
che per tre giorni non avia vivanda,
e liberata si vede in un punto:
perir non può chi a Dio s' accomanda.
Quando il navilio del Re Pier fu giunto,
il dì seguente prese ventinove
delle galee di Carlo appunto appunto.
Poi l' Ammiraglio mostrando sue pruove,
passò in Calavra, ed altri legni ottanta
arse di que' di Carlo, e non si muove.
Carlo di parte vedea tutta quanta
questa novella, e 'l Re diè la bacchetta
per la nequizia, ed ira, ch' avie tanta.
E quivi accomiatò con molta fretta
i Baroni, e gli amici, e doloroso
a Napoli tornò colla suo setta.
Pier di Raona poi sanza riposo,
con sua gente n' andóe a Messina,
più che mai foss' altro Signor gioioso.
A' dì dieci d' Ottobre da mattina
entrò nella Città, e ricevuto
vi fu con festa tal, ch' ancor non fina.
E quì, Lettor, puoi aver conosciuto,
ch' a riparare al giudicio divino
non ci val senno, nè mondano aiuto.
Carlo era savio, ed avia in suo dimino
dimolta gente, e dimolti danari
ed un minor di lui il mise al chino;
ciò fu il Re Pier, che non era suo pari.
Or seguirò della progenia sua,
cioè di Pier, per altri versi cari,
e la Zeta sarà l' entrata sua.
c. 23, argumento
Siccome li quattordici Priori
tornaro a tre, e poscia furon sei
di ciascun' arte delle sei maggiori,
e dodici fur poi a tal grandizia,
ed un Gonfalonier della Giustizia.
c. 23
Zucchero non fu mai dolce in gustare,
come dolce mi par, ch'i' mi ritrovo
al fin dell' Abbicci nel mio parlare.
Delli Re di Raona a dir mi muovo,
che di sangue Real non son per uso
anticamente, secondoch'i' provo.
Avolo del Re Pier fu il Conte Anfuso,
perocchè il Conte Gamo fu suo figliuolo,
e di Pier padre, come t' ho conchiuso.
Questo Gamo acquistò con suo stuolo
tra' Saracini il Regno di Raona,
e al Re, che v'era, diè di morte duolo.
E 'l Papa a lui ne diede la Corona,
e Gamo di Raona, e Catalogna
fece una cosa, come si ragiona.
E 'n simil modo fornì la bisogna,
a conquistare il Regno di Maiolica,
faccendo a' Saracin danno, e vergogna.
Ond' egli poi dalla Sedia Apostolica
fu egli, e' suoi confermato verace
difenditor della Fede Cattolica.
Ed e' volendo co' Franceschi pace,
diè la figliuola molto volentieri
al Re Filippo, in cui la Francia giace.
Di Perpignano, e di Moposolieri
gli diè parte, sanza l' altre sorte,
che seguitaron, come fu mistieri.
Poi quando il detto Re venne alla morte,
lasciò lo 'nfante Pier, primo suo figlio,
Re di Raona, e di tutta la Corte.
Gamo secondo si, sanza periglio,
di Maiolica, e d' altri suo' paesi
il fece Re, e misevi l' artiglio.
Valentri Signor poi ne son discesi;
e l' arme principal, ch'ebber costoro,
è l' oro a fiamma, sed i' ben compresi;
cioè, dogata di vermiglio, e d'oro,
mettendo l' oro da ciascuna sponda;
e faccian fine quì de' fatti loro.
Nel detto tempo, come quì seconda,
Lucchesi, e Fiorentini a loro stanza,
guastaron Pescia, e dintorno alla tonda.
E perchè i Fiorentin con gran baldanza
voller metter tra loro accordo pria
montarono i Lucchesi in arroganza.
Tornata l' oste fecer villania
a' Fiorentini; e questo si rimagna,
per mutarti vivanda, e diceria.
Nel detto tempo, essendo nella Magna
Ridolfo Imperador, fece venire
in Toscana Vicar, con suo compagna;
ma non trovò chi volesse ubbidire;
se non che Sanminiato del Tedesco,
e Pisa fecer ciò, che seppe dire.
E coll'aiuto de' Pisan di fresco,
e di molti altri vicin Ghibellini,
a guerreggiare i Guelfi fu manesco.
E 'n fine s' accordò co' Fiorentini,
e ritornossi alle contrade sue,
e credo, ne portò di lor fiorini.
L' anno mille dugento ottantadue
regnando ancora in Firenze il Collegio
de' quattordici, come detto fue,
a molti Cittadin degni di pregio
parve, che 'l numer fosse troppo grande,
e chiamar tre con simil privilegio
delle tre maggiori Arti, e tai vivande
mutaron, perchè a lor da tutte parti
appariva di quel, che 'l mondo spande.
Questi tre si chiamar Prior dell' Arti,
e del Vangelio cotal nome cala,
e di chi l' ordinò vo' soddisfarti.
Dico, che fu l' Arte di Calimala;
ciò furo i Mercatanti, ch' ordinarno
i tre Priori, e gli altri ebber di pala.
Per Calimala, e pe 'l sesto d' Oltrarno
Bartolo Messer Iacopo de' Bardi,
e in San Piero Scheraggio non fu indarno.
Il Rosso Bacherelli, e se ben guardi,
fu per l' Arte del Cambio; e 'n San Brancazio
per l' Arte della Lana non fu tardi
Salvi del Chiaro Girolami sazio:
e i grandi mescolati eran nel bugno,
s' egli eran mercatanti in quello spazio.
L' uficio cominciava a mezzo Giugno,
finiva a mezzo Agosto, e poi seguiva
di due in due mesi, e poi chiudeva il pugno.
La loro stanza era nella Badia;
mangiavan quivi, e dormien tutti quanti
infinchè 'l tempo, che dett'è, finía.
Avien con lor sei berrovieri, o fanti,
sei messi avieno ancor per raunare
de' Cittadini a' lor bisogni alquanti.
Questi col Capitan potevan fare
ogni gran fatto, ed ogni malificio
a lor piacer potevan terminare.
E piacque a' Cittadin sì loro uficio,
che dov'egli eran tre, fer un per sesto,
arrogendo a tre Arti il benificio.
Di Speziali, e Medici l' un presto,
di Porta Santa Maria fu il secondo,
e de' Vaiaj, e Pellicciaj fu questo.
Nel numero de' sei regnando tondo,
potevano esser Grandi, e Popolani,
che di Mercatanzia portasson pondo,
e delle dodici Arti i più sovrani;
e durar tanto a quel modo Signori,
che 'l popol sormontò colle due mani;
ed ordinaron dodici Priori,
che delle ventun' Arti con letizia
esser potieno agl' infrascritti onori,
ed un Gonfalonier della giustizia;
sicchè in tutto eran tredici nomati
per gli due mesi a sì fatta grandizia.
E per gli Prior vecchi eran chiamati,
con certi Arroti di molto valore,
e delle dodici Arti i Consolati,
e qual più boci avia era Priore.
Ciò si facea in San Piero Scheraggio:
e questo basti di cotal tenore.
In questi tempi fece grande oltraggio
alla Romagna il Conte a Montefeltro,
avendo un degli Orsini in signoraggio.
Il qual dal Papa ne fu come veltro
cacciato fuori, e Messer Gianni Depa
che valea più oro, che colui peltro,
ne fece Conte; il qual sua gente assiepa
presso a Faenza, e poi per suo trattato
ebbe la Terra, e 'l vecchio Conte criepa.
Appresso poi Forlì ebbe assediato,
coll' aiuto di molti, e Fiorenza,
che non gli si partiron mai dallato.
E mentrech'e' dimorava in Faenza,
guerreggiando Forlì, siccome saggio,
cercò d' averli con gran diligenza.
E cavalcandovi in Calen di Maggio,
credendosi di vero aver la Terra;
e quel di Montefeltro, ch'era il Maggio
sentillo, e poi come mastro di Guerra
fegli una porta aprire incontanente,
e Messer Gianni allor passò la serra,
di fuor lasciando mezza la sua gente
sott' una quercia, perchè a' suo' mistieri
potesse esser soccorso di presente.
Passato dentro co' suo' Cavalieri
corse la Terra sanza alcun contasto,
preser le case, e rubaro i forzieri.
E 'l Conte Guido, a cui dispiacque il pasto,
colla sua gente uscì dall'altra porta,
e caricò a que' di fuori il basto.
Rotti, che gli ebbe, vi lasciò suo scorta,
e tornò dentro, e corse sanza fallo,
prese la Terra con suo gente accorta.
Gli altri volendo montare a cavallo,
trovaron tolti i freni; ond' essi accorti
fuggivano alla quercia in quello stallo.
Molti di loro furon presi, e morti;
l' uno de' quali fu quel Grimaldello,
che di Faenza fece aprir le porti.
Messer Gian Depa, ch' avia in suo pennello
l' agulin d'oro nel campo vermiglio,
pensando esser tradito, com' uccello
si rifuggì nella Città del Giglio,
cioè in Firenze dalla parte ritta,
dove sicuro fu d'ogni periglio.
Sentendo Papa Martin la sconfitta,
a Messer Gianni mandò gente tanta,
che in Romagna di subito si gitta.
Ed assediò Forlì con tutta quanta,
e quivi stando, ebbe per tradimento
la Città Cervi, come quì si canta.
Que' di Forlì mutar proponimento,
e diersi, salvo l' avere, e persone,
e Messer Gianni Depa fu contento.
Prese la Terra, siccome Campione
di Santa Chiesa, che per lei guadagna,
e 'l Conte Montefeltro ne mandone.
Poi l' ubbidì quasi tutta Romagna;
e 'l Conte Guido, ch'egli avia cacciato,
Meldola prese, e diegli molta lagna.
E Messer Gianni ad oste vi fu andato,
e cinque mesi invan vi fe soggiorno;
ma nota, che gli avvenne in quello stato:
ched usando d' andar dintorno intorno,
guardando la Fortezza d'ogni canto,
accompagnato, e sol talvolta il giorno,
ed un, che v'era dentro, per suo vanto
disse: Io l' ucciderò, se più ci passa;
ed a cavallo s' armò tutto quanto.
Quando il vide venir coll' aste bassa,
si difilò inver lui, e 'l Capitano
inverso lui arditamente passa.
Giugnendo quel, d' un baston, ch' avea in mano,
sì forte diè nell' aste del giostrante,
ch'ella gli cadde, e lui a mano a mano
tirò a terra del caval davante,
ed a ferirlo fu poi bene accorto,
sicchè l' uccise quivi a poco stante.
Ispesse volte avvien, com' io ti porto,
e questo maraviglia non ti sia,
che l' uom, che va per uccider, è morto.
In questi tempi lo Re d' Erminía
chiese aiuto al Gran Can con dolci note
contr' al Soldano di Saracinía;
ed egli diede Mango suo nipote,
con trentamila Cavalier di piano,
ed el si mosse, e venne quanto puote.
Giunse in Soría, dov'era il Soldano
all'assedio a Cammelle; e ciò sentendo,
incontro gli si fece di lontano,
ed assalillo, e' Tartari fendendo
le schiere sue, il miser quasi in volta;
poi si posaron la notte vegnendo.
E quel Soldan con pecunia molta
Mangomador corruppe il giorno, poi
che la gente a combatter fu raccolta.
Ismontò da cavallo, e tutti i suoi
fecero il simigliante, come usanza
era tra lor, benchè non sia tra noi.
Allora quel Soldan prese baldanza,
e percosse a' Cristian con tanto ardire,
che gli sconfisse, e presene abbondanza.
Tornato Mango, e' suoi, e 'l maggior Sire,
che aveva avuta la novella presta
della sconfitta per lo lor fallire,
a tutti i Caporal tagliò la testa,
agli altri comandò, che sempremai
di femmina portassono ogni vesta.
E così fecer per non trarne guai;
e se ciascun facesse a questa guisa,
forse che 'l mondo migliorrebbe assai.
Nel detto tempo la Città di Pisa
aveva grande stato, e gran possanza,
e da ogni contrario era divisa.
Perocchè avia in suo cittadinanza
Giudice di Calavra, e 'l Conte Fazio,
ed il Conte Ugolin fioria la danza,
e 'l Conte Ameri, e 'l Conte Anselmo al dazio
era ciascuno, il Giudice d' Alborea,
ed altri lascio, abbreviando spazio.
E ciaschedun per se Corte tenea,
perocch'eran Signor della Sardigna,
e gran navilio ciascuno in mare avea.
E comprendendo, come la gramigna,
i Pisan d' Acri eran Signor palesi,
perchè v' avien parenti, e casa, e vigna.
Ed azzuffarsi là co' Genovesi,
ed arsero, e guastar tutta la ruga,
dov'egli stavan, con gli loro arnesi;
e della Terra li cacciaro in fuga,
e' Genovesi a Genova tornati,
poser da canto la foggia a lattuga;
e con certe galee bene armati
andando, per guastar Porto Pisano,
trovarono i Pisan sì apparecchiati,
che per lo lor migliore, a mano a mano
dieder la volta; e quegli insuperbiti
li seguitar coll'animo villano,
e 'nfino a Genova allor ne fur giti
e saettar quadrella d' ariento
nella Città, dov'essi eran fuggiti.
Poi per condotta, ed ammaestramento
d' un de' Grimaldi, subito n' andaro
a Porto Veneri, che fu malcontento.
E l' Isola di Bari anche guastaro,
La Spezia, e 'l Golfo, ed appresso tornando
inverso Pisa poi, male arrivaro;
perocch' un vento si venne levando
a lor contradio, e l' aria era sì bruna,
che non vedea l' un l' altro navicando;
e poi moltiplicando la fortuna,
gli sparse in quà, e là, e per soperchio
insieme ventitrè galee aduna:
parte ne ruppe alla foce del Serchio,
e parte altrove, e pochi ne periro,
perchè grazia di Dio fu lor coperchio.
E tornati con pianto, e con sospiro
iscalzi, e 'gnudi, e di paura afflitti,
Pisa si turbò tutta dentro al giro;
perchè si credieno essere sconfitti,
dappoichè 'n Pisa non vedien tornare
le lor galee, e gli altri legni ritti.
Le donne per la Terra scapigliate
qual piangeva il fratello, e qual 'l marito
finchè da' lor non furon confortate.
Forse pe 'l mal, che avieno acconsentito
il Signor diede lor cotanto affanno,
benchè n' avesser molto più servito.
Ma quel fu segno di futuro danno,
come vedrai, se lo mio cor non erra,
quando gli offesi si vendicheranno.
Contato t' ho, come nacque la guerra
dal Genovese al Pisan dalla prima;
e quì di lor parlar la via si serra.
Compiut'è l' Abbiccì della mia stima,
or m' avanza materia, tantoch'io
non credo il fin veder, come la cima.
Priego l' Onnipotente, e vero Iddio,
che mi conceda, s' è suo piacimento,
ch'i' ci possa allogare il nome mio;
che più di trenta passerà il trecento.
c. 24, argumento
Del Re di Francia, e di quel di Raona,
e come l' Arno allagò Fiorenza;
di Genovesi, e di Pisan ragiona,
del buono stato, che Firenze avea,
e che compagne, e brigate facea.
c. 24
Al principio del libro mi credetti,
abbreviar sì, ch'e' fosse caputo
nell' Abbiccì co' versi sopra detti.
Mad il suo detto m' è tanto piaciuto,
che mi son nelle rime dilatato
viepiù assai, ch'i' non arei voluto.
Or torno a Carlo, che 'n Corte n' è andato,
e dinanzi allo Papa con dolore
si lamenta di Pier, che l' ha ingannato;
dicendo: E' m' ha tradito, e traditore
dinanzi a voi, Padre Santo l' appello,
e 'l vuo' provar coll'arme di buon cuore.
Pier di Raona poi sentendo quello,
mandoe Ambasciador, che contraddisse
a Carlo, e poi ad ogni suo libello;
e poi mostrò, come il Re Piero scrisse,
ch'egli era di Cicilia ver Campione,
e quando Carlo non lo acconsentisse,
ch'egli era apparecchiato ogni stagione,
di farne pruova colla spada in mano,
e quando, e dove fosse di ragione.
Molti Baron venuti di lontano
aveva Carlo allora in sua presenza,
tra' quali era il suo figliuol sovrano.
Ciò era Carlo di Salerna Prenza,
che fe tre Cavalier de' Buondelmonti,
essendo pria ricevuto in Firenza,
e dimolti altri, che con chiare fronti
furon presenti quando l' avvisaglia
li due Re furo a comprometter pronti.
Ciascun con saramento, perchè vaglia,
promise d' esser quel dì a Bordella,
ched ordinata avevan la battaglia.
E così stette l' ordine di quella;
che ciaschedun con cento compagnoni,
qual e' volesse, fosse armato in sella,
e qual vincesse, tutte le ragioni
avesse vinto, e fosse conceduto
per Santa Chiesa, e per gli suoi Campioni:
e chi perdesse, avesse anche perduto
ciascuno onore, e come misleale,
e traditor malvagio ricreduto
mai non portasse pregio di Reale.
Partissi ognun contento di que' patti,
ma Carlo più, tegnendosi leale.
Ed all' esecuzion di questi fatti
si proffersero a lui per sua compagna
molti buon Cavalier dell'arme adatti,
Franceschi, e Provenzali, e della Magna,
molti d' Italia, e certi Fiorentini,
che v'eran di buon cuor, sanza magagna.
Al Re Piero Spagnuoli, e Compagnini,
alcun Tedesco, e come quì ti tocco,
di Talia certi grandi Ghibellini,
e 'l Saracin figliuolo di Morocco,
e di farsi Cristiano ancor promise,
se bisognasse, e quì e' non fu sciocco.
Mossesi Pier guernito in tutte guise,
e Don Giacomo suo figliuol secondo,
come diritto Re in suo luogo mise.
E 'n Catalogna se n' andò giocondo,
per esser a Bordella il dì nomato,
che 'l dovea por fortuna in cima, o in fondo.
E così Carlo fu apparecchiato,
lasciò al suo figliuolo a guardia il Regno,
e mosse di vantaggio accompagnato.
Giunse a Firenze, ch'era di suo segno
l' anno milledugento ottantatrè,
ed ebbe grande onor, com' era degno.
Ed otto Cavalier novelli fe,
cavalcò a Mutrone, ed entrò in mare,
e fue in Francia col nipote Re.
Partissi di Parigi a non tardare,
il Re di Francia gli fe compagnia,
con ben tremilia Cavalier da armare.
E tanto cavalcarono a lor via,
che fur presso a Bordella una giornata,
e riposar; ch' ognun mestier n' avia.
Appresso Carlo acconciò suo brigata,
cioè, que' cento Cavalier più fini,
che far dovien la battaglia ordinata.
E poi si mosser come Paladini,
e valorosamente andaro al campo,
e 'l Re di Francia, e' suoi rimaser quini.
Di mezzo Giugno, quand' è il gran vampo,
aspettar tutto giorno nella Serra
quel di Raona, che cessò lo 'nciampo.
E 'l Siniscalco del Re d' Inghilterra,
nel cui terren si dovea far la zuffa,
e dovia terminar la detta guerra,
veggendo a Piero schifar la baruffa,
e la sera venire, a Carlo disse:
Partitevi, che questi è uom di buffa.
E Carlo prima che si dipartisse,
fece sonar le trombe, ed ogni lato
fece guardar, se 'l Re Piero apparisse,
dal Siniscalco poi prese commiato.
Il Re di Francia si tornò a Parigi,
e Carlo a Roma quasichè scornato.
E dissesi, che Pier con panni bigi
la sera al tardi andò isconosciuto
al Siniscalco in suo' propj servigj,
e protestò, com' egli era venuto;
e 'l Siniscalco rise del suo detto,
e 'l Re Pier si partì dopo il saluto.
E ben novanta miglia per sospetto,
ch' avea di Carlo, andò sanza posare,
considerando il commesso difetto.
Or di dubbio, Lettor, ti vo' cavare,
che Pier non ebbe mai intenzione
di sì fatta battaglia seguitare.
So, che tu dì: Dunque per che cagione
fece alla 'mpresa cotanto del grosso,
se non pensava far l' esecuzione?
Fe 'l perchè Carlo non gli andasse addosso;
pensò: se viene in Cicilia a furore,
e' Cicilian gli chineranno il dosso:
vedeva sì, ch' è 'l lor nuovo Signore,
e poi non si sentiva da rispondere
allo Re Carlo, ch'era pur maggiore.
Pensossi ancor sotto questo nascondere,
per passar tempo, che subitamente
non si vedesse per forza confondere.
Ritorniamo al Re Carlo, che presente
Papa Martino, e tutti i Cardinali,
ebbe narrato tutto il convenente.
Onde accozzando quel con gli altri mali,
che fatti avea il Re Piero, e 'n sua presenza
eran contati, ed eran tanti, e tali,
che 'l Papa contro a lui diede sentenza,
e 'l maladisse, ed iscomunicollo;
e quale istesse a sua ubbidienza,
della Corona, e d'ogni onor privollo,
siccome traditore, ed ispergiuro,
e rubel della Chiesa anche chiamollo,
e chi 'l chiamasse Re, se ben procuro,
scomunicato fosse, ciò mi pare.
Ma questo allo Re Pier fu poco duro:
perocchè e' si fece intitolare
Pier di Raona Cavaliere adesso,
e Padre di due Re, Signor del mare.
Fatto che 'l Papa ebbe il detto processo,
privilegiò, e fe Re di Raona
Carlo figliuol del Re di Francia appresso;
e mandò in Francia a dargli la Corona
un Cardinale, e predicar la Croce
contro a quel Pier, di cui si ragiona,
siccome a uomo malvagio, e feroce,
dando indulgenza, ed assoluzione
a chi n' andasse contro a lui veloce.
E Carlo poi, con dispensazione
del Papa, diede al detto Re novello
la figlia del suo figlio per ragione.
Poichè sposata l' ebbe per anello,
gli diè per dota la Contea d' Angiò,
acciocchè contro a Pier fusse più fello.
Non dico più di questo, ma dirò,
che nel milledugento ottantadue
l' Arno per piova Firenze allagò.
E quell'anno di Gran gran caro fue,
valse quattordici soldi lo staio,
e trentatrè il fiorino, e non piue.
L' anno seguente fu col tempo gaio,
perchè Firenze fu nel maggio stato,
che fosse mai dall' ultimo al primaio;
che i Cittadini avien del guadagnato,
e da niuna parte eran percossi,
ma sì temuti molto d'ogni lato.
Per San Giovanni allor da Casa Rossi
si fe brigata vestita di bianco,
che più di mille si trovaron grossi.
I Rossi n' eran capo, e nullo manco
tra loro aveva, ed avieno un Signore,
che dello spender non si vedea stanco;
il quale era chiamato Iddio d' amore,
e ciaschedun de' suoi era di razzo,
faccendo agli altri Cittadini onore.
Di tutti i lor pensier fatto avien mazzo,
e gittatolsi dietro, e con piacere
a tutte l' ore vivean con sollazzo.
Facevan corte di mangiare, e bere,
andavan per la Terra convitando
le Donne, e' Cavalieri a tal mistiere,
con più ragion di stormenti sonando,
e due mesi durò sì fatta festa,
avendo dato all'avarizia bando.
E renditi, Lettor, sicur, che questa
fu la maggior, che si ricordi mai
nelle parti d' Italia manifesta.
E molt' altre brigate n' avea assai
e d' uomini, e di donne, i cui pensieri
tutti eran posti in quel, che udirai.
Firenze avie trecento Cavalieri,
tutti a spron d'oro, ed erano onorati
da' Fiorentini a gara i forestieri;
ed eran per le Pasque presentati
i men possenti da' Cittadini cari,
e spesse volte a mangiare invitati;
e d'ogni parte buffoni, e giullari
venieno a dare a' Fiorentin diletto,
e avien doni di robe, e di danari.
E durò questo tempo benedetto
fino al mille dugennovantanove,
e poi si mutò il nome coll' effetto.
Nuovo disio a dir altro mi muove,
che nel dett' anno, e mese essendo mosse
della Sardigna, per andare altrove,
cinque galee, e cinque navi grosse,
con mille cinquecento Cittadini
di Pisa, benchè d' altri alcun vi fosse,
e con mercatanzia di cose fini
tanta, che fu stimata con gli arnesi
cencinquanta migliaia di fiorini,
con quindici galee i Genovesi
gli sconfissero, e fer di loro strazio
a Capocorso, e menargliene presi.
L' altr' anno poi di Giugno il Conte Fazio
trenta galee armate, ed una nave
con molti altri Pisani in quello spazio,
menò in Sardigna, ed egli era la chiave.
Con trentacinque galee il Genovese
a lor percosse con tormento grave,
e 'l Conte Fazio, e la suo gente prese,
e poco valse al Pisano esser truglio,
ch' a Genova n' andaro di palese.
Poi nel detto anno del mese di Luglio
i Pisan di far gente si sforzaro,
e di molte galee fecer cespuglio.
E 'nfino al Porto di Genova andaro,
e dentro balestrar per la maniera
l' argento, che altra volta saettaro.
E guastando d' intorno la Riviera,
i Genovesi chiamaro alla giostra,
ed e' risposon: Per questa matera
non ci sarebbe onore a casa nostra
sconfiggervi; però, se v'è in piacere,
tornate coll'armata a casa vostra,
e senza indugio verrenvi a vedere,
e la battaglia prendere, e lasciare
potrete, come fia 'l vostro volere.
E' Pisan si partiron con gridare,
faccendosi di loro beffa, e scherna,
tornarsi a Pisa, e lasciarono il mare.
E 'l Genovese suo' legni governa,
e d' aver molta gente s' argomenta,
per non mostrar vescica per lanterna.
Armò galee, e uscieri centotrenta,
e verso Pisa colla voglia acuta
n' andò l' armata del disio contenta.
Quando i Pisan sentir la lor venuta,
corsono alle galee, ch'egli avien pronte
nell' Arno, dell' Armata prima issuta.
E l' Arcivescovo loro di sul Ponte
l' Armata benedì con alta boce,
ed e' si mosser con ardita fronte.
Allor cadde la mela colla Croce
dallo Stendale, e questa malaguria
tenuta fu; ma pur n' andaro a foce.
Passato il Porto, e poi con molta furia
percossero i nemici alla Meloria,
credendo vendicar la loro ingiuria.
Da Genova Ammiraglio Uberto Doria
co' suoi difesa fe con tanto ardire,
che ruppe loro, ed ebbene vettoria.
Il danno de' Pisan non potre' dire;
che mille cinquecento si trovaro
tra presi, e morti allor, senza fallire.
Ed a Genova ancora ne menaro
quaranta lor galee sanza le rotte,
e senza quelle, che in mar profondaro.
Pisa di pianto rimise le dotte;
che quella gente, che v'era rimasa,
non calava di piagnere dì e notte:
perocchè 'n Pisa non aveva casa,
che non sentisse parte di quel duolo,
e che non fosse di letizia rasa.
Che chi piagnea il padre, e chi il figliuolo,
e chi il fratel, che non sa, se s' è vivo,
e ciascun si graffiava a suolo a suolo.
In Genova tornati coll' ulivo
i Genovesi, non furono ingrati,
come son molti, e nota ciò, ch'io scrivo.
Ma per la Terra co' Preti, e co' Frati
uomini, e donne andaro a procissione,
e confessati delli lor peccati,
istavan per le Chiese in orazione,
divotamente ringraziando Iddio,
ch' avie lor data tal consolazione.
Non fanno così quegli, il cui disio
e' tutto dato alla pompa del mondo,
ma e' fanno il lor peggio, al parer mio.
Che tal si crede rimaner giocondo,
che sanza dir, tu hai questo per questo,
per giudicio divin si trova al fondo.
Del ragionar de' Genovesi resto;
basti, che furon molto commendati,
che tenner modo divoto, ed onesto.
Nuova materia di nuovo ha chiamati
i versi miei, ond' io muto pensiero,
abbandonando que', che son passati,
e torno all' Ammiraglio del Re Piero.
c. 25, argumento
Siccome l' Ammiraglio Raonese
il figliuolo sconfisse del Re Carlo,
e come il detto Re morì palese.
E guerre tra' Pisani, e' Fiorentini,
ed ancor tra' Cristiani, e' Saracini.
c. 25
Nel dett' anno di Giugno l' Ammiraglio
del Re Pier fece guerra al Principato,
curandosi di Carlo men d' un vaglio.
Poi con suo gente a Napoli arrivato,
perchè sapea, che 'l Re Carlo non v'era,
gridò: Esci fuori Re vituperato.
E questo fece sol, per dar matera
al Prenza suo figliuol, ch' uscisse fuori,
per isconfigger lui, e la sua schiera.
Il quale udendo tanti disonori
del padre suo, co' suoi corse alle mani,
ed a' nemici n' andò con furori.
E color, ch'erano avvisati, e sani,
veggendolo sanz' ordine venire
serransi insieme con discrete chiavi.
Messer Ruggier dell' Oria prese a dire:
Signori, alla galea dello stendale,
là dov'è il Prenze, ognun vada a ferire.
E così fe l' armata generale;
sconfisse l' altre, e poi percosse a quella;
presono il Prenze, e la gente Reale.
Que' di Sorrenti, avendo la novella,
ch'eran con Carlo, ma malvolentieri,
subitamente mutaron gonnella.
Ed al vincente Ammiraglio Ruggieri
dugento Agostan d'oro presentaro,
e fichi fior ben trecento panieri.
Ma i loro Ambasciador prima trovaro
quella galea, dov'era preso il Prenza,
e che Messer Ruggier fosse, pensaro.
Corsero a lui, dicendo in suo presenza:
Piacesse a Dio, com' hai preso lo figlio,
ch' avessi anche lo padre in tuo potenza.
Il Prenza allor con tutto il suo periglio
sorrise, e que' gli diedero i presenti,
dicendo ancora con allegro ciglio:
I vostri amici, e servi di Sorrenti
vi mandan questi, e sono apparecchiati,
ad ubbidir vostri comandamenti.
Rispose il Prenze allor: Mal sete stati
fedeli a Carlo, e non so la cagione;
ond' essi si partir molto turbati.
Il Prenze, e' suoi fur menati a pregione
nel Castel di Messina, ed iviritta
rinchiusi fur con grande afflizione.
Il dì seguente dopo la sconfitta,
e lo Re Carlo arrivò a Gaeta,
con grande armata, e con suo 'nsegna ritta.
Quando seppe la rotta fe gran pieta,
e disse del figliuolo: Or foss' el morto,
dappoichè l' ubbidirmi al tutto vieta.
Ch' i' gli avia comandato, che del Porto
di Napoli giammai e' non uscisse,
finch'i' non ritornassi al suo conforto.
Appresso a questo mostra, ch'e' sentisse,
che la Città di Napoli era corsa,
che muoia lo Re Carlo, vi si disse.
Ond' egli il navicar mai non dimorsa,
ch' a Napoli ne giunse, a 'ntendimento
d' arder quella Città; ma fu soccorsa.
Ch' un Cardinal, che seppe il suo talento,
misericordia gli chiese; e pietade;
ond' el mutò lo suo proponimento.
Ma benchè perdonasse alla Cittade
fece impiccar di lor centocinquanta,
e poi pensò seguir sua volontade.
E la sua grande armata tutta quanta
mandò a Messina, ed e' n' andò a Brandizia,
e fenne in Puglia, e 'n Principato alquanta.
Quindi si mosse con questa milizia,
passò in Calavria; quando fu a Controne
l' armate s' accozzaron con letizia.
E quivi si trovò a suo petizione
centocinquanta tra galee armate,
ed altri legni, con gran guernigione.
e queste cose furon nella state,
perocch'era di Luglio, ed a sua posta
volea in Cicilia provar sua bontate.
Ed attendendo quivi la risposta
da' Cardinal, ch' a Pier mandati avea
il Papa a trattar, con ciò sanza sosta
seppe, che Pier con arte li tenea
pure in parole, perchè non andasse
Carlo in Cicilia, com' e' si credea.
Appresso vide, che se dimorasse
gli mancava la roba; e per partito
prese, che a Brandizia si tornasse.
E così fece; ond' egli sbigottito
sì del figliuolo, e sì della fortuna,
che 'l nimicava, siccom' hai udito,
accomiatò le navi ad una ad una,
e a Napoli tornato si pensava
di fare a primavera altra rauna.
E come quel, che giammai non pensava
tornò in Puglia, e niente s' alloggia
nel verno, quando più il freddo grava.
E mareggiando, come giunse a Foggia,
infermò forte, e prendendo il Signore,
disse, con gli occhi corrotti alla pioggia:
Onnipotente, vero Salvatore,
conosco, che tu se' figliuol di Dio,
che fosti morto per me peccatore,
e tu conosci veramente, ch'io
per Santa Chiesa mi sono affannato
al mondo più, che pe 'l bisogno mio:
ma per qualunque modo i' ho peccato,
perdon ti chieggio; e così dolcemente
di Gennaio a' dì sette fu passato.
A Napoli portato di presente,
dopo 'l grande lamento fu sepolto,
come si convenia, ornatamente.
Questi fu il più valentre Signor molto,
che fosse, poi della Casa di Francia
che Carlo Magno fu del mondo sciolto,
Ruberto Conte d' Artese pro lancia,
cugin di detto Carlo ebbe il governo
di tutto il Regno, e non gli parve ciancia,
col figliuolo del Prenza di Salerno,
ch'era del detto Re Carlo nipote;
e nome avie per lui, se ben discerno.
Ed altra reda di lui non si puote
trovare, che 'l detto Prenza, che avia
la bella donna, e grandissima dote,
figliuola, e reda del Re d' Ungheria;
e sette figliuo' n' ebbe, ciascun bello,
e ciascuno ebbe grande Signoria.
E 'l primo di lor fu Carlo Martello,
incoronato d' Ungheria Signore;
Luigi fu il secondo, e suo fratello,
il qual si fece poi Frate Minore,
poi non curando il mondo una fistuca,
fu di Tolosa Vescovo, e Pastore;
Ruberto il terzo di Calavra Duca;
Filippo il quarto Prenza di Taranto,
la cui memoria ancor par, che riluca;
Ramondo Berlinghier fe 'l quinto canto,
che dovev'esser Conte di Proenza;
e 'l sesto fu, s'i' ho veduto tanto,
Messer Giovan della Moréa Prenza,
e Messer Pier fu l' ultimo de' sette,
e Conte d' Eboli di gran potenza.
Bastin di Carlo le parole dette,
e ritorniamo a' Cardinal Legati,
a cui il Re Piero niun bene impromette.
Partirsi, e fursi in Corte ritornati,
e fer gravar la scomunicazione,
e d'ogni beneficio fur privati
i Ciciliani; onde per tal cagione
que' di Messina corser, per uccidere
tutti i Franceschi, ch'erano in pregione.
Pensa, ch'ebbero allor caro di ridere,
e pochè si difeser colle mani,
e que' col fuoco li fecer conquidere.
Appresso di concordia i Ciciliani
il Prenze voller mettere al dichino,
ch'era in pregion co' suo' Baron sovrani,
e condennarlo, siccome meschino,
gli dovesse esser tagliata la testa,
come avie fatto il Padre a Curradino.
E la Reina Gostanza fu presta
allo scampo del Prenze, e 'n suo pensiere
diceva: Quest'è pur di nobil gesta,
ed ha sette figliuol di gran podere,
ancor potrebbono aver tale stato,
che lo Re Pier se ne potre' pentere.
Mandò per que', che l' avien condennato,
e disse: Questo mi saria vergogna,
s' el fosse sanza il Re quì dicollato:
mandianlone a lui in Catalogna,
ed e' ne faccia poscia che gli pare;
e così fu fornita la bisogna.
E quì fo fine al detto ragionare,
ed a parlarti di Firenze arrivo,
come la piova Arno fe traboccare.
Dì due d' April, Domenica d' Ulivo
corse quel fiume per molti rigagnoli
della Città, com' al presente scrivo.
E molte case dier la via a ragnoli,
che insieme rovinarono col poggio,
ch' è dirimpetto allo Spedal de' Magnoli,
e fu a molti amar, più che starloggio.
Lasciamo star chi si fosson gli offesi,
perocchè nuova matera ci appoggio.
Appresso poi Fiorentini, e Sanesi,
Pistolesi, Pratesi, e Volterrani,
e li Lucchesi, e' Guelfi Genovesi,
e' Sangemignanesi, e' Colligiani,
tutti fer lega insieme ad una serra,
giurando di confondere i Pisani.
E i detti Toscani dovien per terra
guastar d' intorno a Pisa, e mane, e sera,
e' Genovesi per mar far la guerra.
I Fiorentini, e gli altri per Valdera,
e in altre parti; più Terre acquistaro,
guastando, e dirubbando ciò che v' era.
E guerreggiando, tra loro ordinaro
d' assediar Pisa, e metterla al dichino,
e non vi si vedeva alcun riparo.
Come Iddio volle, il buon Conte Ugolino
de' Gherardeschi, con molta prudenza,
di Pisa Guelfo, e grande Cittadino,
accordo venne a trattare in Fiorenza
con tutti quanti i Collegati, eccetto
Genova, e Lucca; e pur si fece senza.
E questo fu dell'accordo l' effetto,
che cacciasser di Pisa i Ghibellini,
e' Guelfi la reggesser con diletto.
E questo acconsentiro i Fiorentini,
solo perch'ebber de' Pisan pietade,
come debbono avere i buon vicini.
Perchè disfar si dovea la Cittade;
ma e' non voller sotto le lor braccia
acconsentir sì fatta iniquitade.
Dissesi allor, che 'n cambio di Vernaccia
diecimila fiorin vennero in fiaschi
a certi Fiorentin della procaccia.
Ma io no 'l credo; nè penso, ch'e' naschi
in quella, ch' è d'ogni leanza fonte,
sì fatto vizio negli uomini maschi.
E di Genna' vegnente il detto Conte
della Città di Pisa cacciò fuori
i Ghibellin con dispetto, e con onte,
ed egli, e gli altri Guelfi fur Signori.
Genovesi, e Lucchesi si dolieno
de' Fiorentin, perch'erano i maggiori.
E con settanta galee nondimeno
andarono a guastar Porto Pisano,
e li Lucchesi andaro pe 'l Terreno,
e preser più Castella per lo piano.
Ma certo sia, come s' è della morte,
che 'l preso assedio non veniva invano.
Ma se 'l Fiorentin fosse stato forte
alla promessa, Pisa saria stata
a borghi sanza mura, e sanza porte.
Ma ella fu del benificio ingrata
contro a Firenze, che le diè salute,
ed ella sempre poi l' ha nemicata.
Sicchè avute n' ha mille pentute
il Fiorentin. Lasciamo star di Pisa,
e seguitian d' altre cose avvenute.
Pur nell' ottantaquattro ancor t' avvisa,
Firenze in buono stato era sicura,
e di borghi cresciuta in ogni guisa.
E' Fiorentini, non già per paura,
fondar le porti, donde seguitato
n' è poi li cerchj delle nuove mura
da San Francesco alla Porta del Prato.
Ma poi s' abbandonò quel lavorío
per la sconfitta del Prenze contato.
Ed in quel tempo ancora, al parer mio,
si fe la loggia d' Orto San Michele,
dove s' onora la Madre di Dio.
Nel detto tempo Bagan, Can crudele,
fu Signore de' Tartari chiamato;
ond' el negò poi le Cristiane vele.
Perocchè sendo prima battezzato,
e chiamato Niccola, con effetto,
siccome el fu Signore, ebbe negato;
e fecesi chiamar poi Macometto,
e fu nimico del popol Cristiano
due anni, che regnò quel maladetto.
Un suo nipote, e padre di Casano
si rubellò da lui, e 'l Signoraggio
gli tolse, e poi la vita di sua mano.
E Gargon ebbe nome, e come saggio
de' Cristiani fu amico, e di palese
a' Saracin faceva sempre oltraggio,
e a' Cristiani facie rifar le Chiese,
che Macometto avea fatte disfare,
e' Saracin cacciò di suo paese,
e' Templi lor per terra fe cacciare.
Questi in sua legge fu Signor diritto,
ma pur mai non si volle battezzare.
L' anno seguente, che 'l Soldan d' Egitto,
i falsi Saracini, e pien d' inganni,
vennero ad oste, come quì è scritto,
a un Castello in Soría, con affanni,
che si chiamava Castel di Margotto,
ch'era dello Spedal di San Giovanni,
ed assediarlo, e cavarlo di sotto,
e quasi tutto il misero in puntelli,
sicchè affocandolo cadea di botto.
Quando que' dentro videro i fastelli
intorno intorno venir della stipa,
e le lumiere con accesi panelli,
della speranza ciaschedun si stipa,
e disser: Megli' è campar le persone,
che lasciarsi morire in questa ripa.
E diersi allor con quella condizione,
e 'l Castel pe 'l modo, ch' udirai,
de' Saracin per la detta cagione.
So ben, Lettor, che mi riprenderai,
che troppo brieve ti dico ogni cosa,
perchè 'l dir lungo m' ene grave assai.
Se vuogli esser più chiar, leggi la prosa,
ch' a questo mo i' ho fatto a mio diletto,
e d' altri, schifi della lunga chiosa.
Molto ne lascio, e niente ne metto:
non più di questo; nell'altro per mancia,
poich' è compito il numero perfetto,
diren del gran Filippo Re di Francia.
c. 26, argumento
Come dal Re di Francia fu sconfitto
quel di Raona, e rimase prigione,
e come si fuggì, siccom' è scritto,
e come il Re di Francia si morío
in brieve tempo, come piacque a Dio.
c. 26
Tant' era inanimato, ed infiammato
Filippo Re di Francia contro a Piero
Re di Raona del tempo passato,
ch' ogni suo voglia, ed ogni suo pensiero
era di fare asprissima vendetta,
e questo far non potie di leggiero.
Da ogni parte molta gente alletta,
e Cavalier si trovò in Tolosana,
poichè la Chiesa fu con lui ristretta,
ben ventimila di gente sovrana,
e duo cotanti pedoni crociati,
e di pecunia piena la fontana.
Mosse di Francia, e seco ebbe menati
due suo' figliuoli quel Signor Reale,
Filippo, e Carlo bene accompagnati.
E 'l buon Messer Cervagio Cardinale
non si partì giammai dalla Corona,
rappresentando la forza Papale.
E così cavalcarono a Nerbona,
per passar, siccome avea ordinato
a prendere il Reame di Raona.
Onde il figliuolo era privilegiato
da Santa Chiesa, ch' aveva in Proenza
grandissimo navilio apparecchiato.
E Giacomo trovò in sua presenza
fratello del Re Piero, e suo nimico,
che gli avea fatto tor con sua potenza
Maiolica d' Anfuso, com' io dico,
del suo Padre Re Pier primo figliuolo,
e felnel Re, ed e' ne fu nemico.
Di Maggio da Nerbona il grande stuolo
si mosse, e cavalcaro a Perpignano
per le Terre d' Anfuso di Riuolo.
Milledugento ottantacinque invano
aviene allora in questa caminata,
dalla nazion del Salvator Sovrano.
E la Città d' Aganne ebber trovata,
che per Re di Raona si tenea,
ed era al detto Anfuso rubellata.
E 'l Re di Francia, quando ciò sapea,
la prese per battaglia, e fe morire
uomini, e donne quante ve n' avea.
Che non ne campò altro, allo ver dire,
che lo Bastardo sol di Rosiglione,
che 'l campanile a patti volle aprire.
E lo Re poi sanza dimorazione
disfece quella Terra, e le campagne
pensa mandare a simil condizione.
Andonne poi appiè delle Montagne,
che per confini son di Catalogna,
e lo Re Pier co' suoi di ciò compiagne.
E prese il passo, e ciò, che ne bisogna,
sì la forzò, ed in persona vi stette,
per non ricever danno, nè vergogna.
Sentendo il grande esercito, temette;
ma pur si confidò nel forte passo,
ch' al danno arroge chi più vi si mette.
Già era dello star Filippo lasso,
quando il Bastardo, a cui lasciò la vita,
diss': Io vi guiderò per altro passo.
E 'l Re prese de' suoi una partita,
e seguitò di notte quel Bastardo,
che li guidò per un' aspra salita.
Onde il Re Pier non pigliava riguardo,
perchè di pruni, e sprocchi era sì piena,
che uscir non ne dovia il liopardo.
Ma que' pur la salir, non sanza pena,
che a' cavalli parea con gli stocchi
forato il corpo, ed aperta ogni vena.
E lo Re Pier alzando all'alba gli occhi
vide i nemici, e disse: La speranza
da ora innanzi non vo', che m' imbocchi.
E con suo gente sanza dimoranza
di quindi fu partito incontanente,
e rifuggì dove avie più fidanza.
Allor passò l' avanzo della gente
del Re di Francia, e nel piano schierata,
mancando vittuaglia di presente.
Acquistaron Fighiera, e Pietralata,
ed altre Terre; 'n questo giunse un messo,
che recò lor novelle dell'armata,
e lo Re fe, che le portasse ad esso
al Porto Rossesens, all' Acqua Morta,
ch'era da quattro miglia all' oste presso.
E 'l Re di Francia di ciò si conforta,
ed assediò Gironda, che lo sprona,
avendo vittuaglia, colla scorta
della sua armata; e dentro si ragiona,
che per lo Re Pier v'era Capitano
il buon Messer Ramondo di Cardona:
il qual veggendo l' oste a mano a mano,
mise fuoco nel Borgo a suo vantaggio,
per istar poi nella Città più sano.
E dava all' oste sì grande dannaggio,
che 'l Re giurò di non partirsi mai,
se non avesse quindi signoraggio.
Ed all'assedio dimorando assai,
e l' oste cominciò molto a scemare,
che per caldo, e per puzzo traen guai;
e cominciarsi quivi a raunare
alla carogna le mosche, e' tafani
tante, che alcun non vi poteva stare;
ed eran peggio, che' morsi di cani
le lor punture, e sì fatta semenza
corrupper l' aria, e morieno i Cristiani.
E crebbe tanto questa pestilenza,
che 'l Re del saramento, ch' avie fatto,
si pentè, nè però fece partenza.
E lo Re Pier s' ingegnava ogni tratto
colla suo gente starsi di nascoso,
per impedir di vittuaglia ogni atto.
E 'l dì dinanzi alla Donna d' Agosto
con cinquecento Cavalier s' appaga
di stare in guato con gli altri riposto;
che gli fu detto, ch' allora la paga
doveva andare a' Cavalier Franceschi;
credette averla, ed ebbe piggior piaga.
Perchè certi Baron gagliardi, e freschi,
come Dio volle, sepper dell' aguato,
e furo a cavalcar molto maneschi;
e dissono: Il Re Piero, com' è usato,
non uscirà contr' a noi a battaglia,
se non si vede molto vantaggiato,
andianvi pochi, e l' un per sette vaglia.
E così mossero insieme trecento,
e quando furon presso all'avvisaglia,
e lo Re Piero, e' suoi con ardimento
percossero a' Franceschi, e que' Baroni
andaron verso lor di buon talento
con lance prima, e poi con gli spuntoni;
Pier fu sconfitto, e poi fedito, e preso;
ma poi buon' arme gli furon gli sproni.
Tegnendo uno per la redina atteso,
la cedonia tagliò della man manca,
e con gli spron da lor si fu difeso;
e poi fuggendo con sua gente franca,
lasciando assai de' suoi fediti, e morti,
per suo scampo n' andò in Villafranca.
E 'l Re di Francia, e suo' Baroni accorti,
sentendo Piero sconfitto, e fedito,
si strinsono a Gironda molto forti.
Que' dentro preson subito partito,
e diersi a patti, e 'l Re di Francia poi
fornì di ciò, che bisognava il sito.
Già n' eran molti partiti de' suoi
legni dal Porto, ed andatine via
per le cagion, che udite aver tu puoi:
quando Ammiraglio, Ruggier dell' Oría,
vegnendo, per soccorrere il Re Piero
con tutta quanta l' armata, ch' avia,
perchè fallato si vide il pensiero,
ed il navilio Francesco scemato,
percosse nell'avanzo ardito, e fiero.
E per abbreviar nostro trattato
e' gli sconfisse, e Messer Inghirramo
del Re di Francia Ammiraglio pregiato
ne menò preso; e poi di ramo in ramo
affocò le galee, e parte n' arse;
di che Filippo fu poi molto gramo.
Partissi il vincitore, e' legni sparse.
Giugnendo il Re Filippo, alla riscossa
tutte le forze sue furono scarse.
Questa gli fu al cor sì gran percossa,
ch'egli ammalò, e per partito prese
d' andarne in Tolosana, e fe la mossa.
La gente con poc' ordine si stese,
chi me' potev' andarne, era 'l migliore,
sanza pensar di riceverne offese.
E' Ragonesi, e' Catalan di core,
veggendogliene andar così sfidati,
presero il passo con molto valore.
Come i Franceschi ne furo avvisati,
mandar da parte il Re guardato in bara,
ed e' percosser come disperati.
Ruppergli, e vinson del passo la gara,
poi cavalcaron tanto con disio,
ch' a Perpignan fu la lor giunta amara.
Perocchè quivi, come piacque a Dio,
dì due d' Ottobre del sopraddetto anno,
il Re di questa vita si partío.
La suo morte alla Chiesa fu gran danno,
che per crescere la sua signoria,
non curò mai periglio, ned affanno.
E la suo Donna, Reina Maria
fe gran lamento; e' parenti, e gli amici,
e' figliuol fero il corpo portar via,
per più onore de' Reali, a Parigi;
e quivi fu riposto, ed onorato,
con gli altri suoi in Santo Dionigi.
Appresso fu di Francia incoronato
il suo primo figliuol, Filippo il Bello,
colla Reina Giovanna dallato.
Ritornoti al Re Pier, siccome a quello,
in cui valore ogni fiata abbonda.
Come passato sentì il suo ribello,
colla suo gente racquistò Gironda,
e que', che v'eran per lo Re di Francia
poveramente n' andaro alla tonda.
E lo Re Pier, ch' aveva d' una lancia
nel viso ricevuta una fedita
alla sconfitta, e tenevala a ciancia,
prima che fosse saldata, o guarita,
prese con una donna tal diletto,
che di Novembre uscì di questa vita.
E nota, che nell'anno sopraddetto
quattro maggior Signori andaro al chino,
che fosser tra' Cristiani, in vero effetto:
il Re Carlo di Puglia, e po' vicino
gli fu il Re di Francia, e Pier fu il terzo
Re di Raona, e poi Papa Martino.
Non è al mio parer sì bello scherzo,
che non rincresca, e però m' aumilio,
e di nuova materia omai ti sferzo.
Nel detto tempo vegnendo navilio
di Romanía, ch'era di Genovesi,
e d' altri mercatanti ad un concilio,
li rapportò fortuna ne' paesi
di Pisa, e da' Pisan furon per sapa
tutti rubati, e menatine presi.
Dì ventitrè di Maggio Martin Papa
in Perugia morì; e 'n suo mortorio
non fu di manco il valer d' una rapa.
Appresso a lui fu il quarto Papa Onorio
de' Savelli da Roma, che vivette
due anni; e, come ognuno è transitorio,
morì; ma infra 'l tempo, che ci stette,
come dicemmo addietro, il Conte Guido
da Montefeltro a Romagna premette.
Ed avendo el già perduto il nido
di Faenza, e di Cervia, e d' altre Terre,
all' ubbidenza venne sanza grido
del detto Papa, per lasciar le guerre;
ed e' gli perdonò, ed in Piemonte
il confinò, e quivi ebbe le serre.
E fece appresso di Romagna Conte
Messer Guiglielmo, Provenzal novello;
e di lui bastin le parole conte.
Allora i Frati di Monte Carmello,
che del Carmino son da noi chiamati,
e Santo Elia fu lor Padre, e Fratello,
vestivan tutti di panni torchiati
per lo traverso di bigio, e di bianco,
che piuttosto parean buffon, che Frati.
E 'l detto Papa valoroso, e franco
fece lor far la Cappa bigia intera,
comecchè poi mutata si è quell'anco.
E 'l Soldan Saracin, che 'n quel temp' era,
benchè de' Cristian fosse quel Convento,
avie 'n divozion cotale schiera.
Ma poich'ebber mutato vestimento,
e non vestien, come Santo Elia
avie vestito nel cominciamento,
pe 'l Papa dispettar li cacciò via,
e 'l Monte fu da' Saracin da sezzo;
e questo basti di tal diceria.
Appresso poi il Vescovo d' Arezzo
fe rubellare a' Sanesi vicini
Castel Santa Cecilia, e mutar vezzo.
A priego di molti altri Ghibellini,
e' diede a' Guelfi gran turbazione;
ma colla forza poi de' Fiorentini,
e della Taglia, ch' avia per Campione
il franco Conte Guido di Monforte,
v' andò il Sanese a oste per ragione;
e cinque mesi stette in quelle sorte,
gittandovi i trabocchi, com' i' scrivo,
nè 'l Vescovo al Castel dar potia scorte.
Onde que' dentro il Sabato d' Ulivo
se n' uscir fuori, e furne morti assai,
e chi fu preso, fu impiccato vivo.
E 'l Castel fu disfatto con lor guai
infino a' fondamenti a mano a mano:
e vo' che sappi quel, ch' ancor non sai;
che in Firenze era car tenuto il grano,
che valea lo sta' soldi diciotto;
e trentasei il fiorin; quest'è certano.
Nel detto tempo in Firenze condotto
fu dello 'mperio Vicario di fresco,
e 'n Casa Mozzi fece suo ridotto,
Messer Giovanni, e fu di que' dal Fiesco,
mandato da Ridolfo Imperadore,
e Papa Onorio quel fe far di fresco.
A tutte Terre Guelfe ambasciadore
mandò, che comparisser cotal giorno
a giurar d' ubbidire al suo Signore.
Ma niuno ce ne venne, e con iscorno
n' andò Arezzo, e là fece sbandire,
i Fiorentini, e gli altri Guelfi intorno.
E non veggendo ad alcuno ubbidire
(forse che peggio acquistar si credette),
e' tornò nella Magna al maggior Sire.
L' anno milledugento ottantasette
Onorio Papa si morío a Roma,
che poco tempo in su' letto giacette.
E secondochè il Libro di lui noma,
con parte Ghibellina tenne al mondo,
e della Guelfa pose giù la soma.
Del presente Capitol siamo al fondo:
nel principio dell'altro, di Fiorenza,
Lettore, alquanto ti farò giocondo,
se tu se' vago di giusta sentenza.
c. 27, argumento
Di Totto de' Mazzinghi, e po' dell' oste,
ch' andò Arezzo, e siccome a quel tempo
fuor di Firenze le 'nsegne eran poste,
e che dagli Aretini i lor paesi
al Toppo furo sconfitti i Sanesi.
c. 27
Ottantasette con milledugento
correvan gli anni del Signor Sovrano,
quand' era Podestà in Firenze attento
Messer Matteo di quelli da Fogliano,
a così fatto uficio savio, e dotto;
ed al suo tempo gli fu messo in mano
un micidial, ch' aveva nome Totto
de' Mazzinghi da Campi, e nella testa
per lo statuto il condannò di botto.
E poi mandando la Giustizia presta,
Messer Corso Donati alla Famiglia
il volle tor con altri a suo richiesta.
Ma pur difeso con ardite ciglia
lo rimenaro addietro al primo stallo,
e fu tenuto allor gran maraviglia.
Il popol trasse a piede, ed a cavallo,
gridando tutti giustizia, e ragione;
e 'l Podestad' allora sanza fallo
rivolse tutta la condannagione,
e condennol, ch'e' fosse strascinato
per tutta la Città come fellone,
e per la gola poi fosse impiccato;
e così fu per maggior sua tristizia.
E poichè 'l popol si fu racquetato,
minacciar poco valse, od amicizia;
che molti condannati ne fur poscia,
ch' avien voluto impedir la giustizia.
D' altra materia omai il mio dir croscia,
perocchè i Ghibellin crebber baldanza,
e morto il Papa diero a' Guelfi angoscia.
Ed essendo creata nuova usanza
in Arezzo, e fattovi un Caporale,
che si chiamò Prior di popolanza,
e fu di molto grande ardire; il quale
perseguitò molto i Grandi, e' possenti;
onde parendone a lor molto male,
i Guelfi, e' Ghibellin co' saramenti
insieme fur, Bostoli, e Tarlati,
e d' abbattere il popol fur contenti.
Corser la Terra per modi ordinati,
e fur vincenti; e se tu mi domandi
del Priore: gli occhi gli fur cavati.
E poi i Ghibellini, e' Guelfi Grandi
furon Signor; ma poco vi duraro,
com' udirai innanzi, che più vadi.
I Ghibellini tra loro ordinaro,
che 'l Vescovo facesse raunata
di fuori, e' Guelfi non se ne guardaro.
Que', ch'eran dentro, una porta ebbon data
a que' di fuor; po' l' uno, e l' altro insieme
la parte Guelfa fuor n' ebber cacciata.
E 'l Vescovo con tanto sforzo prieme,
che fu Signor del Comune Aretino,
ed ogni Guelfo allotta di lui teme.
Gli usciti Guelfi il Monte Sansovino,
ed il Castel di Rondine ebber preso,
e fecer lega poi col Fiorentino.
E con molti altri Guelfi ebber compreso,
ch'egli ebber da costor sì buone spalle,
che' Ghibellin dubitaron del peso,
e fecer sì, che Messer Prenzivalle
venne ad Arezzo Vicaro d' Imperio,
e d'ogni parte da monte, e da valle
raunò Ghibellin, con disiderio
di far portar la soma al Fiorentino,
ed al Sanese di lor vitiperio.
A Montevarchi fu il primo cammino,
arson d' intorno, ed andaronne a Chiusi,
e cacciaronne i Guelfi a lor dimino.
E' Ghibellini a lega ebber conchiusi,
e così fecer di Montepulciano,
benchè di volger mantel si sieno usi.
Nel detto tempo in Casa il Cerretano
s' apprese il fuoco; (dico 'l per gli avari)
ch' una balia fuggì col fanciul sano.
Ricordandosi poi de' suo' danari,
tornò per essi, e col fanciullo in braccio
rimasero amendue nel fuoco pari.
Ancor nel detto tempo non ti taccio
l' armata, ch' avie fatta il Conte Artese,
balío di Carlo, e per suo gran procaccio
da Napoli si mosse di palese;
Messer Rinaldo Danelli a suo posta
passò in Cicilia, e là per forza prese
subitamente la Città d' Agosta,
ed a Brandizia rimandò il navile,
per rifornir la Terra sanza sosta.
Ma come il seppe quel Signor gentile,
Don Giamo Re di Cicilia, e Raona,
raunò gente, e non fe come vile.
E la detta Città non abbandona,
ed assediolla intorno, intorno, a fine
di racquistarla, e ne mandò in persona
Messer Ruggieri a guardar le marine,
perchè l' Agosta non fosse fornita,
ned altra armata s' aggiugnesse quine.
E quando la novella fu sentita
dal Conte Artese, fece grande armata,
per dar soccorso all' Agosta sfornita,
ed Ammiraglio fe di tal brigata
il Genovese, Messer Arrighino,
nè fu la prima, ch'egli avie guidata.
Messer Ruggier, che 'l seppe intrò in cammino
colla sua armata, e 'l giorno del Batista
fu nel Porto di Napoli il mattino.
E dentro saettar con molta vista,
villaneggiando di parole molto
il Conte Artese, e gli altri di suo lista.
Onde i Baron, che stavano in ascolto,
comandamento non voller, nè cenno.
Corsero alle galee con chiaro volto
il Conte di Monforte, e quel di Brenno,
da più Franceschi, e Provenzal seguiti,
sanz' ordine, con furia, e senza senno.
E' Catalan, che s' eran già partiti,
e dilungati delle miglia sei,
veggendosi per tal modo assaliti,
a lor si volser con gli animi rei,
e' Franceschi percosser francamente
con tal romor, che contar no 'l potrei.
La battaglia fu grande, e finalmente
perderono i Franceschi, perchè in mare
della battaglia non sapean niente.
Molti ne furon morti, ciò mi pare,
e presi assai, che la condannagione
pagarono, e poi fur lasciati andare.
Quel di Monforte si morì in pregione,
Carlo Martello ne dibassò molto,
e 'l Conte Artese, ed ogni suo Barone;
e non sperando aver soccorso mai,
Agosta s' arrendè dopo l' affanno,
saputa la sconfitta, ch' udirai.
E tra le dette parti per un anno
si fece poscia triegua generale.
Or ti muto materia d' altrui danno.
Nel detto tempo il dì di Carnasciale
s' apprese in Firenze il fuoco, e 'n vampo
arse un palagio nobile, e reale,
che teneva di vero sanza inciampo,
e non pensar, che quì bugia coperchi,
da Casa i Pazzi a Santa Maria in Campo;
il quale allotta era di Neri Cerchi,
pognan, ch'egli il rifecer viepiù bello,
perocchè di danari avien soperchi.
E nel dett' anno, com' io ti favello,
per Cattedra San Piero, al suo onore,
i Cardinali fer Papa novello.
Niccola quarto, e fu Frate Minore:
regnò quattr' anni, e nella Papal gonna
a' Ghibellini diè molto favore,
e fece Messer Pier della Colonna
di Roma suo Cardinal, nonostante,
ch'egli avesse in quel tempo sposa, e donna,
e lei fe monacar con altre alquante;
e fece degli Orsin Cardinal poi
Messer Napoleone a lui davante,
peroch'egli era nemico de' suoi
consorti, ch'eran Guelfi, e stu se' dotto,
perch'egli il fece, omai conoscer puoi.
Negli anni milledugento ottantotto
i Fiorentin con più Guelfi fer lega,
volendo mettere Arezzo al disotto;
perchè il Vescovo lor metteva in piega
con altri Ghibellini il lor Contado,
e quel di Siena con simile sega.
E solamente del lor Vescovado
fero ottocento a caval cavallati,
Grandi, e popolan, di lor buon grado,
e fer trecento Fiorentin soldati;
sicchè si ritrovaron con gli sproni
da dumila secento bene armati,
e dodici migliaia di pedoni,
e l' oste fer bandir sanza fallanza,
e poscia dier le 'nsegne, e' Gonfaloni.
A Ripoli otto dì fer dimoranza,
perocchè solamente per grandigia
tenie Firenze allora quell' usanza;
perchè la mossa lor non fosse bigia,
ma chiara a tutta gente, e che 'l nemico
potesse riformar la suo valigia.
S' io 'l dissi per addietro, ed anche il dico,
il fo, perchè mi piaccion le proposte
del bel costume, ch'era a tempo antico.
Il primo dì di Giugno mosse l' oste,
e nel Contado fur degli Aretini,
e Leone disfecer sanza soste.
Poi preser Castiglion degli Ubertini,
e ben quaranta d' altre lor Fortezze
innanzi, ch'egli uscisser de' confini.
A Laterina poi mostrando asprezze
Capitan v'era Lupo degli Uberti,
ch' a patti s' arrendè sanza durezze.
E quando biasimato fu da certi,
rispose motteggiando: I' mi vi scuso,
ched i' avea molti ma' dì sofferti:
e sapete, che 'l lupo non è uso
di star serrato sanza manicare;
ond' io star non volli più rinchiuso.
Giugnendo po' i Sanesi a guerreggiare,
con quattromila a piè sanza dimoro,
e quattrocento Cavalier d' armare,
da parte voller far campo per loro,
guastando, e dirubando arnesi, e panni,
e tagliar l' Olmo, ch'era lor tesoro.
La vilia di Messer Santo Giovanni
il vento stracciò lor trabacche, e tende,
e diè lor segno di futuri danni.
Il dì di San Giovanni il cor s' accende
a' Fiorentini, e schieransi insul prato,
presso alla porta d' Arezzo, s'intende;
e fer correre il palio al modo usato,
come in Firenze fanno per la festa,
e fer più Cavalier dall'altro lato.
E l' altro dì si mosser sanza resta,
volendo ritornare in lor paesi,
fuggendo i Fiorentini gran tempesta.
E richieser al muovere i Sanesi,
che per lor sicurtà da Montevarchi,
con loro insieme n' andasser palesi.
Ed e' risposon: Non vi date incarchi
de' nostri fatti; noi sappian la via,
e non abbiam bisogno de' vostri archi.
E con suo gente fe lor compagnia
il buon Conte Alessandro di Romena,
che della Taglia aveva signoria.
Partiti i Fiorentin da que' di Siena,
ritornaro a Firenze con vettoria,
che d' allegrezza subito fu piena.
E' Sanesi n' andaron pien di boria,
per guastar Lucignan di Valdichiana,
non per bisogno, ma per vanagloria.
Quando sentì la loro andata vana
Messer Guiglielmo Pazzo, e savio troppo,
d' Arezzo uscì con suo gente sovrana,
e 'n guato stette dalla Pieve al Toppo;
dove giugnendo i Bessi con baldanza,
e sprovveduti, n' ebber male intoppo.
Che gli Aretini con molta arditanza
sconfissero i Sanesi, e dibassaro
per questo fatto i Guelfi lor possanza.
E gli Aretini in superbia montaro,
come più innanzi ne faren contata;
e questo basti al dolce, ed all' amaro.
In questo tempo essendo in Pisa nata
una divisione infra tre Sette,
per cui la Signoria era bramata,
e Caporal dell' una delle dette
fu di Calavra il buon Giudice Nino,
con certe Case a lui più ristrette;
dell'altra Capo fu il Conte Ugolino,
con altri Guelfi, ch'eran volentieri
a seguitarlo la sera, e 'l mattino;
dall'altra l' Arcivescovo Ruggieri
co' Lanfranchi, Gualandi, e Sismondi,
ed altri Ghibellini a ciò leggieri;
il detto Conte con pensier profondi
tradì il nipote, fil della figliuola,
Giudice Nino, e suo' Guelfi secondi;
e fe coll' Arcivescovo suo scuola,
ed ordinò, che quel fosse cacciato
co' suoi seguaci, e preso alla tagliuola.
Quando il Giudice Nin sentì il trattato,
ch' avia fatto il Conte, e con suo' tralci
non sentendosi forte a tal mercato,
uscì di Pisa, ed andossene a Calci,
e co' Lucchesi, e co' Fiorentin fece
compagna, e lega d' altro, che di salci,
contro a' Pisani, siccome gli lece,
e 'l Conte prese poi la signoria,
curando della Lega men d' un cece.
Ma piacque a Dio, ed a Santa Maria,
che per gli suo' tradimenti, ed inganni,
tenesse poco sì fatta balía.
Perocchè non dinanzi a quel molti anni,
il Conte Anselmo fece avvelenare
figliuol di sua sirocchia con affanni.
Avvenne, che nel suo signoreggiare,
veggendo l' Arcivescovo partiti
parte de' Guelfi, li volle cacciare,
mostrando, ch'egli avie i Pisan traditi,
rendendo a' Fiorentini, ed a' Lucchesi
certe Castella; onde per ta' partiti,
due suo' figliuoli, e tre nipoti presi
furon con lui insieme, e fuvvi morto
il bastardo, e 'l nipote, a ciò che 'ntesi:
e que' messi in pregion sanza conforto,
e tutti i suo' seguaci fuor di Pisa
cacciati furo, ed amico, e consorto.
D' Agosto poi n' ebbe caro di risa
Pisa, perocchè i suoi Guelfi cacciati,
Lucchesi, e Fiorentin sanza divisa
coll' oste fur nel suo Contado andati,
e conquistaro il bel Castel d' Asciano;
onde i Lucchesi a casa ritornati,
nella Torre di quello, a mano, a mano
fecer d' intorno por dimolti specchi,
perchè vi si specchiasse entro il Pisano;
il qual potea ben dir: Tu là ci becchi.
Lascian di loro, ch' ancor troverrai,
che la vendetta tempera gli orecchi,
se più innanzi alquanto leggerai.
c. 28, argumento
Del Pisan Conte Ugolino, e de' suoi,
e come la Real si portò prima,
e come l' Arno fe oltraggio a noi,
e Carlo fue incoronato a tondo,
ed Arezzo sconfitto a Certomondo.
c. 28
Nel detto tempo, se 'l libro non erra,
in Pisa eletto fu pe' Cittadini
il Conte Guido Capitan di guerra;
ch'era in Piemonte, e rompendo i confini
a Pisa venne, e fu scomunicato
con tutti i suoi grandi, e piccolini.
E giunto in Pisa, pienamente dato
ogni albitrio gli fu, e ogni balía,
e fugli il Conte Ugolino assegnato,
co' figliuoli, e' nipoti in pregionia
in una Torre presso agli Anziani,
e poich'egli ebbe udita suo follía,
chiese le chiavi, e po' colle sue mani
le gittò in Arno, e fece conficcare
la porta, e tutti i lor pensier fur vani.
Istati eran due dì sanza mangiare,
e sanza ber, quando a boci levate
dimandar di potersi confessare,
nè conceduto fu Prete, nè Frate,
e 'n pochi giorni si morir di fame,
e morta era per loro ogni pietate.
Quando alla Torre s' aperse il serrame,
l' un sopra l' altro fur morti trovati,
e tiratine fuor come letame,
e' fur miseramente sotterrati;
ma della crudeltà, ch' avieno usata
i Pisan, furon molto biasimati.
D' allora in quà fu la pregion chiamata,
la Torre della fame, e fu ragione.
Di Pisa basti per questa fiata.
Nel detto tempo uscì fuor di prigione
il Prenze Carlo; e lo Re Adoardo
dell' Inghilterra se ne fe Campione.
Promise il Prenze, che sanza riguardo
con Carlo di Valosa adoperrebbe,
ch' al privilegio, ch'egli avia gagliardo,
della Raona si rifiuterebbe,
e se ciò non facesse fra tre anni,
che nella suo pregion ritornerebbe:
e per istatichi diè sanza inganni
tre suo' figliuo', che 'l primo fu Ruberto,
l' altro Ramondo, e 'l terzo fu Giovanni.
Ruberto fu colui, che fu per certo
Re di Gerusalem, e di Cicilia,
più che altro Signor mai savio, e sperto.
Questi fu quel, ch' all' Arme, che si giglia,
fe di vermiglio arrogere il rastrello,
e di cui i Guelfi sempre fur famiglia.
Ritorno al Prenze, che n' andò al fratello
del Re di Francia, Carlo di Valosa,
e lui pregò, che rinunziasse a quello;
ma e' non volle fare niuna cosa.
E questo basti; che matera nuova
pigliar conviemmi, e seguitar la prosa.
Nel detto tempo in Firenze, per piova,
il fiume d' Arno passò i suo' confini,
e come chiaro scritto ancor si trova,
fe cader del palagio degli Spini,
e certe case ancor de' Gianfigliazzi,
e danneggiò i Pisani; e lor vicini;
e furon di Dicembre i detti guazzi.
Appresso poi gli Aretin con lor gente
a Montevarchi venner, come pazzi,
e non lasciaron dintorno niente:
arsero il Borgo, e 'l Castel combattero;
ma nulla v' acquistaro finalmente.
Gli usciti di Firenze allor di vero
si raunarono insieme a Figghine,
a cavallo, ed a piè per tal mistiero.
A San Donato vennero in Colline,
ardendo, ed abbruciando d'ogni lato,
e donde mosser si tornaro al fine.
Onde poi per sospetto di trattato,
ch'ebbe de' Ghibellini il popolano,
ne fu alcuno di Firenze cacciato.
Poi gli Aretin fecer oste a Cacchiano,
che s' era rubellato, ciò mi pare,
ed accerchiato l' avien d'ogni lato,
e' Fiorentin per fargliene levare,
a Laterina n' andar di scoperto,
con quanta gente allor poteron fare.
E la 'nsegna di Carlo per lo certo
diero ad un Cavalier di buona gesta,
ciò fu de' Frescobaldi Messer Berto.
Nota, che fu la prima volta questa,
che' Fiorentin per l' oste generale
portasser tale insegna manifesta.
E' d' allora presero tal segnale,
come amadori, e servidor di quello,
e di ciascun suo Signor naturale.
Sentendo gli Aretin cotal zimbello,
di notte si levar dal campo in rotta,
e ad Arezzo tornar sanza drappello.
Ma per vergogna poi in poca d' otta
usciron fuori, ed a petto n' andaro,
du a campo era il Fiorentino allotta:
salvo ch'egli era in mezzo il fiume d' Arno,
e la battaglia chieser per messaggio,
che con gran festa accettata fu indarno;
perchè ogni parte volea il vantaggio
della battaglia, e niun passò il fiume,
per non ricever dal nimico oltraggio.
Vedendo gli Aretin cotal costume,
a Nona verso Arezzo se n' andaro,
e parve a me, che vedesser lume.
E' Fiorentin fin al Vespro sonaro
le nacchere, e le trombe in cennamella,
e poi per lor Contado cavalcaro.
De' Pazzi di Valdarno tre Castella
ebber per forza, e misero al dichino
infino a' fondamenti, si novella,
Monte Marciano, e poi Monte Fortino,
e Poggio Tazzi, a tutti fu la schiena
rotta, e disfatta allor dal Fiorentino.
Gente degli Aretin, ch'era a Bibbiena,
con gli sbanditi Fiorentin, di lieve,
per vendicarsi di sì fatta mena,
venner guastando insino al Ponte a Sieve,
e con gran preda poi in lor paese
si ritornaro; e bastiti il dir brieve.
Nel predett' anno, e di Settembre il mese
mosser di Roma dugento Soldati,
che a Pisa ne venivan di palese,
dal Conticin di Maremma guidati.
E' Fiorentin ne mandar duo cotanti,
acciocchè i passi lor fosser vietati;
de' qua' fu Messer Guelfo Cavalcanti,
e Bernardo da Rieti Capitani,
in Maremma furono a lor davanti.
E poichè furon venuti alle mani,
la battaglia fu dura, e finalmente
rotti, e sconfitti fur que' de' Pisani.
E vennerne quà presi una gran gente,
de' qua' fu il sopraddetto Conticino,
con loro insegne recate vilmente.
E Bernardo da Rieti Paladino
fu fatto Cavalier per le sue prove,
con grande onor dal Comun Fiorentino.
E nel milledugento ottantanove
alla Città di Tripoli in Soría,
venne il Soldan, che dell' Egitto muove,
ed assediolla con suo gente ria,
e tanto fe con trabocchi, e con cave,
che n' acquistò per forza signoria.
Nè valse il dire il Paternostro, e l' Ave
a que' Cristian, che dentro vi trovaro,
che a tutti quanti fu la morte grave.
E pulcelle, e garzon vitiperaro,
e poi gliene menarono in servaggio,
e la Città disfecero, e rubaro.
Lasciando il Saracin, come selvaggio,
del Prenze Carlo ti vo' far menzione,
che giunse quì il secondo dì di Maggio,
ed onorato ci fu per ragione,
e furgli fatti di ricchi presenti
per lo Comune, e non sanza cagione.
Ond' egli, e' suoi si partiron contenti
il terzo giorno, e presero il cammino
inverso Siena; e' Fiorentini attenti
ebber novella, come l' Aretino
guardava d' assalirlo insulla strada,
come nemico d'ogni Ghibellino.
Allora vi si mandò la masnada
de' Cavalier soldati, e Cavallate,
che 'l sicurasser per ogni contrada.
Quando in Arezzo il sentir le brigate,
non uscì fuor persona per paura;
e' Fiorentin seguiron le pedate.
Giunsero al Prenze, ed egli oltra misura
l' ebbe per ben, che senza dimandata
vide chi ebbe di sua vita cura.
Quand' egli ebber la Bricola passata,
e li confin di Siena, quel Signore
li ringraziò, e poscia gli accomiata.
E' Fiorentin gli chieser con amore
un Capitan di guerra Generale,
che fosse vago d' acquistare onore,
e di poter la sua insegna Reale
portar nell' oste; ed e': La mia persona,
disse, sia vostra con ciò, ch'ella vale.
Poi chiamò Amerigo di Nerbona,
e fecel Cavaliere, e disse a loro:
Questi è quell' uom, che per voi si ragiona.
Ed a lui disse: Vanne con costoro
per Capitano, ed infino alla morte
fa, che ti metta in ogni lor lavoro.
Vennesene a Firenze; e Carlo forte
cavalcò tanto, che fu giunto a Rieti,
dove il Papa teneva allor la Corte.
E 'l Papa, e' Cardinal fur molto lieti
della venuta sua, e sanza sosta
d' un voler tutti, siccome discreti,
fecer, che 'l giorno della Pentecosta,
dì ventinove del Maggio contato,
dal Padre Santo, con loro alla costa,
di Puglia, e di Cicilia consegrato
fu Re con molto trionfo, ed onore,
e da Papa Niccola incoronato;
e ricevette don di gran valore
da Santa Chiesa, siccom' era degno,
ed altre grazie; onde ne fu maggiore.
Poi si partì, ed andonne nel Regno;
nè più di lui al presente t' intrigo,
per partorir, di che rimasi pregno.
Giunto in Firenze Messer Amerigo,
colla Cavalleria, e riposato
alquanti dì, come d' inchiostro rigo,
i Fiorentin per l' oltraggio passato,
bandir l' oste ad Arezzo, e dier le 'nsegne,
ch' a Ripoli n' andaro al modo usato.
E alla Real, ch'era delle più degne
Messer Gherardo Ventrai' Tornaquinci
ne fu Campion con diritte convegne.
E mostrando voler far la via quinci;
cioè, donde le 'nsegne s' eran poste,
passaron l' Arno, come piacque a' Princi.
E seguitar volendo lor proposte
si raunaron tutti a Monte al Pruno,
e raunati, insieme tutta l' oste,
si ritrovar, sanza manco niuno,
ben mille novecento Cavalieri,
con diecimila a piedi, e non men uno,
coll'amistà, che v'era volentieri,
che vi fur tutti a piedi, ed a cavallo
que', ch' udirai, secondo lor poderi.
Secento chiari fur, come cristallo,
i Cavalier Fiorentin di Fiorenza,
e furvi due de' Prior sanza fallo;
e l' amistà, non vo', che sia credenza,
Siena, Bologna, Volterra, e Pistoia,
e Lucca, e Prato, e Sanmeniato lenza.
Colle, e Sangimignan vi fur con gioia,
e Mainardo ancor dell' Ubaldino
co' Romagnol vi venne sanza noia.
Quindi si sceser giù nel Casentino,
sopra le Terre di Guido Novello,
allora Podestà dell' Aretino.
E que' d' Arezzo udendo il gran macello,
che' Fiorentin facien con lor brigata,
con loro sforzo uscir fuori a pennello;
e vennerne a Bibbiena, e di battaglia
i Fiorentin richieser, dispregiando,
gl' insazzerati coperti di maglia.
E' Fiorentini accettaron, trombando
dall'allegrezza, e furono schierati
appresso a Poppi, i nimici aspettando.
E 'l franco Messer Corso de' Donati
fu Capitan di tutta l' amistade,
ch' a piede, ed a caval v'erano armati.
Disse 'l Maggiore: Colle tuo masnade
non fedir mai, se non l' hai da mia parte;
allor co' tuoi procaccia la bontade.
Essendo ancora l' una, e l' altra parte
nel piano, al luogo detto Certomondo,
più che mai fosse gente, e con più arte,
a undici di Giugno, il dì giocondo
di Santo Bernabà diero alle schiere
il nome, come s' usa in simil pondo.
I Fiorentin Nerbona Cavaliere,
e gli Aretin chiamaron San Donato,
e seguitar lo stormo aspro, e maniere.
E dalla schiera grossa seguitato
fu loro assalto sì, che rinculare
fecero i Fiorentin dall'altro lato.
Ma pur sostenner sanza diserrare,
e francamente si misono avanti,
dando, e togliendo, come sapien fare.
E Messer Corso, Capitan de' Fanti,
e Cavalieri amici, come franco,
veggendo innanzi a se combatter tanti,
non aspettò il chiamare, e diè per fianco;
e tutti gli altri d'ogni parte a grido,
ed a romore allor percosson anco.
Ma 'l Podestà d' Arezzo, Conte Guido,
veggendosi ivi alle sue Terre presso,
ben con dugento si fuggì nel nido.
E dopo lungo combattere adesso,
rimase la vettoria a' Fiorentini,
come Iddio terminò cotal processo.
E furono sconfitti gli Aretini,
e furne morti mille settecento
da cavallo, e da piè in que' confini.
E furne presi sanza fallimento
più di domilia, che ricomperati
molti ne fur per oro, e per argento.
E nondimeno a Firenze legati
venner di loro settecenquaranta,
che alquanto stetter poi incarcerati.
Morta rimase quasi tutta quanta
lor Maggioranza; tre degli Ubertini,
e 'l Vescovo, di cui ancor si canta;
de' Valdarnesi molti Ghibellini
de' Pazzi, e da Figghine de' Grifoni,
e molti degli usciti Fiorentini;
e Guiderel da Orbiviero poni,
degli Aretin di guerra Capitano,
e di molti altri, ch'i' non fo sermoni.
Parrebbemi oggimai parlare invano,
s'io passassi il segnal di cento versi;
e fo quì fine, e poi a mano, a mano
seguiterò de' Fiorentini a versi.
c. 29, argumento
Quel che seguì della vittoria magna,
e come fu quell'anno grazioso,
e di battaglie, che fur nella Magna,
e come Arezzo, e Pisa trasser guai,
e d' altre cose, ch'io non dico, assai.
c. 29
I' ti contai il danno de' perdenti;
or è di nicistà, ch'io dica, come
arrivaro color, che fur vincenti.
Dico, che non vi rimas' uon da nome,
se none il franco Guiglielmo Bertaldi,
di Messer Amerigo Balío, e Pome,
e certi, perchè stetter fermi, e saldi,
i qua' son certo, che tu vo' ch'i' nomini,
ed io il farò, perchè non fur ribaldi.
E l' un fu Messer Tici de' Bisdomini,
e l' altro Messer Bindo della Tosa,
ed amendun valentri, e gentili uomini.
E de' fediti non ti vo' far chiosa,
che furon molti; ma senza dimora
ti vo' contare una mirabil cosa,
che avvenne in Fiorenza in su quell' ora,
che la vettoria fu, sanza fallire,
siccome Iddio in un punto lavora.
Essendosi i Prior giti a dormire
dopo mangiar, ch'eran la notte afflitti,
e l' uscio fu percosso con tal dire:
Istate su Signori, che sconfitti
son gli Aretini, e lor superbia cala,
e' Gigli son con vettoria diritti.
Levarsi su, nè 'n camera, nè 'n sala
non vidon criatura, e tutti in guato
stavan, che 'l Messo giugnesse alla scala.
E per Firenze era Vespro sonato,
quando giuns' uno a caval coll' ulivo,
ch'e' raccontò, come 'l fatto er' andato.
Allor non c' ebbe nè buon, nè cattivo,
che non facesse festa smisurata,
per più diversi modi, ch'i' no scrivo.
Ritorno all' oste, che tutta schierata
cavalcò a Bibbiena, e per paura
que' dentro s' arrender quella fiata.
Rubarla tutta, e poi disfer le mura,
ed infra gli otto dì molte Castella
vennero ad ubbidire a lor misura.
Se cavalcato fosse l' oste bella
sanza ristar diritto alla Cittade,
Arezzo aveva chiaro, come stella.
Ma que' presero intanto sicurtade,
e riempieron la Città di gente,
sì di fuggiti, e sì d' altre Contrade.
Ma nientedimen sicuramente
l' oste v' andò, e guastando d' intorno,
ebber molte Castella di presente;
le quali fer guastar sanza soggiorno,
salvochè si ritenner per ispecchio
il Monte Sansovino forte, e adorno,
e Civitella, e Rondine, e Montecchio,
Castiglione Aretino, e Laterina.
Appresso Siena fece suo apparecchio,
sentendo Arezzo in sì fatta ruina,
mandò la gente sua alla sicura,
e prese alcuna Terra a se vicina;
Castel di Lucignano, e la Chiusura,
che gli Aretin tenieno a mal suo grado,
tornarsi a Siena con buona ventura.
E' Fiorentini al Vecchio Vescovado
d' Arezzo stetter venti dì, tra' quali
vitiperar la Cittade, e 'l Contado.
Perocchè asini, e sì altri animali
mitrati dentro gittar con dificj,
spregiando il Vescovo, e suo' Pasturali,
e torri di legname si fer quici,
ed altri ingegni, e misersi alla serra
tirando gli steccati, e le pendici.
E veramente, ch'egli avien la Terra,
se non che fecer sonare a raccolta
i Caporali, e trassero alla guerra.
E dissesi, che allor pecunia molta
v'era giucata; onde tutti turbati
furo i combattitori a questa volta.
Veggendo gli Aretini abbandonati
i badalucchi, e poi da canto porre
il ben guardar, perch'erano ammollati,
arson la notte il dificio, e la torre,
e cominciaro a ripigliar baldanza,
perchè la gente a niente soccorre.
E' Fiorentin lasciaro la speranza,
e 'l dì di San Giovanni presso Arezzo
fecer correre il palio a loro usanza.
E le Castella avute di scavezzo
forniron di vantaggio, perchè poi
agli Aretin facesson mutar vezzo.
Appresso il Capitan, con tutti i suoi,
a' dì quattro di Luglio fu tornato,
con quella festa, che pensar tu puoi:
perocchè a procissione il Chericato
incontro gli si fece colle Croci,
siccome fanno talvolta al Legato,
cantando tutti ad altissime boci,
Te Deum laudamus, con gli onori,
che 'ntorno a ciò si convien, veloci,
e le brigate degli armeggiatori,
e ciascun' Arte fe sanza dimoro
sua compagnia con diversi colori,
e fu da' Cavalieri un palio d'oro
portato sopra 'l capo al Capitano,
e dietro a lui con simile lavoro,
venne Messere Ugolin Parmigiano,
Podestà di Firenze, allor palese,
ed in quell' oste fu molto sovrano.
Nota, Lettor, che tutte quelle spese,
che si fecero allor nel tempo gaio,
si fecer d' una libbra, che si prese.
Sei lire, e cinque soldi il centinaio
d' estimo a' Contadini, e Cittadini,
ed era a tutti colmo par lo staio.
E trentasei migliaia di fiorini
montò in tutto, se me ne domandi,
nè più gravezze fero i Fiorentini.
Tornata l' oste, i Popolan de' Grandi
ebber sospetto, e sette maggior' Arti
si legarono insieme a tutti i bandi,
colle cinque seguenti prima sparti,
ed imposon tra loro insegne, ed armi,
come più innanzi convien, ch'io t' incarti.
E principio di popol questo parmi,
e la Città ne monta divantaggio
in buono stato, e poi sanza risparmj
ogni anno molti del mese di Maggio
facean brigate, e vestimenti cari,
contraffacendo ogni gran Baronaggio.
E stavan sempre in cene, e 'n desinari,
e ancor le donne facevan brigata,
ed ognun guadagnava assai danari.
Questo fu il miglior tempo ogni fiata,
che avesse mai Firenze insino all' ora,
poch'ella fu di prima edificata.
E così fece gran tempo dimora.
Lasciando questo, per mutar vivande,
e pur nel detto tempo furo ancora.
Essendo nata la discordia grande
tra due gran Signor, com' io ti porgo
quel di Bramante l' una delle bande;
dall'altra parte il Conte Luzzimborgo,
e di battaglia l' un l' altro richiesto,
per cagion del Ducato di Lamborgo.
Ciascuno a raunar gente fu presto,
mille trecento Cavalier fe 'l Conte,
e 'l buon Duca dugento più, che questo;
e l' uno, e l' altro con ardita fronte
insieme combatter sì aspramente,
che molti fecer di lor sangue fonte.
Cinquecento fur morti di lor gente;
ma la vittoria fu tra' principali
del Duca di Bramante finalmente.
E 'l Conte, con tre suo' frate' carnali
rimase morto nel presente stuolo,
poi fer la pace certi paciali;
et ad Arrigo del Conte figliuolo
la figliuola del Duca di Bramante
dieder per moglie, per cacciar via il duolo;
il qual cresciuto poi fu molto atante,
come più innanzi ti farò vedere;
ma d' altre cose prima dirò alquante.
Nel predett' anno avendo il Conte Artese
assediato il Castel di Catanzano,
che l' avie tolto a Carlo il Raonese,
fin di Raona il soccorse Don Gano
colla suo armata, e molti Cavalieri,
e la battaglia prese a mano, a mano.
E fu sconfitto con Messer Ruggieri
suo Ammiraglio, con tutta sua gente
a' legni rifuggiron volentieri;
e tanto navigar subitamente,
ch'egli assediar la Città di Gaeta,
sottoposta al Re Carlo, ed ubbidente,
acciocchè l' oste, ch'era di lor lieta,
di quel Castel si lavasser le mani,
per dar soccorso a tanto maggior pieta.
Ma essi stetter forti i Gaetani,
allo Re Carlo mandaron di botto,
per lo soccorso de' Napoletani.
Ond' el si mosse più ratto, che 'l trotto,
e da tutta suo gente fu seguito,
e scrisse al Conte, ed e' non l' ebbe a motto.
Ma subito lasciò il Castel fornito
di gente, e coll'avanzo si fu mosso,
per andar dove il Re Carlo er' ito.
Sentendosi venir tal gente addosso
Don Gano a Carlo fece chieder triegua.
E leverebbe il suo assedio grosso,
contento son, se tosto si dilegua,
rispose lo Re Carlo sanza inganni,
ma non vo', che in Calavra il patto segua.
E così feron triegua per due anni,
la qual non piacque a niun suo Barone,
perchè vedien Don Gano in grandi affanni.
E parea loro averlo già pregione;
per lui non vedieno alcun rimedio,
ed e' tornò sicuro a sua magione.
E 'l Conte Artese si tornò all'assedio,
e lo Re Carlo tutto allegro, e bello
a Napoli tornò a suo risedio.
E fece Cavalier Carlo Martello,
suo primo figlio, e fu incoronato,
siccome Re dell' Ungheria novello,
dal Cardinal, che 'l Papa avie mandato,
e la cagion, perchè 'n ciò fu accorto,
fu, perchè poco dinanzi passato,
il vecchio Re d' Ungheria s' era morto,
e la più stretta reda, ch'egli avia,
che dovesse venire a questo porto,
si era allor la Reina Maria,
sposa dello Re Carlo, e del garzone
Carlo Martel verace madre pia,
alla qual succedeva per ragione.
Ma morto il detto Re, e Andreasso
di Casa d' Ungheria per nazione,
prese il Reame, e non si vide lasso;
ch' alla più gente si fece ubbidire,
e fessi far Signor, ch'era nell' asso.
Lascioti di questo, volendoti dire
d' altra matera brevemente, e tosto,
acciocchè non ti rincresca d' udire.
Nel predett' anno del mese d' Agosto,
Guelfi usciti di Chiusi avendo preso
Ponte, ch' è sovra la Chiana posto,
e' Ghibellini, a cui era gran peso,
popolo, e Cavalier dell'arme sperti,
uscir di Chiusi; e se bene ho compreso,
fu Messer Lapo Farinata Uberti,
di tutta quella gente Capitano;
ed assediaro il Ponte, e prima certi
fur giti a Siena, ed a Montepulciano
per lo soccorso, e' Sanesi discreti
vi mandar la lor gente a mano, a mano.
Messer Bernardo, Capitan da Rieti,
capo ne fu, e con ardite fronti
que' di Montepulcian v' andaron lieti.
Guidogli Messer Benghi Buondelmonti,
ed isconfisser l' oste Ghibellina,
e centoventi furo i morti conti,
pregion dugento; ma Lapo Farina
si fu rivolto, con suo' compagnoni,
e verso Arezzo, quanto può, cammina,
e' Chiusan poi per avere i prigioni
cacciaro i Ghibellini, e' Guelfi in Chiusi
rimiser tutti, e finir le quistioni.
Nel detto tempo, come s' eran usi
i Lucchesi col braccio Fiorentino
fer oste a Pisa con arditi musi;
e fer correre il palio a lor dimino
il dì della lor festa, Santo Regolo,
e guastarle d' intorno ogni cammino.
E nota ben, Lettor, ciò, ch'io t' impegolo,
ch'e' guastar tutto il Castel di Caprona,
e Val di Buti, e di questo non begolo,
e tutta Val di Calci, si ragiona,
e 'ntorno a Vico, e poi preser comiato;
e 'l dir de' fatti lor quì s' abbandona.
Poi di Settembre tenendo trattato
i Fiorentin, d' aver per tradimento
Arezzo, siccome s' era ordinato;
nel Vespro un dì si fe comandamento,
che cavallate, soldati, e pedoni,
ed altra gente d' arme, stesse intento,
e seguisser le 'nsegne, e' Gonfaloni,
e così fu tutta la gente accorta
subitamente sotto i lor pennoni,
e la candela si pose alla porta,
e bando andò, ch' a pena della testa
fosse ogni uom prima, che fosse morta;
la Campana a martel sonava presta,
e tutta notte andò la gente bella
infinch' a Montevarchi fece resta.
E la mattina furo a Civitella,
ma 'l Messaggio, che quivi s' aspettava,
giugnendo, recò torbida novella;
cioè, che quel, che 'l trattato menava,
era caduto in terra d' un verone,
e della vita sua si dubitava,
e detto avie nella confessione
al Frate, da cui s' era confessato,
l' ordine tutto della tradigione.
Come di questa vita fu passato,
e quel Frate si mosse con letizia,
e tutto rivelò a Messer Tarlato,
il qual de' traditor fe far giustizia.
L' oste a Firenze tornò tutta quanta,
poichè scoperta fu tanta malizia.
Negli anni mille dugento novanta
s' apprese il fuoco in Casa i Pegolotti,
ed arsevi, se 'l Libro non millanta,
Messer Neri, e 'l figliuolo, savj, e dotti,
ed una donna, con suo' tre figliuoli,
ed una fante lì pagò gli scotti.
Or metti la ragione a quarteruoli,
di quel, che 'l fuoco fe; ch' arse le case,
ed a cotanti diè mortali duoli;
che di questa famiglia non rimase,
se non alcun, perchè quivi non era;
ma chiunque ivi fu, di vita rase.
Ch' era famiglia d'ogni pregio intera,
orrevole, e da bene, e molto antica.
Lascio di lor, per mutarti matera;
che ragion vuole omai, ch'i' d' altro dica.
c. 30, argumento
Ancor come' Pisani, ed Aretini
amando più la guerra, che la pace,
perseguitati fur da' Fiorentini;
e del Giudeo, che fe dell' Ostia prova,
onde fu arso, siccome si trova.
c. 30
Ogni scritto, ch'io trovo, che sia fama
della Città di Firenze, mi leva
gli altri pensieri, ed a rimar mi chiama.
Milledugento novanta correva,
quando coll' oste dal piede alla cima
Firenze Arezzo guastò ciò, ch' aveva;
e diessi, al dar delle 'nsegne, da prima
il pennon mezzo Real dall' un lato,
e l' altro mezzo, come quì si rima:
il Giglio rosso nel campo argentato;
non ti dico di più, che t'è palese,
di questo dissi, perchè disusato.
Quivi stette due giorni men d' un mese,
tagliando albori, vigne, ed altri danni
faccendo, quanti potien nel paese.
E correr fero il dì di San Giovanni
il palio, dispettando l' Aretino,
e poi si dipartiron sanza affanni,
e la via fecer per lo Casentino,
e molte Terre di Guido Novello
preser per forza, e misero al dichino.
Castel Sant' Angel, ch'era forte, e bello,
e Fronzole, e Reggiuolo, e Montaguto,
Cetina; e 'n Poppi menaro il rastrello,
disfer la Rocca, e 'l Palagio compiuto,
ch'era pien degli arnesi, che scoperti
rubò in Firenze, quand' egli era issuto
pe' Ghibellini dopo Monte Aperti
Capitano in Firenze, e fu il primo;
sicchè a ragione ebbe sì fatti merti.
Ben disse il vero il buon Conte Tegrimo,
quando Guido Novel tra le suo mura
gli disse: Sto io ben', com' io mi stimo?
Che gli rispose molto alla sicura:
Voi state molto bene, ma' Fiorentini
son molto gran prestatori ad usura.
L' oste tornò, e tutti i Cittadini
ne fecer festa, e legname, e panelli
ci s' arser molti, ed intorno a' confini.
Messer Rosso d' Agobbio Gabrielli
per Podestà er' in Firenze allora,
e d' altro omai convien, ch'io ti favelli.
Nel predett' anno di Settembre ancora
i Fiorentin coll' oste a Pisa andaro,
e preser, come fortuna lavora,
Porto Pisano, e Livorno, e tagliaro
le quattro Torri, che guardano il Porto,
ed il Fumale, e 'l Porto anche guastaro.
Poi n' andar per Val d' Era, e 'n tempo corto
preser certe Castella, e Capitano
lasciar nella Val d' Era per conforto.
Ma tornati in Firenze a mano, a mano,
Conte da Montefeltro, che allotta era
per Capitan di guerra col Pisano,
con molta gente cavalcò in Val d' Era,
e prese Montefoscoli, e Montecchio,
e 'l detto Capitan, con sua bandiera.
E quando al Fiorentin venne all' orecchio,
fue a Volterra tosto cavalcato,
e 'l Conte si partì con suo apparecchio.
Nel dett' anno il Marchese Monferrato
in Allessandria fu da' Terrazzani
preso per tradimento, e 'ncarcerato.
E ferlo a petizion degli Astigiani,
che per danari, e non per altro reo,
missero addosso il Marchese le mani.
Nel detto tempo un prestator Giudeo,
ch'era in Parigi, ad una donna avea
prestato sopra un vestir porporeo;
la donna per la Pasqua il rivolea
volendo farsi bella per la festa,
nota, come 'l Giudeo le rispondea:
Sanza danar ti renderò la vesta,
se tu mi rechi quel Corpo di Cristo,
che nel communicar pigliate; e questa
promise di portarlo, e 'l Giude' tristo
le rendè i panni; ed al comunicare
la donna fe del sacrificio acquisto,
e portollo al Giudeo sanza tardare.
Ond' egli avendo la padella al fuoco,
vel gittò dentro a farlo consumare.
Non mutando sua forma assai, nè poco,
prese un coltello, ed all' Ostia Santa
ferì di punta, e non gli parve giuoco;
perocchè la padella tutta quanta
s' empiè di sangue, e giugnendo un Cristiano
per ricoglier quel pegno, che s' ammanta,
e 'l Sacrificio fuor ne saltò sano.
Veggendo questo il Cristian fe romore,
onde 'l Giudeo fu preso a mano, a mano,
e subito funn' arso con furore,
ed in quel luogo si fe di presente
un Tempio a riverenza del Signore;
che si chiamò Salvador del Bogliente,
e chiama ancor, secondochè n' accenna
colui, che scrisse di tal convenente.
Nel detto tempo fu preso in Ravenna
Messere Stefan Colonnese, Conte
della Romagna; ciò mostra la penna;
e morte, e prese le persone pronte
di sua famiglia; onde si rubellaro
dimolte Terre, ch'io non ho conte.
Mainardo Ubaldin sanza riparo
prese Faenza, e' Bolognesi armati
ad Imola di botto cavalcaro,
e tirarono a terra gli steccati;
e 'l Papa vi mandò Messer Bandino
Pastor d' Arezzo, e de' Conti nomati:
il qual fe tanto con dolce latino,
che quasi a tutti fe seguir suo stile;
e questo basti al Vescovo Aretino.
Mille dugento novantun d' Aprile
l' esercito grandissimo era ad Acri,
e tutti i Saracini avieno a vile.
Molti Signor v' avia mondani, e sacri,
e diciotto miglia' di pellegrini,
e dimolt' altra gente grassi, e macri.
Non avie Terra allor tra' Saracini,
ch' ubbidente fosse a Santa Chiesa,
da questa in fuor, da cui eran vicini.
Perchè l' anno dinanzi egli avien presa
ed Antioccia, e Trapali, e Suri,
e dimolt' altre, ch'io non fo distesa,
la Città d' Acri, se chiaro misuri,
era cresciuta in tutti modi, e vie,
ed afforzata di fossi, e di muri,
ed avea dicessette Signoríe,
e ognun di sangue, siccome quì tratta,
avea sanza mancar piene balíe.
Ed in quel tempo avean triegua fatta
Saracini, e Cristian per mesi alquanti,
e de' Cristiani alcuna gente matta
cominciaro a rubare i Mercatanti,
ch' a sicurtà della triegua venieno,
con ogni mercatanzia, e lor contanti.
Quando il Soldan sentì quel, che facieno,
mandoe in Acri suoi Ambasciadori,
raddomandando ciò, che tolto avieno;
e che mandasser presi i malfattori
a lui, che ne volea far giustizia,
poichè non la facieno i lor maggiori.
E que', che non curavan sua grandizia
negaron tutte quante sue domande;
sicchè 'l Soldano empiero di nequizia.
E mosso fu coll' esercito grande,
e venne ad Acri, e suo' fossi profondi
subito riempiè di più vivande.
Sicchè i suo' Saracin passar forbondi,
e 'l primo cerchio preson delle mura,
e con dificj andarono a' secondi;
alli qua' fecer sì grande rottura,
che valicaron dentro, e a quella stretta
ne fur morti di loro oltramisura.
E conquistar la Torre maladetta,
e 'l Maestro del Tempio principale
quivi morì d' attoscata saetta.
Gli altri veggendo morto il Caporale
isbigottiro, e chi per mar fuggiva,
e chi rimanè quivi molto male.
Perchè la gente d'ogni pietà priva
uccidiè chi venìa loro alle mani,
quasi persona non lasciavan viva.
Rubar la Terra, e furono i Cristiani
sessantamila, e più tra morti, e presi,
poi a guastarla fur peggio, che cani.
E non rimase in que' santi paesi
alcuna Terra, ove i Cristian famiglia
facesser poi, che in Acri furo offesi.
S' ell' era gran Città, non maraviglia,
ch'ell' era quasi nel mezzo del mondo,
presso a Gerusalem settanta miglia.
Nel dett' anno cacciò la morte al fondo
il Re Ridolfo, che dal Baronaggio
stato era eletto 'mperador giocondo.
Nel dett' anno ancor per calen di Maggio
Filippo il Bello, allotta Re di Francia,
disfar mostrando chi prestava a gaggio,
fece di notte prender sanza ciancia
del suo Reame tutti gl' Italiani,
e di pecunia diè lor mala mancia.
Nel detto tempo Capo de' Pisani
il Conte Guido da Montefeltro era,
come dett'è per altri versi strani;
il qual sentendo, come il Ponte ad Era,
del quale i Fiorentini avien le chiavi,
ma' guardat' era da mane, e da sera,
vi cavalcò di notte, e colle navi,
ch' avien menate passarono i fossi,
e con iscale di funi soavi,
da certe guardie, ch'egli avean commossi,
saliron suso, e preso il Castellano,
che v'era allor, Messer Guido de' Rossi,
morto vi fu un suo cugin germano,
che sì contese, e poi Verin Fizzoni,
ed alquanti de' fanti a mano, a mano,
gli altri menati ne furo a prigioni;
e spesso si riceve tale scherzo,
quando non son guardate le magioni.
Nota, Lettor, dove al presente sferzo,
che quì doveva aver centocinquanta
fanti a guardare, e avievene il terzo.
Appresso Pisa, come quì si canta,
fer rubellar Vignale in Camporena,
che 'l Fiorentin tenea sotto la pianta.
Onde l' oste v' andò molto di vena,
e con trabocchi, e manganelle in giro
il combattero, e dopo lunga mena,
que', ch'eran dentro di notte n' usciro,
e valicaron per mezzo del campo
de' Fiorentini, che non gli sentiro.
E quando l' oste seppe loro scampo,
ne parve a tutti quanti molto male,
ch'egli eran valicati senza inciampo.
Tornarsi a casa, ed oste generale
ordinar contro a Pisa, e Messer Corso
de' Donati ebbe la 'nsegna Reale.
Mostra, che quì nascesse alcun soccorso,
onde la 'mpresa poi non si seguío,
forse, che alcun ne bevve qualche sorso.
Onde ne nacque grande mormorío
per la Città, e Messer Vier de' Cerchi
di Parte Capitan, con gran disio,
considerando molti gran soperchi
ricevuti da Pisa, fece tanto,
ch'egli scoperse i malvagi coperchi.
E contro a Pisa l' oste andò d' accanto,
e come furono a Castel del Bosco,
la piova, ch'era già durata alquanto,
moltipricò sì, che di color fosco
l' aria si fece, e per forza convenne,
che si partisser, se 'l ver ne cognosco.
Nel predett' anno, quando più si tenne
per Santa Chiesa la Romagna sana
col Vescovo, che 'l Papa Conte fenne,
di furto prese quel da Susinana,
i' dico Mainardo, sanza pena,
la Città di Furlì con gente strana;
e 'n quella prese il Conte di Romena
fratel del detto Vescovo Aretino,
e poi assediò il Vescovo in Cesena.
Quel Mainardo fu gran Ghibellino,
salvochè gli era Guelfo manifesto
contr' a ogni uom, per lo Comun Fiorentino.
E non sanza cagion faceva questo,
che 'l padre suo, ch' avea nome Pagano,
a' Fiorentini il lasciò piccol cesto,
e le sue Terre mise loro in mano;
e quel Comun, come benigno Padre,
gli rendè tutto di queto, e di piano;
ond' el Firenze tenne poi per madre,
ed ogni Fiorentin per suo Fratello,
e fe per lor molte cose leggiadre.
Nel detto tempo prese nel Mugello
Manfredi Conte il Castel d' Ampinana,
qual era di ragione a suo pennello;
onde l' oste v' andò molto sovrana,
poi gli dier quattromila fiorin d'oro,
perchè loro speranza vedien vana.
Ed e' si dipartì senza dimoro,
poch'ebbe date tutte sue ragioni
al Comun di Firenze; onde costoro
d' allora in quà le Ville, e Possessioni
hanno tenute, e le persone sue
hanno ubbidito a' Fiorentin sermoni.
L' anno mille dugennovantadue
Papa Niccola fu di vita mondo,
e la Chiesa vacò due anni, e piue.
Nel detto tempo, come quì secondo,
in Francia il fuoco s' apprese a Noione,
ed arse tutta la Cittade a tondo.
Nel detto tempo d' Imperio Campione
eletto nella Magna fue Astolfo,
ma non pervenne alla 'ncoronazione,
perocchè dal figliuol del Re Ridolfo
in battaglia fu morto. Or mi diletta
di mutar cibo per istar più golfo.
Nel dett' anno di Giugno, per vendetta
del Ponte ad Era, andaro i Fiorentini
ad oste a Pisa colla Guelfa setta.
Capitan fu Messer Gentile Orsini,
e la 'nsegna Real, con tutti onori,
fu data a Messer Gieri degli Spini,
e fu dato il Pennon de' Feditori
a Messere Giovan de' Mozzi, e andaro
guastando a Pisa ciò, ch'era di fuori.
Alla Badia a San Senno arrivaro,
e tagliarle da piede il campanile,
ed un bellissim' alber, che trovaro.
E 'l dì di San Giovanni in quello stile,
corsero il palio a Pisa in su le porti,
ched a Firenze s' usa in dì simile.
Arsero il fosso Arnonico, ed accorti
si tornaro a Firenze molto adorni,
guardando il Ponte ad Era ad occhi torti.
Ma non dubitar, che 'n ventitrè giorni,
che in quel di Pisa stetter sanza sosta,
col fuoco fer di tante case forni;
che l' un diceva all'altro: Car ci costa
il Ponte ad Era; ed era apparecchiato,
deh come ben ci sta! per la risposta.
Che si pentevan d' averlo pigliato.
c. 31, argumento
D' Or San Michele, e di Gian della Bella,
che gl' ordini fe far della Giustizia,
e 'nfino allor non c' ebbe mai gabella.
Di San Giovanni, e Santa Croce spazio,
di Papa Cilestrino, e Bonifazio.
c. 31
Per contentare alquanto il tuo disio,
sappi, Lettor, che San Michele in Orto
era una Chiesa al servigio di Dio.
E fu disfatta, e ricevette torto
Nonantola, cui era per ragione,
per piazza far, ch' è di gran fosse porto.
Poi per non perder la divozione,
si fece far la Vergine Maria
in un pilastro di cotal magione;
ed i laici ogni sera tuttavia
vi cantavano laude, e contento
era ciascun d' udir tal melodia.
Novantadue più di mille dugento
corría, di Luglio, quando nostra Donna
miracoli mostrò di valimento.
Perocch' appiè della detta Colonna
sanaro infermi, e dirizzaro attratti
di più ragion, come piacque a Madonna.
Poi pe' miracoli, ch'ella avea fatti,
si sparse tanto la fama sovrana,
che si vedea negli affetti, e negli atti;
che per la festa di tutta Toscana
venian le genti a farle riverenza,
uomini, e donne colla mente sana.
E venne in brieve in tal sufficienza,
che si facea carità dell' entrata
seimila lire ogni anno per Firenza.
Nel detto tempo essendo consolata
la Città di Firenze di vantaggio,
la gente fu in superbia sormontata;
e cominciaro i Grandi a fare oltraggio
in beni, ed in persone a' Popolani,
o per invidia, o per volere omaggio,
villaneggiando spesso colle mani,
e quando adoperando le coltella:
e rincrescendo agli uomini sovrani,
spezialmente ad un Gian della Bella,
Gran Popolan del Popol San Martino,
che si fe capo di cotal novella,
e come valoroso Cittadino
disse, con altri vaghi di ben vivere,
far ci convien del grande piccolino.
Ed aspre leggi fer di nuovo scrivere
a rifrenar de' Grandi la malizia,
le qua' regnaro, e ancor non son livere.
Chiamarsi ordinamenti di giustizia,
e perchè fosser messi di leggiere
ad esecuzion sanza pigrizia,
di giustizia un fer Gonfaloniere
tra' sei Priori; il qual di sesto, in sesto
poi si traeva a sì fatto mistiere,
e all' entrar de' Priori manifesto
prendeva il crociato Gonfalone,
ed al dì d'oggi ancora si fa questo.
Ed ordinar, che dove di ragione
poteano esser de' Grandi più Priori
in uno uficio, ed in una stagione,
non potesse esser più, ch' un de' Signori
per volta; e questo fecero a buon fini,
perchè non soperchiassono i minori.
E poi elesser mille Cittadini,
con certi Banderai, ch' ad una boce
traessero a romor de' Fiorentini,
con sopravesta, e scudo colla Croce,
con tutta l' arme, ad ogni petizione
di tal Gonfalonier presto, e veloce,
quando volesse fare esecuzione
contro alcun Grande; e poi si crebbe il novero,
e fessi di dumila la lezione.
Ancor parendo al popolo esser povero,
ne fece quattromila, e quì ti nomo
chi prima fu del Gonfalon ricovero:
Baldo di Ruffol di Porta del Duomo;
ed al suo tempo di casa de' Galli
di Por Santa Maria fe fare il tomo,
perch' un di loro avea per certi falli
in Francia morto a ghiado un popolano,
e quell' Ordine vuol, che 'l suo avvalli.
Ma non sarebbe mai fatta di piano
sì fatta legge, se non che la briga,
che' Grandi avien tra lor ci tenne mano.
Come addivien, che l' un l' altro gastiga,
e le vendette non vanno di pari,
e chi comincia zuffa, non la striga.
Tosinghi briga avien cogli Adimari,
e' Tornaquinci l' avevan co' Rossi,
e Bardi, e Mozzi erano avversari.
Bostichi, e Foraboschi eran percossi,
così ancor Gherardini, e Manieri,
e' Cavalcanti, e' Bondelmonti grossi.
Bisdomini eran contro a' Falconieri,
e' Donati tra lor, non so perchè;
di più non dico, che non fa mistieri.
Nel seguent' anno del novantatrè
a' Fiorentin chiese pace il Pisano,
e co' presenti patti a lor si fe:
che cacciasser di Pisa il Capitano,
Conte da Montefeltro, e la grandigia
del Ponte ad Era si recasse al piano,
e' Fiorentini avesser la franchigia
di non pagar di lor mercatanzia,
ch' uscisse, o entrasse in soma, od in valigia,
per tutto lor terren, dove che sia,
alcuna cosa; e per fuggir le guerre,
fero ogni cosa, e non fecer follia.
Ed alla pace fur tutte le Terre,
ch' a parte Guelfa si tengon d' intorno,
ch' avien con lor valicate le serre.
Nota, Lettor, che 'nfino a questo giorno
non si pagava in Firenze gabella,
nè mai serrava Porta il Giglio adorno.
E per non farci gravezza novella,
bisognando al Comun danar parecchie,
trovaron modo, e fer la Città bella.
Perocchè 'l cerchio delle mura vecchie,
e terren dentro, e di fuori i Reggenti
vendero allora, e fer le cose specchie.
E per gli sopraddetti ordinamenti
il Comun di Firenze si fe caldo,
e gl' infrascritti a se fece ubbidenti,
Castel di Poggibonizi, e Certaldo,
Viesca, Terrai', Catignano, e Moncione,
e 'l Barberischio, e Gambassi, di saldo,
e Gangereta, come quì si pone,
Casa Guicciardi, e Loro, ch' ognuno stato
era gran tempo in sua giuridizione.
Lo Spedal di San Sebio racquistato
fu, ch'era del Comune, ed era preso
da' Grandi, che l' avevano occupato.
Molto degno sarei d' esser ripreso,
sed io tacessi il caro Cittadino,
che fessi capo a far ciò, ch'hai inteso.
Di popol fu antico Fiorentino,
e Caruccio del Verre fu chiamato,
ched abitava Oltrarno a suo dimino.
Nel detto tempo rifuggito in Prato
er' un, ch' avie fatto un gran malificio
dentro in Firenze, donde e' fu mandato
a' Pratesi per parte dell' Uficio
de' Signori Prior; che 'l malfattore
mandasser di presente al lor giudicio.
E' Pratesi per non perder l' onore,
negarono il mandare, e nol mandaro.
E' Fiorentini senza più tenore,
in diecimila lire condannaro
Prato, se 'l giorno non fosse venuto
il malfattor, ed e' se ne gabbaro.
Ma siccome fu il termine compiuto
i Fiorentini l' oste vi bandiro,
e 'n questo modo era il Comun temuto.
Come i Pratesi del bando sentiro,
si mosser co' danari, e col prigione,
e vennero a Firenze con sospiro.
Mossa era l' oste già col Gonfalone,
quando il pregion fu venuto in Firenza,
e pagaro anco la condannagione.
Del malfattor si seguì la sentenza,
l' oste rimase, e non seguitò il giuoco,
e' Pratesi di peggio ebber temenza.
Nel dett' anno in Firenze apprese il fuoco
in Torcicoda, e stese tanto l' ala,
ched arse trenta case in molto poco.
Nel detto tempo l' Arte a Calimala
fe ingheronar di marmo San Giovanni,
la cui bellezza per ancor non cala;
che di macigno era stato molti anni,
e tutte arche, e sepolchri fur levati,
che di fuor davano a molti occhi affanni.
Nel detto tempo essendo in mar rubati
Normandi sottoposti al Re di Francia,
da' Guascon d' Inghilterra, richiamati
si furo al Re, ed e' non l' ebbe a ciancia,
e fe richiedere il Re d' Inghilterra,
il qual teneva per forza di lancia
tutta Guascogna, se il libro non erra,
e dovevane dare alcuno omaggio
al Re di Francia, per non aver guerra.
E comandogli, che tutto il dannaggio,
che ricevuto avea la sua gente
restituisse; non già per messaggio,
ma comparisse a lui personalmente,
e pagasse il tributo di Guascogna,
fra certo tempo terminatamente.
Onde Adoardo sel recò in vergogna,
mandò Messer Amondo suo fratello
a far l' ammenda, e tutta la bisogna.
Ma 'l Re di Francia non accettò quello,
e solamente per aver cagione
di torgli la Guascogna sanz' appello.
Onde si cominciò guerra, e tencione
tra la gente Francesca, e l' Inghilese,
come più innanzi ne faren menzione.
L' anno seguente il Re di Francia prese
il fratel Messer Carlo di Valosa,
ed in Guascogna il mandò di palese
con molta gente, e mai non ebbe posa,
ch'egli acquistò la Città di Bordella,
ed altre Terre, ch'io non ne fo chiosa,
e mise in mare Armata grande, e bella
contro al Re d' Inghilterra; e partimento
da questo fo per dir d' altra novella.
Novantaquattro con milledugento
corríe di Luglio, e la Chiesa era stata
più di due anni sanza reggimento.
De' Cardinali tutta la brigata
era in Perugia, e dalli Perugini
eran costretti di far la chiamata
del nuovo Papa; e non avendo quini
tra lor concordia, ma gran quistione,
non volendo de' lor, nè de' vicini,
elesser Frate Pietro del Murrone,
ch'era a Sermona nel Monte romito,
e Papa Celestin nome si pone.
E mandato per lui, e comparito,
fu 'ncoronato; e 'l Settembre vegnente,
come con Carlo prima aveva ordito,
dodici Cardinal fe di presente,
che fur la maggior parte Oltramontani,
ciascun del Re di Cicilia servente.
E fatto questo, tra' Napoletani
tirò la Corte, e fu ben ricevuto
dal Re, e poi da tutti i Terrazzani.
Poco vi stette, che fu conosciuto
per ignorante, non alletterato,
e 'l Papa poi, che si fu avveduto,
ch'era da' Cardinal poco apprezzato,
pensò come potesse tal compagna
lasciare, e rinunziar tutto il Papato.
E 'l Cardinal Benedetto da Lagna
savio, ed astuto, e grande Ghibellino,
come colui, ch'era persona magna,
sentì 'l voler del Papa Cilestino,
e disse al Re di Cicilia da canto
tutto l' effetto con dolce latino,
giugnendo: Stu fai ch'io sia Padre Santo,
i' sarò medicina de' tuo' mali,
contro a colui, che ti nimica tanto.
E Carlo fe, che' nuovi Cardinali,
ed alcun altro amico suo perfetto,
promiser dargli le boci leali.
E fatto questo, Messer Benedetto
al Padre Santo andò, e disse: Io odo,
che voi di rinunziare avete detto.
Ed a volere scioglier questo nodo,
vi convien far nuova legge, e dicreto,
che parli in questa forma, e 'n questo modo:
che se alcun Papa fosse sì discreto,
che rinunziar per santità volesse,
il possa fare; ed e' ne fu sì lieto,
che mill' anni gli parve, che facesse
chiamare i Cardinali a concestoro,
e fatte ch'ebbe le cose promesse,
ed e' si trasse in presenza di loro
la Corona, e 'l manto, e gli altri arnesi;
lasciò il Papato, e tornò al Romitoro.
Regnato avea otto dì, con cinque mesi,
poi fu eletto in picciolino spazio
quel Cardinal, che di sopra distesi,
e fu chiamato Papa Bonifazio;
e di Napoli uscì sanza indugiare,
e 'nfinchè non fu a Roma, non fu sazio.
E là con festa si fe 'ncoronare,
e Guelfo diventò, perchè gli lece.
e fe per Carlo ciò, che potè fare.
E la primaia provvision, che fece,
volle provar di far tra i due Re pace,
e de' suoi Cardinal vi mandò diece.
Ma loro andata fu tutta fallace,
perchè pace tra lor non vi capeva,
e ritornarsi al luogo lor verace.
Sentendo il Papa, ch' alcuno diceva,
ch'e' non era vero Papa insino,
che quel, ch' avie rifiutato, viveva,
tanto ne fe cercare ogni cammino,
che a Fummon fu trovato, ed ivi stette
preso, al voler di chi l' avea in dimino.
Ma poco tempo in quel luogo vivette,
e quivi volle, che si sotterrasse
addentro delle braccia più di sette,
perchè 'l suo corpo mai non si trovasse,
vivendo Bonifazio, che tu hai
compreso; ma non so, che si montasse.
Iddio per lui fe miracoli assai,
e fu San Piero del Murron chiamato,
come più innanzi ancora troverai.
Bonifazio fu savio, ed insegnato,
ed aggrandì la Chiesa, e' suo' parenti,
e fessi molto temer d'ogni lato.
Nel detto tempo fero i fondamenti
di Santa Croce i nostri Fra' Minori,
e furvi molti Vescovi presenti,
e più Prelati, e li Signor Priori,
e fuvvi il Capitano, e 'l Potestade,
e viepiù altri Uficiali, e Rettori,
uomini, e donne di questa Cittade,
con istormenti, e canti ad alta boce,
con molta festa, e gran solennitade.
E fu di Maggio il dì di Santa Croce,
e cominciar di notte alle Cappelle;
ma poco innanzi allora andò la foce.
partomi omai da sì fatte novelle.
c. 32, argumento
Di Messer Corso nostro Fiorentino,
e di crear Santa Maria del Fiore,
e che morì Ser Brunetto Latino,
e della Baronia, che in Fiorenza
si ritrovò il Re Carlo in sua presenza.
c. 32
Un Messer Gianni di Lucin da Commo
Podestà di Firenze, di Gennaio,
era il dett' anno nell' uficio in sommo;
quando due Cavalier consorti in paio
colle coltella s' erano azzuffati,
non riguardando l' un l' altro pe 'l Vaio,
Messer Corso, e Messer Simon Donati,
ed un famiglio di Messer Simone
morto per colpi, che gli furon dati.
Avuta il Podestà informagione,
che Messer Corso avea morto il famiglio,
formò contro di lui la 'nquisizione.
E Messer Corso, per altrui consiglio,
andò dinanzi con ardito volto,
e tutto 'l popol ne stava in bisbiglio,
maravigliandosi ciaschedun molto,
che 'l Cavalier s' era rappresentato,
ed egli in breve tempo fu prosciolto.
E quel Messer Simon fu condannato,
perchè quell'altro aveva ricevuto,
e 'l Podestà ne fu vitiperato.
Perchè al romor tutto 'l popol minuto
s' armò, e trassero a Gian della Bella,
ch'era lor Caporal gran tempo issuto.
Ed e' veggendo sì fatta novella,
n' andò a' Priori, e quella gente accorta,
Muoia la Podestà, gridando in quella;
e del Palagio suo arse la porta,
rubaro il Podestà, e sua famiglia,
e Messer Corso fuggì senza scorta.
E pare a me una gran maraviglia,
come la vita in quel furor camparo,
che pure a legger paura mi piglia.
E li Signor Prior se ne turbaro,
ma pur trovaron modi con lor bandi,
che 'l popolo arrabbiato racchetaro.
Appresso a questo tutti quanti i Grandi,
che giammai non dormivano in pensare
d' abbatter Gian, sicchè più non comandi;
perchè fu quel, ch' aveva fatti fare
gli ordini di giustizia; anche fu quello,
che volle tor, pe' Grandi dibassare,
a' Capitan della Parte il suggello,
e 'l mobil, ch'era grande quantitade,
e mettere in comun sanza rappello.
E non perchè non fosse in veritade
verace Guelfo; ma per quel, ch' è detto,
e per crescere al popol libertade.
Veggendo farsi cotanto dispetto
a questo Gian, che non posavan mai,
e ciò, che volea, quasi aveva effetto,
col Collegio di Giudici, e Notai,
che si tenean gravati da Giano,
e con molti altri popolani assai,
si ristrinsero, e poi fecer di piano
a lor modo l' uficio de' Priori,
che a quel tempo se ne faceano a mano;
e innanzi tempo poi si trasser fuori,
poi, come furo entrati nell' uficio,
mandar pel Capitan come Signori,
e dissergli: Tu sai lo malificio,
ch' è stato inverso al Podestà commesso,
con vergogna comune, e progiudicio;
e però fa, che tu formi il processo
contro a costoro; e diergli per iscritto
Gian della Bella, e più altri con esso.
Ed egli il tolse, e per cotal dilitto
formò la 'nquisizione, e fu richiesto
ciascun di loro, come giusto, e dritto.
Quando il popol minuto sentì questo,
andonne in San Martino a Giano accorto,
e 'n sua difesa si profferser presto.
E 'l suo Fratello a San Michele in Orto
trasse di botto fuori il Gonfalone;
vedren, dicendo, chi ci farà torto.
Gian, ch'era savio, e con discrezione,
quando si vide ingannato, e tradito
da chi dovia difender sua ragione,
e 'l grande raunare ebbe sentito,
ch' avevan fatto i Grandi per lo certo,
fra gli altri rei prese il miglior partito,
e disse: Io voglio innanzi esser diserto,
ch' a mia cagion si guasti la Cittade,
bench'io riceva per ben far mal merto.
Poi si partì, sperando, per pietade
de' popolani, d' esser cancellato;
ma e' potè viepiù la crudeltade.
E con molti altri allor fu condannato
nella persona, ed i lor ben disfatti,
per turbator del pacifico stato;
nè potè mai aver triegua, nè patti
della tornata col popolo arcigno,
ed in esilio morì per que' fatti.
Ben disse Dante Poeta benigno,
de' Fiorentin parlando nell'affanno:
ma quello ingrato popolo maligno
di quel Gian della Bella fu gran danno;
ma furgli contro tutte le fortune,
perchè in Firenze spense ogni tiranno.
Questi fue amator del ben comune,
con lealtà più, che non fe Fabbrizio,
e sempre del ben far tirò la fune;
ma potè più, che la virtude, il vizio.
Ver' è, che molto fu presuntuoso,
e vendicar si volle d'ogni indizio,
e fece di palese, e di nascoso
col braccio del Comun contro agli Abati,
sicchè di sua vendetta fu gioioso.
Forse per questo, e per altri peccati,
piacque al Signor, ch'e' fosse giudicato
con gli statuti, ch'egli avea criati.
Ma certo sia, che nel tempo passato
niun s' è fatto del popolo campione,
che 'n fine non ne sia male arrivato.
E tieni a mente, amico, il mio sermone,
che 'l popol di Firenze poichè Giano
ci fu cacciato, non valse un bottone.
Nel detto tempo, quasi a mano, a mano
si volle crescer la Chiesa maggiore,
e 'l Cardinal la fondò di sua mano,
e consecrolla, a grandissimo onore,
Settembre, il giorno di Santa Maria,
nomando lei Santa Maria del Fiore,
che Santa Reparata era di pria;
ed ordinar di farla molto bella,
come a Firenze allor si convenia,
e farvi per la Santa una Cappella,
e ch'ella fosse di marmo murata,
sicchè avanzasse ogni altra Chiesa quella.
Ed assegnato allor le fu d' entrata
quattro danar per lira, si ragiona,
della pecunia dal Comun pagata,
e due soldi per capo di persona.
Poi è cresciuta, e passato il segnale;
ma quando gli ha, e quando s' abbandona.
E sappi, che lo detto Cardinale
concedette a ciascun gran perdonanza,
che le facesse aiuto temporale.
Nel detto tempo, com' è loro usanza,
i Ghibellin trattar, che Messer Gianni
Vicar d' Imperio, colla sua possanza
venisse, e venne a Arezzo ne' detti anni.
Quivi raunò gente d'ogni canto,
e diede a' Guelfi un anno molti affanni.
Al fine tanto fece il Padre Santo,
a richiesta de' Guelfi Fiorentini,
ch'e' si partì, quand' ebbe sotto 'l manto
trentacinque migliaia di fiorini.
Tornossi a casa, e con molto sospetto
lasciò in Toscana tutti i Ghibellini.
Nel detto tempo morì Ser Brunetto,
che compilò, e fece il gran Tesoro,
e le chiavi di quello, e 'l Tesoretto,
e di più altri libri fe lavoro,
e fu il maggior Filosafo per certo,
che 'n queste parti facesse dimoro.
E Rettorico fu valentre, e sperto,
del Comun di Firenze Dettatore,
e scorse i Fiorentin nel dire aperto.
In rima fu solenne dicitore,
nè fu in Firenze a' suo' dì Cittadino
con più ingegno, nè di più valore.
Salendo Dante, e quegli andava al chino,
e fe menzion nel suo primo Trattato
del sopraddetto Brunetto Latino.
Nel detto tempo il Papa nominato
colonezzò con gran solennitade
Luigi Re di Francia incoronato.
Il qual morì per la Cristianitade
a Tunisi, e mostrò, se ben comprendo,
di miracoli grande quantitade.
Negli anni milledugento, arrogendo
novantacinque, di Luglio, i Magnati
il Popol, ch'era allor, disfar volendo,
in parte insieme fur pacificati,
ed a baldanza de' Priori amici,
poch'ebber molti fanti raunati,
presente que' Priori, ed altri Uficj,
disser: Voglian, che quegli ordinamenti
della giustizia sien corretti quici.
E quando si sentì, fra l' altre genti
tutta la Terra ad arme sanza fallo
andò, perocchè n' eran malcontenti.
E' Grandi armati a piede, ed a cavallo,
col seguito, che avevan si schieraro
in tre luoghi, più chiari, che 'l cristallo.
A San Giovanni una parte n' andaro,
e la 'nsegna ebbe, secondoch'i' truovo,
Messer Forese degli Adimari chiaro.
E la seconda fu in Mercato nuovo,
Messer Geri Spini, con chiara fronte,
ebbe tra lor la 'nsegna, e così pruovo.
La terza fu al Ponte Rubaconte,
Messer Vanni de' Mozzi ebbe la 'nsegna
di quella gente, ch'era al detto Ponte.
E 'l popol tutto a riparar s'ingegna,
asserragliando le vie d'ogni parte,
perchè la gente addosso lor non vegna;
e raunarsi con senno, e con arte
col Podestà, e co' Prior predetti,
che 'n Casa Cerchi eran, dicon le carte.
E perchè que' Priori eran sospetti
al popol, sei compagni si diè loro,
d'ogni Sesto un, valorosi, e perfetti.
Sentendo i Grandi i modi di costoro,
perderono ogni ardir, perchè più forti
vedieno i Popolani in quel dimoro.
Certi buon uomini allor furo accorti,
e fer, che ciaschedun fu disarmato,
e volentier tornarono a' lor porti.
E gli ordini campar nel primo stato,
salvochè dove dice lo statuto,
che per due Testimon fosse provato,
che fosser tre; e ciò fu conceduto
da que' Priori contro a ogni volere
de' Popolan, che non l' avien saputo.
Ma quando uscir d' uficio, al mio parere,
furon lor dietro le panche picchiate.
E bisognò lor di peggio temere.
E non passaron poi molte giornate,
secondochè lo libro ci ammaestra,
che le parole aggiunte fur dannate.
E furo a' Grandi tolte le balestra,
e per istima ne furo pagate,
e messe nella Camera maestra.
E tutti quanti i piccoli Casati
fur fatti nuovamente popolani,
acciocchè i Grandi fosser dibassati.
Ed a far questo fatto fur sovrani
Mancini, e Magalotti, ed Altoviti,
Peruzzi, ed Acciaiuoli, e Cerretani.
Negli anni, che tu hai dinanzi uditi,
morì il Re Anfuso di Raona,
e Don Giam suo fratel, sanz' altri inviti,
di quel Reame prese la Corona,
e Cicilia tenea contra al volere
di Carlo, che col cuor non l' abbandona.
Veggendosi cotal forza, e podere,
temendo, ch' entro non v'entrasse il tarlo,
pensò, com' e' potesse pace avere
con Santa Chiesa, e coll'alto Re Carlo.
E Papa Bonifazio fe 'l trattato,
ed accordogli, come quì ti parlo,
che 'l Re Don Giam doveva dal suo lato
render, come colui, che l' altrui toglie,
l' Isola a Carlo in pacifico stato,
e dovea la figliuola tor per moglie,
e doveva gli statichi lasciare,
che lasciò Carlo, per uscir di doglie:
ciò fur coloro, che udisti contare,
Ruberto, con Giovanni, e con Ramondo
figliuol del detto Carlo, ciò mi pare.
E dal suo lato il Re Carlo giocondo
promise, che farebbe rinunziare
a Carlo di Valosa, sanza pondo,
al privilegio, che poteva usare
contro Aragona, siccome concesso
gli avea Papa Martin, per suo ben fare.
E per fornire ciò, ch'i' ho detto adesso,
non mandò Carlo a Carlo di Valosa,
ma in persona v' andonne egli stesso.
E perch'egli assentisse ad ogni cosa,
la Contea d' Angiò gli ebbe donata,
e l' altra figlia gli diè per isposa.
Tornando il Re colla cosa ordinata,
e co' figliuo' cavati di prigione,
giunse a Firenze colla sua brigata;
dove trovò il suo quarto garzone,
Carlo Martello Re dell' Ungheria,
incontrogli venuto a tal cagione.
Dugento Cavalieri in compagnia
avea a spron d' or vestiti d' una vesta,
che non fu mai sì bella Baronia.
Pensa, Lettor, che letizia fu questa,
giugnendo Carlo, e quel di Monferrato,
che la terza figliuola aveva chiesta.
Non potre' dir, com' egli fu accettato
da' Fiorentini onorevolmente,
e quanto egli ebbe quell' onore a grato;
e molti Cavalier fe di presente.
Poi si tornò a Napoli di botto,
co' suo' figliuoli, e con tutta sua gente.
Fornito, ch'ebbe, come savio, e dotto,
ciò, che doveva far dalla sua parte,
della Cicilia si trovò al disotto.
Don Giam, che v'era, sen' andò da parte,
e Federigo suo fratel carnale,
per se la tenne, e fe contro alle carte.
E fessi dar la Corona Reale
contro al voler della Chiesa, e 'ngannato
rimase Carlo, essendo lui leale.
E 'l Papa contro a Don Giam ne fu indegnato,
e fe 'l citar, che comparisse a Corte,
e 'l seguente anno ubbidì al mandato.
Ed appresso crucciato molto forte
fu Bonifazio contro a Federigo,
che di Cicilia teneva le porte.
Di cui si fosse il fallo non ti strigo,
perchè no 'l trovo, e ragion mi comanda,
ch'i' muti verso, e però me ne sbrigo,
e nel seguente muterò vivanda.
c. 33, argumento
De' Saracini alcuna cosa conta,
di Castelfranco, e Castel Sangiovanni,
del Re di Francia ancora, che più monta,
del Conte a Montefeltro Fra Minore;
e di più altre cose di valore.
c. 33
Cento novantacinque, cento, e mille
correvan gli anni per questi paesi,
di quel, che signoreggia tutte ville;
quando tra loro insieme i Genovesi
si combattero Guelfi, e Ghibellini;
e poich'e' furon duramente offesi,
si mosser certi lor buon Cittadini,
per metter pace, o triegua nel trattare,
Spinoli, ed Orj mandar per vicini;
e quando vider di poterlo fare,
i Guelfi ne cacciar, come ribaldi,
che s' eran iti già a disarmare.
Principalmente furono i Grimaldi,
e molti lor seguaci n' uscir fuore,
e' Ghibellini si rimaser saldi.
Nel predett' anno essendo Imperadore
de' Tartari, e de' Persi Baido Cane,
fratel d' Argon, ch' a Cristian portò amore,
viepiù di lui fece opere Cristiane;
onde li Saracin fer, che 'l figliuolo
d' Argone, contro a lui fe cose strane;
e venne a petto a lui con grande stuolo,
e veggendosi Baido assalire,
al suo nipote, non senza gran duolo,
volse le spalle, e misesi a fuggire.
Cassano il sopraggiunse, ed ebbel morto
ed isconfitti i suoi, com' ho da dire.
Ed a pigliar la Signoria fu accorto,
con molti Saracin, che seco avia,
nè trovò chi dicesse; tu hai il torto.
Quando si vide nella Signoria,
de' Saracini diventò nimico,
e de' Cristiani volle compagnia,
e distrusse ciascun, che per antico
dati gli avea più consigli rei.
Lascio di questo, e d' altre cose dico.
Nel mille poi dugento novanzei,
essendo il Bolognese con lor gente
ad Imola, siccome intender dei,
Mainardo Ubaldini di presente
giunse, e percosse colle sue masnade,
ed ebbegli sconfitti incontanente,
e senza indugio ebbe poi la Cittade,
ed ebbe presi nella sua presenza,
de' Bolognesi grande quantitade.
Nel predett' anno il popol di Firenza,
volendo alquanto dibassare il grado
de' Pazzi, ed Ubertini, e lor potenza,
e farsi forti i Guelfi nel Contado,
che di soccorso non avesser manco,
fe due Castella in mezzo piccol guado
su nel Valdarno; e l' un fu Castelfranco,
e l' altro poi fu Castel San Giovanni,
che d' abbellirsi non fu mai stanco.
Gli abitanti fur franchi per dieci anni
d'ogni fazion, onde multipricaro,
perchè molti fedel fuggir gli affanni
de' Conti, ed altri, che vi s' accasaro.
Lasciamo star di quel, che si ragiona,
e direm d' altro, che ci sia più caro.
Nel detto tempo Don Giam di Raona,
colla sua madre Reina Gostanza,
dinanzi al Papa comparì in persona,
ed in sua man giurò, e con leanza
la scusa fe, che contro a suo volere,
Don Federigo a Carlo fe fallanza;
profferendo sua forza, e suo podere,
presente Carlo, a racquistar Cicilia,
contro al fratel, perch'era del dovere.
Allora il Papa inver lui s' aumilia,
e ricomunicollo di leggiere,
e dielli benedizion ben centomilia.
E della Chiesa il fe Gonfaloniere,
ed Ammiraglio in mar, quando il passaggio
incontro a' Saracin fosse mestiere,
e diegli di Sardigna signoraggio,
e fe, che Carlo a Ruggier dell' Oria,
dimise in tutto ogni passato oltraggio.
Fe 'l suo Ammiraglio, ma quando sentia
Don Federigo, che contro a lui puote,
privollo di ciò, che 'n questo mondo avía,
e la testa tagliata ebbe al Nipote.
Non più di questa, ma d' un' altra guerra,
che si comincia con dolenti note.
Nel detto tempo, se 'l libro non erra,
Guido Conte di Fiandra, e quel di Bari
lasciaron Francia, e diersi all' Inghilterra.
E quel, perchè si fecero avversarj,
fu, perchè il Conte di Fiandra avie data
la sua figliuola con molti danari
per moglie ad un, che non l' avia menata,
figliuol del Re d' Inghilterra, nimico
del Re di Francia, e della sua brigata.
Ond' el mandò pe 'l Conte, com' io dico,
per la Contessa, e per la sua figliuola;
e compariti al lor Signore antico,
e lo Re disse: Senza mia parola,
Conte, dalla Città non ti partire,
e in prigion mise la fanciulla sola,
acciocchè non si potesse seguire,
d' esser di que', che l' avea sposata.
Poco vivette, e dopo il suo morire,
si disse, ch'era stata avvelenata.
Udendo il Conte tal novella poi,
si partì di Parigi alla celata.
Tornato in Fiandra si dolse co' suoi,
e fe tutte sue Terre rubellare
dal Re di Francia, come intender puoi.
Ruberto primo suo figlio a guardare
in Lilla mise, e in Doai Guiglielmo
il suo figliuol secondo fece stare;
Messer Giovanni il terzo ebbe coll' elmo
la guardia della Terra di Coltrai,
ed il Conte rimase (ond' io mi smelmo)
a guardia a Bruggia, e, siccome udirai,
il Duca di Bramante mise in Guanto,
dicendo: Guarda come puoi assai.
E 'l Re di Francia si fu mosso intanto
con più di diecimila Cavalieri,
e popol tal, ch'i' non potre' dir quanto;
e giunse in Fiandra, e per tutti i sentieri
guastando andava ogni contrada, e villa,
siccome s' usa in sì fatti mestieri;
e pose l' oste alla Città di Lilla,
dove guardava il Sir di Falcamonte,
nella qual vittuaglia poco stilla.
Più non possendo, fe calare il ponte,
ed arrendersi, salve le persone,
poi si partì con vergognosa fronte.
E 'l Re prese la Terra per ragione,
ed a Bari mandò le genti dette,
anche guastando per cotal cagione.
Nel mille poi dugento novanzette
Re d' Inghilterra, e' Conti, e lor compagna
avendo fatto lega, e cose strette
collo Re Attaulfo della Magna,
quel d' Inghilterra trentamila marchi
di starlin gli mandò sanza magagna,
perch'el venisse con balestre, ed archi,
e con tutto suo sforzo, ed e' in persona
promise di portare i detti incarchi.
Dall'altra parte, come si ragiona,
fur Tedeschi, e Fiamminghi a far vergogna
alla Contea d' Artese, che quì suona.
Tornando il Conte Artese da Guascogna
con gran Cavalleria di Franceschi,
si fece loro incontro alla bisogna.
Ed abboccati insieme, fur maneschi,
e percossero a lor per tal conforto,
ch'egli sconfisser Fiamminghi, e Tedeschi,
ed il Conte Guiglielmo vi fu morto,
e ben tremilia per cotal trafitta
furon tra morti, e presi a questo porto.
Prese Forens dopo la sconfitta,
e quante Terre avie nella marina
fero i comandamenti alla diritta.
Attanto il Re d' Inghilterra cammina,
e con gran gente, e grande armata appresso
fu arrivato in Fiandra una mattina,
come al Re della Magna avea promesso.
Ed aspettando a Guanto, ch'el venisse,
e 'l Re di Francia ebbe ordinato ad esso,
che della Magna non si dipartisse.
Come se 'l fece, rimase sotterra;
ma tanto ti so dir, che allor si disse,
che 'n suo paese gli fe muover guerra;
ed altri disse, che pecunia il tenne
viepiù, che quella del Re d' Inghilterra,
e quel fu la cagion perchè non venne.
Trovandosi Adoardo sì ingannato,
da Guanto tosto partir gli convenne.
E in Inghilterra si fu ritornato,
e quel Conte di Fiandra, che udit' hai,
lasciò in Guanto molto addolorato.
E 'l Re di Francia arrivato a Coltrai,
appressando del verno la stagione,
ebbe novelle, siccome udirai,
che 'l Re di Puglia per commissione
del Papa, in Francia veniva per fare
o pace, o triegua di cotal quistione.
Ond' el si mosse sanza dimorare,
lasciando in Lilla, e 'n Coltrai molta gente,
ed in Parigi si tornò a posare.
Trovando Carlo di Puglia presente,
ne fe gran festa, e la triegua ordinaro
per du' anni, e non più, sì veramente,
che Bruggia, e Lilla, e Coltrai, ch' acquistaro
i Cavalier Franceschi, rimanesse
al Re di Francia, e così l' affermaro.
Prima, che 'l detto termine compiesse,
e lo Re d' Inghilterra buona mancia,
pensò di fare, perchè pace avesse;
e la suora carnal del Re di Francia
tolse per moglie, e fece buona pace,
e ciascun l' ebbe caro, e non a ciancia.
Della detta matera quì si tace,
perchè abbian detto del tempo nomato,
del quale ancor parlerem, s' a Dio piace.
Nel detto anno tenendosi gravato
il Bonifazio da due Cardinali,
che nella sua lezion l' avean noiato;
de' Colonnesi furo, e sappi quali,
Messer Iacopo l' uno, e Messer Piero;
e loro avendo a nimici mortali,
avvenne, siccome avvien di leggiero,
che Sciarra lor consorto alcune some
alla Chiesa rubò, e ciò fu vero.
Essendo al Papa rapportato, come
alcun della Colonna avie rubata
la Santa Chiesa, e raccontava il nome,
alla malavoglienza, che portata
avea un tempo contro a' Colonnesi,
aggiunse questa pessima ambasciata.
E 'l processo formò, s'i' ben compresi,
contro a que' due Cardinal nomati,
e lor consorti celati, e palesi:
che in quel dì s' intendesser privati
del Cappello, e degli altri benificj,
così dell' avvenir, come acquistati,
e le lor case mise alle pendici.
E' Colonnesi allor si rubellaro
dal Papa, co' parenti, e con gli amici,
e molti de' Roman li seguitaro,
perocch'egli eran forti, e in lor dimino
avien più Terre, le quali guardaro,
cioè, Colonna, Nepi, e Pelestrino,
con quali al Papa facien guerra piena,
rubando ognun, ch' andava per cammino.
E 'l Papa diè perdon di colpa, e pena
a ciaschedun, che 'n avere, o 'n persona
gli danneggiasse per sì fatta mena,
e Nepi, siccome quì si ragiona,
fece assediare, e' Fiorentin richiese
di balestrieri, e d' altra gente buona.
I quali vi mandaro a loro spese
tra balestrieri, e palvesar secento,
e stetter fin che la Città si prese,
con certi patti, in quello assembramento.
Per lo paese dall'aria corrotto,
molti infermaro, e morirono a stento.
Negli anni milledugento ottantotto
i Prenci della Magna ebber privato
dello 'mperio Attaulfo, e questo botto
fecion, perch'era traditore stato
allo Re d' Inghilterra, e per procaccio,
che 'l Doge Alberto ne facea dallato.
Il qual, poichè 'l sentì, si mosse avaccio
con gente, e venne ad Attaulfo addosso
che 'l nimicava; e quì la cagion taccio.
Sentendo que', che Alberto s' era mosso
per venir contro a lui, dalla sua parte
si fe il più, che potè, di gente grosso.
Giugnendo Alberto, senz' usar tropp' arte,
alla battaglia venne incontanente,
e in isconfitta gli cacciò in disparte.
Quando vide Attaulfo, francamente
gli corse addosso, e con sue proprie mani
l' abbattè a terra del caval presente.
Dopo questa vettoria, e gli Sovrani
Prencipi, a cui stava la lezione,
fecero Alberto Re delli Romani;
e poi fu dello 'mperio per ragione
da Papa Bonifazio incoronato;
e questo basti di cotal sermone.
Nel predett' anno essendo già trattato
tra 'l Papa, e' Colonnesi la concordia,
a Rieti andaron, dov'era il Papato,
e gittarglisi a' piè senza discordia,
e 'nginocchiati faccendo dimoro,
domandaro la sua misericordia,
e 'l Papa perdonò a tutti loro:
poi volle, che lasciasser la Cittade
di Pelestrino; e contenti foro,
promettendogli in ogni degnitade
restituirli, se 'l libro non erra,
ma niente ne fece in veritade,
ma Pelestrin disfece, ed una Terra
fe fare a piè del poggio, perchè tale
Fortezza mai non gli facesse guerra.
La quale fe chiamar Città Papale,
e' Colonnesi ebbero male, e peggio
dopo l' accordo, se prima avien male.
Per questo disse Dante, se ben veggio:
E' Colonnesi poi per lo gran torto,
che ricevetter, si fur rubellati,
lasciando ogni speranza, e ogni conforto.
E tutti furon poi scomunicati
con gran processo, acciocchè ritenuti
d' altrui non fosser, ma più nimicati.
E per lo mondo sparti, e sconosciuti
n' andaron poi, e mentre, che vivette
il detto Papa, fur come perduti;
e sconosciuto in esilio si stette
ciascun di loro, siccome rubello
di Santa Chiesa, e di morte temette;
spezialmente chi perdè il Cappello,
e bisognava, perchè Bonifazio
non si curava degli altri un chiavello,
ma di coloro avrebbe fatto strazio.
c. 34, argumento
Come sconfitti furo i Viniziani,
e fondato il Palagio de' Priori,
e la Porta del Prato; e d' altri strani,
cioè di Francia, e de' Tartari alquanto,
e d' altre cose dice questo Canto.
c. 34
Correndo quel medesimo, ch' è detto
nel Capitol dinanzi, i Genovesi
i Vinizian si recaro a dispetto,
e fecer grande armata in lor paesi
ad intenzion d' andarne a Vinegia,
e mossi fur valorosi, e accesi,
ed Ammiraglio della gente egregia
fu Messer Lamba Doria valente,
la cui memoria ancor per me si pregia.
Tra via trovar chi disse veramente,
che i Viniziani sono in Schiavonia
con molto grande esercito di gente;
ed e' ne fecer festa, e quella via,
fecer, come color, che san del mare
ogni argomento, e ogni maestria.
Giunsono a loro, e sanza millantare,
subitamente vennero alle mani,
e dopo lungo ricevere, e dare,
furo sconfitti allora i Veneziani,
e' Genovesi ne menar settanta
legni carchi di loro, e degli strani.
Nel predett' anno, come quì si canta,
a Rieti, ed a Spuleti, ed a Pistoia,
tremò la Terra quasi tutta quanta,
cadder torri, e palagi, e questa noia
fu quasi segno di futuro danno,
come udirai, se legger non ti noia.
Nel sopraddetto millesimo, ed anno
il Popol di Firenze nuovamente
fondò il Palagio, ove i Priori stanno;
perocchè a' Popolan sicuramente
non parea bene star ne' bianchi Cerchi,
dove abitar soleano primamente,
solo per maggioranza, e per soperchi
de' Grandi, che rompien degli statuti,
e delle leggi a lor posta i coperchi.
Onde siccome savj, e provveduti,
a ciò chiamaro certi popolani,
ch'eran da molto in quel tempo tenuti.
Questi il fondaro allato a' casolari,
che furon degli Uberti, e non volendo
toccar del lor, non fu il palagio pari.
Di che ancora molto gli riprendo,
perocchè non dovien, se bene squadro,
dargli difetto, schifarlo possendo.
Che se 'l Palagio fosse stato quadro,
e più di lungi a San Piero Scheraggio,
non avea nel mondo un sì leggiadro.
Nel seguente anno del mese di Maggio
si fe la pace per molte ragioni
tra Genova, e Vinegia d'ogni oltraggio,
e ciaschedun riebbe i suo' pregioni
con que' patti, che volle il Genovese,
cioè, che' Vinizian, nè lor Padroni
navicar non dovessero il paese
presso a Gostantinopoli, nè 'n Soría
fra tredici anni, e così si comprese.
Nel predett' anno, essendo molto pria
durata tra Bologna guerra amara,
e 'l Marchese Azzo, ch' avea Signoria
di Modena, di Reggio, e di Ferrara,
e Mainardo ancor degli Ubaldini,
ch'era con lui, a così fatta gara,
per procaccio, e virtù de' Fiorentini,
ch'erano amici di ciascuna parte,
fecer la pace, e furo amici fini:
baciarsi in bocca, e fecersi le carte
in Firenze, in presenza de' Priori,
per sindacato colla diritta arte;
e' Fiorentini fur mallevadori
di ciascheduno; ed a questa fiata
lasciam lor fatti, per dir de' maggiori.
Nel detto tempo fe gran raunata
Carlo di Puglia, perchè volentieri
sopra Cicilia conducea l' armata,
ed Ammiraglio fu Messer Ruggieri,
e lo Re Giam, poch' a ciò fu richiesto,
con Carlo fu con molti Cavalieri.
Quando Don Federigo sentì questo,
con Ciciliani, ed altri a Capo Orlando
aspettò Carlo al campo manifesto.
Quando il Re Carlo si venne appressando
ammaestrò sua gente, come truglio,
che percotesse a loro, e come, e quando.
E poi giugnendo a' quattro dì di Luglio,
diè la battaglia; e per l' Isola i morti
fer brievemente in più luoghi cespuglio;
e' Cicilian furo al fuggire accorti
in isconfitta, ma pur ne menaro
ben quattromilia Cavalier più forti.
Per la qual cosa aperto dimostraro
Giamo, e Messer Ruggier, che lealmente
ne' fatti della pace si portaro;
ma ben si disse per alcuna gente,
che se non fosse il capo del Re Giano,
Don Federigo era preso al presente,
e finiva la guerra a mano, a mano:
non è da biasimar, perchè 'l fratello
campar facesse, se gli venne a mano.
Lasciamo andar, non diciam più di quello,
ch'egli è talvolta ben mutar proposto,
e pare a me, che 'l giuoco sia più bello.
Nel predett' anno, del mese d' Agosto
fu pace tra' Pisani, e' Genovesi,
ch'era durata la guerra col costo
diciessett' anni, e più, se ben compresi;
ma non dovieno i Pisan navicare
fra certo tempo per certi paesi.
Nel dett' anno Firenze fe fondare
le nuove mura al Prato d' Ognissanti;
ed alla Porta fur nel cominciare
tre Vescovi, co' Cherchi tutti quanti,
Fiorentin, Pistolese, e Fiesolano,
ed altre cose dirò piue avanti.
Nel detto tempo il Re Carlo sovrano
mandò in Fiandra Carlo di Valosa,
che Guanto guerreggiò a mano, a mano,
dov'era il Conte con ogni sua cosa,
e tutte l' altre Terre di marina
a Carlo si rendero, e quel non osa.
Ma cominciò con discreta dottrina
Carlo a trattar col detto Conte Guido,
e l' una bocca all'altra fu vicina,
dicendo: Stu mi dai di Guanto il nido,
io ti farò maggior, che fosse mai,
e non temer, che sopra te mi fido.
Rispose il Conte, udito, ch'ebbe assai:
I' m' arrendo al Re Carlo, ch' è ragione,
faccendo quel, che tu promesso m' hai.
Quando Carlo ebbe la possessione,
mandò a Parigi il Conte co' figliuoli,
e 'l Re di botto gli mise in prigione.
Ben puoi, Lettor, considerar, se vuoli,
quanto fortuna contro a lor fu rea,
e come raddoppiar tutti lor duoli.
Carlo poi prese tutta la Contea,
e Messer Giacche vi lasciò Signore,
e 'n Francia si tornò, com' el dovea.
E poichè Messer Giacche fu 'l maggiore,
a' Fiamminghi ogni dì crebbe gravezza,
e di lui si dolea grande, e minore;
perocchè gli tenea con tanta asprezza,
che alcuno non ardiva a dir niente,
per la temenza di sua rigidezza.
Avvenne poi per la Pasqua vegnente,
che 'l Re di Francia andò in Fiandra a vedere
quel, che acquistato aveva nuovamente.
Onde tutti i Fiamminghi d' un volere
incontro gli si fecero armeggiando,
siccome a tal Signore è del dovere,
e poichè fu smontato, rinnovando
venner le feste a brigata, a brigata,
con nuovi giuochi; a tutt' ore danzando,
e per certi prod' uomini ordinata
in Guanto fu la tavola ritonda,
e d'ogni parte la gente invitata:
sicchè quivi giugnendo, ad ogni sponda
Donzelli, e Cavalieri, e gran Baroni,
qual per vedere, e qual per altro abbonda,
donando robe a giullari, e buffoni,
con tanta festa, ch'io nol potre' dire,
nè quanti fur gli smisurati doni.
Quando il Re Carlo si venne a partire,
gridava il popol, che scemasse il dazio,
mad e' non volle, e non potè udire.
Com' el si fu partito, in corto spazio,
non che iscemate fosser per la festa
le pene lor, ma raddoppiò lo strazio.
E dicesi volgarmente, che questa
l' ultima festa fu, e questo nota,
che pe' Franceschi fosse manifesta;
perchè fortuna poi volse la rota
per lo contrario, (come fia contato
a luogo, e tempo) percosse per gota.
E forse, che addivenne pe 'l peccato,
che fu commesso contro la donzella,
e contro al padre suo, che fu ingannato.
E poco tempo dopo tal novella,
Alberto Imperador fe parentado
col Re di Francia, e con sua figlia bella;
la qual diede al figliuolo, e fugli a grado
per l' amistà, che già era commessa,
quando assalì d' Attaulfo il Contado,
acciocchè non fornisse la 'mpromessa,
ch' allo Re d' Inghilterra fe d' accanto,
di fare addosso a quel di Francia pressa.
Nel detto tempo il Prenze di Taranto,
avendo posto a Trapali l' assedio,
Don Federigo di sul poggio alquanto
guardò, e vide l' ordine, e 'l risedio,
e 'l modo, che tenevan que' dell' oste,
ed il vantaggio prese per rimedio.
Iscese il poggio, e fu loro alle coste,
essendo il Capitan de' suoi Don Brasco,
e prese la battaglia sanza soste.
Alla gente del Prenze venne il casco,
onde furo sconfitti, e 'l Prenze preso
e più di tal matera non t' infrasco.
Nel sopraddetto tempo, ch'hai compreso,
Cassano Imperador di Tartaria
venne in Soría contro al Soldano acceso,
a stanzia, e prego del Re d' Erminía,
con dugento miglia' di Cavalieri
tra Tartari, e Cristiani in compagnia,
perchè la Terra Santa volentieri
ajutava acquistare; onde 'l Soldano
mosse d' Egitto centomilia arcieri,
e vennene in Soría a mano, a mano:
ed iscontrarsi gli eserciti insieme,
e furono a battaglia in un bel piano.
A ferir d'ogni parte gente preme,
alla perfine il Soldan fu sconfitto,
e in sul campo de' suoi non campò seme.
Qual vi fu morto, e qual vi fu trafitto,
e molti, e molti ne camparon presi,
sicchè di lor tornar pochi in Egitto.
E in sul campo lasciaron tanti arnesi,
e lor gioielli d' ariento, e d'oro,
trabacche, e padiglion, se ben compresi,
che valien certamente un gran tesoro.
Gerusalem, e poi tutta Soría
a Cassan s' arrendèr, sanza dimoro.
Ond' el si mosse con sua Baronia,
ed al Santo Sepolcro volle gire
divoto siccome si convenia.
Poi convenendogli al tutto partire,
scrisse al Papa, ed al Re di Francia: Fate,
poch'io non posso mia voglia seguire,
ch' a quelle Terre, ch'io v' ho racquistate,
mandiate gente tal, che la difesa
faccia sì ben, ch'elle sien ben guardate.
Fu l' ambasciata volentieri intesa,
ma non si mise ad esecuzione,
perchè a ciascun viepiù suo stato pesa,
che non fe quel della comunione,
ch'era salute del popol Cristiano;
non si sa qualche fosse la cagione.
Partissi adunque di Soría Cassano,
perocchè gli era in Persia mossa guerra,
da un Signor di quel paese strano.
E poco appresso, se il libro non erra,
il Saracin cominciò a racquistare
Gerusalem, e 'n Soría ogni Terra.
Cassano appresso si fe battezzare,
e seguitato fu da sua famiglia,
e da molti altri de' suoi, ciò mi pare.
E perchè non ti facci maraviglia
delle migliaia dette, senza fallo
il ver te ne dirò con chiare ciglia.
E sappi, ch' ogni Tarter tien cavallo,
perchè a niuno andare a piede aggrada,
e costan poco in così fatto stallo;
perocch' a roder mai non hanno biada,
ma come pecore pascon l' erbaccio,
del qual v'è molto piena ogni contrada;
e di ferrarli mai non hanno impaccio,
perchè del ferro non hanno la vena,
e non bisogna, e la cagion mi taccio.
Ciascun, secondoch' è possente, mena
venti, o trenta cavalli a tal novella,
e l' un tien dietro all'altro sanza pena.
Con sottil briglia, e con povera sella,
e senza guida vanno, e son segnati
qual nella pelle, e qual nella bardella.
Gli uomini van di cuoio cotto armati,
con archi, e con saette, e con turcassi,
ed in battaglia paiono arrabbiati.
E perchè sappi come vivon grassi,
la lor vivanda è carne, pesce, e latte,
con poco pan, perchè tu non errassi.
S' alcuno ha sete, e al bere non s' abbatte,
ferisce un de' cavalli, e tanto succia,
che delle sangui a suo piacer gli ha tratte.
Alcuna volta col caval si cruccia,
sicchè l' uccide, e mangialo a diletto
con suoi compagni perfino alla buccia.
Non pensar, che niuno abbia altro letto,
ched un tappeto, che 'n terra distende,
e quivi star gli par senza difetto.
Non più però; che 'l lungo dir m' offende,
e tu debbi esser di tal tema sazio,
e 'l mio cor d' altro omai diletto prende.
Negli anni mille trecen Bonifazio
concedette a ciascun, che vicitasse
San Paolo, e San Piero in quello spazio
de' trenta dì, ch' alcun non ne fallasse,
perdon di colpa, e pena, se confesso
allora fosse, o poi si confessasse;
e poi per consolar la gente appresso,
e perchè nullo ricevesse inganno,
il Sudario mostrar faceva spesso.
Nota, Lettor, che tutto quanto l' anno,
ogni dì s' avvisò, che' pellegrini,
che a Roma si trovaro in quello affanno,
fosser dugento migliaia, e' cammini
tutti eran pieni, e tutti ebber mangiare,
le persone, e le bestie, ed acque, e vini.
Omai intende di voler parlare
quel Giovanni Villan, ch'i' nominai,
la cui virtù non si poría contare,
e nel seguente Canto l' udirai.
c. 35, argumento
Come Giovanni Villani Autore
dice, che cominciò il presente Libro,
e com de' Bianchi, e Neri fu l' errore,
e come pace fer le dette parti,
e memoria dell' Idolo di Marti.
c. 35
Io mi trovai in Roma pellegrino
negli anni Domini mille trecento,
non con quel senno, che vuol tal cammino.
E cominciai a por lo 'ntendimento
agli edificj, ch'io vedea disfatti,
pensando dell'antico reggimento,
e di color, che scrissero i gran fatti
della patria lor con magisterio,
di che si son già molti esempri tratti;
siccome fu Tito Livio, e Valerio,
Paulo, e Urosio, Salustio, e Lucano,
e di molti altri, non senza misterio.
Bench'io non sia d' ingegno sì sovrano,
come fur quei, ch' appresso nominai,
ma Mercatante, figliuol di Villano,
volendo seguitarli, mi pensai:
Roma fu madre della mia Fiorenza,
di cui parlare intendo; e cominciai,
a laude, onore, gloria, e riverenza
di Dio, e del Batista San Giovanni,
per cui nomato fui in sua presenza.
Cercando trovai cose di molti anni,
le qua' facieno al mio proponimento,
e 'n gran diletto mi recai gli affanni.
Della gran Torre feci fondamento,
e le Croniche, ch'io pote' trovare,
tutte recai al mio ordinamento.
E perch'io intendea di parlare
della Patria mia, di molti fiori,
com' ella ha il nome, la volli adornare:
d' antiche storie, e degl' Imperadori,
de' Papi, e Re Cristiani, e Saracini,
e di più altri Comuni, e Signori,
e di mia Terra, e di mie' Cittadini
singularmente ragionar volendo,
de' fatti antichi, ed anche de' vicini.
E ad onore di Dio seguire intendo,
mentrechè Iddio mi presterà la vita,
ogni cosa notabile scrivendo.
Dal dir dell' Autore omai partita
mi convien far: pognan, che mi sia noia;
la nuova storia a rimar m' invita.
Nel predett' anno, essendo allor Pistoia
in grande buono stato, e' suoi Terrieri
istando tutti in allegrezza, e 'n gioia,
una Casa chiamata i Cancellieri,
il cui principio canterò davante,
perchè non fur gentil, ma molto altieri,
un Ser Cancellier fu gran Mercatante,
che di due donne ebbe figliuoli assai,
e a tutti diè moglie, al mondo stante,
dopo la morte sua, com' udirai,
moltipricaron sì, che più di cento
uomini fur, secondo ch'io trovai,
possenti, e ricchi, e di gran valimento,
e maggior di Pistoia, e di Toscana,
mentrechè 'nsieme furo d' un talento.
Ma quel, ch' è sempre d'ogni mal fontana,
tanto mal mise tra' detti fratelli,
che la lor fratellanza fece vana.
E fur divisi, e stavan per se quelli
dell' una donna, e que' dell'altra armati,
ed eran tutti appariscenti, e belli.
Un dì, che 'nsieme s' erano sfidati,
l' un diede ad un degli altri d' un coltello,
non principal, ma de' loro appoggiati.
La parte di colui, che fece quello,
per aver pace, con grande disdetta
mandar l' offenditore al suo ribello,
dicendo, ch'e' prendesse ogni vendetta,
ch' a lui piacesse, e che misericordia,
per Dio chiedea; donde l' altra setta
in una stalla il menar di concordia,
e in su la mangiatoia quella mano
gli ebber tagliata, e crebbe la discordia.
E per lo modo, che fu sì villano,
divisi fur, dov'egli erano interi,
del nome della Casa a mano, a mano.
L' un lato si chiamar Cancellier Neri,
e gli altri si chiamar Cancellier Bianchi,
e non fur pur tra lor questi atti feri,
che gli amici, e' parenti erano a' fianchi
ad ogni parte per sì fatta guisa,
che del ferirsi non parieno stanchi.
Sicchè Pistoia n' era già divisa,
che chi tenea colla Bianca parte,
chi colla Nera, tutto alla ricisa.
E moltiplicò tanto sì fatt' arte,
che quasi parte Guelfa, e Ghibellina
non si nomava; ciò dicon le carte.
Onde la parte Guelfa Fiorentina
temendo, che Pistoia non volgesse
ad altra parte, essendo lor vicina,
perchè concordia tra lor si mettesse,
preson la Signoria con lor potenza;
nè fue alcun, che contro a ciò dicesse.
E confinar l' una, e l' altra a Fiorenza;
i Neri s' accostaro a' Frescobaldi,
gli altri co' Cerchi del Garbo fer lenza.
Nel tempo che a Firenze stetter saldi,
erano in grande stato i Fiorentini,
e Popolani, e Grandi grassi, e caldi.
E facea trentamila Cittadini
dentro alle mura, e 'l Contado, e distretto
settantamilia, e più di Contadini.
E di ricchezze, e d'ogni altro diletto
bilico di Toscana Firenze era;
ma il Pistolese la mise in difetto.
Che per la sopraddetta lor matera
i Fiorentin tra lor furon partiti,
chi tenea parte Bianca, e chi la Nera;
e dove prima stavano in conviti
tutti i diletti loro ebber lasciati,
e solo a questo avevan gli appetiti.
Cozzaro insieme i Cerchi co' Donati;
era capo de' Cerchi Messer Vieri,
e Messer Corso de' contrarj lati.
Donati eran gentili, e buon guerrieri,
e' Cerchi grandi, e ricchi mercatanti,
venuti dal niente molto altieri;
ingrati, e sconoscenti tutti quanti
e 'n Contado, e in Città erano insieme;
ma l' un dell'altro poco erano amanti.
E per superbia, e 'nvidia, che preme,
lizza tra lor maggiormente s' accese,
per la cagion del maladetto seme,
ch' aveva seminato il Pistolese.
Onde i Cerchi si fecer Caporali
de' Bianchi, siccome poi fu palese,
e gli Adimari fur di que' cotali.
Ma Cavicciulli, benchè sien consorti
con loro a questo non furono iguali.
Gli Abati tutti fur con loro accorti,
de' Tosinghi, e de' Bardi vi fur parte,
così de' Rossi, e Frescobaldi forti,
e Mozzi, e Nerli, e Mannelli in disparte,
Scali, Bostichi, e 'n parte Gherardini,
Vecchietti, Pigli, e Falconier con arte,
Giandonati, Arrigucci, e Malespini,
e Cavalcanti, e con lor s' accostaro
quasichè tutti i maggior Ghibellini,
e certe Arti minor li seguitaro;
e per lo grande seguito, che avieno,
i Cerchi eran maggior sanza riparo.
Di parte Nera Caporale appieno
fu interamente la casa de' Pazzi,
Bisdomini, e Donati li seguieno,
e Tornaquinci, Spini, e Gianfigliazzi,
Brunelleschi, Agli, Bagnesi, e Manieri,
de' Cavicciulli, e d' altre case sprazzi;
e chi coll' una parte i suo' pensieri
non accostava per cotal follia,
con l' altra s' accostava volentieri.
La parte Guelfa allor per gelosia,
che 'n Ghibellina non si convertisse
la parte Bianca, fece ambasceria
al Padre Santo; per la qual si disse,
siccome forte si temea per loro,
che 'l sopraddetto caso non venisse.
Onde il Papa mandò sanza dimoro
per Messer Vieri, e siccom' io ti dico,
dissegli a lui da parte in Concestoro:
Tu tratti Messer Corso per nimico,
e li consorti suoi, e la cagione
non vo' saper; ma vo', che sia tuo amico,
e voglio in te rimetter la quistione,
che ciò, che tu vorrai, ne sarà fatto,
e poi da me n' avrai gran guiderdone.
E bench'el fosse savio, a questo tratto
non fu così; ma, come si ragiona,
rispose siccome bizzarro, e matto,
e disse: Io non vo' guerra con persona,
facciasi i fatti suoi chi v' ha pregato,
e' nostri lasci far Santa Corona.
E Bonifazio gli diè commiato,
e crollò il capo, quasi minacciando,
ed el si fu a Firenze ritornato.
Avvenne poi, per Città cavalcando
alquanti d'ogni parte ben' armati,
com' è usanza talvolta spassando,
in compagnia di certi de' Donati
eran de' Pazzi, e degli Spini a schiera,
ed altri lor seguaci, ed appoggiati,
e con certi de' Cerchi il Baschiera,
e Baldinaccio, e Naldo sanza fallo,
de' Malispini, e de' Giacotti v'era.
Sicchè da trenta per parte a cavallo,
presso a casa gli Spini nel viaggio
si riscontrar sopra a vedere il ballo;
e fu la sera di Calen di Maggio,
uccellando l' un l' altro, e la baruffa
si cominciò coll'arme, e coll' oltraggio,
e furne assai fediti in quella zuffa,
ed a Ricoverin de' Cerchi il naso
tagliato fu, che non gli parve buffa.
Onde la sera poi per questo caso
tutto il popol s' armò per gelosia,
benchè 'l furor si fosse già rimaso.
Allor si multipricò sì la resia,
che non solo Firenze n' ebbe guai,
ma puossi dir Toscana, e Lombardia.
Perocchè ne seguiro mali assai
a tutta Italia, e diverse fortune,
come più innanzi scritto troverai.
Nota, che l' anno dinanzi il Comune
volendo far certe case Lungarno,
per acquistarne poi rendite alcune,
da un pilastro, che v'era levarno
l' Idolo di Marte, che in San Giovanni
i Fiorentini gran tempo adorarno,
il qual se n' era tratto di molti anni;
ed in quel luogo fattone apparecchio,
per dilegion degl' idolatri inganni,
poi si murò appiè del Ponte vecchio;
ma dove prima era volto a Levante,
di Tramontana poi faceva specchio.
Onde la gente, ch'era aguriante,
disse: Per certo quest'è malaguria,
d' aver mutato a Marte suo sembiante;
e voglia Iddio, che contro a noi con furia
non si rivolga pe 'l caso presente,
volendo vendicar sì fatta 'ngiuria.
Onde Firenze poi l' anno seguente
battuto fu di sì fatto vincastro,
che dov'ell' era lieta, fu dolente.
E sappi ancor da me, Lettore, e Mastro,
che 'ntagliato vid' io appiè del Ponte
Marte a cavallo ad alto in un pilastro,
e posta gli era la ghirlanda in fronte
di fiori quando Marzo andava asciutto,
quando era molle, per dispetto, ed onte
gli era gittato il fango, e fatto brutto
da' portatori, che quivi facien loggia,
sicchè coperto n' era quasi tutto.
Poi il diluvio, che venne per pioggia,
ne menò il Ponte, e Marte, e fe non erra
il Libro, mai non se ne vide foggia.
Ma so io ben, che ma' poi questa Terra
non ebbe pace, comecchè si suoni
il nome suo, ma sempre è stata in guerra.
Appresso i Ghibellin tenuti buoni
eran montati agli uficj in Fiorenza
nel detto tempo, e per queste cagioni
la parte Guelfa avendone temenza,
in Corte al Papa ne mandò Avvocato,
che riparasse a sì fatta semenza;
perocch'essendo il Ghibellin montato,
la parte Guelfa veniva a niente,
e Santa Chiesa abbassava suo stato.
E Papa Bonifazio incontanente
ci mandò il Cardinale d' Acquasparta,
che riparasse a cotal convenente.
Giunto in Firenze, disse: I' vo' per carta
di poter metter pace, e riformare
questa Cittade innanzi, ch'io mi parta.
Poich'egli ebbe balía di poter fare,
temendo i Bianchi, che 'l Papa, e 'l Legato
non gl' ingannasser, non vollon servare.
E 'l Cardinal si dipartì sdegnato
contro alla parte della Bianca setta,
e fussi al Papa in Corte ritornato.
Lasciogli in male stato, e per vendetta
della setta, che fu disubbidente,
la Città di Firenze ebbe intraddetta.
Avvenne, che il Dicembre poi seguente
andando Messer Corso con sua scorta,
e certi Cerchi, con altra lor gente
a casa i Frescobaldi ad una morta,
guardarsi insieme, e vollonsi assalire,
onde la gente se ne fu accorta,
e cominciaro a gridar col fuggire:
All'arme, all'arme; e fu la gente armata
in men, ch'io non te l' ho penato a dire.
Ed ogni parte a casa sua tornata,
di amici, di parenti, e d' altri fanti
ciaschedun fece grande raunata.
Messer Gentile, e Guido Cavalcanti,
Baschiera Baldinaccio, e Naldo, e molti
altri seguaci, ch'egli avien davanti,
corsero a casa de' Donati folti,
e non trovandogli, a San Pier maggiore
a cavallo, ed a piè si furon volti;
e Messer Corso con molto valore,
con sua compagna gli ebbe rincalciati,
e fece lor gran danno, e disinore.
E poichè molti ne fur condannati,
tornando i Cerchi un dì da Nepozzano,
furo assaliti da certi Donati,
e insieme si fedir, coll'arme in mano,
da ogni parte, e gran condannagione
anche ne seguitò a mano, a mano;
onde i Donati n' andaro in pregione.
Disse Messer Torrigian: Com' egli hanno
disfatti i Tedaldin per tal cagione,
veracemente noi non disfaranno
per pagar di moneta: e' suo' consorti
mise in prigione a simigliante affanno.
Omai convien, che' versi miei sien corti,
perch' è compiuto il misurato fascio;
ma di speranza vo', che ti conforti,
che tosto tornerò, dov' io ti lascio.
c. 36, argumento
Di Ser Ner degli Abati Soprastante,
il qual condì d' arsenico il migliaccio,
onde moriro certi a lui davante,
e come Carlo rimise in Fiorenza
Messer Corso, con altri di valenza.
c. 36
Fu Soprastante degli incarcerati
un, ch'era tutto dell'animo Bianco,
ch' avia nome Ser Neri degli Abati.
Questi mangiando con loro ad un banco,
da casa sua fe venire un migliaccio,
il qual non ebbe d' arsenico manco,
al quale i giovani dieder lo spaccio,
e Ser Neri, ch' avea falsata l' arte,
già non distese per mangiarne il braccio.
Sicchè due ne moriro da ogni parte,
ed altri ne rimaser sì mal conci,
che poco poter più tirar le sarte.
Morinne appresso Ferrarin de' Bronci,
e seguitol Pigel de' Portinari,
ed altri ne camparo molto sconci.
Nè costaron però que' cibi cari,
che condannato alcuno non fu poi
in persona, nè in membro, nè in danari.
Appresso Messer Corso, e gli altri suoi,
co' Capitan della Parte ordinaro
a lor vantaggio, come veder puoi,
che si mandasse, e subito mandaro
al Papa, che mandasse un de' Reali,
che al popol fosse, ed a' Bianchi avversaro,
dicendo: S' egli avvien, che 'l popol cali,
sormonterà la vostra dignitade,
se di Firenze saren Caporali.
Ma quando si sentì per la Cittade,
che facean contro al pacifico stato,
contro a lor procedette il Potestade,
e funne Messer Corso condannato
per Caporale, in avere, e in persona,
ed in danar chi l' avea seguitato.
De' qua', siccome per me si ragiona,
fu Messer Rosso, e Messer Rossellino,
e Messer Giachinotto, che quì suona,
e poi de' Pazzi fu Messer Pazzino,
e Messer Geri Spina, e de' Donati
fu Sinibaldo, e gli altri non dicrino.
Questi poichè' danari ebber pagati,
fur confinati a Castel della Pieve;
e poichè tutti là ne furo andati,
veggendo il popol, ch' a lui era lieve,
dall'altra parte mandò a Serrezzano,
(pognam, che allor paresse molto grieve,)
Messer Gentile, e Messer Torrigiano,
e Baldinaccio, Baschiera, e Carbone,
e Naldo, e Guido, ed altri a mano, a mano.
Ma stetter questi meno, e fu ragione,
perocchè Guido ne tornò malato,
e poi morì per sì fatta cagione.
Del qual fu grande danno, e gran peccato,
perocch'egli era con molta scienza,
e dicitor sovra ogni altro pregiato.
Questi tornar tutti quanti a Fiorenza,
veggendo, che la stanza era mortale,
fu lor dimessa cotal penitenza.
Appresso avendo dal suo Cardinale
il Papa tutte le cose sentite,
e siccome Firenze stava male,
e poi appresso le cose seguite
da Messer Geri, e dagli altri davante,
che ne' confin facean cose fiorite,
e 'l detto Messer Geri mercatante
era del Papa, e Messer Corso in Corte
sollicitò le cose tutte quante.
Onde 'l procaccio lor fu molto forte
con Papa Bonifazio; per qual cosa
piegato al lor voler per queste sorte,
mandò per Messer Carlo di Valosa,
sì perchè in Firenze rimettesse
i sopraddetti confinati in posa,
e sì perchè fornito questo, desse
a Carlo di Cicilia ogni valore,
acciocchè la Cicilia riavesse.
E promise di farlo Imperadore,
o dello 'mperio almen Luogotenente
per Santa Chiesa, che n' era datore;
e Carlo si fu mosso di presente.
Così riman questa materia in subbio,
perocchè 'l mille trecento corrente,
come dett'è, i Ghibellin d' Agubbio,
di Maggio, col poder degli Aretini,
cacciaro i Guelfi, per uscir di dubbio.
E di Giugno seguente i Perugini
vi rimisero i Guelfi, e ciascheduno
fue a cacciarne fuori i Ghibellini.
L' anno correndo mille trecentuno,
cacciaro i Bianchi di Pistoia i Neri,
col grande aiuto del nostro Comuno,
perchè gli uficj quasi aveano interi
i Bianchi di Firenze, e' Reggimenti,
onde potien seguire i lor voleri;
e' lor Palazzi insino a' fondamenti
cacciar per terra, e fra gli altri Damiata,
ch'era un palazzo con molti ornamenti.
Appresso essendo Lucca sollevata
per la detta cagion, gl' Interminelli,
che a parte Bianca facean brigata,
credendo far come avien fatto quelli,
che di Pistoia i Guelfi avien cacciati,
co' Ghibellini si fecer fratelli;
e poichè furo insieme raunati
uccison Messere Obizzo: onde tutti
gli altri Lucchesi Neri furo armati,
e cacciaro di Lucca come brutti
gl' Interminelli, ed ogni lor seguagio,
e li lor beni fur guasti, e distrutti;
nè casa vi rimase, nè palagio,
e più di cento case furo accese
di fuoco in fondo Porta San Cervagio.
Appresso nel dett' anno il Genovese
di Genova cacciato, com' intonaco,
fer con que' dentro concordia palese.
Tornati dentro ne rendero il Monaco,
col quale guerreggiavan la lor Terra
con Carlo, che a que' dentro fu rintonaco.
Nel predett' anno si mosse gran guerra
tra' Veronesi, e 'l Vescovo di Trento,
sconfitti fur da lui, se 'l dir non erra.
E poco appresso, di ciò non ti mento,
morì Messer Alberto della Scala,
che di Verona fu Signor contento;
ma prima come quel, ch' a morte cala,
fe Cavalier tra figliuoli, e nipoti
sette de' suoi, e 'l maggior tese l' ala,
il qual fu Messer Can, che' luoghi voti
empiè del Signoraggio in dodici anni:
gli altri eran tutti piccoli, e dioti.
Appresso di Settembre senza inganni
una stella comata nel Ponente
apparve, in segno di futuri danni,
secondo alcuno Strolago valente,
che disse: Dubbio a tutta Italia mostra,
ed a questa Cittade spezialmente,
perchè Saturno, e Marte ad una giostra
congiunti son nel segno del Lione,
ch' è attribuito alla Provincia vostra.
E ben seguì la sua intenzione,
che Carlo di Valosa, e sua compagna,
ch' a Firenze diè grande afflizione,
giunse in quel mese alla Città d' Alagna,
là, dove il Papa tenea Corte allora,
e viddel volentier con festa magna.
E lo Re Carlo poi senza dimora
in Corte co' figliuol venne a parlare
della Cicilia a Carlo, ed in un' ora,
ordinarono insieme di passare
a primavera, e 'l suo antico Regno
al lor poder per forza racquistare.
Ed il Papa, ch' ancora avea lo sdegno
contro alla parte Bianca Fiorentina,
informò Carlo di senno, e d' ingegno,
e fecelo pacial con sua dottrina
della Toscana, e mandollo a Fiorenza
per dare a' Bianchi amara disciplina.
Gli usciti Neri allor senza fallenza
il seguitaro per piano, e per piaggia,
ed ebbe in Siena onore, e riverenza.
Quando fu giunto con sua gente a Staggia,
que', che reggean Firenze fer consiglio
d' aprire, o no a gente sì selvaggia,
dicendo: Noi ci mettiamo a periglio,
e tal negata prima avie la via,
che si fe Guelfo, ed amico del Giglio.
E mandargli di botto ambasceria,
con quella riverenza, e quel saluto,
che a tanta Maestà si convenia.
Ed el disse: Signori io son venuto
per vostro bene, e per riporvi in pace,
siccome il Papa, e la Chiesa ha voluto.
E poi si mosse, e quel Signor verace,
come a Firenze si venne appressando,
e' Neri Guelfi, a cui suo fatto piace,
incontro gli si fecero armeggiando,
ed i Religiosi tutti quanti
a procission colle Croci, cantando.
E 'l giorno della festa d' Ognissanti
entrò in Firenze, e poichè fu posato
in casa i Frescobaldi giorni alquanti,
il Popolo, e 'l Comun fu raunato
nella Chiesa de' Fra' Predicatori,
e Carlo poi in sul Pergamo andato,
disse nella presenza de' Priori:
I' vo' da voi pieno albítro, e balía
di metter pace, e riformar gli onori.
E quand' egli accettò la signoria
giurò di conservar tutta la gente
a suo podere in pace tuttavia.
E dice l' Autor, che fu presente,
che il contrario per lui ne fu fatto,
come vedrai, se tu porrai ben mente.
Che per consiglio di Messer Musciatto
Franzesi, che n' avea fatta la 'mpresa,
siccome ordinato era innanzi tratto,
prima, che Carlo uscisse della Chiesa
tutta la gente sua si vide armata,
e' Cittadin temendo dell' offesa,
la Città ebber tutta asserragliata,
e tutti i Popolan si furo armati,
ed a casa i Prior fecer brigata.
Appresso poi Messer Corso Donati
s' appressava alla Terra, per entrare
nella Città, com' erano i trattati.
Quando si fu sentito il suo tornare,
disse Messere Schiatta Cancellieri:
Lasciatem' ire a lui a contastare.
Allor de' Cerchi disse Messer Vieri,
Lasciatel pur venire con sua scorta,
che 'l popol ne farà ciò, ch' è mestieri.
Attanto il Cavalier giunse alla porta
di Pinti, ch'era allor tra gli Uccellini,
e le sue case, ov'era la via corta
dal maggior Piero a lor, ch'eran vicini,
e quella fer tagliar dentro, e di fuore,
e passò dentro co' suo' Paladini;
e 'n sulla piazza di San Pier maggiore,
poichè schierato fu co' suoi sbanditi,
s' aggiunse gente assai in suo favore;
e con lui furon tutti quanti uniti
a romper le prigioni, e' suo' contrarj
di contraddirgli non furono arditi.
Ed era la prigion dove i Bastari
abitano al dì d'oggi molto adagio,
che 'l sito comperar di lor danari.
E fatto questo se n' andò al Palagio,
e ruppe il Bolognà senza misura,
cacciando fuor chi v'era con disagio,
e li Prior fuggiron per paura,
tornarsi a casa lor, com' io ti parlo,
e fero, al mio parer, la più sicura,
per tutto questo ancora Messer Carlo,
nè alcuno di sua gente apparì fuori
con parole, o con fatti a contastarlo.
E gli sbanditi, e gli altri malfattori
veggendo la Città sì scaprestare,
e non faceano uficio i Rettori,
subitamente si diero a rubare
case, botteghe, e fondachi, ferendo
coll'arme ognun, che volea riparare.
E cinque dì durò, se ben comprendo,
che chi il viso mostrò, fu morto a ghiado,
ed ebbecene assai con questo mendo.
E poi n' andò la ruba nel Contado,
ed otto dì durò, mettendo fuoco,
che dove furon non rimase un dado.
Poichè sfogata fu la gente un poco,
e Messer Carlo fe comandamento,
che non seguisse più sì fatto giuoco;
e riformò la Terra a piacimento
di parte Nera, e diede il Priorato
a' Popolani, ed ogni reggimento.
Appresso ritornò il detto Legato,
per far pacificare i Cittadini,
poichè l' un l' altro ebbesi gastigato,
e mise pace con dolci latini
tra' Cerchi, ed Adimari, e lor seguaci,
dall' una parte Bianchi, e Ghibellini,
dall'altra Pazzi, e Donati veraci
Neri, e Guelfi, ed altri compagnoni,
che fur presenti a' pacifichi baci.
E tra lor fece certi matrimonj,
acciocchè fosser parenti, ed amici,
nè mai tra loro avesser più quistioni.
Volendo poi raccumunar gli uficj,
la parte Nera, e Carlo contraddisse;
onde il Legato non stette più quici,
tornossi in Corte, e Firenze intraddisse.
La pace durò poco, per lo male,
che 'l Libro mostra poi ne seguisse:
ch'essendo il dì di Pasqua di Natale
Messer Niccola Cerchi, ed altri andati
alle mulina sue, di che gli cale,
e Simon di Messer Corso Donati
figliuol della figliuola, e suo nipote,
nell' Affrico con molti fanti armati
il sopraggiunse, e subito il percuote,
ond' el gridando: Omè, Nipote mio,
si volse, per difender quanto puote;
finalmente il nipote uccise il zio,
e fu da lui entro 'l fianco fedito,
sicchè la notte, come piacque a Dio,
della presente vita fu partito,
e 'n questo modo fu la pace rotta
in brieve tempo, siccom' hai udito.
Così ne fu vendetta in poca d'otta;
che chi uccise vedi, che fu morto,
pognam, che non morissono ad un otta.
E benchè 'l Vaio ricevesse torto,
la gente si dolea più di Simone,
perch'era ad ogni cosa molto accorto.
E non fu l' allegrezza del Barone,
quando tornò in Firenze collo stuolo,
il quinto grande per nulla ragione,
che fu lo smisurato, e grieve duolo
ch'egli ebbe nel suo cuor, quando udì dire,
che gli era morto un sì fatto figliuolo.
Da queste rime mi convien partire,
non perchè la materia sia finita,
che so, che ciò disiavi d' udire;
ma tostamente fia da me seguita.
c. 37, argumento
De' Neri, e Bianchi, e poi del Re di Francia,
della compagna, che per forza prese
il Ducato d' Atene, e non fu ciancia,
e come i Fiorentini, e' Lucchesi
fer oste insieme addosso a' Pistolesi.
c. 37
I Neri di Firenze ancora pregni
rimasi contro a' Bianchi, con ogni arte
pensar di partorire i lor disdegni;
e fecer contraffar lettere, e carte
falsate di scrittura, e di suggegli,
che parean fatte per la Bianca parte;
e scritti v'erano i nomi di quegli,
che si facean capo altre fiate,
sicchè mostrava ben, che fosser egli.
Le lettere dicevan: Se voi fate,
che voi ci rimettiate in signoria,
ventimila fiorin vogliam, che abbiate;
voi avete la gente, e la balía,
e noi saren tutti armati con voi,
e ciò, ch' è scritto, promettiam, che fia.
Ed ordinate queste cose, poi
trattar con un Baron, ch'era davante
a Messer Carlo sovra gli altri suoi,
quale avie nome Messer Pier Ferrante,
ed ordinar, ch'el tenesse trattato
con certi Bianchi di simil sembiante,
e promettesse render lor lo stato
contro alla volontà del suo Signore,
mostrando di lui metter poco piato.
Poi si partir, ed e' sanza tenore
mandò per certi Bianchi, e ciò, ch' è detto,
ragionò lor, colorando l' errore.
E poi, acciocchè venisse ad effetto,
sollecitavan da mane, e da sera,
e quel Baron ne traeva diletto.
Quando fu tempo, e quella parte Nera
portar le dette lettere bollate
a quel, che gli servia di tal matera;
e quel Baron tosto l' ebbe portate
a Messer Carlo; e disse: Signor mio,
queste son lettere, che m' han mandate
certi de' Bianchi, che volean, ch'io
rendessi lor lo stato, e gran promettere
mi facean, s'io fornissi lor disio.
Quando Carlo ebbe vedute le lettere,
disse: Contro a costor si vuol procedere,
perocchè non è cosa da dimettere;
e cominciò perfettamente a credere,
e disse a quel Baron: Fa' che non manchi,
che 'ncontanente li facci richiedere.
Richiesti furon tutti i Cerchi Bianchi,
degli Adimari Corso, e Baldinaccio,
con quasi tutti i Bellincioni franchi,
e Naldo Gherardin, con tutto il braccio
del lato suo, e de' Tosinghi alquanti,
che 'nsieme col Baschiera fur nel laccio,
e certi ancor di casa Cavalcanti,
Giacotti, e Malaspini, i qua' temendo
delle persone, fuggir tutti quanti;
per la qual cosa poi, non comparendo,
per contumaci in avere, e 'n persona
fur condannati, i lor ben disfaccendo.
E chi n' andò a Arezzo, e chi a Cortona,
quale a Pistoia, e qual fe co' Pisani
grande combibbia, come si ragiona.
E' lor seguaci Grandi, e Popolani,
e Guelfi, e Ghibellini alle man sue
fur condannati a diventar lontani;
e' fu d' April mille trecentodue.
E Messer Carlo si partì appresso,
poichè Firenze sì purgata fue.
E poi senza lunghezza di processo
arrivò in Corte, e dopo il partimento
a Napoli così n' andoe adesso,
e trovò fatto l' apparecchiamento
allo Re Carlo, mosso per andare
nella Cicilia coll'assembramento:
onde subito entrò con lui in mare,
ed in Cicilia passò con Ruberto
figliuol del detto Re a guerreggiare.
Allor Don Federigo, com' esperto,
non possendo resistere all'armata
del detto Re, quand' ebbe assai sofferto,
si recò a star con tutta sua brigata
alle difese senza far battaglia,
con lor faccendo guerra guerriata.
Più volte ne 'mpedì lor vittuaglia,
onde per questa, e per altra cagione
si partir con vergogna, e con travaglia.
Allora Carlo con discrezione
pace trattò tra lo Re Carlo, e quegli,
che Cicilia tenea contro a ragione,
e la figlia del Re per moglie diegli,
la quale aveva nome Elienora,
e poi dall'altra parte promiss' egli,
che se la Chiesa, e lo Re Carlo ancora
l' attassero a montare in sulla rota,
che lascerebbe l' Isola in un' ora;
e se ciò non facesse, per sua dota
la confessava, e dopo la sua vita
lasciar la sedia allo Re Carlo vota.
Ma se lasciasse reda alla partita,
centomilia once d'oro nell' entrata
doveano aver dal Re per bene uscita.
Fatta la pace, promessa, e giurata,
a Napoli tornaro, e la fanciulla
al Re Don Federigo ebber mandata.
Dell'altre cose promesse fu nulla,
e se 'n Toscana Carlo ebbe vergogna,
con poco onore in questo si trastulla.
E di Novembre poi per sua bisogna
si tornò in Francia, avendo la suo gente
consumata con danno, e con rampogna.
Dopo la pace tutto il rimanente
di ciascheduna parte i Cavalieri
fer compagnia 'nsieme arditamente,
e fer lor Capitano un Fra Ruggieri
del Tempio, ch'era pien d'ogni resia,
e con lor legni, galee, ed uscieri
passar subitamente in Romania,
poi in Gostantinopoli n' andaro,
guastando ciò, che alle lor man venia,
ed a lor forza non avea riparo,
perocchè sempre crescea la compagna
di gente, che 'l mal far tenean caro;
cioè scacciati, e pien d'ogni magagna,
e d'ogni ria, e mala condizione,
e senza legge, come cane, e cagna,
rubando, ed uccidendo le persone,
e Terre, che acquistasser, non tenieno,
ma colla ruberia, e coll' arsione
ogni paese affatto distruggieno;
e durar dodici anni in questi errori,
ch' uom del mondo non li tenne a freno;
e mutaro tra lor molti Signori,
che per la preda quella gente erronia,
tratto tratto uccidieno i lor maggiori;
e nel paese andar di Macedonia,
guastando d'ogni parte, e d'ogni lato,
sicchè 'l Paese ancora il testimonia.
Al fine se n' andaro nel Ducato
d' Atene, avendo per lor Capitano
il Duca del paese già chiamato.
Da lui si rubellaro a mano, a mano,
preserlo poi, e tagliargli la testa,
e del Ducato fur Signori a piano.
Partir le Terre, ch' avieno in podesta,
e que', ch'eran tra lor maggior colonne,
si presero i vantaggi a lor richiesta.
E cacciar via fanciulli, uomini, e donne,
salvochè ciaschedun si ritenea
qual più gli piacque, e l' altre via mandonne.
E così fero ancor nella Morea,
uccidendo, e cacciando i Cittadini,
e rubando a ciascun ciò, ch'egli avea.
E così le dilizie de' Latini,
pe' Franceschi acquistate anticamente,
com' Iddio volle, tenner ma' cammini.
E questo basti di tal convenente,
perchè credo tornare altra fiata
a ragionarne più compiutamente.
Nel detto tempo essendo rubellata
da' Fiorentin Pistoia, per gli usciti
Bianchi, che dentro vi facean brigata,
Lucchesi, e Fiorentin coll' oste giti
vi fur subitamente, e d'ogni mano
miser ciò, che trovaro a ma' partiti.
Stati che fur ventitrè dì nel piano,
e li Lucchesi ragionar tra loro:
Pensar d' aver Pistoia è pensier vano;
dissero a' Fiorentin senza dimoro:
Deh non le vi partite dalle spalle,
e noi andremo a fare altro lavoro.
Partironsi, ed andaro a Seravalle,
che come dei saper, briev'è 'l cammino,
ed assediarlo da monte, e da valle.
Appresso fu nel campo Fiorentino,
che rubellato s' era nel Valdarno
pian di Trevigne, e teneval Carlino;
onde subitamente cavalcarno:
parte di lor lasciarono a' Lucchesi,
che a Seravalle non stavano indarno;
ma con trabocchi, e con molti altri arnesi
la notte, e 'l dì combattevan le porti;
ma più di fuor, che dentro eran gli offesi:
perocchè 'l Castello era tanto forte,
che chi vi s' appressava era fedito,
e molti ancor vi ricevetter morte,
perch'egli era di gente ben fornito,
che Pistolesi assai v'erano entrati,
per aver pregio di cotal partito.
E se cento anni vi fossero stati,
non l' avieno i Lucchesi per battaglia,
come tre mesi avevan già passati.
Ma come mancò lor la vittuaglia,
perderono ogni ardire, ogni valore,
nè sapean che si far di lor travaglia.
E finalmente non senza dolore
s' arrendero a pregion con gran lamento,
e quel de' ma' partiti fu 'l migliore.
E li Lucchesi con molto ardimento,
presa la Terra, a Lucca ne mandaro
de' Pistolesi legati trecento;
e tutti i Terrazzan, che vi camparo,
giurarono a' Lucchesi fedeltade;
pognan, che poscia molti se n' andaro.
E li Lucchesi con solennitade
vi fer fare una Torre maestrevole
per più fortezza, e per più libertade,
la quale ancora è volta a Val di Nievole;
e fer fortificar la Rocca vecchia,
che al Pistolese si mostra piacevole.
Nota, Lettore, e l' animo apparecchia
attender, ch'io al Fiorentin ritorno,
dove 'l mio cor più, ch' altrove si specchia.
Come in Firenze fur, senza soggiorno
nel detto piano di Trevigne andaro,
e 'l Castello accerchiaro intorno intorno.
Ma dentro entrati v'erano a riparo
dimolti usciti Bianchi Fiorentini,
sicchè al combatter saria stato amaro.
E ciò veggendo i savi Cittadini,
trattaron con Carlin de' Pazzi detto,
e diergli, mi cred' io, molti fiorini.
Ed e' uscì del Castello, e con effetto
a' suo' fedeli fece aprir la porta,
e poi cavalcò via a suo diletto.
E come dentro fu la Guelfa scorta,
rubar la Terra, e poi vi miser fuoco,
e molta gente allora vi fu morta.
Appresso poi peggiorarono il giuoco,
ch'egli il disfero insino a' fondamenti,
sicchè non ne campò molto, nè poco.
E molti ne menaro malcontenti
presi a Firenze, ched in quel Castello
si riducean per rubar le genti.
Tornata l' oste col Giglio, e Rastrello,
poco riposo presono in Fiorenza,
che cavalcaron forti nel Mugello,
per dare agli Ubaldin gran penitenza,
perchè co' Bianchi s' eran rubellati
da' Fiorentin per usar violenza;
ed avendogli in parte danneggiati,
a' Caporali un messo fu venuto,
che' Bianchi due Castelli avean pigliati.
Ciò eran Montaglieri, e Montaguto,
i quali eran vicini in Val di Grieve,
e 'l Capitan, come l' ebbe saputo,
con tutta l' oste ripassò la Sieve,
e non ristette mai di cavalcare,
che nel paese fu giunto di lieve;
e l' uno, e l' altro fe 'ntorno cerchiare
di gente sì, che per nulla cagione
ne potea alcuno uscire, o dentro entrare.
Quando que' dentro vider per ragione,
che riparar non potieno a tal serra,
s' arrendèr tutti, salvo le persone.
Rubata, ed arsa ciascheduna Terra,
infino a' fondamenti fu disfatta,
acciocchè mai non facesse più guerra.
Nota, Lettor, ciò che per me si tratta,
che in quel tempo non pigliava cosa
il Fiorentin, che non venisse fatta:
sempr' era la Città vittoriosa
in ogni parte, perocch'era unita,
e non com' oggi la gente ritrosa.
Da tal matera omai faccio partita,
e nel mio dire un miracol si mischia,
per dare assempro a molti in questa vita.
Nel detto tempo nell' Isola d' Ischia,
che dal Napoletan poco divaria,
come sa chi talvolta vi s' arrischia,
uscì fuori della sua zolfonaria
un fuoco tal, che tutto quel paese
ne sbigottì, sì n' era piena l' aria;
e poichè 'l fuoco alle case s' apprese
nell' Isola di Procida, fuggiro
molti di quella gente alle difese,
uomini, e donne, e fanciu' con sospiro
abbandonando ciò, che avieno al mondo,
fuggivan per campar di tal martiro.
E due mesi durò sì fatto pondo,
mettendo case, persone, e bestiame,
ed altre cose, tutte quante al fondo.
E que', che ne camparo uomini, e dame,
veggendo lor paese sì confuso,
dovetter viver poi dolenti, e grame.
Di questo basti, ed or, Lettor, mi scuso,
che m' è di nicistà di ritornare
addietro alquanto, e malvolentier l' uso;
ma pur volendo il libro seguitare,
conviemmi dir come lo scritto muove,
se fallo ci è, non è mio il fallare;
che nel mille dugennovantanove,
dove racconta, che il Re di Francia
di Fiandra vinse tutte le sue prove.
Ritornerò nella seguente mancia,
perocchè quinci mi convien partire,
pochè di versi è piena la bilancia.
Dio mi conceda, ch'io possa seguire
la storia sì, che lo tuo 'ntelletto
non s' impedisca dilungando il dire;
ma saviamente riprenda l' effetto
di quel, ch'io lascio, col Canto seguente,
che chiaro ti farà d'ogni sospetto,
se quel, ch' è detto, ti rechi alla mente.
c. 38, argumento
Di Pier Leroi, ch'era un Tessitore,
com' e' fu capo del popol di Fiandra
contro a' Signor, per suo senno, e valore,
e come il Re di Francia fe gran gente,
credendo de' Fiamminghi esser vincente.
c. 38
Or mi convien pigliar ov' io lasciai,
che 'l Re di Francia in Fiandra fe statuti,
ch' a molti parver salvatichi assai.
Cioè, che tutti artefici minuti
della Città di Bruggia, ed appoggiati,
non fossero in ragione udir voluti.
Partito il Re, perch'eran mal trattati,
al Balio diero una pitizione,
e domandaron d' esser dirizzati.
Quegli a preghiere di ricche persone
fece il contrario, allegando la legge,
che 'ntender non gli dovea a ragione,
e due, ch'erano i capi di tal gregge,
fe mettere in prigione, ed altri poi,
de' qua' due l' un, secondochè si legge,
fu Tessitor, chiamato Pier Leroi,
saputo, e sperto Capo di contrada,
come Gian della Bella fu tra noi,
e l' altro nominato fu Gian Brada,
e fu Beccaro: or ti dirò perchè
fu posto il primo a così fatta grada,
che tanto viene a dir, quanto Pier Re.
Questi fu il primo, come si ragiona,
che Bruggia a communanza tornar fe.
Che benchè fosse povera persona,
e con un occhio assai vile, e sparuto,
per vertude era degno di corona;
onde s' armò tutto 'l popol minuto,
corse la Terra, di pregion cavaro
que', che a lor davan consiglio, ed aiuto,
uccidendo ciascun, che fe riparo:
poi fecer triegua, appellando a Parigi,
e la sentenza venne lor contraro;
che que', che avevan piene le valigi
di fiorin, valser molto più in quella,
che non valieno i poveri servigj.
Quando si seppe a Bruggia la novella,
da capo corse a romor la Cittade,
perchè 'l minuto popol si rubella.
Ma per temenza delle masenade,
si fuggir tutti alla Terra del Damo,
ch' è d'otto miglia appresso sue contrade.
Come fur dentro poi, di ramo, in ramo
la gente ricca tutta fu rubata,
e morto chi del Re facea richiamo;
e poi, siccome gente disperata,
n' andarono alla Terra d' Angiborgo,
e similmente l' ebber governata.
A Mala n' andar poi, se bene scorgo,
presso a tre miglia a Bruggia là, dov'era
di Bruggia il Balio, come quì ti porgo,
e presa la Fortezza alla primiera,
senza misericordia fur maneschi,
rubando ognun dal mattino alla sera;
e morto il Balio poi, tutti i Franceschi,
e Gran Borgesi andavano uccidendo,
ed ispezzando, come carne in deschi.
E gli altri, che camparon, ciò veggendo,
mandarono a Parigi per soccorso,
e 'l Re vi mandò poi, se ben comprendo,
il Sovran Balio di Fiandra, che corso
vi fu con più di mille, che a cavallo
più fier, che accaneggiato verro, od orso,
giunsero a Bruggia chiar, come cristallo,
e fornir le Fortezze con effetto
di ciò, che bisognava, senza fallo.
Regnando la Cittade in gran sospetto,
e quel minuto popol pur montava,
come Iddio volle, per altrui difetto,
e la minuta gente, che restava
in Bruggia insieme fer lega, e pastura
d' uccider ciaschedun, che contro dava,
e mandaron per que', che per paura
s' eran cessati, e dieder loro il nome,
che tenevan per lor dentro alle mura.
Dentro passar, non bisogna dir come,
uomini, e donne con molta baldanza,
perocch' avevano assaggiato il pome,
gridando: Viva nostra Comunanza,
e muoiano i Franceschi, e sieno offesi,
acciochè 'n tutto manchi lor possanza.
Ma da' Franceschi non erano intesi,
e chi gli aveva in casa gli uccidea,
od alla piazza gli menava presi,
dove misericordia non s' avea,
che tagliati eran siccome tonnina
da quella gente, come alcun giugnea,
e selle, e freni con savia dottrina
eran lor tolte, e se alcun cavalcava,
dalle finestre sentia la ruina.
Tutta la notte, e 'l dì, che seguitava,
non si fe altro, e ben milledugento
se ne trovaron morti, onde mi grava,
de' Cavalieri, ed a piè, non ti mento,
che fur domila, e più gli annoverati,
che ne doveva il seme essere ispento:
e 'n tre dì poi non furon sotterrati,
portandogli di fuori in sulle carra,
e per le fosse de' campi gittati,
e ricoperti appresso colla marra,
e se leggi oltre, troverai di corto,
che di viemaggior danno fu quest' arra.
De' Gran Borgesi ciaschedun fu morto,
che fu trovato, e molti fero il volo
di fuor campando da così mal porto.
Campoe Messer Iacopo San Polo
Balio maggior, perocch' a sua Fortezza,
che v'era presso, fuggì quasi solo.
Quando i Fiamminghi fer tal crudelezza,
corrie mille trecento per ragione,
poi raddoppiò de' Franceschi l' asprezza.
Dopo la detta rubellagione
di Bruggia, e de' Franceschi pestilenza,
che hai intesa, ed anche la cagione,
i Cittadin di Bruggia con prudenza
pensar l' offesa fatta al Re di Francia,
e che a rispetto della sua potenza
tutta la forza loro era una ciancia,
e che non riparando a ta' mestieri,
potrebbe in brieve dar lor mala mancia,
mandaro per Guiglielmo da Giulieri,
fratel di quel, che prigione era stato
del Conte Artese, e morto in que' sentieri.
Essendo grande Cherico, e Prelato
Guiglielmo detto, come sentì quello,
lasciò da parte tutto il Chericato:
per vendicar la morte del fratello
contro a' Franceschi, a Bruggia sanza soste
ne venne, e fatto fu Signor novello,
e 'ncontanente a Guanto andò coll' oste,
il qual trovò sì forte, che diè fine
a quella impresa, e mutò sue proposte,
ed assalì poi le Terre marine,
le qua' sentendo quasi pure il grido
della sua gente, ubbidir sue dottrine.
Quando questo sentì il giovan Guido
figliuol del buon Conte di Fiandra, e zio
di quel Guiglielmo, si partì dal nido,
e venne in Fiandra, che n' avea disio,
perchè del Re di Francia quanto puote
era grande nimico al parer mio.
Giunse nell' oste, ed egli, e 'l suo Nipote
di nuovo furono eletti Signori,
ed ebber la balía con piene note
di cinquecento capi, e guidatori
di tutto il popol di Francia, e tornando
dalle marine, come vincitori,
ebbero a patti, guidandole, e quando
fu nella Terra di lor gente assai,
e Messer Guido senz' altro domando
subitamente n' andò a Coltrai
con quindici migliaia di Fiamminghi,
e tutti a piè, secondoch'io trovai,
e non pensar, che quivi alcun s' infinghi,
ma son sì valorosi nella guerra,
che non bisogna, ch' altri li sospinghi,
e brievemente conquistar la Terra,
salvo il Castel del Re, dove sicuro
istà ciascun, che dentro vi si serra.
Dall'altra parte Guiglielmo aspro, e duro
pose l' assedio al Castel di Casella,
qual era forte di fosso, e di muro.
E dimorando questa gente, e quella
que' di Pro, e que' di Camma d' un volere
a Messer Guido dieder le Castella.
Onde a' Fiamminghi crebbe sì il podere,
che l' oste raddoppiava d'ogni lato,
e 'l Castel si potea poco tenere,
e per soccorso al Re ebber mandato,
ed e' vi mandò tosto il Conte Artese,
con settemila Cavalieri armato,
con molti altri Signor di lor paese,
Duchi, e Conti, e Castellan valenti,
ed alcun altro franco Banderese,
con quaranta migliaia di Sergenti,
con diecimila Balestrier tra loro,
tutti del Re fedeli, ed ubbidenti.
Quando furo a Coltrai, senza dimoro
formaro il campo pressovi ad un miglio;
diciam del Re, e lasciam di costoro.
Il detto Re di Francia per consiglio
di Messer Biccio, e di Messer Musciatto
Franzesi, e nati alla Città del Giglio,
fe falsar la moneta, e quì fu matto,
e fella peggiorar tanto, che 'l terzo
valse di quel, che valea innanzi tratto:
onde alla gente ciò non parve scherzo,
e molti Fiorentin ne fur diserti;
per tornare a Coltrai omai mi sferzo.
Messer Guido di Fiandra fra gli sperti
savio, e discreto giovane figliuolo,
veggendo tanti Franceschi scoperti,
e che partir non potea senza duolo,
o che 'n battaglia non provasse l' elmo
contro a sì grande, e valoroso stuolo,
mandò a Casella per Messer Guiglielmo,
e subito ne venne con Sergenti,
che parve, che dicesse: I' me ne smelmo.
E ventimila si trovar presenti
uomini a piè, che niuno a cavallo
v'era tra lor, se non i Maggiorenti.
Mutaro il campo del suo primo stallo,
e di Coltrai uscì la gente armata,
e tutti s' assembraron sanza fallo
presso alla Terra in su una spianata
sagacemente, e con molta misura,
pigliando lor vantaggio alla fiata;
che a traverso di quella pianura
aveva un fosso, il quale rallargaro
ben cinque braccia, e tre crebber l' altura.
E 'n sul cigliar del fosso si schieraro,
che a modo d' una luna si torcea,
e 'n simil modo tutti s' acconciaro.
Da lungi il fosso già non si parea,
che prima v'era la persona suso,
che s' accorgesse ove cader potea;
e 'l Popol de' Fiamminghi n' era chiuso,
e chi v' era a caval ne scese a piede,
volendo essere al par degli altri giuso;
e godendardi avean come spiedi,
ed acconciarsi, siccome alla caccia
s' aspettano i cinghiari; e quì provvedi;
ciascuno avea un bastone di due braccia,
col capo grosso, chiamato buon giorno
in nostra lingua, e d' altro non s' impaccia.
Quasi niun v'ebbe altrimenti adorno,
ch'eran povera gente, e poco usati
di guerreggiare, e dell'andar d' intorno;
e ben sapien, che' lor nimici armati
eran duo tanti, e viepiù sofficienti;
ma e' facevan come disperati,
e voleano anzi quì morir contenti,
che a que' Franceschi venire alle mani,
che gli uccidesser con nuovi tormenti.
E come debbon fare i buon Cristiani,
fecero il Corpo di Cristo portare
per tutto il Campo i lor buon Capitani,
e poi in luogo di comunicare
ciascun si mise della terra in bocca,
e 'nsieme si baciar con lagrimare,
e' lor Signori, a cui partiene, e tocca
Guiglielmo, e Guido, andavan confortando
del bene adoperare, a ciocca, a ciocca.
Dicean: Pensate, a che fareste, quando
veniste a man delli vostri nemici,
l' argoglio de' Franceschi ricordando.
Adunque procacciate esser felici,
e niuna paura non vi abbagli,
acciocchè non vegnate a' lor giudicj,
e date in sulle teste de' cavagli,
perocchè non sarà sì buon guerriere,
che a piè con voi una cicala vagli.
E Pier le Roi fecer Cavaliere,
e ben quaranta poi di lor migliori,
acciocchè ciascun fosse ardito, e fiere,
dicendo lor: Se noi siam vincitori
i' vi darò ben tanto, ch' a mie spese
potrete viver siccome Signori.
Dall'altra parte il gran Conte d' Artese,
e de' Franceschi Duca, e Capitano,
veggendo i Fiamminghi alle difese,
appresso loro scese giù nel piano,
e dieci schiere fe di Cavalieri,
ed a ciascuna diè Capo sovrano.
La prima milletrecento guerrieri,
Provenzali, e Guasconi, e Navaresi,
e Spagnuoli, e Lombardi arditi, e fieri;
e funne Capitan, se ben compresi,
Messer Gianni di Barla, e fu contento,
per far pruova di se in que' paesi.
E la seconda fu di cinquecento,
Messer Rinaldo d' Istria si novella,
che ne fu Capitano presto, e attento.
La terza fu di gente adorna, e bella,
e fu di settecento, e Caporale
ne fu allor Messer Tano di Noella.
La quarta fu d'ottocento, la quale
guidò Messer Luigi Chiaramonte,
nato di que' della Casa Reale.
La quinta fu di mille, e capo il Conte
d' Artese, ch'era della detta gesta,
savio, e discreto con ardita fronte.
Di settecento a caval fu la sesta,
la qual fu governata sotto l' ala
del Conte di San Polo, ardita testa.
La settima ebbe il Conte d' Albamala,
e fu di mille, come si ragiona,
che non curavan gli altri una cicala.
E Messer Ferri, e 'l Conte di Sansona
d'ottocento a caval guidar l' ottava;
e poi di cinquecento fu la nona,
la qual Messer Gottifredi guidava,
ch'era di Bramanzoni, ed Anoieri,
e Messer Gian d' Analdo il seguitava.
L' ultima fu di dugento Corsieri
forniti ben di tutte guernigioni,
con diecimila franchi Balestrieri,
e trentamila d' altri buon Pedoni,
della qual Bonifazio Mantovano
Caporal fu; e vo', che mi perdoni,
s'i' lascio quì chi segue a mano, a mano.
c. 39, argumento
Come i Fiamminghi vinsero i Franceschi,
e come il Re di Francia rifè l' oste,
e poi fer triegua, e ritornarsi freschi;
e di Fulcier de' Calvoli crudele,
che in Firenze fe gonfiar le vele.
c. 39
Raunaronsi allor certi da canto,
e andarono davanti al Conte Artese,
in cui stava il fatto tutto quanto.
E 'l Conestabol disse alla cortese:
Questa sarà battaglia disperata,
poichè 'l Fiammingo è fuori alle difese;
la gente, ch' è quì con voi assembrata
è 'l fior del sangue di Francia gentile,
e di gran fama più, ch' altra pregiata,
e que' son gente dispettosa, e vile;
non fia tenuta prodezza veruna
vincendo gente di sì fatto stile.
E se ci fosse incontro la fortuna,
che potrebb' esser, siam vitiperati
più, che gente, che sia sotto la luna.
Lasciate fare a noi con gli soldati,
e fanti a piè, che son più di due tanti,
che non sono i Fiamminghi annoverati.
Se ci mettiam tra la Terra, e' Briganti,
fie lor di vettuaglia il cammin guasto,
e badalucchi aran da tutti i canti.
E li Fiamminghi son di sì gran pasto,
che non potranno sostenere, e poi
si potrà lor me' caricare il basto.
O e' fuggiranno, o verran verso noi;
allora manderete alla bisogna
della Cavalleria, che fia con voi.
Che al mio parere egli è di gran vergogna,
che tanta Baronia, quant'è la vostra,
con sì vil gente a combatter si pogna.
Rispose il Conte: Quì non si dimostra
la lealtà, che porti a Monsignore,
che vile fai invilir la gente nostra.
Ond' el si volse non senza dolore,
e disse: Sir, tosto vedrete s'io
ho detto questo per viltà di core.
Con sua compagna s' accomanda a Dio,
e correndo a' nemici si fu mosso,
e gli altri il seguitaro con disio;
ma perchè non s' accorse del gran fosso,
colla brigata sua di botto affonda,
e similmente poi gli cadde addosso
la prima schiera, ed anche la seconda
e la terza, e la quarta, che pignendo
così addosso l' una all'altra abbonda;
e poi la quinta, e la sesta credendo,
che 'l pigner desse vinto il lavorio,
nel fosso tutti n' andaron correndo.
Ed era tanto grande il polverio,
che que' di dietro non potien vedere
s' egli erano a partito buono, o rio.
Onde seguiron tutte l' altre schiere
tra loro urtando, e votando gli arcioni,
e riempiendo dovunque era mistiere.
E' Fiamminghi d' intorno co' bastoni
pure ammazzare i cavagli intendieno,
e sbudellargli co' loro spiedoni;
sicchè in poca d'otta fu ripieno
il fosso, e li Franceschi sì annodati,
che pur tra loro stessi s' uccidieno.
Guiglielmo, e Guido Capitan pregiati
de' Fiamminghi, ciascun guardò suo corno
e molti a piè n' aveano atterrati.
E la lor gente gridavan d' intorno:
La roba è vostra, attendete a fedire,
che onorati siete in questo giorno.
Ed a' Fiamminghi crescendo l' ardire,
co' lor buongiorni, e co' lor godendardi,
cavagli, e Cavalier facean morire;
ed il fosso passar come gagliardi,
ed accerchiaro, e ruppon come vetro
color, che giunser più che gli altri tardi.
E niun ne potie tornare addietro,
che dovunque volgieno, eran trafitti,
com' i' ti mostro con diritto metro.
Così i Franceschi furono sconfitti,
e fur de' Cavalier semila morti,
e de' Pedon rimaser pochi ritti.
E' poveri Fiamminghi furo accorti
a disarmargli, e portar via gli arnesi,
onde fur poscia più, che prima forti.
E non pensar, che ne menasser presi,
ma tutti gli svenaro come becchi,
que', che per mazza non eran distesi.
Se tu, che ascolti, aprirai ben gli orecchi,
e gli occhi della mente, tu vedrai,
come tu vedi te, quando ti specchi,
quel che fu questo, e poi conoscerai,
che veramente fu di Dio sentenza,
per punir que', ch' avien superbia assai.
Deh ferma alquanto quì la 'ntelligenza,
considerando, che dovea parere
il fosso, e 'l pian di cotal pestilenza;
e nota ancor, che non si debba avere
ferma speranza nella molta gente,
che spesso i pochi i molti fan cadere.
Non fare oltraggio al tuo menipossente,
che spesse volte Iddio è dal suo lato,
s' a combatter si muove giustamente.
Quando fu questa guerra t' ho contato;
ma nondimeno, acciocchè non t' inganni
il lungo scriver, ch' è poi seguitato,
mille trecentodue correvan gli anni
di Cristo, il giorno di San Benedetto,
quando Francia sostenne i detti danni.
Onde i Franceschi poi in fatto, e 'n detto
per l' universo molto dibassaro,
e per viltà fur tenuti a sospetto,
e li Fiamminghi molto ne montaro;
e questo basti di sì fatta mandra,
per farti d' altro lo 'ntelletto chiaro.
E vuotti dir come i Conti di Fiandra
d'oggi, non son per lato mascolino
discesi dagli antichi, ma di Landra.
L' antico fu il buon Conte Baldovino,
ch'ebbe Costantinopoli davante,
e funne 'mperadore a suo dimino,
poi fu il valente, e buon Conte Ferrante,
che combattè collo 'mperador Otto,
e fu di sua persona molto atante.
Ciascun di lor fu molto savio, e dotto,
e portavano un' arme aggheronata
di giallo, e nero, e poich' andato sotto
fu il detto Conte, reda ebbe lasciata
una fanciulla femmina, ch' avia
la Margherita per nome chiamata.
Questa rimase a guardia, e tutoria
di Messer Gianni di Vannes Prelato,
che tenne poi per lei la Signoria;
e poi cresciuta la si tenne a lato,
ed ebbene un figliuol chiamato Gianni,
per la qual cosa lasciò il Chericato,
ed isposolla con allegri panni,
ond' ella fu Contessa Margherita,
ed el Conte di Fiandra sanza affanni.
Poich'ella fu sua donna stabilita
n' ebbe un' altro figliuol nomato Guido,
e 'l Conte poi passò di questa vita.
Ella rimase vedova nel nido
con due fanciulli, e guidava ella stessa
tutta la sua Contea, ben te ne fido.
E molte leggi fe questa Contessa,
che ancor sono osservate in più maniere
in Fiandra, dov'ell' era Principessa.
Ella s' armava come un Cavaliere,
e faciesi temer per sua bontade
in ogni parte, che facea mestiere.
Quando i figliuoli furono in etade
poser dinanzi al Re di Francia il piato,
perchè ciascun volea la dignitade.
E lo Re per la madre ebbe mandato,
e domandolla, qual' era più degno
d' esser di Fiandra Conte nominato.
Ed ella come savia disse: I' tegno
ciascun per mio figliuol; ma testimonio,
che Guido è il Conte, e la ragion n' assegno;
perch'egli è nato di ver matrimonio,
e Gianni no, benchè mi sia gran duolo
a dir, com' io fu' vinta dal Dimonio.
Rispose Gianni: Unche son' io figliuolo
della maggior puttana, ch' abbia il mondo;
presente il Re, e tutto l' altro stuolo.
la savia donna col viso giocondo
non si turbò di così fatto oltraggio,
ma dissegli ridendo: Io ti rispondo:
io non ti posso torre il tuo retaggio,
ma l' arme sì; e vo', che 'l Lion nero
nel campo d' or, che tiene il signoraggio,
da ora innanzi tu non porti intero,
ma portil sanza lingua, e sanza unghioni
per quel, che tu m' ha' detto contr' al vero.
Allora il Re co' savj suoi Baroni,
sentenziò ciò, ch'ella disse di saldo,
e 'ntorno a ciò le diè piene ragioni.
Di Gianni scesero i Conti d' Analdo;
di Guido i Conti di Fiandra per certo
della suo prima sposa, e di suo caldo;
ciò fu Guiglielmo, Filippo, e Ruberto.
Dall'altra Gianni, Arrigo, e Guidone,
de' qua' ciascun fu molto savio, e sperto,
di cui prodezze ancor faren menzione.
Or ti ritorno a' Fiamminghi vincenti,
che a ciaschedun parea esser lione.
Venuti tutti a' lor comandamenti
Coltrai, e Guanto, e gli altri de' paesi,
e' Franceschi di Fiandra quasi spenti,
i poveri Fiamminghi erano accesi
d' ardire, e di baldanza tanto pieni,
che ne cacciaro fuori i Gran Borgesi.
Ma come in Francia fur giunti i veleni
delle male novelle, donne, e dame
a piagnere, e stridir fur senza freni;
e di pianto era pien tutto 'l Reame,
che chi piangea il fratello, e chi il marito,
e tutte genti v'eran triste, e grame.
Nel predett' anno il Re di Francia ardito,
passato alquanto il dolor, bandì l' oste
sopra' Fiamminghi con aspro partito,
con Cavalier diecimila alle coste,
tra' quali furon molti gran Baroni,
che raunati avevan sanza soste,
e con sessanta miglia' di pedoni
cavalcò a Durazzo di presente,
per gire in Fiandra con battuti sproni.
Quando il Popol di Fiandra questo sente,
per Messer Gianni Conte di Namurro
mandar, perocch'era savio, e valente.
Non bisognò mettergli sotto curro,
che mosse, e venne per lor Capitano,
contro alla gente del Gigliato azzurro.
Come fu giunto quel Conte sovrano,
trovò la gente ordinata in disparte,
come tra loro avien fatto di piano.
Date le 'nsegne, e per se ciascun' Arte
nel Gonfalon si vedea manifesta,
così d'ogni mestiere a parte a parte.
E similmente nella sopravvesta
ciascun mostrava di sua Arte assai,
per conoscersi insieme a tale inchiesta.
E come baldanzosi di Coltrai
usciro a campo tutti arditi, e freschi,
e tanto bella gente non fu mai.
Trabacche, e padiglioni avean maneschi,
e tutti erano armati di vantaggio,
per la vettoria avuta de' Franceschi;
e col buon Capitan, discreto, e saggio
a Doagio n' andò la gente gaia,
e quivi fecer fine al lor viaggio.
E ritrovaronsi ottanta migliaia
d' uomini a piè, con tanta salmería,
che tenea più, che di buoi mille paia.
Attanto il Re colla sua Baronia
passò in Fiandra, e furonsi accampati
con tutta quanta lor Cavalleria.
E li Fiamminghi, ch'eran ben guidati,
mossero il campo arditi, e di gran vaglia,
ed a' nimici si furo appressati,
gridando sempre: Battaglia, battaglia,
badaluccando, e vincendo ogni prova,
avendogli per men d' un fil di paglia.
Allor dal Ciel si cominciò gran piova,
e durò tanto, che pareva un lago
tutto quel pian, dove la gente cova.
Ed avie d'ogni parte tanto brago,
che vittuaglia non potea venire
al Re di Francia, che valesse un ago.
Veggendo, che gli convenia partire,
co' Fiamminghi fe triegua per un anno,
degli altri patti non m' impaccio a dire.
Poi si partì con suo vergogna, e danno,
e li Fiamminghi se n' andar con festa,
e li Franceschi con pena, ed affanno.
Quì la detta materia alquanto resta,
volendo farti di nostra Cittade
alcuna cosa aperta, e manifesta.
Nel detto tempo essendo Potestade
della Città di Firenze Fulcieri
da Calvoli, pien d'ogni crudeltade,
ad istanza di certi Guelfi, e Neri,
di fatto certi Bianchi, e Ghibellini
fece pigliar di notte a' berrovieri;
de' qua' fu Messer Berto Gherardini,
e Masino, e Donato Cavalcanti,
Tignoso Macci, e Bindo Goderini.
Degli Abati volendo ancora alquanti
fare uncicare a stanza de' Franzesi,
ch'eran nemici, e de' Reggenti avanti,
fuggiron di Firenze, e de' Paesi,
abbandonando ogni lor possessione;
e 'l Massar delle case fu de' presi.
La Podestà formò la 'nquisizione,
che contro al buono stato, e reggimento
trattar della Cittade rubellione,
e fegli ad uno ad un porre al tormento,
e confessar sanza troppa molesta,
come volevan far quel tradimento.
Ond' egli a tutti fe tagliar la testa,
salvochè al detto Tignoso de' Macci,
che 'n sulla colla ebbe tanta tempesta,
che come panno, ch' a forza si stracci
si aprì, perch'era di carne compresso;
nè fa mistier, che più di lui m' impacci.
Gli Abati furon condannati appresso
come rubelli in avere, e 'n persona,
per simigliante delitto, e processo,
e i lor beni, come quì si ragiona,
infino a' fondamenti furon guasti,
in Contado, e in Città, come quì suona,
onde ne nacque poi molti contasti:
gli Abati per lo mondo se n' andaro,
e de' lor fatti quel, ch' è detto, basti.
Nel predett' anno il gran fu molto caro,
ed ispezialmente per coloro,
ch' avieno a comperar, fu molto amaro,
che parve lor, che valesse un tesoro
ventidue soldi di quella moneta,
che val quarantadue il fiorin d'oro.
Non dico più di così fatta pieta,
perch'io son giunto al termine ordinato,
dove di rime si vuol far dieta,
per dar sua parte al seguente trattato.
c. 40, argumento
Giustizia, che si fe per Pulicciano,
che fu tagliato il capo a dicessette,
e de' Visconti, e Torre di Melano.
Del Re di Francia, e come Santa Chiesa
per Bonifazio ricevette offesa.
c. 40
Essendo insieme Bianchi, e Ghibellini
usciti di Firenze, e di lontano,
Romagnuol, Bolognesi, ed Ubaldini,
ottocento a caval con Capitano,
e semila pedon, con allegrezza
presero il Poggio, e Borgo a Pulicciano,
ed assediar dintorno una Fortezza,
che' Fiorentin vi tenien molto bella,
credendosela aver senza durezza.
Quando a Firenze giunse la novella,
Popolo, e Cavalier subitamente
fur cavalcati a difesa di quella,
e' Bolognesi dell' avversa gente
si tenner tutti ingannati, e traditi,
sentendo i Fiorentin sì di presente;
perocchè avien lor detto i nostri usciti:
Egli ha nella Città tanti di noi,
che gli altri d' uscir fuor non fieno arditi.
E con paura se n' andaron, poi
si dipartir senza colpo di spada
gli altri di notte, come pensar puoi.
E sopraggiunti dalla masinada,
ve ne rimaser morti, e presi certi
Guelfi, a cui la parte Guelfa aggrada;
de' qua' fu l' un Messer Donato Berti,
Nanni Ruffoli poi dal Vescovado,
che venendone preso per suoi merti,
fu da un de' Tosinghi morto a ghiado,
e due de' Caponsacchi, de' più cari,
ne fur menati presi a mal lor grado.
Ed ebbevi un di casa gli Scolari,
e Lapo Cipriano ancor mi lece
di raccontarti, con Nerlo Adimari,
ed altri di minore stato diece:
sicchè in tutto furon dicessette,
a cui il Comun tagliar la testa fece.
Come contar le prime rime dette,
mille trecentodue avea il Sovrano;
e questo basti delle cose dette.
Nel detto tempo essendo Capitano
regnato assai Messer Maffeo Visconti
della Città, e Comune di Melano,
con lui insieme i figliuo' furon pronti
a voler tutta la signoria torre,
come che 'l popol contro a lor n' aonti.
Attanto certi di que' della Torre
dal Patriarca ebber tanta potenza,
che fecer l' oste presso a Melan porre.
Messer Alberto Scotti da Piagenza,
e 'l buon Conte Filippo da Pavia,
ed altri li seguir con provvedenza.
Messer Maffeo contro a' nemici uscia,
ma fu da' suo' mal seguito per certo,
perchè intera volea la signoria.
Allor si fe mezzan Messer Alberto,
che bench' avesse l' animo giudeo,
era pure tenuto savio, e sperto.
Que' della Torre con Messer Maffeo
si rimisero in lui con gran fidanza,
ma fu per lui più, che per gli altri reo.
Che siccome el si vide la possanza
diede a que' della Torre il signoraggio,
e lui privò della Capitananza.
Messer Maffeo per onta dell' oltraggio
in Melan poi non volle ritornare,
e Messer Mosca della Torre saggio
fu Capitano, e dopo il suo regnare
fu il consorto suo Messer Guidetto,
il qual si fe temere, e ridottare.
E proseguì Messer Maffeo predetto,
e suo' figliuo', che stavano a Ferrara
per sicurtade in picciol Castelletto.
E l' uno avea per sua sposa cara
la figlia del Marchese di quel loco,
dove si riducien per questa gara.
Messer Guidetto, che sentiva al poco
Messer Maffeo, disse ad un buffone,
mostrando di parlar quasi per giuoco:
Vo' tu cavallo, e roba da Barone?
Rispose: Messer sì; ed egli: Andrai
dov'è Messer Maffeo col mio sermone,
e quando se' con lui, domanderai:
Messer Maffeo, come vi pare stare?
E quel, che ti risponde, mi dirai.
E poi domanda, quando ritornare
crede a Melano; e quel ch'i' ho promesso
ti darò volentier, ma non tardare.
E que' si mise per cammino adesso,
giunse a Ferrara, ed ebbe ritrovato
Messer Maffeo, e fu con lui appresso.
E poich'egli ebbe con lui desinato,
dopo molte novelle, senza fallo
disse: I' son sempre vostro servo stato,
vorrei, che una roba, ed un cavallo
guadagnar mi facessi, che potete,
se voi volete, chiar come cristallo.
In mala parte pesca la tua rete,
disse Messer Maffeo; e que' rispose:
Io non la vo' da voi; ma rispondete
alla domanda mia sol di due cose;
e quel Signor, che 'l fatto ebbe compreso,
gli disse: Di'; e quel Buffon propose:
Come vi pare star? quest'è l' un peso:
quando a Melan tornate, mi conviene
saper da voi; e que', che l' ebbe inteso,
disse alla prima: A me pare star bene,
ch'io so viver col poco, ed in diletto
mi reco tutte quante le mie pene.
All'altra disse: Di' a Messer Guidetto,
ch'i' tornerò quando i peccati suoi
peseran più, che' miei per suo difetto.
E quel Buffon lo ringraziò, e poi
portò risposta a chi l' avia mandato,
con quel tenor, che tu intender puoi.
Quando Messer Guidetto ebbe pensato
quel, che Messer Maffeo avea risposto,
disse: Costui fu bene ammaestrato.
Vestì il Buffone a vaio, e diegli tosto
un palafreno il più bel, che trovasse;
e questo basti di quel, ch' è proposto.
Nel detto tempo, benchè cominciasse
assai di prima lo sdegno, e l' errore
tra 'l Re di Francia, e 'l Papa rinnovasse,
perch'el promise fare Imperadore
quel Carlo di Valosa suo fratello,
che in Toscana mandoe con furore,
e poi no 'l fece, ma confermò quello
Alberto d' Osterich; ond' el si tenne
tradito dalla mitra, e dal cappello,
e per dispetto poi seco ritenne
Stefan della Colonna di palese,
il quale il Papa nimicar convenne.
Appresso fe pigliare in Carcascese
il Vescovo di Parma, e li vacanti
Vescova' sottoposti al suo paese
goderlisi volea tutti quanti:
laonde il Papa insuperbito forte
fu suo nimico in fatti, ed in sembianti,
e Lettere mandò preste, ed accorte
a' Prelati di Francia, che venire,
sotto gran pena, dovessero a Corte.
E lo Re poi non li lasciò partire,
e 'l Papa maggiormente inanimato
fu contr' a lui, e poi gli mandò a dire
per uno Ambasciadore, e suo Legato,
che infra certo termine dovesse
riconoscer da lui ogni suo stato;
conciossiacosachè se no 'l facesse,
come iscomunicato, ed intraddetto
d' allora innanzi ciascuno il tenesse.
E come in Francia fu il Legato detto,
le letter gli fur tolte, e piuvicare
non le potè, nè mettere ad effetto.
Poi l' ebbe il Conte Artese, ciò mi pare,
e gittolle nel fuoco, e tutto intorno
fece il Reame di Francia guardare
per modo tal, che di notte, e di giorno
non vi poteva entrar senza licenza
lettera, o messo; onde per tale scorno
il Papa contro al Re diè la sentenza.
Il qual sentendosi scomunicato
contro a ragion, secondo coscienza
di Francia raunò il Chericato,
e dove furon tutti i suoi Baroni,
disse, che 'l Papa avea molto fallato,
e mostrò lor, che per molte ragioni
egli era eretico, e pien di resia;
onde per questa, e per altre cagioni,
e perchè commettea simonia,
dovesse esser disposto; che chi falla
in ciò, non de' tener tal signoria.
E dinanzi all' Abate di Restalla
appellava secondo la bisogna;
ma el fu saggio, e volsegli la spalla,
nè volle fare al Papa tal vergogna;
ma non volendo ricever l' appello
uscì di Francia, e tornossi in Borgogna.
E 'l Papa, e 'l Re l' un dell'altro rubello
per modo fu, che l' un l' altro guardava
di spodestar, se si vedesse il bello.
Il Papa a suo poder favoreggiava
i Fiamminghi, perch'eran suoi nimici,
ed ogni giorno il Re scomunicava,
privandol del Reame, e degli uficj,
studiando il Re Alberto, che passasse
a compier dello 'mperio i benificj,
acciocchè il Regno poi si rubellasse
allo Re Carlo suo stretto consorto,
ed a' confin di Francia guerreggiasse.
Ma se 'l Papa era dal suo lato accorto,
il Re Filippo dal suo non dormia,
come udirai a diritto, ed a torto.
Al suo consiglio in questi fatti avia
Stefan della Colonna, ch'era lieto
di ciò, che contro al Papa si facia,
ed un Messer Guiglielmo Lunghereto
Cherico esperto più, che 'n que' paesi
ne fosse un altro palese, o segreto;
e con Messer Musciatto de' Franzesi
gli mandò a Staggia con molti contanti,
per poter seminar ne' fatti impresi,
mostrando d' esser quivi tutti quanti
per fare il Papa, e 'l Re pacificare.
E quivi stando con questi sembianti,
incominciar sottilmente a trattare
la struzione di Papa Bonifazio,
e con più messi, e lettere mandare.
E quivi fer venire in corto spazio
molti di que', ch' al fatto s' accostaro,
e che poteano il Re far di lui sazio,
e tutti con danar gli avvelenaro:
sicchè contenti furo, a quel, ch'hai inteso,
Baroni, e famigliar sanza riparo;
ed ordinar, che 'l Papa fosse preso
nella Città di Lagna, ond' era nato,
e dov'egli era quando fu offeso;
e molti Cittadin fur nel trattato,
perchè ciascuno avea avuta l' arra,
talchè gli era contento del mercato.
Di questo fatto Caporal fu Isciarra
della Colonna, e tutti i suo' pensieri
posti avia a far quel, che 'l libro narra.
Seco menò trecento Cavalieri,
e molti fanti a piedi in sua compagna,
che per rubar n' andavan volentieri.
Come fu giunto, alla Città d' Alagna
passò gridando: Viva il Re di Francia,
e muoia il Papa pien d'ogni magagna.
La gente cominciò a dar mala mancia
rubando, e se alcun si rubellava
sentiva chi 'l coltello, e chi la lancia.
E 'l Papa, che di ciò non si guardava,
veggendo i Cardinal ciascun fuggito,
e sol co' suo' famigli si trovava,
come Signor magnanimo, ed ardito,
parar si fece, e colle chiavi in mano,
e colla Croce, e l' ammanto vestito,
e la Corona di valor sovrano,
che fu di Gostantino Imperiale,
si fece porre in testa a mano, a mano,
e nella sedia sua Pontificale
disse: I' son Papa, e Papa vo' morire,
tradito come il Re Celestiale.
Giugnendo Isciarra, gli cominciò a dire
parole disoneste, e scellerate,
ma di toccarlo niuno ebbe ardire,
per conservar la Papal dignitade
non volle Iddio, che in tal diligione
el fosse morto nella maestade;
ma tre dì stette in tal modo pregione,
che da' masinadieri era guardato,
nè bevve in quel, nè manicò boccone.
E come il terzo dì risuscitato
fu veramente il nostro Salvadore,
il Papa il terzo dì fu liberato.
E rilevossi la Terra a romore,
credo, che fosse per grazia divina,
che' Cittadin cognobber loro errore,
gridando: Muoian que' della rapina,
e muoian tutti quanti i traditori,
e viva il Papa, e Santa Chiesa fina.
E Sciarra, e' suoi seguaci cacciar fuori,
e morti, e presi ne furono assai,
siccome piacque al Signor de' Signori.
Per tutto questo non s' allegrò mai
il Padre Santo, che già conceputo
aveva in cuore il dolor, ch' udirai;
e tosto a Roma se ne fu venuto
a 'ntendimento di far gran vendetta
di quell' oltraggio, ch' avia ricevuto.
Ma già la sua persona era costretta
da 'nfermità, sicchè la bella labbia
si trasmutò in cosa maledetta,
e tutto si rodea per la scabbia,
e brievemente uscì di questa vita,
per lo dolor compreso, pien di rabbia.
E la presura, che tu hai udita
fu di Settembre fatta, e con inganni
la Santa Chiesa rubata, e schernita.
Correndo mille trecentotre gli anni
del Salvatore, in San Piero sepolto
d' Ottobre fu, con pianto, e con affanni.
Questi fu valoroso, e savio molto,
credo, che sia a porto di salute,
se la superbia sua non gliel ha tolto.
Secondo il mondo fu pien di vertute
fu di gran core, ed amici, e parenti
sempre innalzò colle grazie compiute.
E fe tra egli, ed altri sofficienti
il sesto Libro delle Dicretali,
che alluminò tutti altri ordinamenti.
Molti Prelati fece, e Cardinali,
i Guelfi tenne molto per amici,
e' Ghibellin per nemici mortali.
E delli sopraddetti malificj
i suo' consorti, che ne avien disio,
si vendicar contro a' minor nemici,
e contro al Re di Francia la fe Iddio,
come più innanzi ancora troverai,
o per altrui scritto, o per il mio;
ma d' altre cose prima leggerai.
c. 41, argumento
Di Montanina, e Messer Din Rosoni,
e siccome Firenze combattea;
del Cardinal da Prato anche ragioni,
di Papa Benedetto a mano, a mano,
e della Compagnia di San Friano.
c. 41
Negli anni ancor mille trecentotrè
ebbe Firenze il Castel di Montale
presso a Pistoia, e di botto il disfè,
e la campana poi di quel cotale,
conciossiacosach'era molto fina,
al Podestà si pose per segnale.
Fu sempre poi chiamata Montanina,
e chi dicea campana de' Messi,
perchè per lor sonava ogni mattina.
Appresso poi in questi tempi stessi
Fiorentini, e Lucchesi andar coll' oste
sopra Pistoia per falli commessi,
tutto guastando dintorno le coste;
poi si tornarono alle lor magioni
senza contasto, e senza lunghe soste.
Nel predett' anno Messer Din Rosoni
eccellente Dottore, e Fiorentino
morì in Bologna; Cristo gli perdoni.
E 'l Maestro Taddeo fe quel cammino,
grandissimo Filosafo; ringrazio
Iddio, perchè fu nostro Cittadino.
Dopo il morir di Papa Bonifazio
eletto fu un Papa Benedetto,
che del Cappello fu per sua man sazio.
Questi fu uom grazioso, e perfetto,
e fe pacificar la Santa Chiesa
col Re di Francia d'ogni acceso detto.
Nel detto tempo ancor seguì la 'mpresa
il Re di Francia, ch' a quel d' Inghilterra
la Guascogna rendè sanza contesa,
acciocchè contro non fosse alla guerra,
ch'egli intendeva a' Fiamminghi di fare,
come udirai ancor, se 'l dir non erra.
Nel detto tempo gli Scotti, mi pare,
che mosser guerra al detto Re Adoardo;
ond' el malato si fece portare,
siccome que', ch' avea il cor gagliardo,
e con sua gente sconfisse gli Scotti,
bench'egli stesse da parte a riguardo;
e pochè gli ebbe così mal condotti
del paese di Scozia in sua potenza
ebbe gran parte; ed or d' altro dirotti.
Nel detto tempo cominciò in Fiorenza
grande discordia, e mutazion di stati
tra' Cittadin, con molta differenza;
perocchè Messer Corso de' Donati
parendogli esser di più stato degno
tra' Guelfi, ch'eran molto sormontati;
come quel, ch'era di sottile 'ngegno
sì s' accostò co' Bianchi Cavalcanti,
per partorir di quel, ch'egli era pregno,
e disse: E' saria ben, che tutti quanti
que', ch'hanno quel del Comun trassinato
da cotal tempo in quà cose, e contanti,
mostrasser come l' hanno ben guidato.
Gli altri, che questo udivan volentieri,
disser: Messer bene avete pensato;
e fecer Capo a ciò Messer Lottieri
Vescovo di Firenze, e della Tosa,
che a parte Bianca aveva i suo' pensieri.
Il qual propose a' Prior questa cosa,
e 'l Popolo il sentì; e 'ncontanente
fu sotto l' arme, e mai non trovò posa.
Più dì si combatterono aspramente
i Grandi, e' Popolani, e lor brigate,
e di quel fatto non si fe niente.
E molte Torri per Firenze armate
si furon, saettando le quadrella
contr' agli avversi a tutte le fiate.
Quella del Vescovo era armata, e bella,
e grosse pietre continuamente
gittava ognor con una manganella.
I Prior s' afforzaro, e francamente
fecer difesa da que' Cittadini,
da' qua' fur combattuti spessamente;
perchè co' lor seguaci i Gherardini
col Popol tenner con gran vigoria,
e rifrancarlo, ch'era a ma' confini;
ed un di loro in Por Santa Maria
fu morto alla battaglia d' un quadrello,
che Messer Lotteringo nome avia.
Dico, Lettor, che per amor di quello
il Popolo è tenuto d' onorare
sempre la Casa pe 'l servigio bello.
La Città cominciò a scapestrare
con ruberie, e micidj palesi,
sicch'ella s' era al tutto per guastare.
Ma i nostri fratelli cari Lucchesi
incontanente corsero a Fiorenza
a piede, ed a caval con begli arnesi,
e domandaro, ed ebber la licenza
di poter terminare ogni quistione,
nè potessesi opporre a lor sentenza.
E riformar la Terra per ragione
ad ogni lor piacere, e lor comando,
e fur contente tutte le persone.
Da parte de' Lucchesi andando il bando,
a Ponciardo de' Ponci ispiacque molto,
e innanzi, ch'el finisse suo dimando,
d' una spada, ch' avea, gli diè nel volto;
ma nondimeno il bando fu servato,
ch' ognun coll'arme in casa fu ricolto,
e le botteghe aperte in ogni lato.
Tornato il Banditore a que' cotali,
ch' a fare il bando l' avevan mandato,
come discreti, e savj naturali
fecer mutar latino a' Banditori,
e fer da parte dir de' Paciali.
Poi riformar l' uficio de' Priori,
e molte paci fer con grande affanno,
nè punirono alcun de' mafattori;
ma chi fu oltraggiato s' ebbe il danno.
A Lucca si tornar senza dimoro,
e ciò, che fecer, durò men di un anno.
Nel detto tempo i Fiorentin tra loro
ebber tal fame, che lo sta' del grano
si vendè quasi un mezzo fiorin d'oro;
e della povera gente Cristiano
non ci campava, se mutata foggia
il Comun non avesse a mano, a mano;
perocchè ventisei miglia' di moggia
ne fe venir di Puglia bello, e netto,
sicchè goder potè la gente a loggia.
Nel detto tempo Papa Benedetto
mandò a Firenze il Cardinal da Prato,
ch' a' Fiorentin desse stato perfetto.
Come fu giunto, ed ebbe piuvicato
il Privilegio, chiese la balía
di poter por Firenze in buono stato,
e di poter far pace, e compagnia
tra que' di fuori, e que' della Cittade,
e pienamente ebb' ogni signoria;
e come si sentì la Potestade,
fece far paci di molte quistioni,
ed al popol crescè la libertade,
e rinnovò gli antichi Gonfaloni,
come solevano esser, dicennove,
e' Grandi dibassar per ta' cagioni.
Ond' ei cercaron sempre cose nuove
incontro al Cardinal, per isturbare,
che non vincesse tutte le sue prove;
cioè, di fare in Firenze tornare
i Ghibellini, e' Bianchi, per godere
tutti i lor beni, come si solien fare.
Per tutto questo non lasciò il dovere
il Cardinale, e fe venire adesso
Sindachi degli usciti al suo piacere.
Egli era in Casa i Mozzi, e color presso
abitavano a lui, sicchè a consiglio
si rivedieno insieme molto spesso.
Parendo a' Neri, ed agli altri del Giglio,
che' fosse più con gli altri, che con loro,
preser sospetto di maggior periglio;
e lettere trovar senza dimoro
scritte, e bollate, siccome bisogna,
che 'l Cardinal mandate avia a costoro,
a' Bianchi di Romagna, e di Bologna,
le qua' dicean: Venite, e non tardate,
a Firenze a soccorrer mia vergogna.
Ben disse alcun, ch'elle fur simulate,
ma comecch'elle fosser nel Mugello,
di quella gente venne assai brigate.
Il Cardinal ne fu ripreso, ed ello
rispose, che non era sua fattura,
ma ch'era contraffatto suo suggello.
I Sindachi sentendo oltra misura
la gente mormorar contro al Legato,
se n' andaro ad Arezzo per paura.
La gente, poichè fu scoperto il guato,
si tornò addietro, ed e', per lo migliore,
ch' alquanto si partisse fu pregato.
A Prato se n' andò senza tenore,
e domandò, ed ebbe la balía,
come avie avuta quì, ovver maggiore.
Ma i Guelfi ne pigliaron gelosia,
ed ordinar, che 'l romor si levasse,
per dar materia, ch'egli andasse via.
Non bisognò, ched e' s' accomiatasse,
che siccome 'l romor si fu levato,
mill'anni parve a lui, che si sgombrasse.
Partissi allora, ed iscommunicato,
ed intraddetto lasciò il Castello,
ed a Firenze si fu ritornato.
A' Fiorentin facendosi fratello,
seppe sì dir, trovandogli di vena,
che bandir l' oste a Prato senz' appello.
E 'l Cardinal perdonò colpa, e pena
a chi v' andasse a cavallo, od a piede
a danneggiarli di cosa terrena.
E molti Fiorentin di buona fede,
udendo la 'ndulgenzia conceduta,
s' apparecchiar, per acquistar mercede.
A' Guelfi fu la gelosia cresciuta,
temendo, che non fosse fatto ad arte
ciò, che fatt' era per la sua venuta.
E la gente s' armò da ogni parte;
veggendo questo quel savio Prelato
della sua 'mpresa ricolse le sarte.
E poi pigliando da' Prior comiato,
disse: I' ci venni per mettervi in pace,
e fatto ho ciò, ch'io debbo dal mio lato;
non volete ubbidire, e ciò mi spiace,
al messo del Signor, che son dess'io,
ma ciaschedun tutto 'l contrario face,
state colla maladizion di Dio,
come scommunicati, ed intraddetti;
e per paura di se si partío.
Poi non s' andò contro a' Pratesi detti,
perocchè non avieno il benificio
i Fiorentin, poch'eran maladetti.
Correvan gli anni allor del sagrificio
mille trecentoquattro, che lontano
si fece il Cardinal da tale uficio.
Nel detto tempo in Borgo San Friano
di giovani si fece una brigata
a lor diletto, e poi d'ogni Cristiano,
con nuovi giuochi, e sì bene ordinata,
che malagevol mi sarebbe a dire,
come fu propiamente assimigliata.
Per tutta la Città fecer bandire,
che chi volie novelle di vantaggio
dell'altro mondo vedere, ed udire,
andasse il giorno di Calen di Maggio
al Ponte alla Carraia, e di presente
dell'altra vita vederebbe il saggio.
Onde vi trasse quel dì tanta gente,
ch'egli era pieno il Ponte, e d'ogni parte
le case lungo l' Arno similmente,
e, secondo ch' ancor dicon le carte,
sopra le pile; il Ponte era di travi,
e non di pietra murato con arte;
ed in sull' Arno aveva piatte, e navi,
con palchi d' assi; or udirai bel giuoco,
e come que', che 'l facieno eran savj.
Dall' una parte avea caldaie a fuoco,
dall'altra avea graticole, e schedoni,
ed un gran Diavol quivi era per cuoco.
Nella sentina avea molti Dimonj,
i qua' recavan l' anime a' tormenti,
ch' ordinati eran, di molte ragioni.
Qual si ponia sopra carbon cocenti,
e qual nella caldaia, che bolliva,
e di sentina uscivano i lamenti.
La gente, che d' intorno il pianto udiva,
e poi vedea a sì fatto governo
co' raffi, e con gli uncin gente cattiva,
che parean tutti Diavoli d' inferno
ispaventevoli a chi li vedea,
immaginando que' del luogo eterno,
chi piangea di quello, e chi ridea;
ma chi avea d' uom conoscimento,
la verità del fatto conoscea.
L' anime, ch'eran poste a tal tormento,
eran camice di paglia ripiene
e vesciche di bue piene di vento
per modo acconcio, che parevan bene
guardando dalla lunge le persone,
che fosser poste a così fatte pene.
Sette tormenti v'eran per ragione,
punendo i sette peccati mortali,
e sovra ognuno scritto in un pennone:
in questo luogo son puniti i tali.
Alcuna volta v' avresti veduti
serpenti, e draghi feroci con ali,
e contraffatti Diavoli cornuti,
che forcon da letame avieno in mano,
di più ragion, tutti neri, e sannuti.
E per vedere il detto giuoco vano
abbondò tanta gente sovr' al Ponte,
che 'l Ponte ruppe, e cadde a mano, a mano,
ed affogarone assai in quella fonte,
e molti guasti poi della persona
rimaser, qual di gamba, e qual di fronte.
E 'l giuoco allora tutto s' abbandona,
e ritornò la bella festa in pianto,
com' al presente per me si ragiona.
Uomini, e donne venien d'ogni canto,
cercando chi 'l fratello, e chi 'l figliuolo,
e chi 'l trovava, s' allegrava alquanto.
Ma chi l' aveva men, con doppio duolo
si dipartiva, e non potre' dir mai
le strida, che facea quello stuolo.
Pensa, Lettor, dov' i' mi cominciai,
che per novelle aver dell' altro mondo,
la gente trasse, siccome udit' hai.
Mostra, che Iddio volesse, che nel fondo
andasse molta gente all'altra vita,
che le novelle sepper tutte a tondo.
Ma per ancora in quà non è redita
persona, che rapporti le novelle,
ma dolorosa pur fu la partita.
Mondan diletto non vuol dir cavelle,
che 'l mondo mostra il bianco per lo nero,
e poi ci fa mangiar sovra la pelle.
Così il da beffe tornò daddovero,
che rade volte di cose mondane
se n' ha diletto compiuto, ed intero,
conciossiacosachè tutte son vane;
dunque fermar dobbiam nostro diletto
alle cose divine, e non umane.
Della presente materia abbiam detto.
c. 42, argumento
De' Cavicciuli, che 'l Podestà fediro,
e del gran fuoco, ch' arse Calimala,
e riempiè di pianto, e di sospiro.
E come i Bianchi entrarono in Fiorenza,
e fur cacciati con gran penitenza.
c. 42
Trecentoquattro, e mille corrien gli anni
quando Talano di Messer Boccaccio
de' Cavicciul fu preso con affanni
per malificio, in cui persona taccio,
com' esso fu, ma era Popolano,
ch'era di maggior pena, e di più impaccio.
Ed essendo prigione in Volognano
il Podestà tornando da' Priori,
e li consorti del detto Talano
percosser la famiglia, e de' maggiori
ucciser due, e 'l Podestà fediro
per modo tal, che gli altri suo' minori
in quà, e 'n là tutti quanti fuggiro,
e' Cavicciuli intrarono in Palagio,
e trasserne Talan senza sospiro.
Poi si tornaro a casa loro adagio,
e 'l Podestà s' andò pe' fatti suoi,
lasciando stato quì molto malvagio.
Come la Città stava, pensar puoi,
poichè punito non fu tale errore,
che non fu forse maggiore a' dì tuoi.
Rimase la Città sanza Rettore,
chiamarsi allor due Cittadin per Sesto,
che fosser Podestà per lo migliore,
tantochè Podestà venisse presto.
Or muto cibo per darti appetito,
e di cotal materia basti questo.
Nel predett' anno il Cardinal partito,
in male stato rimase Fiorenza,
siccome puoi dinanzi avere udito.
I Popolan de' Grandi ebber temenza,
e certe case si fornir di fanti
per riparar contro alla lor potenza.
Albizzi, Strozzi, e Ricci fur davanti,
Mancini, Magalotti, ed Antellesi,
Peruzzi, e Baroncelli, e tutti quanti,
Medici, e Giugni; ma i primi contesi
furono i Giugni da' Cerchi vicini,
che combatter la notte, e 'l dì palesi.
Al fine Cavalcanti, e Gherardini,
e Cerchi, e lor seguaci furo ad una,
e vinser quasi gli altri Cittadini.
E prosperando sempre con fortuna
corser la Terra infino a San Giovanni,
senza contasto di persona alcuna;
e poco avieno a star, che senza inganni
eran vincenti, e poi cacciati avrieno
i lor nemici con vergogna, e danni;
cioè color, che offesi gli avieno
nel far tagliar la testa a Messer Betto,
ed a Masin, che fu di vertù pieno.
E come fur per venire ad effetto
d' acquistar di Firenze il Signoraggio,
che quasi lor non era contraddetto,
ed un Prior di San Piero Scheraggio,
ch' avie nome Ser Neri degli Abati,
uom dissoluto, e reo senza paraggio,
il quale avea gran tempo nimicati
i suoi consorti, veggendosi il bello,
pensossi di punire i lor peccati;
e nelle case lor senza rappello
accese un fuoco artato di sua mano,
al qual non bisognò poi zolfanello;
perchè soffiò sì forte il tramontano,
ch' arse la Loggia d' Orto San Michele,
e chi vi fu dintorno prossimano.
Poi si distese quel fuoco crudele
a' Caponsacchi nel Mercato vecchio,
e poi per Calimala alzò le vele,
dove ogni cosa parve di capecchio;
e così arse tutta quella via,
come in più parti ancor di se fa specchio.
Or chi potrebbe la mercatanzia
di Calimala stimar pienamente,
e quella, ch'era in Por Santa Maria.
E se alcuno sgombrava, incontanente
era rubato da' Masinadieri;
e questi furon la diserta gente,
Abati, Macci, Tosinghi, ed Amieri,
e Caponsacchi, Bacchini, e Lamberti,
Ciprian, Buiamonti Bianchi, e Neri,
de' Cavalcanti tutti fur diserti,
e Gherardini, e Pulci, ed Amidei,
e Lucardesi, e lungo l' Arno certi.
Il danno fu infinito, saper dei,
Case, e Palagi mille cinquecento
guastò quel fuoco, de' buoni, e de' rei.
E per cagion di questo impedimento
i Cavalcanti, ch'erano i maggiori,
e' Gherardin perdero ogni ardimento;
e dopo il fuoco fur cacciati fuori
della Cittade, siccome rubelli,
e' lor nimici rimaser Signori.
I' ho lasciati assai nomi di quelli,
che per dir breve contar non mi lece,
perchè non dichi, ch'io lungo favelli.
L' anno predetto di Giugno, a' dì diece
Ser Neri, che di sopra ho nominato,
lo smisurato mal commise, e fece.
Nel detto tempo il Cardinal da Prato
in Corte al Papa, ed a' suo' Cardinali,
de' Guelfi si fu molto richiamato;
e disse di lor tanti, e sì gran mali,
che 'l Papa fe di subito citare
dodici Fiorentin de' Caporali;
de' quali fur, secondochè mi pare,
Messer Corso Donati, e Messer Betto
de' Brunelleschi di nobile affare,
e Messer Rosso della Tosa detto,
Messer Pazzino, e Messer Geri Spina;
gli altri non so, però non gli rimetto.
Andaro al Papa, e con bella dottrina
si scusarono a lui, ch'era in Perugia,
e 'l Cardinal, che di mal far non fina,
a' Ghibellini, e a' Bianchi non s'indugia
a scriver, battere i Guelfi volendo
con peggior forza assai, che di minugia,
a Pisa, ed a Pistoi', se ben comprendo,
a Arezzo, ed a Bologna, ed in Romagna,
ed in più parti, ch'io non mi stendo;
che veduta la lettera, compagna
di gente d' arme, con gran provvedenza
ciascun facesse, e colla gente magna,
subito andassero a prender Firenza,
dicendo: Quà son tutti i suoi Reggenti,
sicchè non vi bisogna aver temenza;
e 'l Papa, e' Cardinal non son contenti,
e darannovi a ciò ogni favore;
or fate sì, che voi siate vincenti.
Quando vi sete, ne cacciate fuore
la parte Nera, e' Guelfi, che m' aggrada,
perch' a me fecer grande disinore;
ed io farò costor tenere a bada
tanto che la Cittade avrete presa,
e molto ben purgata ogni contrada.
Poichè ciascun la lettera ebbe intesa,
presero ardir, poichè favoreggiati
speravan d' esser dalla Santa Chiesa.
E certi nostri usciti raunati
fur co' Pisani, e vennersene a Marti
a cavallo, ed a piedi bene armati.
Similemente poi di molte parti
la gente in sulla strada Bolognese
si raunar, e per più chiaro farti,
al luogo detto alla Lastra discese
alcun dì prima, che lo dì ordinato,
perchè la voglia nostri usciti accese.
E quivi si trovaron, se ben guato,
più di mille secento Cavalieri,
e novemila fanti d'ogni lato.
Pigliando cui trovavan volentieri,
perchè niun portasse novitade
di lor venuta, e di lor mestieri.
Se non fosser posati in quelle strade,
ed avesser pur oltre cavalcato,
in quella sera egli avien la Cittade;
ma degli Uberti Messer Tosolato,
qual era allor Podestà di Pistoia,
con molta gente seguiva il trattato.
La sera l' aspettar, non sanza noia,
e non giugnendo, per tempo il mattino
gli usciti nostri, sperando aver gioia,
con quella gente, ch' avieno in dimino,
i Bolognesi lasciando alla Lastra,
che per viltà non seguiro il cammino,
(ben si sapeva nella Città mastra
la lor venuta, ma non ben fornita
era di gente coperta di piastra)
la parte Bianca colla fronte ardita
entraron per gli Borghi di San Gallo,
di Luglio, il dì di Santa Margherita.
Vera cos' è, e chiar come cristallo,
che non avea ancor mura, nè fossi,
sicchè passar potevan senza fallo.
Po' trovaron di legni lunghi, e grossi
fatto un serraglio, il quale abbandonaro
tutte le guardie, come fur percossi.
E gli Aretin, quando quivi passaro,
levaron dal serrame un chiavistello,
che 'n San Donato a Arezzo l' appiccaro,
ed ancor v'è, per memoria di quello,
non so perchè se ne portar quel saggio,
che di lor disinore è ver suggello.
La gente si raccolse nel Cafaggio,
appresso a' Servi di Santa Maria,
e quivi si schieraron di vantaggio.
Mille dugento la Cavalleria
stimata fu, e gente viepiù grossa
furo i Pedoni alla lor compagnia.
Se fosser posti nella Città rossa,
ch'era fuor delle mura, e de' serragli,
appresso a' Fra' Minori alla riscossa,
avieno acqua per loro, e pe' cavagli,
e potevano star sotto il coperto,
e dare a' Cittadin molti travagli.
Già era Terza, quando alcuno esperto
de' nostri usciti prese gente alquanta,
lasciando gli altri schierati per certo,
e poi guidolla dove ancor si canta,
ch'esser solea la Porta agli Spadai,
bench' oggi sia disfatta tutta quanta.
Quivi a difesa aveva gente assai,
ma pur la combattèr con tanto ardire,
che que' dentro, e di fuor ne trasser guai.
Ma que' di fuor cominciaro a fedire
colle balestra, e con sì fatta scorta,
ch' a' merli alcun non ardiva apparire,
e colle scuri tagliando la porta.
Quando que' dentro udiron tal fracasso,
addietro si fuggir per la più corta,
e que' di fuor, per acquistare il passo,
cacciar la porta in terra di leggiere,
e poichè l' ebber tutta messa al basso,
passaron dentro con certe bandiere,
e giunsero al serraglio della piazza,
dov'era gente di molte maniere;
da dugento a caval gente di mazza,
e forse cinquecento erano a piede
de' nostri balestrieri, e d'ogni razza.
Quel, che allor si credette, ancor si crede,
che molti di que' dentro tenien mano
a quel trattato, e poi rupper la fede;
perchè di gente di paese strano
temetter più, che de' cacciati Bianchi,
e preser la difesa a mano, a mano.
Apersero il serraglio, e come franchi
percossero a' nemici di buon cuore
colle quadrella, e colle lance a' fianchi;
onde dieder la volta, e fuggir fuore
da quella parte, onde fu la venuta,
e perdero in quel punto ogni valore.
Ma se que' di Cafaggio combattuta
avesser la Città dall'altra faccia,
la Città sanza fallo avrieno avuta;
ma stettero pur fermi, e questi in caccia
fuggiron più, che lor non bisognava,
perocchè pochi seguitar la caccia,
che nella Terra forte si dottava
dell'altra gente, ch'era grossa, e bella,
che 'n sul Cafaggio ferma ancora stava.
A' Bolognesi detto per novella
fu, che la gente era sconfitta, e rotta,
e ver non era, che poco fu quella.
Ma nientedimeno in poca dotta,
senza voler cercar d' esser più certi,
si misero a fuggir tutti ad un' otta.
E Messer Tosolato degli Uberti
trovaron, che veniva per Mugello,
con trecento a caval dell'arme sperti,
e con gran Fanteria a suo pennello,
e volle quella gente ritenere,
e rimenar con seco a tal zimbello,
e non possendo, il franco Cavaliere
verso Firenze venne arditamente,
come colui, che avea gran volere.
E cavalcando forte, il convenente
de' Bolognesi, come si ragiona,
aveva già sentito l' altra gente.
Essendo stati insin passata Nona
senza mangiare, e senza bere al caldo,
ciascun pensò di campar la persona.
Niuno stette più a campo saldo,
ma in un punto si furo dileguati,
lasciando l' arme ognun, come ribaldo.
Da pochi furon però seguitati,
e pur ne furo assai morti, e fediti,
e presi, e su pe' gli alberi impiccati.
E Messer Tosolato ne' fuggiti
si riscontrò, ch'era piena la strada,
e diè la volta con gli altri smarriti;
e chi potè si tornò in sua contrada
vitiperato siccome tapino,
perchè fuggir senza colpo di spada.
Ben si portò adunque l' Aretino,
ch' appiccò il Chiavistello in San Donato,
perchè a Firenze fe del paladino.
Pisani, ed altri, che venien dallato,
e' nostri Contadin volser disio,
poichè sentir con merito il mercato.
E disse l' Autore, e dicol' io,
che' Fiorentini ebber questa vittoria,
non per ben far, ma per grazia di Dio.
E sarebbe ben fatto per memoria,
che Santa Margherita si guardasse,
nel cui dì fu cosa tanto notoria.
Non volle Iddio, che allora si guastasse
tanto bella Città, quant' era questa,
ma che di bene in me' multiplicasse.
E però dico, che la detta festa
da' Guelfi dovrebb' essere onorata,
poichè la Santa in lor favor fu presta.
Lettore, io ho la Storia abbreviata,
e più intendo ancora d' abbreviare,
dove Firenze non fia ricordata.
Chi più distesamente vuol trovare,
legga la prosa, ch'io per me ne scrivo
a mio diletto quel, che buon mi pare.
E seguirolla infin, ch' al mondo vivo,
chi mi corregge per maestro accetto
poich'i' sarò di questo mondo privo;
ch'io so ben, che 'l mio dir non è corretto.
c. 43, argumento
Come i Fiamminghi furono sconfitti
dal Re di Francia, e come poi fer pace
per tema di non esser più trafitti,
e come il Cardinal da Prato folle
con senno fece quel Papa, che volle.
c. 43
Infra 'l detto anno il Re co' suo' Baroni,
con dodici miglia' di Cavalieri,
e con sessanta miglia' di Pedoni,
mosse di Francia con fermi pensieri
d' andar sopra i Fiamminghi, e l' Ammiraglio
mandò per mar; ciò fu Messer Ruggieri;
con quanti legni dir non mi travaglio,
perchè il Conte di Fiandra avea assediata
Sirea, ov'era tutto dì a berzaglio.
E quando il Conte seppe dell'armata,
entrò in mare con galee, e con cocche,
e fessi contro lor con sua brigata,
navigando sì forte, che le bocche
percosser le galee, e la battaglia
incominciar, pochè si furon tocche;
e dopo molto lunga, e gran travaglia
credendosi esser vincitore il Conte,
si ritrovò perdente alla scarmaglia.
Ed a molti de' suoi il mar fu fonte,
ed el fu preso, e a Parigi menato,
con altri molti con turbata fronte.
Quando sentir com' egli era arrivato,
la gente, ch'era rimasa all'assedio,
in rotta si fuggir dall'altro lato;
e li Fiamminghi volendo rimedio
trovar, che 'l Re non passasse a lor villa,
sessantamilia furon sanza tedio,
e con lor oste si camparo a Lilla.
Rappressandosi il Re, si prese il passo
del Ponte, ove nell' Ischia il pesce grilla.
E poi quel Popol niente fu lasso
contro a' Franceschi, ma giugnendo loco,
ne fecer più, e più andare al basso;
e fuvvi morto Messer Buiafoco
di que' del Re, e in fine pur passaro,
e la forza Francesca vinse il giuoco.
E pochè fur passati s' accamparo
nel pian, ch' è in mezzo tra Lilla, e Doagio,
e li Fiamminghi lor campo mutaro,
e padiglioni, e vettuaglia adagio
in sulle carra poser di presente,
che di mandargli altrove avien disagio.
Poi s' accamparo a petto a quella gente,
e di carra cerchiaro il campo loro,
che girava tre miglia veramente.
E li Franceschi senza alcun dimoro
intorno intorno combatter la sbarra,
ed e' si difendean dentro al coro.
Ma li Franceschi già su per le carra
eran montati con balestri, e dardi,
e' Fiamminghi veggendo tal caparra,
uscir di fuori, e come leopardi
percossero a' Franceschi per ragione,
e quasi in volta li fecer co' dardi,
e seguitargli insino al padiglione
dov'era il Re, che da mangiar levato
s' era a veder la subita cagione,
e no 'l cognobber, ch'era disarmato,
senza mostrare alcun segno Reale,
che l' avrien morto, e 'l fatto era sbrigato.
E 'l franco Re, e Signor naturale
si fece armare, e montò a destriere,
e la sua gente trasse al suo segnale.
E non fu mai leon, che l' altre fiere
facesse dileguare alla bisogna,
come facea quel nobile guerriere.
E' Cavalieri, che temean vergogna,
veggendo il lor Signor tanto valente,
il seguitaro, e sanza dir menzogna
e' ringrossò la battaglia, e la gente,
per modo tale, che 'n piccolo spazio
la parte de' Fiamminghi fu perdente,
e' Franceschi di lor fecero strazio,
che semila n' ucciser volentieri,
e di ciò far niun si vedeva sazio;
de' qua' Messer Guiglielmo di Giulieri
rimase al campo allor con gli occhi torti,
e mille cinquecento Cavalieri
dal lato de' Franceschi furon morti.
Sopraggiugnendo la notte, al fuggire
furo i Fiamminghi per lor Terre accorti.
E l' altro giorno il Re fe soppellire
tutti i Franceschi, e fe pena la vita
a chi toccar Fiammingo avesse ardire.
E dopo la vittoria, ch'hai udita,
il Re assediò Lilla là, dov'era
rimaso a guardia con buona partita
Messer Filippo, che con franca cera
infino allora l' avea ben guardata,
sollecitando da mane, e da sera.
E 'l Re co' suoi l' ebbe sì circundata,
che dentro non poteva entrar cavelle,
ned anche uscirne creatura nata,
e con molti trabocchi, e manganelle
vi gittav'entro di notte, e di giorno
dimolte pietre con altre novelle.
E sappi, che tenea il campo adorno
più di sei miglia, sì bene ordinato,
che avuta l' avria sanza soggiorno;
ma il Conte di Namurro ritornato
dalla sconfitta alli Fiamminghi suoi,
riconfortogli nel lor male stato:
Signor, dicendo, ancora è me', che noi
rimagnam morti al campo tutti quanti,
ch'esser quì morti ne' servaggi poi.
Dunque diam fine a' dolorosi pianti,
rifaccian testa, e non rimanga alcuno,
che possa l' arme, che non sia davanti.
O noi morrem tutti quanti in comuno,
o noi arem col Re sì buona pace,
che appagare se ne dovrà ciascuno.
Allor con cuor magnanimo, e verace
risposer: Noi siam tutti apparecchiati,
e faccia Iddio di noi ciò, che gli piace.
Ed in tre settimane raunati
fur più di cento, e cinquanta migliaia,
secondo loro usanza bene armati.
E rifer padiglioni alla primaia,
e non avendo del panno lin tanto,
quanto mestier facea, per più paia
li fer di panno lan, di pro, e di guanto,
e sopravveste fer bianche, e vermiglie,
con segno di su' arte ognun daccanto.
E poi lasciando tutte lor famiglie
giurar di non tornare a casa mai
senza la pace, ed altre maraviglie.
Non come gente, che avesse a trar guai
di due sconfitte, come si ragiona,
ma come arditi, e valorosi, e gai
s' accamparono al Ponte a Guarascona,
e per uscir più tosto di periglio,
richieser di battaglia la Corona.
E lo Re disse: Ben mi maraviglio,
come son anche alla morte tornati,
che so, che ci è padre, fratello, e figlio.
Rispose l' un de' suoi Baron pregiati:
Non vi maravigliate Signor mio,
che son venuti come disperati.
Se si combatte, non so veder' io,
che questo sia sanza gran dannaggio,
e la concordia piace molto a Dio.
S' ella si puote aver sarà vantaggio,
e tornerete a Parigi con gioia,
ed al Re piacque il suo consiglio saggio.
Duca Bramante, e 'l Conte di Savoia
al trattar della pace fe mezzani,
a' qua' non fu cotal lezione a noia.
Valentemente ci miser le mani,
e come piacque a Dio in pochi giorni
fermar la pace que' Baron sovrani.
Cioè, che 'l Re co' suoi in Francia torni,
e li Fiamminghi nella lor Franchigia
al modo antico si fossero adorni.
E riavesser per la conventigia
tutti i prigion, che 'l Re di Francia aveva
di Fiandra, sottoposti a sua grandigia,
e certe Terre, che lo Re teneva,
doveva liberamente lasciare
a certa gente, a cui apparteneva.
E' Fiamminghi dovieno abbandonare
Lilla, e Bettona, e tutta, come parte
fiume dell' Ischia, che di Francia pare;
ed oltre a ciò pagare a parte, a parte
dugentomila lire Parigine;
e fatto fu ciò, che disser le carte.
E così ebbe l' aspra guerra fine
tra li Fiamminghi, e 'l Re, con pieno effetto,
e fu la pace poi perfetta, e fine.
Nel detto tempo Papa Benedetto
morì in Perugia, e fu avvelenato,
per quel, che allor per molti fosse detto.
E certi Cardinal fero il trattato,
che un giovane, com' una Servigiale
d' un Munistero vestito, e velato,
fichi fior gli portò, con parlar tale,
che ben parea del Munister Commessa,
dicendo, dopo il saluto Papale:
Questi manda Madonna la Badessa
del Munister di Santa Petornella,
di voi divota, e serva, ed io con essa.
Egli era a mensa, e contemplando, ch'ella
era stata più tempo sua divota,
ed era molto appariscente, e bella,
di que' fichi mangiò con piena gota,
ned aspettò di far far la credenza,
com' el solea fare, e questo nota,
forse, che volle Iddio per penitenza.
Poco vivette, che 'n Santo Arcolano
sepolto fu con molta riverenza.
Appresso poi il Collegio sovrano
de' Cardinal, per far nuova lezione,
racchiusi furo in Perugia di piano:
dov'egli stetter per questa cagione
costretti nove mesi, per le sette,
ch'eran tra loro, e gran divisione.
Eran due parti, e l' una delle dette
guidò Messer Francesco Gaetani,
che a parte Guelfa del tutto premette.
E l' altra parte avea tra le mani,
come udirai, il Cardinal da Prato,
da cui i Guelfi sempre fur lontani.
E procacciò di riporre in istato
i Colonnesi, e con sagacitade
Messer Francesco chiamò dall' un lato,
e disse: Noi guastiam la dignitade
di Santa Chiesa, e secondoch'i' odo,
ce ne riprende la Cristianitade.
Io ho pensato in questi fatti un modo,
che voi ne nominiate tre, e poi,
qual più ci piacerà, sia posto in sodo.
O volete, che similmente noi
ne chiamian tre, e voi prendete l' uno
di questi tre, qual più diletta a voi;
sì veramente, ch' abbia ciascheduno
quaranta giorni termine daccanto,
e 'nganno quì non puot' esser niuno.
E quel s'intenda vero Padre Santo,
il qual da noi sarà così eletto,
colla Mitra Papale, e coll' Ammanto.
Disse Messer Francesco: Ben hai detto,
ma noi voglian di tre far la lezione,
e voi pigliate qual v'è più diletto.
Furo in concordia, e sanza più tencione,
Messer Francesco fu col suo Collegio,
e nominarne tre ciascun Guascone.
E questo fero in danno, ed in dispregio
del Re di Francia, ch'era lor nimico,
per Messer Carlo suo nipote egregio.
E suggellati i nomi al modo antico,
e giurato credenza di presente,
si dipartì ciascun, com' io ti dico.
E 'l Cardinal da Prato incontanente,
di volontà degli altri suo' compagni,
al Re di Francia scrisse il convenente,
dicendo: Acciocchè poscia non ti lagni,
di questi tre eleggi qual ti piace,
ma fa, che prima sua amistà guadagni;
e poichè avrai con lui concordia, e pace,
fatti prometter quel, che ti bisogna;
e la risposta sia tosto, e verace.
E 'l Re di Francia, che ciò molto agogna,
siccom' egli ebbe intesa la novella,
subitamente ne mandò in Guascogna
per l' un di quegli, il qual più tosto appella,
ch' avea nome allor Messer Ramondo,
ed Arcivescovo era di Bordella.
Ed a lui scrisse con parlar giocondo,
che gli volea alla cotal Badía
parlar di cose, che portavan pondo.
Quand' el sentì, che 'ncontro gli venía
il Re di Francia, sanza più tardare,
subitamente si fu messo in via.
Furono insieme, e dopo il salutare,
faccendo l' uno all'altro molto onore,
il Re di Francia cominciò a parlare:
Benchè 'l nipote mio con suo valore
fatt' abbia al tuo paese violenza,
i' vo', che gli perdoni per mio amore;
e vo', che sappi, ch'io ho la potenza
di chiamar Papa qual più mi diletta
de' tre; e fegli giurar la credenza.
E poi gli disse: I' vo, che mi prometta,
s'i' ti fo Papa, che tu mi farai
sei grazie, che niuna si dimetta.
L' una, che 'n Francia la Corte terrai,
e di quel luogo per altro vantaggio,
contro a mia voglia, non ti partirai.
L' altra, che me, e tutto mio Baronaggio,
ed ogni mio seguace farai sazio
d' assolver di peccato, e d'ogni oltraggio.
La terza, che di Papa Bonifazio
annulli ogni memoria senza inganni,
e d'ogni sua scrittura facci strazio.
La quarta, che mi conceda cinqu' anni
la decima di tutti i mie' paesi,
per sopportare alquanti de' mie' danni.
La quinta, che in istato i Colonnesi
rimetta, e renda a ciascuno il Cappello,
ed altri amici ancor fatti palesi.
La sesta mi riserbo a mio appello,
e vonne saramento, e sicurtade,
che tu non mancherai questo, nè quello.
E per mostrargli più la veritade,
le lettere gli fe tutte vedere,
come rimesso era in sua libertade.
Quando e' cognobbe, ch'egli avia il podere
di farlo Papa, gli si gittò a' piedi,
piagnendo di letizia, al mio parere;
e disse: Signor mio ciò, che tu chiedi,
sarà fornito; e 'n sul Corpo di Cristo
gliel giurò poi, e quì Lettor provvedi,
che sol per far del Papato l' acquisto,
gli lasciò per stadichi i nipoti,
ed un fratel, ch' aveva, molto visto.
Baciarsi in bocca, siccome divoti,
poi si partiro; e 'l Re per pace fatta
mostrò menarne gli stadichi noti,
e come suo' figliuo' tutti gli tratta.
Ma non più or della presente tema,
che 'l termine, ov' i' son del dir, mi matta;
nell'altro compirò la storia scema.
c. 44, argumento
Di Pistoia assediata ancor ti dico
da Firenze, e da Lucca, e di Ser Lando
Bargel d' Agobbio, e di Monte Accinico;
e di Frate Dolcin pien di resia,
e poi del Campanil della Badia.
c. 44
Negli anni Domini mille trecento
e cinque, poichè 'n Parigi tornato
il Re di Francia fu lieto, e contento,
subito scrisse al Cardinal da Prato
ciò, ch' avea fatto, e mandò la risposta
in trentacinque dì, ch'era ordinato
d' aver quaranta dì, e non più sosta;
onde il Collegio fece raunare
de' Cardinali, e fece la proposta.
Come sapete, noi dobbiam chiamare
fra dì quaranta il nostro Padre Santo
delli tre l' uno, e così vogliam fare.
Ond'oggi in questo giorno per me' canto,
e sì pe' mie' compagni, e sì per quella
balía, ch'ho dal Capitol tutto quanto,
l' Arcivescovo chiamo di Bordella,
Messer Ramondo servidor d' Iddeo,
ed amator di Santa Chiesa bella.
Allor con molta festa, e giubbileo,
sonando le campane, e gli stormenti,
in boce tutti cantaro il Taddeo,
e per Ambasciador savi, e valenti
gli andò la lezione in suo' paesi,
ond' egli, e' suoi ne fur molto contenti.
Vacata era la Chiesa dieci mesi,
egli accettò, e fu Papa Chimento
quinto chiamato poi, se ben compresi.
E 'ncontanente fe comandamento
a tutti i Cardinali, che a Leone
sopra il Rodano, fosse ognuno attento,
presente a sua incoronazione
e 'l Re di Francia, e lo Re d' Inghilterra,
e dimolti altri Signori per ragione.
A' Cardinali di Talia fe gran guerra,
perchè aspettavan, ch'e' venisse a Roma
a 'ncoronarsi, se il libro non erra.
E 'l primo uficio, che di lui si noma,
delle 'mpromesse fatte nella 'mpresa,
al Re di Francia scaricò la soma,
e riconciliol con Santa Chiesa,
con tutti quanti li seguaci suoi,
e tutti gli assolvette d'ogni offesa;
e concedette le decime, e poi
di nuovo fe dodici Cardinali
de' suoi amici, come pensar puoi,
nelle digiune vegnenti; tra' quali
Messer Iacopo fu, e Messer Piero
de' Colonnesi, e furo i principali;
ed al Re di Raona di leggiero
confermò il privilegio di Sardigna,
ed uscì di più cose di pensiero.
La sua venuta quì più non alligna,
ed a Bordella tornò colla Corte;
qual Cardinal ne piagne, e qual ne ghigna.
Nel detto tempo essendo a male sorte
gli usciti di Firenze, discacciati
da ogni parte, e vietate le porte,
sol da Pistoia essendo ricettati,
perocchè si reggeva a parte Bianca,
e quivi sempre stavano in trattati,
la parte Guelfa, che in ciò non si stanca,
mandò al Re Carlo, ch'era uomo sperto,
mandasse lor della sua gente franca;
ed e' mandò il figliuol Duca Ruberto,
che poi fue in Firenze onorato:
fu come Re d'ogni cosa per certo.
E come fu alquanto riposato,
i Fiorentin bandir l' oste a Pistoia,
e così Lucca fe dall'altro lato;
e col Duca predetto, con gran gioia,
a' dì venti di Maggio l' assediaro,
ed isteccarla tutta per più noia.
E guerreggiando quivi anche mandaro
oste in Valdarno ad Ostina, e 'l Castello
ebber per forza, e per terra il cacciaro.
Attanto il Papa, per altrui tranello,
due Cardinali saputi, ed arditi
a Firenze mandò; e sanza appello
a' Fiorentin comandar, che gli usciti
dovesser dentro rimettere, e l' oste
da Pistoia levare; e que' partiti,
scrissero al Duca, che v'era alle coste,
ed a' Lucchesi simigliantemente,
che partir si dovesser sanza soste.
E 'l Duca volendo essere ubbidente
al Papa, si partì, come quì tratta,
ed a Bordella n' andò di presente,
lasciando Messer Dego della Ratta
in suo luogo; e' Lucchesi, e' Fiorentini
di scommunicazion, che fosse fatta,
non si curaro; e tutti i Cittadini
v' andavan, così il toso, come il raso,
od e' pagava de' suo' bagattini.
E strinser sì la Terra in ogni caso,
ch' a qual n' uscía era tagliato il piede,
ed alla femmina era mozzo il naso.
E Ser Lando d' Agobbio, che mercede,
nè pietà non avea di criatura,
siccome in cotal guerra si richiede,
tutti gli ripignea dentro alle mura;
e stettevi l' assedio il verno intero,
e poi di peggio ebber sì gran paura,
che salve le persone, s' arrendero,
mille trecentosei del Signor caro,
a' dì dieci d' Aprile; e questo è vero.
E' Ghibellini, e' Bianchi sen' andaro
con gran dolor, perchè non eran certi
di poter fare in Toscana riparo.
E Messer Tosolato degli Uberti
era di quegli; e poi i Pistolesi
comprender puoi, che rimaser diserti.
Appresso poi Fiorentini, e Lucchesi
le mura, e gli steccati a mal lor grado
disfero, e i fossi riempier palesi;
e poi tra lor divisero il Contado,
e ciascheduno avía la signoria
della Città, che non valeva un dado;
e l' uno avea la Podesteria,
e l' altro vi metteva Capitano,
privilegiati con pari balía.
E' Fiorentin la Rocca a Carmignano
miser per terra, e poi la gente accorta,
con gran triunfo tornò a mano, a mano.
Entrando Messer Dego nella Porta,
un palio d'or Cavalieri, e Donzelli
gli portar sopra capo per iscorta.
Così a Messer Bindo de' Gabrielli,
che Podestà di Firenze era allora,
e fu ad ogni cosa siccom' elli.
Nel tempo, ch' è di sopra detto ancora
si rubellar dal Signor di Ferrara
Modona, e Reggio per lunga dimora.
Appresso un Frate Dolcin di Noara,
alla montagna sempre star volea,
mostrando di far vita molto amara;
e fralla gente sovente dicea,
ch'egli era vero discepol di Cristo,
e molta gente grossa gli credea.
Diceva ancor questo eretico tristo,
ch' ogni cosa doveva esser comune,
le femmine così, com' altro acquisto;
ed usar colle bianche, e colle brune,
e tor l' altrui non era peccato
ne' suoi bisogni, e nelle sue fortune,
ed altre cose dintorno, e dallato;
e ben tremila a così fatti inganni
uomini, e donne l' avien seguitato.
Quando mancava lor mangiare, o panni,
toglievan della roba a chi n' avea,
e questa vita tenner ben du' anni;
e poi perchè la cosa rincrescea
a' suoi seguaci, il lasciaron sospeso,
che poca gente dietro gli tenea.
Allor da que' di Noara fu preso
con più altri, e menati alla Cittade,
dove dintorno gli fu il fuoco acceso,
e fu arso egli, e Comar Caritade,
ch'era sua donna, o vogliam dire amica,
e di quegli altri grande quantitade.
Nel tempo, che dinanzi si rubrica,
ad istanza de' Bianchi, e Ghibellini
il Papa indarno ancor si diè fatica,
e Messer Napoleon degli Orsini
in Italia mandò per paciale,
e cominciar volendo a' Fiorentini,
gli fece dir l' Uficio principale,
ch' andasse altrove a far la sua bisogna,
che non avien mestier di Cardinale.
Intraddisse Firenze, ed a Bologna
n' andò, e quì fu accomiatato,
e partissi con danno, e con vergogna.
E nel Contado fu poscia rubato,
ond' egli ancora intraddisse la Terra,
e quel luogo di studio ebbe privato.
Nel detto tempo i Fiorentin fer guerra
agli Ubaldini sopra Monte Accinico,
ed acquistarlo, e poi il misero in terra,
e poi appiè del Castel, ch'io ti dico,
la Scarpería appresso edificaro,
San Bernaba chiamato per antico.
Appresso poi oltralpe cavalcaro,
in quel degli Ubaldin diedero il guasto,
e sani, e lieti a Firenze tornaro.
Appresso i Popolan senza contrasto
chiamaro di giustizia Esecutore,
acciocch' a' Grandi caricasse il basto.
Matteo d' Amelia fu il primo Rettore,
e pose i Gigli sopra le Bandiere,
e' Gonfaloni, ed ebbe grande onore;
e fu dal Popol fatto Cavaliere,
ma fu da' Grandi molto disamato,
perocch' a lor si fe molto temere.
Mille trecentosei, dall'altro lato
fer lega Mantova, Brescia, e Verona
incontro al buon Marchese Azzo pregiato,
sol per sospetto, che la sua persona
non desse a loro, ed anche agli altri doglie,
volendo esser Signor, come quì suona,
perchè la figlia tolta avea per moglie
del Re di Francia; e nel suo cavalcaro,
e contentaro in parte le lor voglie.
Ma 'l seguente anno questo Signor caro
fe la vendetta, che si convenia,
poi infermò, e sanza alcun riparo
in miseria morì per sua follia.
E di lui bastin le parole dette,
che quasi fu Signor di Lombardia.
Negli anni poi mille trecentosette,
il Cardinal Messer Napoleone
venne ad Arezzo, e quivi tanto stette,
che gente raunò d'ogni ragione
per guerreggiar Firenze con gli usciti;
e Fiorentin per la detta cagione
sentendo ciò, fur di gente forniti,
e cavalcaron sopra gli Aretini,
non aspettando d' essere assaliti,
guastando intorno per tutti i cammini,
e presero, e disfero più Castella
e sì d' Arezzo, e sì degli Ubertini.
Ed essendo a Gargosa l' oste bella,
il Cardinal co' suoi n' andò a Bibbiena,
mostrando di Firenze altra novella,
acciocchè l' oste, che gli dava pena,
da quel Castel, ch'egli eran per avere,
si dipartisse per la detta mena.
I Fiorentin cominciando a temere
di lor Città, partirsi incontanente,
e a Firenze tornaro di leggiere.
E 'l Cardinale allor colla sua gente
fu cavalcato al Castel della Pieve,
e' Fiorentini provvedutamente
fecer con lui tastar l' accordo in brieve;
ma egli aveva tutta la sua cura
di metter dentro gli usciti di lieve.
E sopra ciò fu tenuto in pastura,
tantochè la sua gente scemò forte,
e bisogno gli fu d' aver paura.
Allora dentro, e di fuor delle Porte
intraddisse Firenze, e senza sosta,
con gran vergogna si tornóe in Corte.
Appresso i Fiorentin fero una imposta
al nostro Chericato, della quale
ricevendo da lor mala risposta,
si chiamò sopra ciò un Uficiale,
il qual costrinse colla sua balía
ogni lor fittaiuolo, e pigionale.
E quando volle entrar nella Badia
fur serrate le porte, e le campane
sonaro a stormo; quella gente ria
trasser color, ch' avien manco di pane,
e per conforto de' vicin dintorno,
passaro dentro quelle genti vane,
e la Badia rubar sanza soggiorno,
e perch'egli ebbono il Comune a vile,
sonando le campane per iscorno,
fu lor disfatto mezzo il campanile,
e questi, e gli altri poi senza riguardo
pagar, veggendo preso tale stile,
nel dett' Anno morì il Re Adoardo,
e 'l suo figliuol, ch' avea nome com' egli,
per poter poscia far più del gagliardo,
una fanciulla con biondi capegli,
del Re di Francia figlia, volentieri
tolse per moglie con costumi begli.
Nel predett' anno venuto a Pittieri
il Papa, e 'n tutto compiuta la pace
tra 'l Re di Francia, e li Fiamminghi altieri,
il detto Re, che v'era, allor non tace,
e disse al Papa: Or ch' avete la possa
i' vo' la sesta grazia, se vi piace.
Rispose: Quale? Ed ei: Che 'l corpo, e l' ossa
di Papa Bonifazio condannare
vi piaccia al fuoco, ogni cagion rimossa,
perocchè retico fu senza pare;
quarantatrè capitol di resia
contra di lui intendo di provare.
E 'l Papa pregno di malinconia
al Cardinal da Prato diè di piglio,
che 'l consigliò, come si convenia.
Ed e' rispose al Re, che nel Consiglio
intendea far cotal condannagione
a Vienna, che n' è fuor d'ogni periglio.
Veggendosi indugiar la promessione
il Re di Francia, si tenne ingannato,
ma pur seguì la sua intenzione,
perchè molte altre grazie avea dallato;
e dipartissi, e tornossi a Parigi,
e come avea col Papa ordinato,
il suo figliuol, ch' avea nome Luigi
mandò a Navarra, e fello incoronare,
secondo loro usanza, e conventigi.
E 'l Papa cominciò a comandare
a cui si conveniva, ch' a Vienna
ivi a tre anni dovessono andare
al suo Concilio, e un dì per iscrenna
si fu partito, e gitone a Vignone,
dove curava il Re men d' una penna.
Sicchè non mise ad esecuzione
il mal voler, che aveva il Re di Francia,
ch'era di Santa Chiesa distruzione;
ed ogni Papa poi era una ciancia.
c. 45, argumento
Come del Tempio furono arsi i Frieri;
del Podestà, che fuggì col suggello,
e come il rendè poi malvolentieri.
Di Messer Corso, e Bernardo Bordoni,
al cui scampo non valsono gli sproni.
c. 45
Fatte a Pittieri il Papa molte cose,
il Re di Francia veggendosi il destro,
prima ch'e' si partisse gli rispose;
ed accusò di resia il Maestro,
e tutto quanto l' Ordine del Tempio,
come degni di fuoco, e del capestro;
dicendo: Egli è tanto malvagio, ed empio
quest' Ordine, ch'i' vo', ch'e' sia rimosso,
acciocch'e' sia a tutti gli altri esempio.
E 'l Papa, per levarlosi da dosso,
gli promise, anzi che da lui partisse,
di annullar tutto quell' Ordine grosso.
Come il Re fu partito, ed egli scrisse
in ogni parte sì, che un dì nomato
tutti i Tempier fur presi com' el disse.
Ed in Parigi subito pigliato
fu il Maestro, con sessanta Frieri,
tutti di grande, e di nobile stato.
Ed eran quasi tutti Cavalieri,
e 'l Maestro era gran Sir di Borgogna,
detto Fra Giache, Mastro de' Tempieri.
Della ricchezza lor dir non bisogna,
ch'era sì grande per tutte ragioni,
che ti parrebbe ad udirlo menzogna.
Subitamente tutte lor magioni
rubate fur di danari, e d' arnese,
ed appropiate al Re le procissioni.
E dissesi per que' di quel paese,
che 'l Re di Francia il fe più pe 'l tesoro,
che per vendetta di passate offese.
Fra l' altre cose, ch'egli appose loro,
fu, che per lor si perdè Terra Santa,
e 'l Re Luigi prigion per ristoro;
ed altre cose, di che non si canta,
come di sodomia, e d' altro usare,
ched ogni nostra legge rompe, e schianta.
Il Re li fece tutti esaminare,
nè poter tanto dire i buoni, o' rei,
ched e' volesser nulla confessare.
Ond' el prese di lor cinquantasei,
e riserbossi quattro de' maggiori,
e ad un pal fe legar le mani, e piedi
a ciaschedun, nell' Isola di fuori;
ed era detto lor: Voi camperete,
se confessate parte degli errori,
e se non confessate voi morrete.
Appresso fu lor messo a' piedi il fuoco.
e questa fu sopra tutt' altre piete.
Quando sentiron così fatto giuoco,
incominciaro le strida, e' lamenti,
ardendo le lor carni appoco, appoco.
Quivi piangendo gli amici, e' parenti,
diceano: Confessate anzi ogni rio,
che vi lasciate morir ne' tormenti.
Crescendo il fuoco, ognun chiamava: Iddio,
com' io son senza colpa, raccomando
l' anima a te collo spirito mio.
Così ad uno ad un venner passando
di questa vita, e poichè fur passati,
come tu hai udito, tormentando,
il Gran Maestro, e gli altri riserbati,
tra' quali era il fratello del Dalfino,
davanti al Papa a Pittier fur menati,
e fu promesso lor per lo cammino:
Se dell' error confesserete alquanto
dinanzi al Papa con dolce latino,
ched egli arebber grazia d'ogni canto;
onde per questo un poco dichinaro.
E poichè fur davanti al Padre Santo,
alcune cose di quel confessaro;
non perchè avesser commessi que' mali,
ma per trovare a lor morte riparo,
tornaro addietro, e poi due Cardinali
mandò il Papa a Parigi, per privare
l' Ordine tutto di questi cotali,
e per alcuna disciplina dare
a' detti quattro, e lasciargli assoluti
delle persone, per lo confessare.
E poichè furo in Parigi venuti,
da nostra Donna, fecer far veroni
in sulla Piazza, e poichè fur compiuti,
i Cardinali, e 'l Re co' suo' Baroni
vi salir suso, e in sul Pergamo appresso
stette il Maestro, e gli altri tre prigioni.
Uno cominciò a leggere il Processo
contro a tutti i Tempier nella presenza
di tutto il popol, ch' ascoltava adesso.
Non era ancora data la sentenza,
quando il Maestro rompendo il sermone,
si levò in piè gridando con prudenza:
Udite, udite; e tutte le persone
tacero allora, ed e' cominciò a dire:
I' dico, che la mia Religione
è buona, e giusta, e santa, e di morire
siam tutti degni per altri peccati,
ma non per que', che quì poteste udire;
e certi casi, ch' abbiam confessati,
dicemmo per paura della Corte,
e perchè prima fummo lusingati.
Or ci crediam ciascuno esser sì forte,
che 'n pace porteremo ogni martiro,
nè vogliam per bugie campar la morte.
E' Cardinali quindi si partiro,
consigliarsi col Re, e poi costoro
menati fur dove gli altri moriro.
E quivi per paura l' un di loro
raffermò quel, che prima avea detto;
ond' el campò, e que' sanza dimoro,
ciascuno a un palo fu legato stretto,
presente il Re, come quì scritto vedi,
e 'l popol, che sofferse tal difetto.
Appresso si diè loro il fuoco a' piedi,
ardendo le lor carni, e que' gridando:
O Sire Iddio, all'anima provvedi;
e la Religion sempre scusando,
com' ell' era cattolica, e verace,
appoco, appoco venner consumando.
Così moriro, e credesi, che 'n pace
portasser quella morte tutti quanti,
e che niuno in ciò fosse fallace.
Se così fu, credo che sien davanti
a Gesò Cristo, ciaschedun beato,
come qualunque altri Martiri santi.
Il Re di Francia ne fu biasimato,
perch'egli, e' suoi Baroni ne fur pieni,
e quei moriro a torto, ed a peccato.
E 'l Papa appresso tutti i loro beni
largì alla magion dello Spedale,
mad imboccati già n' erano i freni
da' Signori, e Comun per modo tale,
che li ricomperò pecunia tanta,
che più che prima, poscia stette male.
E que' di Francia han questa cosa pianta,
com' udirai ancor; sicchè l' arrosto
caro costò a chi dell' or s' ammanta.
Nel predett' anno, del mese d' Agosto,
essendo i Guelfi ad oste a Brettinoro,
da' Ghibellin di Romagna, e lor costo
furo sconfitti, e furonvi di loro
tra presi, e morti, che fu male, e peggio,
più di dumila in piccol tenitoro.
Nel mille trecent' otto, se ben veggio,
cacciaro il lor Signore i Parmigiani;
ciò fu Messer Ghiberto da Coreggio.
Ond' el s' accompagnò co' Mantovani,
e 'mparentossi con que' della Scala,
poi con costor, che vi tenner le mani,
in quel di Parma appresso stese l' ala;
e' Parmigiani uscir fuor con furore,
ed e' li curò men d' una cicala.
E sconfitti che gli ebbe, con romore
corse alla Terra con sua gente presta,
e passò dentro, e rimase Signore.
I Rossi ne cacciò fuor senza resta,
e per vendetta del passato oltraggio,
a ventinove fe tagliar la testa.
Nel predetto anno, del mese di Maggio,
ebbe in Firenze la Podestería
Messer Carlo d' Amelia poco saggio;
il qual con tutti fe baratteria,
che poi per tema del suo sindacato,
col suggel del Comun si fuggì via.
Poi per baratteria fu condannato;
ma el si credette d' esser ribandito
per quel suggello, ed anche meritato.
Ma i Fiorentini avien preso partito,
e scritto in ogni parte, ched a quello
non si fidasser, ch'egli era smarrito.
Ma il primo esecutor, ch'era fratello
del Podestà, saputa sua retade,
riprese il frate, e rimandò il suggello.
Allor si fe nella nostra Cittade,
che quel suggel più non dovesse avere
Collegio di Prior, nè Potestade;
ma che dappoi il dovesser tenere
del munister di Settimo que' Frati,
che guardia son dell'arme, al mio parere.
Ne' detti tempi di sopra nomati,
sperando il Re Alberto della Magna
essere Imperador de' più pregiati,
un suo nipote, non senza magagna,
che Duca d' Osterich era chiamato,
l' uccise un dì, con altri in sua compagna,
perocchè parte del detto Ducato
il detto Re contro a ogni ragione,
colla sua forza gli aveva occupato.
Nel predetto anno crebbe la tencione
in Firenze tra que' del Reggimento,
perchè ciascun volea maggior boccone.
Messer Corso Donati malcontento
degli Uficj comun, prese disdegno
contro a certi altri del Nero convento,
perchè a lui stesso pareva esser degno
di più, perocchè rifrancò i Neri,
gli altri cacciò per forza, e per ingegno.
Ma perchè si dicea tra' Guelfi Neri,
ch'e' volea esser del tutto signore,
tutti altri contro gli eran volentieri;
e preser gelosia di lui maggiore,
perchè di nuovo s' era imparentato,
e fatta lega, per crescere onore,
con Uguccion da Fagiuola chiamato,
ch'era gran Ghibellino, e gran nimico
di Parte Guelfa, ed egli, e suo Stato:
ancor perch'el curava men d' un fico
il Popol, tant' era ardito, e valente,
con seguito maggior, ch'io non ti dico.
Sentendo ch'el faceva venir gente,
andò ad arme tutta la Cittade,
e que' dell'altra setta incontanente
l' accusaron dinanzi al Potestade,
che Messer Pier della Branca da Gubbio
era in quel tempo, con gran libertade,
come Firenze avea messo in dubbio,
volendo dar la Terra ad Uguccione,
onde lo Stato chiar fatto era bubbio.
E 'l Podestà formò la 'nquisizione,
e richiesto, sbandito, e condannato
in men d' un' ora fu 'l detto Barone,
per turbazion del pacifico stato,
in persona, e in aver come rubello,
e così que', che l' avien seguitato.
E le campane sonando a martello,
mosse il Gonfalon della Giustizia,
e tutto il popol seguitava quello.
Sentendo Messer Corso la milizia,
che gli veniva addosso, ardito, e fiero
armato fu con tutta sua amicizia,
e asserragliò la Piazza di San Piero
da ogni parte, e con grosse balestra
pensò di riparare a tal mestiero.
Attanto giunse la 'nsegna maestra,
coll' essercito grande Fiorentino
da quella parte, che alle Stinche è destra,
ed appiè della Torre del Cicino;
ben mezzo il giorno durò la contesa,
ned acquistovvi il Popolo un lupino.
Potresti dir; quest' era vana impresa,
adunque si credea Messer Corso
poter da tutto il popol far difesa?
Dissesi, ch'egli aspettava soccorso,
e già n' avea a Remole una parte,
e però il popol non curava un torso.
Ma la difesa sua facea con arte,
sperandosi di vincere il partito,
e venia fatto ciò, dicon le carte.
Ma come sepper, ch'egli era assalito,
si tornò addietro tutta l' amistanza,
e poichè questo fu tra' suoi sentito,
appoco, appoco abbandonar la danza;
e 'l Cavalier veggendosi lasciare,
incominciò a perder la speranza.
E' popolan cominciaro a passare
dentro al serraglio per una rottura,
ch' ad un giardin d' accanto fecer fare.
Allora il Cavalier fuor delle mura
con certi altri fuggì, abbandonando
ciò, ch'egli avea, e non senza paura.
Subitamente senza farne bando
fur le sue case rubate, e disfatte
infino a' fondamenti a poco stando.
E dietro a lui aveva molte tratte,
Cittadini, Soldati, e Catalani,
per rimenarlo, chi a lui s' abbatte.
Ed in sull' Affrico venne alle mani
ad un de' Cavicciul, nome Boccaccio,
Gherardo de' Bordon, con altri strani;
il quale uccise, e poi la man dal braccio
gli tagliò, e recolla; e non si dice,
perchè fe questo, ed io non me ne impaccio.
E poi nell' uscio di Messer Tedice
degli Adimar conficcò quella mano
palesemente, per vecchia radice.
Messer Corso di sopra a Rovezzano
fu sopraggiunto, e menatone preso
da un soldato, ch'era Catalano.
Presso a San Salvi, di dolore acceso
profferse a quel, che 'l menava, danari
per suo scampo; ma fu male inteso.
E non veggendo per se più ripari,
cader lasciossi a terra del cavallo,
per non venire a man de' suo' avversarj.
Allor quel Catalano senza fallo
prese la lancia, e diegli per la gola,
e lasciollo per morto in quello stallo.
I Monaci parati colla stola,
il corpo suo ne portaro in Badia,
e seppellirlo senza più parola.
Messer Corso fu pien di valenzia,
savio, ardito, e bel sì, che suo pare
a quel tempo in Italia non avía,
magnanimo, cortese in dire, in fare,
tanto pulito, e bel favellatore,
ch'era un diletto ad udirlo parlare.
E perch'egli era di così gran cuore,
disiderava montare in istato,
fidandosi del mondo traditore.
Onde gli venne il suo pensier fallato,
perchè Fortuna gli volse la rota,
e non fu il primo da lei ingannato:
beato quel, che tal sentenza nota.
c. 46, argumento
Di Sanminiato, e degli Ubaldini;
e che sconfitti furo i Viniziani
da' Marchesi, ove furo i Fiorentini;
e di Pistoia, e come il Re Uberto
fu in Firenze onorato per certo.
c. 46
Era negli anni mille trecentotto
quand' arse San Giovanni Laterano,
e dove il Papa faceva ridotto.
E poi l' anno seguente a mano, a mano
Papa Chimento fe de' suoi tesori
rifar la Chiesa, e 'l palagio sovrano.
Nel predetto anno Malpigli, e Mangiadori
raunar molta gente in Sanminiato,
per voler esser del castel Signori.
e 'l Popol si schierò dall'altro lato,
e' Mangiadori co' lor masnadieri,
percosser loro, ed ebberne mercato,
corser la Terra con que' forestieri,
e poichè fu la cosa queta, e piana,
tagliar la testa a certi più altieri;
ed arser la scrittura Popolana,
dov'eran tutti loro ordinamenti,
e fecion sotterrar la lor campana.
Mentrechè i due Casati fur contenti,
insieme d' un volere a capo chino,
sempre vivetter gli altri con tormenti.
Nel detto tempo il popolo Aretino
col braccio d' Uguccion cacciò i Tarlati,
e rimisero i Guelfi al lor dimino,
ch'eran di fuor più di venti anni stati;
resser la terra Guelfi, e Ghibellini,
che voller Parte Verde esser chiamati.
Nel detto tempo tutti gli Ubaldini
vennero umíli alla misericordia,
ch' allor si convenia a' Fiorentini;
e perdonato fu lor di concordia
ogni passata 'ngiuria, e desodaro
di non aver mai più con lor discordia;
e la strada dell' Alpe sicuraro,
e poi siccome Contadin per merto
ogni fazione in Firenze pagaro.
Nel predetto anno morto il Re Alberto,
Re de' Romani, e lo 'mperio vacato,
e li Lettori in discordia per certo,
il Re di Francia s' ebbe immaginato,
per sesta grazia al Papa domandare
il benificio dello 'mperiato
per Carlo di Valosa, e raunare
fe suo consiglio, e giurar la credenza
e sopra 'l capo fece consigliare
dove si disse, nella sua presenza
che si mettesse ed avere, e persone,
per acquistar cotal magnificenza.
E 'l Re per fornire sua intenzione,
raunò ben semila Cavalieri,
per gire in Corte, e tacea la cagione.
Ma un de' suoi segreti Consiglieri
scrisse al Papa della grande armata,
che 'l Re facea, e tutti i suo' pensieri.
Ond' el pensò la 'mpromessa fallata,
e parvegli quasi essere a periglio,
se 'l Re v' andasse con sì gran brigata.
E riparando a questo per consiglio
del Cardinal da Prato, nella Magna
subito scrisse senz' altro bisbiglio;
che veduta la sua lettera magna,
Imperadore eleggessero Arrigo
di Luzimborgo, e per nulla rimagna.
Così fu fatto, e però me ne sbrigo,
e piuvicata, ed ita tal novella
al Re di Francia, come quì ti rigo.
Ond' egli accomiatò sua gente bella,
e tennesi tradito, ed ingannato
dal Papa, ch'egli aveva posto in sella.
Nel seguente anno appresso confermato
Arrigo, ad Asia fu Re de' Romani
della prima Corona incoronato.
Nel mille trecentotto i Viniziani
preser Ferrara, ed avendol per male
il Papa, gl' intraddisse come cani.
Poi vi mandò con gente un Cardinale,
e racquistolla, fuor Castel Tedaldo,
che pur si tenne siccome leale.
Sentendo i Viniziani il Castel saldo,
v' andaro ad oste, e furo a Francolino
sconfitti, e qual fuggì n' andò ribaldo.
Nel detto anno ebbero i Frieri in dimino
perdono, ed indulgenzia di vantaggio
per chi facesse aiuto al gran cammino;
e 'l secondo anno fecero il passaggio,
e conquistaron l' Isola di Rodi,
e diero a' Saracin molto dannaggio.
Nel predetto anno, come da me odi,
volendo il Re di Raona venire
contro a' Pisani, trovaron de' modi,
che di Raona no 'l lasciar partire;
e ciò fu San Giovanni Bocca d'oro,
a cui niente potè contraddire.
Nel nove i Bianchi, e' Ghibellin con loro
i Guelfi, e' Neri di Prato cacciaro,
ed il secondo dì senza dimoro,
col braccio Fiorentin vi ritornaro,
e Podestà, per così fatto pondo,
i Fiorentin più volte vi mandaro.
Nel detto anno morì Carlo giocondo,
che fu sì magno, che per cortesia
chiamato fu Alessandro secondo.
Nel predetto anno cavalcaro via
le cavallate, e tornaron con gioia,
poich'ebbon fatto a Arezzo villania.
Nel detto tempo i Lucchesi Pistoia
voller disfare; i Fiorentin cortesi
mostrar, che ciò era lor molto a noia.
Allor Messer Filippo Vergellesi,
che tenea il Castel della Sambuca,
sentendo, che venivano i Lucchesi,
con sua compagna riturò la buca,
sicchè passar non potero i confini.
E' Pistolesi avendo cotal duca,
colla licenza poi de' Fiorentini,
all' afforzarsi aoperar Preti, e Frati,
uomini, e donne, grandi, e piccolini;
ed in due dì si furono steccati,
e fatti i fossi per sollicitudine,
e' Fiorentin del ben fur biasimati,
sol per la Pistolese ingratitudine,
più che non furo i Lucchesi per certo,
ch' usavan per disfarla 'mprontitudine.
Nel predetto anno fu il Duca Ruberto,
figliuol, che fu del Re Carlo secondo,
incoronato di Puglia per merto.
E fu da Papa Chimento giocondo
finito, e quietato del tesoro,
che dovia dar pe 'l padre, ch'era al fondo,
ch'era trecento migliai' d'once d'oro.
Nel detto tempo i Guelfi Ameliani
da' Colonnesi cacciati ne foro.
Nel detto tempo li Montefeltrani,
con altri Ghibellini, e sbanditi,
isconfissero in campo gli Ancontani.
Nel predetto anno i Genovesi usciti,
a Genova n' andar con buone spalle,
per ritornar dond' egli eran partiti;
e Messer Ubizin fuor delle calle
uscì co' suoi, i qua' furo sconfitti,
ed el si rifuggì in Serravalle,
e gli usciti co' lor pennon diritti
in Genova tornarono in istato
e que' di fuor si rimasero affritti.
Nel detto tempo, a priego del Legato,
i Fiorentini, e più altri Toscani
mandar gente a Ferrara d'ogni lato;
la qual quivi sconfisse i Viniziani,
e ben semila fur tra morti, e presi,
e gli altri si fuggir dalle lor mani.
L' altr' anno venne poi in questi paesi
quel Cardinale, ed incontro il carroccio
di Firenze gli andò con begli arnesi.
E come dentro fu senza rimbroccio
si ricomunicò tutta la Terra,
ch'era intraddetta, come quì diroccio.
Nel predetto anno incominciò la guerra
per gli confini tra Sangimignano,
e la Cittade appresso di Volterra.
Ciascun fece suo sforzo, e capitano,
e danneggiando l' un l' altro a podere,
Sanesi, e Fiorentin vi miser mano
a volerli conciar; ma col volere
non fu il potere; e' Fiorentini accorti
veggendogli partir sì dal dovere,
raunar gente, e tornarvi sì forti,
che quali avesser detto: Non ci piace;
potevan dir, ch'e' fosser tutti morti.
Per questo modo si fece la pace,
e ciascun fece, come gli fu imposto,
una Fortezza, ove 'l suo confin giace.
Scurò la Luna quell'anno d' Agosto,
ed il Sole scurò poi di Gennaio,
e di grano, e di vin fu piccol costo;
ched otto soldi si vendè lo staio,
e 'l vin si diè per dieci sol la soma;
sicchè 'l Popol minuto stava gaio.
Nel predetto anno alquanto fuor di Roma
si scontrarono Orsini, e Colonnesi,
ch'eran nimici, come quì si noma;
e combattero insieme, e fur gli offesi
per questa volta in quel luogo gli Orsini,
e cento, e più per parte fur palesi.
Nel detto tempo ancora i Fiorentini
co' Castellani insieme, ed in lor vece
sconfissero, e cacciaron gli Aretini.
Negli anni poi mille trecento diece
ci fu Messer Luigi di Savoia,
cui Sanator di Roma il Papa fece,
Messer Simon Filippi di Pistoia,
ed altri due Prelati barbassori,
de' quali i Fiorentin fer poca gioia,
perocch'eran d' Imperio Ambasciadori,
e comandaro, che l' oste d' Arezzo
levata fosse senza più dimori,
ed aspettasser poi con dolce vezzo,
come si convenia lo 'mperadore,
ched in Firenze star voleva un pezzo.
Allora pel Comun risponditore
si fece Messer Betto Brunelleschi
il qual parlò con troppo ardito core,
e disse: L' oste intendiam, che rinfreschi,
e non vogliam quà dentro sì gran Princi,
che noi sappiam ben chi sono i Tedeschi.
E Messer Ugolin de' Tornaquinci
ammendò poi le superbie proposte
di Messer Betto, ed ei si partir quinci.
E poichè furo al Capitan dell' oste,
che si partisser gli ebber comandato,
e da lui ebber sì fatte risposte.
Così partir da lui sanza comiato,
e rapportaro al Signor tanto rio,
che contro a' Fiorentin si fu turbato.
Nel detto tempo ispirati da Dio
uomini, e donne, e fanciu' colle croci
per tutta Italia andar con atto pio,
battendosi, e gridando ad alte boci,
Misericordia Re Celestiale,
di Terra in Terra, e per tutte le foci.
E 'l Fiorentin veggendo gente tale
vietò l' entrata, e molto li dispregia,
dicendo, che quell' era mal segnale.
Nel detto tempo i Guelfi di Vinegia
cacciati furo, ed a più Caporali
tagliò la testa chi poco li pregia;
e due Fiorentin fur di que' cotali,
l' un fu degli Adimar, l' altro de' Sizj,
alla lor parte diritti, e leali.
Nel detto tempo per sottili indizj
provò Maestro Arnoldo di Provenza,
che Anticristo pien di tutti i vizj
dovea venir con sua falsa sentenza
presso al mille trecen sessantasei,
e la Chiesa annullar con sua potenza.
E fu tenuto errore, e saper dei,
che fuggì di Parigi per paura;
ma dir la sua scienza non potrei.
Nel detto anno sentendo la congiura,
che fer per rubellarsi i Ferraresi
da Santa Chiesa, contro a dirittura
Cardinal Pelagru co' Bolognesi
vi corse, ed a consiglio fe chiamare
tutti i maggiori, e poi ne tenne presi
ventisei, e tutti gli fe 'mpiccare;
lasciò con pace gli altri Cittadini,
e ad Arezzo n' andoe ad abitare.
Nel detto tempo essendo i Perugini
andati ad oste alla Città di Rodi,
coll'aiuto, ch' avien da' Fiorentini,
que' dentro usciron fuor, come tu odi,
e furono sconfitti, e seguitati,
e presi, e morti per diversi modi.
Nel detto anno di Luglio fur cacciati
i Guelfi da Spoleto da Currado
di Nastagio, e dagli altri Folignati.
Nel detto tempo, per tastare il guado,
lo 'mperador venne in quel di Savoia,
con que' Baron, che più gli furo a grado;
e' Fiorentin, per temenza di noia,
ordinar di mandargli Ambasciadori
adorni, per mostrarne festa, e gioia.
Ma certi Guelfi, ch'eran de' Maggiori,
temendo, non volesse i Ghibellini
rimetter dentro, ond' e' n' andasser fuori,
non lasciarono andar que' Cittadini,
ch'eran chiamati delli più sovrani,
e già levati li scarlatti fini.
Quando lo 'mperador vide i Romani
Ambasciadori, ed altri in sua presenza
di più contrade, Lombardi, e Toscani,
domandò: Dove son que' di Fiorenza?
Rispose un degli usciti al primo tratto:
Egli han di Voi gelosia, e temenza.
Disse lo 'mperador: Male hanno fatto,
perocch'egli era nostra intenzione,
ch'e' fosser con noi interi ad ogni patto,
e far Firenze Camera, e Magione,
e la miglior di nostro Imperiato,
or ci convien mutare oppenione.
Quando sentir, com' egli era sdegnato,
i Fiorentin fer lega, e compagnia
col Re Ruberto, e con altri d' allato,
con più Terre in Toscana, e in Lombardia,
e soldar gente assai senza dimoro,
per contraddire alla sua signoria.
Ma i Pisani gli mandar di loro,
perchè venisse tosto alla ricisa,
più di sessantamila fiorin d'oro;
promettendo, che quando fosse in Pisa,
senz' alcun fallo n' arebbe altrettanti,
e che tutti eran suoi sanza divisa.
Quando lo 'mperador vide i contanti,
la sua venuta apparecchiò per certo;
ed or di lui non dico più avanti.
Nel detto anno ci venne il Re Ruberto:
due mesi in casa de' Peruzzi stette,
contro allo 'mperador trattando aperto.
E volle metter pace tra le Sette,
e non potè, siccome intender puoi,
tanto erano ostinate, e maladette;
ond' egli appresso andò pe' fatti suoi.
c. 47, argumento
Come s' alzar le mura con effetto,
per la temenza dello 'mperadore;
e che i Donati ucciser Messer Betto,
e che lo 'mperador contro a Firenze
fornì processo, e diè aspre sentenze.
c. 47
Tenendo 'l mille trecento dieci anni,
di Savoia passò lo 'mperadore,
e dopo lungo andar, non senz' affanni
ad asti giunse, e fu fatto Signore
d' Ottobre; e quivi raunò di piano
domila Cavalier sanza sentore.
Era in quel tempo Signor di Melano
Messer Guidetto di que' della Torre,
che la trasse a Messer Maffeo di mano.
Contro allo 'mperador s'ingegnò porre,
siccome volle il Cardinal dal Fiesco,
e non possendogli il viaggio torre,
acconsentì a quel Signor Tedesco,
ed in Melano il mise in dì nomato,
vilia di Pifania chiaro, e fresco;
e 'l dì seguente fue incoronato
della seconda Corona del ferro,
colla sua donna Imperatrice allato.
E furo a questo fatto, s'io non erro,
Ambasciador di tutte Terre intorno,
salvo Firenze, che a ciò non diserro.
Faccendo quì lo 'mperador soggiorno,
pacificò insieme i Cittadini,
e concedette a' Visconti il ritorno;
ed ubbidito fu per que' cammini
da tutti, fuor di Padova, e Bologna,
ch'erano a lega allor co' Fiorentini.
Messer Guidetto con molta vergogna
gli parea stare, ed aver tempo reo,
e 'l signoraggio ancor col core agogna.
Dissesi allora, che Messer Maffeo
ingannato l' avea, come udir puoi,
perchè 'l tenne di fuor, come Giudeo,
ed avea detto: Che sofferiam noi?
Voglio innanzi te Messer Guidetto
per mio Signore, che 'mperadore, e' suoi;
caccerol fuori, e ciò per me prometto
d' esser con teco, e tu hai viepiù gente,
che non ha egli; or seguita l' effetto.
Ed allo 'mperadore incontanente
n' andò, e disse, siccome tradire
Messer Guidetto il dovia di presente.
Attanto il popol cominciò a romire;
lo 'mperador formò la 'nquisizione,
e fe 'l citare, ed e' fuggì il morire.
E la risposta, che portò il buffone,
venne ad effetto, perocchè tornato
era Messer Maffeo a suo magione.
E che lo 'mperador fosse cacciato
anche si disse, ed ancor si ragiona,
che' Fiorentin con lui tenner trattato.
Poi di Febbrai', secondochè quì suona,
i Fiorentin sepper tanto trattare,
che contro a lui si rivolse Chermona;
e fecergli più Terre rubellare,
per dargli sì che fare in Lombardia,
ch'e' non volesse in Toscana passare.
Ma pur temendo di lui tuttavia,
fecer cavare i fossi per paura
dal Prato a Santo Ambrogio all' Arno pria;
poi fero alzar le cominciate mura
da otto braccia, senza i barbacani,
dov'ell' eran fondate, e quì proccura.
Nel detto tempo i Ghibellin Bresciani
cacciaro i Guelfi sanz' alcun divario,
e similmente fero i Parmigiani.
Lo 'mperador vi mandò suo Vicario,
qual' ebbe in Brescia i Guelfi rimenati,
sperando quello, che po' fu il contrario.
E Chermonesi furono avvisati,
e per conforto de' Guelfi vicini
trattar con que', che 'n Brescia eran tornati.
Sicchè ne cacciar fuori i Ghibellini,
ed allo 'mperadore a mano, a mano
fecer gran guerra per tutti i cammini.
Valse in Firenze allor lo stai' del grano
trenta soldi, e' guadagni eran mancati
per quel Signor, benchè fosse lontano.
Nel detto tempo certi de' Donati
giovani arditi, valorosi, e freschi,
per la memoria de' fatti passati,
ucciser Messer Betto Brunelleschi,
perchè dicien, che contro al lor conforto
aveva dati consigli maneschi.
Poi n' andaro a San Salvi, e 'l corpo morto
di Messer Corso cavar fuori in fretta,
e 'l pianto grande fu senza conforto,
come allor fosse morto, e per vendetta
mostraron far ciò, che fatto ne fu;
e più parlar di ciò non mi diletta.
Nel mille trecentundici, e non più
mandò l' orlique di San Bernabà
a' Fiorentin Cardinal Pelagru.
Del che si fece festa, ed ancor fa,
quando si mostrano appresso l' altare
di San Giovanni a chi allor vi va.
Nel detto tempo fece cavalcare
lo 'mperadore il Vescovo cugino,
per la Città di Chermona assediare.
Tolse Vicenza a Padova, e 'n dimino
i Padovan gli dier Padova poi,
e 'l Vescovo ne fu Vicario fino.
Nondimeno a Chermona mandò a' suoi,
e fecela assediare, ed egli intanto
andò a Vinegia, e, come intender puoi,
aiuto alla Corona chiese alquanto;
e quel Comun, siccome liberale,
mille livre di grossi diè; d' accanto
la Corona, e la Sedia Imperiale
fe in Vinegia con tanti ornamenti,
che costar più, che un gran tesor non vale.
E' Cremonesi per ordinamenti,
e per trattar di quello di Ravenna
tornaro agl' Imperial comandamenti.
Piacque allo 'mperador cotale strenna;
ma poi le mura, e ciascuna Fortezza
fece disfar, che non ne campò penna;
e di moneta diè lor tal gravezza,
poich'ebbe perdonato lor l' oltraggio,
che poi non la pagaro senza asprezza.
A Brescia mandò poi l' oste di Maggio;
se fosse venut' oltre, ancor si dice,
che d' Italia acquistava signoraggio,
e poi di Puglia aveva ogni radice;
ma el peggiorò quì sua convenenza,
benchè di Brescia fosse poi felice.
Sentendo appresso il Comun di Fiorenza,
come i Tedeschi a Brescia n' erano iti,
avendo avuto Chermona, e Vicenza,
ribandir tutti i Guelfi già sbanditi;
e 'l Maliscalco, con bella compagna
a cavallo, ed a piè prodi, e arditi,
mandarono a Bologna, ed in Romagna,
e quivi stetter più mesi per certo,
per contraddire al Siri della Magna.
Nel detto tempo Messer Giliberto,
con dugento a caval, con chiara fronte
andò in Romagna per lo Re Ruberto,
perocchè 'l Papa l' avea fatto Conte
della Romagna; onde per tal cagione
ve 'l mandò il Re, siccome suo Visconte.
Com' el fu giunto, ed el mosse quistione
a' Ghibellini, e Bianchi a mano, a mano,
e tutti i Caporal mise in pregione.
Nel detto tempo ebbe Pesero, e Fano
colui, che della Marca era Marchese.
Or ritorniamo a' fatti del Bresciano;
ched a combatter Brescia l' oste prese.
La gente, ch'era dentro, ad un segnale
s' accorse, e francamente si difese.
E Messer Galeran fratel carnale
del detto Imperador fu morto allora,
con più Baroni, e gente comunale.
Onde la gente dentro si rincora,
e contro a que' di fuor con molto ardire
percosser dove più gente dimora.
Niente mosse la gente a fuggire;
ma tutti verso lor si fur diritti,
dando, e togliendo colpi da morire.
E benchè fossero in parte trafitti,
que' dello 'mperador fur gente tanta,
che 'n fine furo i Bresciani sconfitti.
E fur de' lor maggior presi quaranta,
e gli altri più di dugento di saldo,
tra morti, e presi, come quì si canta.
E de' Brusciati fu Messer Tedaldo
l' un de' pregioni, il qual fece squartare
lo 'mperador, com' el fu giunto caldo,
ed a più altri fe 'l capo tagliare;
onde i Bresciani stavan poi a freno
in modo più, che non solevan fare.
Ma s' eran combattuti, nondimeno,
benchè perduto avesser la baldanza,
la Terra arditamente difendieno.
Attanto avvenne per la lunga stanza,
che l' aria si corruppe, e molta gente
infermò, e morì senza fallanza.
Onde allo 'mperadore andar presente
molti a pregar, che quindi si partisse,
se de' suo' non volesse esser perdente.
A' quai giurò per la Corona, e disse
di non partirsi dall'assedio mai,
che converrebbe, che Brescia ubbidisse.
Dentro n' avea già infermati assai,
e vettuaglia incominciò a mancare,
ed avien da temer, come udit' hai.
Al Cardinal dal Fiesco fer trattare,
ed arrendersi alla misericordia,
che lo 'mperador lor volesse fare.
Com' egli ebbe la Terra di concordia,
disfè le mura, e dugento di loro
mandò a' confini, per fuggir discordia,
e in settanta miglia' di fiorin d'oro
condannò quel Comune, e partimento
di quindi fece, senza alcun dimoro.
Poi a Chermona fece parlamento,
e per conforto del Comun Pisano,
fu di passare a Genova contento.
Appresso fe Vicario, e Capitano
il predetto Messer Maffeo Visconte
della Cittade, e di quel di Melano;
e di Verona con allegra fronte
a Messer Can della Scala in dimino,
come Vicario, non siccome Conte;
Mantova diede a Messer Passerino,
Parma a Messer Ghiberto da Coreggio,
ed a ciascun toccar volle il fiorino.
S' egli avien prima mal, poi ebber peggio,
che in ogni Terra lasciò suo tiranno,
e confermogli per suo privileggio;
poi si partì d' Ottobre nel dett' anno.
Sentendo i Fiorentin del suo trattato,
che s' appressava per dar loro affanno,
forniro ben Volterra, e Sanminiato,
e tutte l' altre Terre de' paesi,
per riparare ad ogni mal pensato;
e 'l simigliante fecero i Lucchesi:
mandaro a Serezzano, e a Pietrasanta,
e tutti i passi d' attorno ebber presi.
Ma pur colla sua gente tutta quanta
a Genova fu giunto, e i Cittadini
gli dier la signoria, e quì s' ammanta.
E poi cinquanta miglia' di fiorini
gli fero aiuto alla 'ncoronazione,
e ventimila n' ebbe de' più fini
la 'mperadrice per cotal cagione.
Ed e' tutti li fe pacificare,
e rimise gli usciti in lor magione,
e ad Arezzo mandò, ciò mi pare,
un suo Vicaro, che fece com' egli,
e là morì, e fe sanza tornare.
Mandò Messer Pandolfo de' Savegli,
ed altri gran Prelati Ambasciadori,
ch' andasser comandando a tutti quegli
della Toscana Comuni, e Signori,
che ognuno andasse a fargli riverenza
a Roma, quando compierà gli onori.
Quando costor s' appressaro a Fiorenza
per quella strada, che vien da Bologna,
fece lor dire chi n' avea potenza:
s' e' non volesser gran danno, e vergogna
ricever quì, che dovesser gire
altrove, per fornir la lor bisogna.
Volendo questi pur oltre venire,
come di prima era la cosa ordita,
furon rubati, e dieronsi al fuggire.
La 'mperadrice infermata, e finita,
che fu figlia del Duca di Bramante,
a' Fra' Minori allor fu soppellita.
Quando lo 'mperador seppe davanti
de' suoi Ambasciador per alcun messo,
incontro a' Fiorentin fe mal sembiante;
e fe contro a di lor formare appresso
una sì grave, e forte 'nquisizione,
che forse fe di rado tal processo,
e condannogli in avere, e in persone,
che in ogni parte, ch'e' fosser trovati
sanza alcun bando, ovver condannagione,
potessero essere morti, e rubati,
salvochè s' egli infra quaranta giorni
dal dì della sentenza annoverati,
dodici Cittadin de' più adorni
mandati avesser, con pien sindacato,
come il Comune a ubbidenza torni.
Ma quando questo venisse mancato,
siccome scritto ha il nostro Cancelliere,
per noi s'intenda, e sia pronunziato.
O quanto egli era errato suo pensiere,
s' egli credeva la Città dell' effe
acquistar per così fatte maniere.
Di questo i Fiorentin si facean beffe,
ma e' tenien de' Cavalieri armati,
benchè scemate n' avesser le gueffe.
Ancor non eran tutti i dì passati,
quando di Genova fur tutti quanti
i Fiorentin di nuovo accomiatati.
E rubati fur tutti i Mercatanti
d'ogni mercatanzia, e d' altri arnesi
dentro, e fuori, ed in mar da' navicanti.
E così i Fiorentin, se ben compresi,
ricevettero allora un gran dannaggio
per quello Imperador da' Genovesi.
Non mi par, ch'e' facesse come saggio,
se alla sua Corte fece appropiare
tutta la ruberia di quell' oltraggio.
Nel dett' anno fu questo, ciò mi pare,
del mese di Dicembre, vendicando
l' ambasceria, che ti de' ricordare.
Gli usciti Genovesi ritornando,
spezialmente Messere Ubizzino,
veggendo que', che gli avien dato bando,
si guardava con loro a capo chino;
e forse che pensava nel suo core,
di non essere a lor miglior vicino;
perocch'egli era di molto valore,
e render gli potea del pan cofaccia:
e questo basti dello 'mperadore.
Lettor, s'i' parlo brieve, non ti spiaccia,
che perch'i' son del brieve udir contento,
credo, che, come a me, a ciascun piaccia.
Or seguirem del buon Papa Chimento.
c. 48, argumento
De' Consoli dell'arte della lana,
e della morte di Messer Pazzino,
che fu tenuta cosa assai villana.
E dello 'mperador di Luzimborgo,
e d' altre cose assai, com' io ti porgo.
c. 48
Ormai ci convien dir, come in Vignone
stava il Papa, e non possendo andare
a Roma a 'ncoronar l' alto Campione,
mandovvi due Cardinal per ciò fare,
de' qua' fu l' uno il Cardinal da Prato,
con piena autorità d' incoronare.
Il quale andò in Genova, e trovato
si fu col sopraddetto Imperadore;
e 'l Papa ancor mandò dall'altro lato
Messer Gentile da Monte di Fiore,
discreto, e savio Cardinale, e bello,
in Ungheria, per dar compiuto onore
della Corona al buon Carlo Martello,
che 'l Re Ruberto per nipote avía,
figliuol, che fu del suo carnal fratello.
Ed ei lo 'ncoronò dell' Ungheria,
e tanto stette con lui, che 'l paese
quasi tutt' ebbe alla sua signoria.
Tornando per Italia poi palese,
ebbe dal Papa, che tutto il tesoro
di Roma conducesse alla cortese
in quella parte, ove facea dimoro.
E 'l Cardinal del paese Romano
al tutto trasse l' ariento, e l' oro,
e condusselo a Lucca in San Fridiano;
più oltre non potè ire per la guerra;
quivi il lasciò, e se fece lontano.
Nel detto tempo, se 'l libro non erra,
il Papa andò a Vienna, e con gran pressa
di gente fe concilio in quella Terra;
e per tenere in piè la sua promessa,
ch' al Re di Francia il teneva obbrigato,
in quel Concilio fe proposta espressa,
che Papa Bonifazio era accusato
siccom' eretico, pieno di resia;
se questo è vero, e' debb' esser dannato.
E fur presenti a quella diceria
più di trecento Vescovi, e Prelati,
ed altri Cherici d'ogni balía,
e disser poi tra loro esaminati,
che Papa Bonifazio santa vita
avia tenuto ne' tempi passati.
Veggendo il Papa, che gli era fallita
al Re di Francia tutta la sua impresa,
fece un dicreto colla faccia ardita:
che 'l Re di Francia, per alcuna offesa,
che a Papa Bonifazio fatta avesse,
ovver per lui contro alla Santa Chiesa,
che mai gravato esser non ne potesse,
e se gravato allor, fosse assoluto
egli, e' suoi discendenti s'intendesse.
Ed ogni ben, che 'l Tempio avie perduto,
fu in questo Concilio allo Spedale
di nuovo confermato, e conceduto.
E fu in quel Concilio generale
calonizzato Santo Lodovico,
Frate Minor della Casa Reale,
figliuol di Carlo secondo, ed amico
di Dio sempre stato in ogni cosa,
e 'l suo effetto pruova ciò, ch'io dico;
che per la povertà Riligiosa
rifiutò la Corona, e fessi Frate,
e po' fu Arcivescovo a Tolosa,
e miracoli fe molte fiate
alla sua vita, e poi come piaceva
a Dio; e basti di sua santitate.
Mille trecento dodici correva,
quando, per la cagion del Consolato,
coll' Arte della Lana si faceva.
Volendo ciascun essere insaccato,
Firenze fu per andare a romore,
e per turbar suo pacifico stato.
Appresso il Re Ruberto con amore
mandò dugento Cavalieri armati
per contastare al detto Imperadore.
E 'n Brescia essendo i Guelfi rientrati,
Messer Can della Scala incontanente
colla sua forza glien' ebbe cacciati.
Ed allo 'mperador poi di presente
si volse Parma, e Reggio, e 'l Fiorentino
in lor soccorso mandò molta gente.
Appresso di Genna', Messer Pazzino
de' Pazzi, andando con famigli alquanti
fuor della Terra un pezzo a suo dimino,
Paffiera, e suo' consorti Cavalcanti
l' ucciser, per vendetta, a tradimento,
di Messer Betto, e di Masin davanti;
dicendo, ch'egli era stato contento
della lor morte, e se questo era stato,
dio ne fa il ver; ma del mondo fu spento.
Il corpo suo ne fu morto recato
insulla Piazza de' Signor Priori,
perch'egli era dal popol molto amato.
Firenze andò ad arme, e con furori,
seguendo il Gonfalon della Giustizia,
arson le case, e lor cacciaron fuori.
E 'l Comun poi, per cessar la tristizia
de' Pazzi, fece quattro Cavalieri,
con dota de' suo' ben senza pigrizia.
I Chermonesi ancora volentieri
dal detto Imperador si rubellaro,
e cacciar fuori i suo' masinadieri.
Appresso il Maliscalco suo più caro
a Pisa venne, e fece ciò, che v'era
de' Fiorentin, rubar senza riparo.
E' Padovan gli volsero bandiera,
perchè aiutati fur da' Fiorentini,
e cacciaronne fuor tutta sua schiera.
Messer Guiglielmo de' lor cittadini
ucciser, perch'egli era in ogni guisa
campione, e capo de' lor Ghibellini.
Lo 'mperador per mar ne venne a Pisa,
con mille cinquecento a suo pennello,
e con questi Baron senza divisa;
l' Arcivesco' di Trievi suo fratello,
e quel di Legge suo cugin pregiato,
e 'l Duca di Baviera adorno, e bello,
e 'l Conte di Savoia suo cognato,
Conte d' Alagna, e Conte di Forense,
di guerra ciascheduno ammaestrato,
e molti altri Baroni a lor dispense,
Marchesi, e Banderesi, e Castellani,
e di più altri, ch'erano a sue mense.
Nel detto tempo fur gli Spoletani
Ghibellini sconfitti dal Grifone
de' Perugini, e morti come cani.
E 'l Re Ruberto a Roma per campione
mandò il Fratel con secento a cavallo,
per contraddire alla 'ncoronazione.
E per Toscana scrisse senza fallo
a tutti i Guelfi, che mandasser gente
contro allo 'mperadore in quello stallo.
E' Fiorentin vi mandar di presente;
Messer Berto de' Pazzi ebbe la 'nsegna,
e là morì del suo Comun servente.
E pochè tutti furo alla convegna,
col braccio degli Orsini, e con rigoglio
di molto pregio fu la gente degna;
perocchè avendo armato Campidoglio,
il Conte di Savoi' ne fu cacciato
da' Guelfi, che poi tenner quello scoglio,
ed acquistar San Pier dall'altro lato,
Castel Sant' Angelo, ed altre tenute,
per contraddire al detto Imperiato.
E i Colonnesi tenien per salute,
e per fortezza dello 'mperadore
San Gianni Lateran con lor virtute,
col Culiseo, Santa Maria Maggiore,
Santa Maria Ritonda, e con affanni
ciascun guardava, per avere onore.
E i Fiorentini il dì di San Giovanni
vi fer correre il palio del velluto,
come in Firenze soglion far gli altri anni.
Ritorno a dir, com' egli era venuto,
lo 'mperador, che di Pisa d' Aprile
mosse, e in Viterbo fu ben ricevuto,
e fatto della Terra signorile;
e' Ghibellini, ch'erano in Orvieto,
guatar di lor Città fare il simile;
ma i Guelfi li cacciar con viso lieto
anzi, ch' avesser soccorso superbo,
e rimaser signor con pace, e queto.
Lo 'mperador dimorando in Viterbo
seppe, ch' a Roma la Porta a San Piero
gli era vietata con sembiante acerbo:
con domila barbute ardito, e fiero
n' andò a Roma, e là subitamente
diè la battaglia, dove fe mestiero.
E quivi per bontà della sua gente
ebbe l' entrar per forza, e per rapina,
e i Colonnesi l' atar francamente.
Ad albergo n' andò a Santa Savina,
poi per potere a San Pier valicare,
la gente combattea sera, e mattina;
e 'n fine dopo lungo contastare,
essendo l' una parte, e l' altra folta,
e più acconcia a ricevere, e a dare,
i Tedeschi avanzaro a questa volta
tanto, che il Campidoglio racquistaro,
ed alcun' altra Fortezza ebbon tolta.
Allor gli altri Baron li seguitaro,
rompendo sbarre, e serragli per certo,
e 'n fine al Ponte Sant' Angelo andaro.
E' Fiorentin con que' del Re Ruberto
percossero alla gente Imperiale;
sicchè l' assalto poco fu sofferto;
che dier la volta con lor danno, e male,
e molti di lor furon morti, e presi,
e 'l Campo fu della gente Reale.
De' prigion fu, secondoch'io compresi,
il Vescovo di Legge, che mandato
da Messer Gianni n' era in suo' paesi;
e cavalcando tutto disarmato
inverso Puglia in groppa d' un donzello,
venne un Catalan forte adirato,
e perchè quivi era morto il fratello,
gli diede d' uno stocco per la schiena,
e morto cadde in terra sanza appello.
Quando lo 'mperador sentì la mena,
disse co' Cardinali a mano, a mano:
Per noi non fa di metterci a tal pena;
se voi non mi potete dar di piano
la Corona in San Pier, quando vi piaccia,
datelami in San Gianni Laterano.
Ed e' risposero: E così si faccia;
ed in San Gianni fero acconciar tosto,
e 'ncoronato con allegra faccia
fu, il primo giorno del mese d' Agosto,
per man del detto Cardinal da Prato,
come dal Padre Santo gli era imposto.
E come Arrigo fue incoronato,
a Tiboli n' andò, e li Romani
rimaser dopo lui in male stato.
Di Roma si partirono i Taliani,
e l' altra gente, e dallo 'mperadore
molti Baroni diventar lontani.
Poi colla gente sua, ch'era minore,
che non soleva, se ne venne a Todi,
e di presente fu fatto Signore.
Veggendo i Fiorentin, che tenea modi
di venire in Toscana, cominciaro
alquanto a scioglier delle borse i nodi;
e Cavalier domila si trovaro,
e' Ghibellini, ed altri per sospetto,
di lungi da Firenze confinaro.
Da Todi si partì il Signor predetto,
e per quel di Perugia fe il cammino,
guastando ciò, che v'era con diletto;
e conquistò Castiglione Aretino;
venne ad Arezzo, e raunò sua gente,
e poi ne venne sopra 'l Fiorentino,
e Capo Selvoli ebbe di presente,
del mese di Settembre, e Monte Varchi
più volte fe combattere aspramente,
rizzando scale con balestra, ed archi,
con tal fracasso, e con sì grandi affanni,
che s' arrenderon per soperchi incarchi.
E appresso ebbe Castello San Giovanni,
a Figghine ne venne, ed alla Ancisa,
e quivi s' accampò con gli Alamanni.
Allor Firenze ebbe caro di risa,
e mandò fuor popolo, e Cavalieri,
a difesa del passo, alla ricisa.
Lo 'mperador co' suoi arditi, e fieri
presso all' Ancisa si fermò nel piano,
e chiese la battaglia volentieri.
I Fiorentin, per partito più sano
pigliaron di non mettersi al periglio,
ma di difender quel passo sovrano.
Ond' el, che si guardava, per consiglio
de' nostri usciti fe la via per l' erta,
e passò verso la Città del Giglio.
La gente Guelfa veggendo scoperta
quell'altra cavalcare, ebber temenza,
ch' alla Città non desser male offerta.
E 'l Maliscalco allor di gran valenza,
con molta gente, e con grande fracasso,
volendo innanzi entrar con sua potenza,
e 'l Conte di Savoia non fu lasso,
con quel di Fiandra corsero a Montelfi
con molta gente, per pigliare il passo.
Quivi giugnendo la schiera de' Guelfi,
fu messo in volta, e tenner cammin torti
qual verso Napoli, e qual verso Melfi.
Ma pochi di lor furon presi, o morti,
e puossi ben dir, che il loro schermo
fosse il fuggir; che a ciò fur bene accorti.
Se lo 'mperador fosse stato fermo,
avea l' Ancisa, e gli uomini smarriti,
perocchè dentro già nat' era il verno.
Ma seguitando il voler degli usciti,
a San Salvi ne venne, dando il guasto
da ogni parte con aspri partiti.
E s' egli avesse seguitato il pasto
della Cittade, e non fosse ristato,
la Terra avuta avria senza contasto.
Ma come si sentì, ch'era accampato,
a riparare a' fossi incontanente
fu il Vescovo con tutto il Chericato;
e dove bisognava di presente
fu la Città steccata, e 'mbertescata:
e dall' Ancisa tornata la gente,
e Lucca, Siena, e Pistoi' gente armata,
ed altre Terre Guelfe ci mandaro,
e la Città fu tutta rincorata.
Cavalier quattromila si trovaro
i Fiorentini, e tremila secento
que' dello 'mperador s' annoveraro.
Un mese, e più vi stette, a 'ntendimento
d' aver Firenze per accordo avanti,
e non possendo esser di ciò contento,
la notte della vilia d' Ognissanti
si partì ammalato per dolore,
e passò l' Arno co' suo' tutti quanti.
Se in Firenze ebbe paura, e romore,
sonando ognor la campana a martello,
que' di fuor l' ebber cotale, e maggiore.
Nel pian d' Ema n' andaro a far drappello,
e' Fiorentini a Santa Margherita
presero il poggio, sicch'eran sovr' ello;
ma quindi l' altro dì fece partita.
c. 49, argumento
Seguita ancora dell' Imperadore,
e delle cose, che fece in Toscana,
e di molt' altre cose di valore,
e siccom' el morì a Buonconvento,
onde rimase ogni Guelfo contento.
c. 49
Nell'anno detto, in calen di Novembre
lo 'mperador n' andò a San Casciano,
dov'egli stette poi tutto Dicembre.
Quivi gli venne gente dal Pisano,
da cinquecento Cavalier palesi,
tremila fanti, con un Capitano,
e mille buon balestrieri Genovesi;
onde i suo' Cavalier si rincoraro,
e cominciaro a guastare i paesi.
E' Fiorentin di subito affossaro
il crescimento del sesto d' Oltrarno,
e come bisognava l' afforzaro.
Sicchè da quella parte venne indarno,
benchè non fosse la Città murata,
e da più miglia non vi s' appressaro.
In Val di Pesa avea una brigata
di Fiorentin, quasi d'ogni famiglia,
sott' una insegna così colorata;
il campo verde, e la banda vermiglia,
e Cavalier si chiamar della Banda,
che co' nimici facien maraviglia
sì, che ancor par, che lor fama si spanda,
come si fe de' Cavalieri Erranti,
che d' arme fer ciò, che ragion comanda.
Al fine addosso lor ne venner tanti,
che rotti furo i detti Cittadini,
e presi, e morti; ne camparo alquanti.
De' Guadagni, Bostichi, e degli Spini
rimaser morti al campo, tre Donzelli,
ch' alla battaglia parver Paladini.
Tutti giurato avien d' esser fratelli
alla difesa della lor Cittade,
e morir prima, che ci entrasser quelli.
Ma se costoro ebber tanta bontade,
da lor la gente, ch' oggi sì divaria,
pochi conoscon la lor libertade.
A San Casciano si corruppe l' aria,
e cominciovvi la gente a 'nfermare,
ed a morir; tant' era lor contraria.
Lo 'mperador veggendosi mancare
la gente, e se medesimo cambiato,
e non vi si potea pe 'l freddo stare,
da campo con suo gente fu levato.
E 'nverso Siena pigliando il cammino,
come prima co' suoi avea ordinato,
senza battaglia prese Barberino,
e San Donato in Poggio, che più vale,
e più altre tenute ebbe in dimino.
Perchè di Poggibonizzi gli cale,
udito, ch'ebbe, come il fatto er' ito,
il fe riporre nel Monte Imperiale;
ed afforzato, e rifatto quel sito,
presso a due mesi in quel luogo stette,
essendo ognor da ogni parte assalito.
E le strade d' intorno eran ristrette,
perchè il Sanese l' una strada tolle,
e l' altra il Fiorentin, ch' a ciò si mette.
Dall'altra parte i Cavalier di Colle
percossero a dugento Imperiati,
e gli sconfisser, come Iddio volle;
e 'l Maliscalco, e' Fiorentin soldati
il guerreggiavan di San Gimignano
sì, che de' suoi avea molti scemati.
Messer Ruberto di Fiandra Sovrano,
che per andarne co' suoi era mosso,
e da Castel Fiorentin già lontano,
da' Fiorentini quivi fu percosso;
pognan, che prima a quegli assalitori
desse, che far; fuggendo volse il dosso.
Onde per questi, e per altri dolori,
isbigottì lo 'mperadore Arrigo,
mancandogli pecunia, e' suoi migliori.
Attanto Ambasciador di Federigo
Re di Cicilia a Pisa s' apportaro,
e non trovandol, come quì ti rigo,
a Poggibonizzi a lui se n' andaro,
e ventimila doble d'or per certo,
da parte di quel Re gli presentaro,
poi la 'mbasciata dissero in aperto:
Nostro Signor per cortesia vi priega,
che con lui siate contro al Re Ruberto,
ed e' con voi vuol compagnia, e lega,
e vuolvi seguitare in ogni parte,
se questa grazia da voi non si niega.
Ed e', che n' avie voglia, con molt' arte
disse: e' mi piace; e senza più contendere
della fermezza fecer far le carte.
Se ciò non fosse, non avia, che spendere,
ma con questa pecunia mosse adesso,
a' nove dì di Marzo, dei intendere.
Tornossi a Pisa, ed ivi fe processo
incontro a' Fiorentini, e condennogli
in cinquemila marchi, e poi appresso
di Notai, e di Giudici privogli,
e d'ogni onore, e di giuridizione
della Cittade al tutto dispogliogli,
e nell'avere, e sì nelle persone
condannò tutti, che fu una pieta;
ma e' se ne curar men d' un bottone.
Ancor nella sentenza al tutto vieta,
che d'oro, nè d' argento il Fiorentino
non possa giammai più batter moneta.
E concedette a Messere Ubizino,
ed al Marchese ancor di Monferrato,
che con suggello, e segno del fiorino
moneta far potesser d'ogni lato;
e perchè diede sì fatta sentenza,
da tutta gente ne fu biasimato;
perocchè s' el volea male a Fiorenza,
non dovea mai conceder, che 'l suo segno
si potesse falsar di sua licenza.
E condannò per simile disdegno
il Re Ruberto, e' suoi successori
nella Contea di Proenza, e nel Regno,
e nella vita, come traditori
della Maestà sua Imperiale,
privando Puglia di tutti gli onori.
I qua' Processi pien d' iniquitade,
e sue sentenze regnaro pochi anni,
come tosto saprai per veritade;
che poi il ventidue Papa Giovanni
volle, che fosser di niun valore,
poichè riconosciuti ebbe gl' inganni.
Negli anni poi del nostro Salvadore
mille trecento tredici, di Maggio,
il Maliscalco dello 'mperadore
cavalcò con sua gente di vantaggio
a cavallo, ed a piede in Lunigiana,
per dare alli Lucchesi gran dannaggio;
ed ebber Pietrasanta; e Serezzana
a pochi dì s' arrendè al Marchese,
che seguitava sua insegna sovrana;
essendo tutto lo sforzo Lucchese
a Camaior, per cessare il periglio,
in Lucca si tornaro alla cortese.
Lo 'mperadore appresso fe consiglio,
nel qual diliberò, di non volere
più contastar colla Città del Giglio;
ma sopra il Re Ruberto suo podere
con Federigo intendea mostrare,
e torgli il Regno per se mantenere,
dicendo: Questi è 'l capo, ciò mi pare,
di parte Guelfa, e s'io ne son vincente,
Italia poscia non mi può mancare.
E venivagli fatto certamente,
se 'l Signor non avesse riparato,
come intender potrai incontanente;
perocch'egli era prima collegato,
come dett'è, e poi col Genovese;
ed ordinò, che in un dì nomato
con lor galee fosser nel paese;
e' Ghibellin d' Italia, e della Magna
cui di danar, cui di gente richiese.
E stando in Pisa colla sua compagna,
Lucca, e Sanminiato guerreggiava,
benchè non gli avanzasse una castagna.
Poi nella state, che allor seguitava,
Cavalier quattromila cinquecento,
con molta pedonaglia si trovava.
I Genovesi fero assembramento
di settanta galee, e Messer Lamba
d' Oria ne fu Ammiraglio contento,
e col navilio suo niente ingamba,
ch'era sì bel, ch' ogni altro paria sozzo,
e non avea di manco un fil di stramba,
si ritrovò nell' Isola di Pozzo,
e Federigo Re dall'altro lato,
volendo al Re Ruberto dar di cozzo.
Appunto il dì, ch' avevano ordinato,
con suo navilio mosse da Messina,
con mille Cavalier bene addobbato,
ed in Calavra giunse una mattina,
e valorosamente prese terra,
e cominciò a dar la disciplina;
e prese Reggio, ed alcun' altra Terra,
e, siccome dinanzi era proposto,
incominciò a fare un' aspra guerra.
Lo 'mperadore, a' cinque dì d' Agosto,
di Pisa mosse, ed andonne in Valdelse,
cavalcando quanto potè tosto.
Di quel di Pisa la gente divelse,
e fe combatter Castel Fiorentino;
ma non gli valse quattro more gelse.
E non possendolo avere in dimino,
tra Poggibonizzi, e Colle passaro,
e presso a Siena pigliaro il cammino.
Quando di là da Siena valicaro,
que', ch'eran dentro uscir per Camollia,
e percossero a lor sanza riparo.
E que' si volser con gran vigoria,
onde de' Guelfi furon morti certi,
e gli altri rifuggir dentro alla stia.
Lo 'mperador n' andò a Monte Aperti,
e quivi cominciò a peggiorare,
pe' molti affanni, ch'egli avea sofferti.
Quivi si mosse, ed andossi a bagnare,
com' altri volle, al Bagno a Macereto,
e quivi raddoppiò il suo penare
per modo tal, che poi non fu mai lieto;
e quindi fu portato a Bonconvento,
perchè del cavalcare avea divieto.
Quivi gli crebbe al cuor tanto tormento,
che confessar si volle d'ogni reo,
e confessossi, ed ebbe pentimento.
La notte poi di San Bartolommeo,
chiese il Corpo di Cristo, al qual, giugnendo,
si volle fare incontro, e non poteo.
Fatta la confession, forte piangendo
prese il Signore, e come l' ebbe preso,
non favellò mai più, se ben comprendo.
Così morì, come tu hai inteso.
Chi favoleggia, e dice altro d' accanto,
non dice ben, che d' altrui fosse offeso.
Non potrei dir, come fu grande il pianto,
che fecero i Baroni, e' Cavalieri,
che si credien per lui montare alquanto;
e gli usciti piangean volentieri,
che si credean tornare in casa loro,
ed or falliti vider lor pensieri;
e molti, che aspettavano il ristoro,
chi di servigi fatti di persone,
chi di pecunia d' ariento, e d'oro.
Ma cancellata fu ogni ragione,
e non fu la metà quella doglienza,
che l' allegrezza, che per tal cagione
fecero allora i Guelfi di Fiorenza,
e tutti gli altri, ch'e' teneva a bada,
perchè finì ogni lor penitenza.
Ciascun si ritornò in suo contrada,
a Pisa ne portar lo 'mperadore,
e 'n Duomo il soppelliro in alta grada.
Deh considera alquanto quì, Lettore,
come nostri pensier son tutti vani,
e tutti terminati dal Signore.
Questi credea Pugliesi, e Taliani
signoreggiare, e venivagli fatto,
se poste Iddio non ci avesse le mani.
Correan gli anni, quando fu quest' atto,
mille trecento tredici, del mese
d' Agosto; ond'ogni Ghibellin fu matto.
E quando il Re Don Federigo intese,
ch'era morto, come quì ti scrivo,
subito mosso fu di suo paese,
e venne a Pisa, e d' allegrezza privo,
si fece il corpo suo mostrar di morto,
perchè veduto non l' aveva vivo.
E i Pisani, ch'eran senza conforto,
perchè del Re Ruberto avean temenza,
il voller far Signor, presto, ed accorto;
ma e' non volle, e fe da lor partenza.
E 'l Conte di Savoia similmente
anche la rifiutò in lor presenza.
Onde soldar di quella franca gente
mille buon Cavalieri a mano a mano,
per riparare ad ogni convenente.
Poi chiamaro di guerra Capitano
il valente Uguccion della Fagiuola,
ch'era in quel tempo in tal mistier sovrano.
Questi accettò, e colla detta scuola
di Cavalieri, vinse ogni tencione,
come ancor sonerà nostra viuola.
Nel predetto anno il Conte Filippone
con molta gente mosse da Pavia,
come que', ch'era de' Guelfi campione;
contro a Piagenza andò per sua follia,
che la tenea Messer Galeasso,
che di Melano avea la signoria.
Trovò i nemici apparecchiati al passo,
al quale fu co' suoi sconfitto, e preso;
e questo basti di cotal fracasso.
Lettor, per dirti il fatto più disteso,
lasciai alcune cose, che vivendo
lo 'mperadore avevan luogo acceso.
Nel predetto anno i Fiorentin temendo
sì dello Imperador, sì degli usciti,
e d' altri assai, che l' andavan seguendo,
siccome molto savj, ed iscaltriti,
fecer tra loro un consiglio coperto,
e presero il miglior de' ma' partiti;
e diersi per cinqu' anni al Re Ruberto,
ond' el mandò sua gente alla difesa,
siccome valoroso, e molto sperto.
Avvenne la novella, ch'hai intesa,
che Iddio ci liberò dello avversario,
e non ebbe con lui a far contesa.
Ma di sei in sei mesi suo Vicario
ci mandò, che facea piena ragione
al grande, ed al minor senza divario.
Poi quando venne il tempo, e la stagione
de' cinqu' anni compiuti, fu di botto
per tre anni rifermo per Campione.
Sicchè signoreggiò Firenze anni otto,
e così Lucca, e Pistoia, con Prato,
che in simil modo gli si miser sotto.
Firenze rifrancò ben suo stato,
perchè le Sette l' averebber guasta;
ma caro costò a lui cotal mercato.
Com' io t' ho detto, i' son di grossa pasta,
pognan, che ciò si vede per l' effetto
del mio grosso rimar tanto, che basta;
ma, come dissi, scrivo a mio diletto.
c. 50, argumento
Genova, e Pisa, e di Papa Chimento
che saper volle, se 'l Nipote morto
nell'altra vita avea gioia, o tormento;
e siccome Uguccion della Fagiuola
di guerra tenne in queste parti scuola.
c. 50
In Genova gli Spinoli, e li Dori,
mille trecento tredici, volendo
esser ciascun della Città maggiori,
vennero a tanto, secondoch'io intendo,
che la Città se ne divise tutta,
chi coll' uno, e chi coll'altro tegnendo;
e venti giorni fu, per zuffa brutta,
Genova piena di pianto, e sospiro,
e di trecento case arsa, e distrutta.
Gli Spinoli alla fine si partiro;
gli Ori rimaser Signori, e crearo
il reggimento a popol, se ben miro.
Nel dett' anno i Pisan coll' oste andaro
con Uguccion sopra i Sanmignatesi,
e ciò, che avean d' intorno, guastaro,
e similmente fecero a' Lucchesi;
e' Fiorentin, per la detta cagione,
portavan del soccorso tutti i pesi.
Lucchesi s' accordar con Uguccione,
e rendér più Castella per convento,
e 'nterminelli tornaro a lor magione.
Nel detto anno morì Papa Chimento,
lussurioso, e cupido; lo scrisse
colui, che fu del mio dir fondamento.
Perchè, secondochè allor si disse,
palesemente tenne la Contessa
di Paragorgo innanzi, che morisse.
Ancor vivendo, e cantando Messa
morì un suo Nipote a lui davante,
cui vita amava più, che la sua stessa.
Onde costrinse un grande Negromante,
che gli dicesse tutto netto, e puro,
dov'era di colui l' anima stante.
Ed e' rispose: Datemi un sicuro,
e farogli vedere a mano, a mano,
s' egli è in luogo alluminato, o scuro.
Ed e' gli diede un suo Cappellano,
che si facea beffa dell' eterno,
e d'ogni cosa, tanto era mondano.
E quegli il fe portare allo 'nferno,
là, dove vide in un letto di fuoco
il Cardinal di quel Papa moderno.
E domandol: Perchè sì fatto giuoco?
Ed e' rispose: Per la simonia,
ch'i' usai su nel mondo, quì mi cuoco.
Appresso a questo un maggior letto avia,
e fugli detto, che quello aspettava
Papa Chimento per simil follía.
Veduto questo, quando se n' andava,
il Cardinal si rizzò sovra il letto,
dicendo: Il tuo partir molto mi grava.
Ma dì al Padre santo, ch'io l' aspetto,
sperando mitigar la mia tristizia,
veggendol quì per simile difetto.
Partissi il Cappellan da tal malizia:
tornato al mondo n' andò di presente
al Papa, che aspettava con letizia.
E poichè gli ebbe detto il convenente,
il Papa si turbò con tal doglienza,
che, com' è detto, morì finalmente.
E nella maggior Chiesa di Proenza,
essendo il corpo suo molto onorato,
arse la Chiesa, e 'l corpo in tale essenza.
Nel detto anno Uguccion tenne trattato
co' Ghibellin di Lucca, ed a romore
miser la Terra, ed e' vi corse armato,
e 'l Vicario del Re ne cacciò fuore,
e Gli altri Guelfi per modo villano,
rubando, ed uccidendo, fu Signore;
ed il tesoro, ch'era in San Fridiano,
di Santa Chiesa, fu portato via
e da' Tedeschi, e dal Comun Pisano;
ed otto dì durò la ruberia,
col fuoco ardendo, e con uccisione
di gente, e con ogni altra villania.
Non si ricorda, che per tal cagione
mai fosse una Città così diserta,
come allor Lucca, d' avere, e persone.
Quando in Firenze la novella certa
fu, come Lucca avea volto mantello,
la doglia lor niente fu coperta.
Benchè sentito avien prima il tranello,
e nel Valdarno mandar molta gente;
ma tardi furo al soccorso di quello.
E preser più castella incontanente,
ch' a parte Guelfa ancor per quella foce
del Valdarno eran tutte veramente;
Fucecchio, e Castel Franco, e Santa Croce,
e Monte Calvi, e Santa Maria a Monte,
e Monte Topoli molto veloce,
e 'n Val di Nievol con ardita fronte
Monte Sommano, con Monte Catini
presero, ed altre, ch'io non ho quì conte.
Perchè non diede trecento fiorini
Pistoia a que', che tenien Seravalle,
volse mantello, e fu de' Ghibellini.
Allor la guerra da monte, e da valle
fu cominciata, e' Fiorentin per certo
sentendo il fuoco sì presso alle spalle,
mandar per un Campione al Re Ruberto;
ed el mandò Messer Pier suo fratello,
giovane molto grazioso, e sperto,
con trecento barbute ad un pennello,
che a' dì diciotto del mese d' Agosto
giunse in Firenze tutto allegro, e bello.
E sanza domandarla, gli fu tosto
conceduta ogni piena libertade
di fare, e sfare e palese, e nascosto.
Onde riformò tutta la Cittade,
e di Priore, e d'ogni altro Rettore,
secondo il tempo, e la sua nicistade.
E' fu sì grazioso, e pien d' amore,
che veramente, se fosse vivuto,
i Fiorentin l' avrien fatto Signore.
Il Re Ruberto discreto, e saputo,
l' anno seguente, per vendetta fare
di quel da Federigo ricevuto,
con molta gente n' andò, ciò mi pare,
nella Cicilia, movendo da Napoli
d' Agosto, ed acquistò Castel da mare.
E poi si pose alla Città di Trapoli,
credendoselo aver per quel trattato,
ch'era già fatto con gli uomini scapoli;
ma il suo muover fu tanto indugiato,
che in quel mezzo indugio prese vizio,
siccome dice il proverbio usato.
Don Federigo avendo alcuno indizio
fornì di gente, e d'ogni vittuaglia,
la Terra sì, che rifrancò l' ospizio.
E 'l Re Ruberto chiese la battaglia;
non accettando, misesi alla pruova
della Città; ma non valse una paglia.
Il tempo gli era contro per la piova,
ch'era durata tanto, che 'l mangiare,
e 'l ber mancava a chi con lui si trova.
E la sua gente cominciò a 'nfermare,
e qual per la paura si dilegua,
e qual non si poteva rallegrare.
Onde il Re fece per tre anni triegua,
e 'n calen di Gennaio fe partenza,
e comandò, che ciascheduno il segua.
Essendo il Padovan sopra Vicenza
nel detto tempo, come si ragiona,
e' Borghi presi avea con sua potenza.
E Messer Can soccorse da Verona,
e con sua forza li mise al dichino,
e furo offesi in avere, e in persona.
Nel detto tempo fece il Fiorentino,
per man del sopraddetto Messer Piero,
la pace general coll' Aretino.
Una stella comata di leggiero
allor si vide, e di gran fatto mancia
si disse, ch'era; e ben fu così vero,
ch' appresso morì il Papa, e 'l Re di Francia,
come udirai, per modo accidentale;
nota Lettore, e non lo avere a ciancia;
ch'essendo ad una caccia, ed un cinghiale
gli diede nella gamba del cavallo,
e fel cadere, e morì di quel male.
E questo Re Filippo senza fallo
fu 'l più bell' uom, che allor fosse trovato,
ed il più savio, e chiar, come cristallo.
Ventinove anni allora avea regnato,
mille trecenquattordici correndo,
quando divenne ciò, ch'io t' ho contato.
Lasciò tre figliuo', se ben comprendo;
l' un fu il Re Luigi di Navarra,
che fu il maggiore, e bellissimo intendo.
Filippo Conte di Pittieri, appara,
che fu il secondo, e 'l terzo di costoro
fu Carlo Conte della Marcia cara.
E vuo', che sappi, che ciascun di loro
fu Re di Francia poi, siccome scrisse
colui, che cominciò questo lavoro.
E prima, ched il lor padre morisse,
ciascuno avea trovata con istrano
la donna sua, secondochè si disse,
essendo ciascheduno un bel Cristiano.
E figliuola del Duca di Borgogna
fu quella di Luigi, ch' è il sovrano.
Questi quando fu Re, di tal vergogna
si ricordò, e colla tovagliuola
la fece strangolar sanza menzogna.
E poi tolse per moglie la figliuola
del buon Carlo Martel, Dama Clementa,
ch'era più bella, che fresca viuola.
L' altre due donne, per quel, ch'io ne senta,
eran sirocchie carnali, e figliuole
del Conte di Borgogna, mi rammenta.
E 'l Conte di Pittier tanto ben vuole
alla sua donna, ch' alla sua disdetta
egli accettò, siccome far si suole.
E 'l Conte Carlo la sua per vendetta
mise in pregione, e 'n quella zambra scura
finì sua vita, e così fu corretta.
Dissesi allora, che tale sciagura
era loro avvenuta certamente,
perchè poco tra lor legge si cura;
anzi s' ammoglian parente a parente;
ma quel Signor, che purga ogni magagna,
nostri difetti purga giustamente.
Nel detto tempo i Prenci della Magna
elesser due all' usata maniera,
quale ha più boci Imperador rimagna.
E l' un fu Lodovico di Baviera
fratel del Duca, e l' altro Federico
d' Ostorich; e ciascun gran Signore era.
Nota le boci, ch'ebbe Lodovico;
la prima il Vescovo fu di Maganza,
e quel di Trievi fu il secondo amico,
Re di Buemma seguitò la danza,
la quarta fu del Duca di Sansogna,
Marchese Brandiborgo empiè la stanza.
A Federico fornì la bisogna
Dux di Baviera, e quel di Chiarentana,
e l' Arcivescovo poi di Cologna:
d' altro Marchese di Bramborgo sana
ebbe la boce; ma non possedeva
la Marca sua, per forza più sovrana.
E Lodovico per ragion doveva
lo 'mperiato aver col nero uccello.
Perchè più boci in Capitolo aveva,
se non fosse il Duca suo fratello,
che 'l nemicava, e la sua buona boce
a Federigo diè senza rappello.
Onde fu guerra asprissima, e feroce,
come più innanzi ti dirò, lasciando
questa materia, perch' altro mi cuoce.
Nel detto anno Uguccion, signoreggiando
Pisa, e Lucca, tutte le Castella,
che Lucca avea di Pisa, conquistando,
rendè a' Pisani, onde a furore in quella
disfero Asciano, e più altri per noia,
e molto spiacque a' Guelfi tal novella.
Uguccion cavalcò sopra Pistoia,
sovra Volterra, e sopra Sanminiato,
di Monte Calvi, e Cigoli ebbe gioia.
Nel quindici fu poi incoronato
(quì non bisogna, che molto dipinghi)
Luigi, che dinanzi fu contato.
Questi in persona andò sopra i Fiamminghi,
rompendo pace, e menò gente assai
a cavallo, ed a piè molto raminghi;
ed assediò la Città di Coltrai,
onde i Fiamminghi per vincer la prova,
incontro gli si fer più ben, che mai.
Attanto sopravvenne sì gran piova,
che valicar non poteva il carreggio
del Re, per l' acqua, che tanto vi cova.
Onde il Re si partì temendo peggio,
e ritornossi in Francia con sua scuola,
e con poco onor, secondoch'io veggio.
Nel detto anno Uguccion della Fagiuola
co' Pisani assediò Montecatini,
ch' è una bella, e forte Terricciuola;
la qual tenieno allora i Fiorentini,
e quel Castello strinse per assedio
sì, che intrar non vi potien tre lupini.
E' Fiorentini allora per rimedio
mandaro per lo Prenza di Taranto
fratel del Re Ruberto; e senza tedio
subito mosse, e poi cavalcò tanto
col figliuol Messer Carlo, che 'n Firenze
a mezzo Luglio fu, come quì canto,
e' Fiorentin veggendo giunto il Prenze,
con cinquecento Cavalieri adorno,
che ben mostrava sue magnificenze.
richieser tutti gli amici d' intorno
Sanesi, Perugini, e Castellani,
e Bolognesi ancor senza soggiorno,
Romagnol, Pistolesi, e Volterrani,
ed altri, che a ciò furon volentieri,
spezialmente li Guelfi Taliani;
e con più di tremila Cavalieri,
col figlio, e col fratello a ciò disposto,
e molti Palvesari, e Balestrieri,
si mosse il Prenze, il sesto dì d' Agosto,
e 'n Val di Nievole appetto a' nimici,
con tutta la sua gente si fu posto.
Ma era in mezzo la Nievole, e quici
stette alquanti dì la gente bella,
credendo veramente esser felici.
Attanto ad Uguccion venne novella,
che la sua scorta avea avuto inciampo,
e la sua vittuaglia siccom' ella.
La notte poi levandosi dal campo,
volendo verso Pisa cavalcare,
sed el potesse con sicuro scampo,
il Prenza fece la sua gente armare,
e parossi dinanzi alla frontiera
sì, che Uguccione no 'l potea schifare.
Ma s' el si fosse stato dov'egli era,
Uguccion con sua gente per la strada,
tornava a Pisa con vergogna intera,
e 'l Prenze poi sanza colpo di spada,
vincente della guerra rimaneva,
e con onor tornava a sua contrada.
Ma li nemici per niente aveva:
affrontossi con lor, sed io non erro,
là, dove rifiutar non si poteva,
perocchè avean la coda nel cerro.
c. 51, argumento
Della sconfitta di Monte Catino;
e del fanciul, che nacque con due capi
allora nel Contado Fiorentino:
di Messer Cane, e poi de' Genovesi;
e d' altre cose di questi paesi.
c. 51
Come Uguccion si vide tolto il passo,
e vide, che schifar non potea il Prenza,
ch'era di gente più di lui grasso,
fece le schiere con molta temenza,
e fe cento cinquanta de' più dotti,
che fosser feditori in sua presenza.
E franco, e pro Messer Giovan Giacotti
de' Malaspin, di Firenze rubello,
fu Capitano, e per lui fur condotti.
E 'l figliuol d' Uguccione ardito, e bello
voll' esser pur de' feditor sovrani,
e seguitare lo 'mperial pennello.
Il Prenze avea molti Capitani,
e ciascun volea essere ubbidito,
sicchè poc' ordine avien tra le mani.
Quando Uguccione ebbe questo sentito,
alli suo' feditor fece assalire
i Guelfi, ch'eran dinanzi al partito;
e percossero a lor con tanto ardire,
che color, ch'eran da Colle, e da Siena,
subitamente si diero al fuggire,
e que' cavalcaro oltre sì di vena,
che nella schiera, ov'era Messer Piero,
che' Fiorentini avea seco alla schiena,
fur tutti presi, e morti, quest'è vero,
e battuto il pennone Imperiale,
il campo ad oro, e l' agugliaccio nero.
Veggendo, che la guardia principale
dell' oste Fiorentina er' ita a tresca,
ed Uguccion della sua Caporale
fece percuoter la schiera Tedesca,
la quale stretta insieme, e ben serrata
percosse dove appresa era già l' esca.
Allor la gente non bene ordinata,
spezialmente i pedoni gialdonieri,
che avien la schiera d' intorno fasciata,
lasciaro addosso a' nostri Cavalieri
cader le gialde, e tutti in poca dotta
si misero a fuggir per que' sentieri.
L' alba del giorno ne venía allotta,
la schiera Fiorentina assai sostenne,
poi fu, per la cagion, ch' è detta, rotta.
E 'l Prenze allor, che la quartana tenne
per molti dì, n' andò a Monte Sommano,
poi da Pistoia a Firenze ne venne.
La gente, che rimase, a mano, a mano
in isconfitta volse tutta quanta,
fuggendo chi per monte, e chi per piano.
Quivi fu morto, come quì si canta,
Messer Carlo figliuol del Prenze detto,
di cui 'l Pisano ancora si millanta;
perocchè sovra al suo corpo a diletto
si fer di Pisa Cavalieri assai,
per fare a parte Guelfa più dispetto.
E Messer Pier, che di sopra contai,
fratel del Re della Casa sovrana,
vivo, nè morto non si trovò mai.
Dissesi allora per tutta Toscana,
ch'egli arrivò fuggendo senza fallo
nella profonda mota di Guisciana;
che volendo passare egli, e 'l cavallo
andaron sotto con molti altri, i quali
gli fecer compagnia in quello stallo.
O Signor miei magnifici Reali,
benigno sangue è 'l vostro, che non volle
mai far vendetta di sì fatti mali.
E 'l Conte Carlo ancor da Battifolle
rimase morto, poich'ebbe col broccio
dell'altrui sangue la campagna molle.
E 'l valoroso, e 'l pro Messer Caroccio,
poich'ebbe fatto assai colle sue mani,
rimase al campo, come gli altri, chioccio.
E di Firenze grandi, e popolani,
quasi di tutte le case nomate,
vi camparo i migliori, e più sovrani.
Furonvi morti delle Cavallate
centoquattordici, e furono scorti
de' nostri amici grande quantitate.
Sicchè contando tutti quanti i morti
da cavallo, e da piè, per quel, ch'io sento,
furon domila, e più, con gli occhi torti.
I presi furon mille cinquecento,
e gli altri si fuggiron d'ogni lato,
chi quà, chi là per suo scampamento.
Correvan, quando fu cotal mercato,
mille trecentoquindici d' Agosto,
il dì di San Giovanni dicollato.
E dopo la sconfitta molto tosto
Monte Catin si diede ad Uguccione,
e poi Monte Somman per simil costo.
E que' d' Anchiano per simil cagione
da' Fiorentin rubellaro il Castello
di Vinci, ch'era a lor petizione.
Baldinaccio Adimar, come rubello,
dentro a Cerreto Guidi allor si gitta,
e contro a' Fiorentin volse il mantello;
e di que', che fuggien della sconfitta,
presero assai, uccisero, e rubaro,
dando la giunta alla prima trafitta.
E poi con Uguccion s' accompagnaro,
dopo lui, con Castruccio Interminelli,
e molta guerra a Firenze menaro;
e per parecchie volte rupper quelli
d' Empoli, e di Puntormo, contastando,
come nemici mortali, e rubelli;
e finalmente fur tratti di bando,
ed anche ebber danari a due partiti,
lasciando quivi noi vitiperando.
Non fero i Fiorentin come smarriti
dopo la rotta, con dolore amaro;
ma come valentri uomini arditi;
e la Città di nuovo riformaro
d'ordini, e di danari, e buona gente,
ed afforzarsi con ogni riparo.
Al Re Ruberto mandar di presente,
che ci mandasse un Capitano snello,
che fosse valoroso, e sofficiente.
Ed e' ci mandò il buon Conte Novello,
con dugento a caval, la cui venuta
rifrancò quello stato buono, e bello.
Gli usciti di Firenze ebber perduta
ogni speranza della lor tornata,
per la sconfitta, ch'era ricevuta.
Onde la gente fu rassicurata,
e le botteghe aperte lavorando,
come la rotta altrui avesser data.
Nel sedici Uguccion signoreggiando
come tiranno, Banduccio Buonconti,
e 'l figliuol fe pigliare al suo comando;
e poi di fatto a' suo' famigli pronti
fe lor tagliare la testa per certo,
onde i Pisan turbar tutte le fronti.
E perch'egli era molto savio, e sperto,
gli appose falsamente, che trattato
teneva contro lui col Re Ruberto.
I Fiorentin temien di loro Stato,
e per Messer Filippo di Valosa
per l' una delle Sette fu mandato.
Ma el non venne, perchè della Tosa
Messer Simon dell'avversa Compagna
gli fece scriver tutto alla ritrosa;
perchè volea gente della Magna,
dicendo, ch'eran Cavalier valenti,
e li Franceschi pien d'ogni magagna.
Ma tenevan con lui tutti i Reggenti,
i Magalotti, ed altri, che Fiorenza
guidavan sotto lor comandamenti;
e se non fosse, perchè avien temenza
allora d' Uguccion, cacciato avrieno
chiunque avea col Re benivoglienza.
E quel Conte Novello in un baleno
mandar via, che stato era quattro mesi,
dovendo stare un anno tutto pieno.
Credo, che contro al Re erano accesi
que', che reggevan, per la trista pruova,
che fe sua gente, quando furo offesi.
E perchè contro a lor niun si muova,
fecer Bargello un Ser Lando da Gubbio,
con cinquecento fanti, gente nuova;
il qual fu sì crudel con viso bubbio,
che non ci era sì franco Cittadino,
che allor non gli paresse stare in dubbio.
Quando pigliar poteva un Ghibellino,
a' fanti suoi il facea ammannaiare,
dovunque egli 'l trovava in sul cammino.
E fu di quegli, che fe sì conciare
un degli Abati, ed un de' Falconieri,
e dimolti altri, ch'io non so contare;
sicch'egli aveva modi tanto fieri,
che ciaschedun di lui avea paura,
onde al pagar le 'mposte eran leggieri.
Ed al suo tempo s' alzaron le mura,
ch'eran fondate dal Prato a San Gallo,
come puote veder chi ben proccura.
Ed una falsa moneta di giallo
inargentata fero i Fiorentini,
che fu tenuto da' savj gran fallo;
e pe 'l Bargel si chiamar Bargellini,
e ciaschedun della moneta vile
valeva sei degli altri picciolini.
Nel predetto anno, a' dì sei d' Aprile,
essendo in Lucca con sua gente strana
il figliuol d' Uguccion per Signorile,
Castruccio Interminelli in Lunigiana,
avendo insulla strada molto offeso
di ruberia, e di cosa villana,
dinanzi a lui ne fu menato preso;
mad el temette di farlo morire,
per gli consorti, ch'eran di gran peso.
Onde mandò pe 'l padre, che venire
dovesse a Lucca, ed egli a mano, a mano
si mosse con sua gente con ardire.
E come giunse al Monte a San Giuliano,
il Pisan popol, siccome fellone,
corse la Terra colle spade in mano,
gridando: Muoia il tiranno Uguccione;
e niun si coperse, a badalucco
pigliar volendo la sua difensione.
Questo fer per la morte di Banducco,
ed altri oltraggi fatti in breve sosta,
onde ciascun di lui era ristucco.
Giunto Uguccione a Lucca, mal disposta
trovò la Terra, e la porta serrata,
per la cagion, ch' è dinanzi proposta.
Ond' el sentendo Pisa rubellata,
con tutta la sua gente in Lombardia
n' andò a Verona, e Lucca ebbe lasciata.
Allora con furor di pregionia
cavato fu il predetto Castruccio,
il qual, siccome pien di valenzia,
montò a cavallo, e lasciando ogni cruccio,
ad alte boci sgridava il Tiranno,
che non vi vorrebb' esser per un luccio.
E li Lucchesi veggendo l' affanno,
poichè Uguccione avea la sedia vota,
fecer Castruccio Signor per un anno.
Deh per mio amor, Lettore, alquanto nota,
come fortuna in brieve mise al piano
Uguccion, ch'era in cima della rota.
E nota il guiderdon, che dal Pisano
e' ricevette, avendolo egli alzato
d'onor più, ch' altro Comun Taliano.
E nota di Castruccio, incarcerato
per perder la persona per sentenza,
quasi in un punto esser Signor chiamato.
Nel predetto anno i Guelfi di Fiorenza,
ch' al Re avevan dato il signoraggio,
parendo loro stare in penitenza
per lo Bargel, che agli altri era vantaggio,
ed e' si rimanien da parte al grido,
ricevendo ogn' ingiuria, ed ogni oltraggio,
fecer, che 'l Re chiamò il Conte Guido
da Battifolle quì per suo Vicario,
il quale arditamente venne al nido.
Ben conoscevan, ch'egli era avversario
alla lor setta i Reggenti per certo;
ma non potieno operare il contrario.
Appresso della Magna il Conte Alberto,
mandando la figliuola per isposa
a Carlo Duca, fil del Re Ruberto,
incontro a quella Dama graziosa
venner di Puglia, per accompagnarla,
molti Baroni, e gente valorosa;
tra' qua', dice lo scritto, che non tarla,
fu Messer Gianni, e 'l Camarlingo Conte,
ed altri molti, di cui non si parla.
Giunse la Donna, e con allegra fronte
ciascuna setta a poder l' onorava;
ma più color, che avien le voglie pronte.
E mentrechè la Donna si posava,
fer col Fratel del Re gran diceria,
e di suo stato ognun si biasimava.
Ond' el vi mise accordo, e levò via
ogni quistion, poichè raccomunato
ebbe l' uficio della Signoria.
Ma giunse alla lezion del Priorato
sei della setta del Re, che maggiori
regnaron sì, che ancor hanno lo stato.
Partirsi colla Donna que' Signori,
e 'n brieve tempo a Napoli n' andaro,
dove alla Donna raddoppiar gli onori.
E poich' al Re Ruberto rapportaro
lo stato di Firenze a motto, a motto,
e del detto Bargel quant' era amaro,
ed egli il fece accomiatar di botto;
sei mesi ci era stato molto adagio,
quando il Conte lo fe partire al trotto.
Questi fu il Conte, che crebbe il Palagio,
del Podestà, pensando sempre gaio
poterselo abitar sanza disagio.
Nel dett' anno, del mese di Gennaio,
nacque un fanciul con due capi, e tre piedi,
e quattro mani, in Valdarno al Terraio.
Questo vid' io, come lo scritto vedi,
e com' egli è alla Scala intagliato,
così di carne fu, or lo mi credi.
E venti dì vivette in quello stato,
e poi morì, secondoch'io intesi,
un' ora prima l' un, che l' altro lato.
Nel detto anno per molti stran paesi,
in Fiandra, e in Lombardia, e nel Reame
di Francia, e di più altri, ch'io compresi,
e' fu sì gran mortalitade, e fame,
che morì il terzo di tutta la gente
senza giacere, o gli uomini, o le dame.
Questo fu il verno, e la state vegnente
fu sì gran piova, che quel terren tutto
rimase guasto, e perdè le semente,
ed a più anni appresso non fe frutto;
e gli Astrolaghi disser, che mostrata
avea tal pistolenza, e 'l tempo brutto
la stella, che si vide in Ciel comata
mille trecenquattordici; che fanno,
com' io ti dissi per altra fiata,
le stelle, segni di futuro danno.
Iddio ce 'l mostra, e dacci pena molta,
perchè noi stessi ci facciam lo 'nganno.
Tempo è omai da sonare a ricolta,
e mutar cibo, acciocchè non rincresca
leggere a te, ed udire a chi ascolta.
Nell'altro Canto avrai materia fresca.
c. 52, argumento
Nazion di Papa Giovanni per certo,
e della pace tra noi, e' Pisani,
che per se, e per noi fece il Re Ruberto;
e come poi si fondò con letizia
il ponte della porta alla giustizia.
c. 52
A voler pienamente raccontare
chi Papa fu dopo Papa Chimento,
di cose addietro mi convien toccare.
Che un garzone d' onesto portamento,
figliuol d' un ciabattier fu di Caorsa,
che si partì da lui con poco argento;
e benchè si sentisse poco in borsa,
per istudiare sen' andò a Parigi,
e 'n Corte del Re Carlo fe ricorsa.
E quivi piacquer tanto i suo' servigi,
ch'egli studiava a spese del Signore,
e di scienza s' empiè le valigi.
Crescendo, il Re gli pose tanto amore,
che non bisogna, ch'io più te ne parli;
ma di Verguì il fe Vescovo, e Pastore.
Morendo poi l' Arcivescovo d' Arli,
ch'era del Re Ruberto Cancelliere,
ed a lui piacque tale uficio darli.
Poi a più tempo stando in tal mestiere,
volendo sormontar suo stato alquanto,
gli venne un dì un malvagio pensiere;
e per parte del Re al Padre Santo
scrisse, falsificando il suo uficio,
raccomandandosi al Papale ammanto,
che 'l permutasse a maggior benificio.
Ma quando il Re Ruberto seppe quello,
ch'egli avea fatto contro a suo giudicio,
subitamente gli tolse il suggello,
e 'ndegnò contro a lui, com' io ti dico,
sanza mostrar di sapere il tranello.
Il Papa, ch'era del Re per antico,
fe Cancellier Vescovo di Vignone,
di cui il Re diventò poi amico;
ed ei sen' andò in Corte a sua magione.
Morì Papa Chimento, e' Cardinali
si raunar, per far nuova lezione.
Gli animi quivi non furono iguali,
che volendo i Guascon fare un di loro,
contraddisser Toscani, e Proenzali;
sicchè per la discordia di costoro
fe Santa Chiesa continuamente
due anni, e più senza Papa dimoro.
Allor veggendo, che tutta la gente
li riprendea della lor discordia,
si raunaro insieme, e finalmente
commiser le lor boci di concordia
nel Pastor di Vignon, che cui volesse
chiamasse Papa per misericordia.
Credettero i Guascon, ch'egli eleggesse
quel di Bedersì, Cardinal Guascone,
o quel di Pelagrù Papa facesse.
Ma il Cardinal Messer Napoleone,
ed altri Cardinali Taliani
gli disser, che rimossa ogni cagione,
non si lasciasse uscir di tra le mani
la signoria; che a diritto, e a torto
chiamasse se, faccendo gli altri vani.
Quando e' si vide dar cotal conforto,
e mostrar, come questo gli era pregio,
e non vergona, fu presto, ed accorto;
e poichè raunato fu il Collegio
de' Cardinali, con molti altri savj,
ed e', che del parlar fu molto egregio,
disse: Acciocchè poi nissun si gravi,
pregate Iddio, ch'io nomi il migliore
per Santa Chiesa, e per le sacre Chiavi.
Intendo d' esser io Sommo Pastore;
datevi pace, che quest'è il men reo,
ed è così volontà del Signore.
Allora con gran festa, e giubileo
i Cardinal, che l' avean consigliato,
incominciaro a cantare il Taddeo.
Così fu scritto, e per lor confermato,
e fu Papa Giovanni ventidue
per l' universo a sua vita nomato.
Del Re Ruberto grande amico fue,
come più innanzi il Libro manifesta,
dove racconterem l' opere sue.
E 'ncoronato fu il dì della festa
di nostra Donna di Settembre, l' anno
mille trecento sedici; con questa
Poi diede compimento con affanno
al Dicretal, che fe di virtù misto
Papa Chimento, come molti sanno.
E poi la Pasqua del Corpo di Cristo
fe rinovare, e diè grande indulgenza
a chi fosse all' uficio a farne acquisto;
e ad ogni Cristian, che 'n sua presenza
ode il nome di Cristo, ed a quel suono
si china alquanto a fargli riverenza,
diede quaranta giorni di perdono.
Questo nel mille trecento diciotto
fe, secondoch'io trovo, e ch'io ragiono.
Nel diciassette torna il mio condotto,
che 'l Re Ruberto con savj pensieri
fece la pace co' Pisan di botto.
E' Fiorentini, e gli altri Guelfi altieri
ancor seguiron la sua volontade,
e pace fer molto malvolentieri.
Il Re fu biasimato di viltade,
perocchè i patti parver disonesti,
e pare a me così la veritade.
E' patti, ch'ebbe il Re, si furon questi:
che 'n tutte sue general cavalcate
ogni fiata, ch'e' fossero richiesti,
gli dovean dar cinque galee armate,
o la moneta, che montasse quella
cotale spesa, secondo l' usate;
e ad onore di Dio una Cappella
dovean far per l' anime de' morti
della sconfitta, onorevole, e bella;
e' Fiorentin francare in tutti i porti,
e 'n Pisa, e 'n Lucca, e lasciare i prigioni,
e 'n ciò, che si tenean, si stesser forti:
altro non v'ebbe, che quì si ragioni.
Nota Lettor, ched ogni piccol male
è duro a fare, che oggi si perdoni;
e 'l Re Ruberto del fratel carnale,
e de' nipoti morti a sì gran pieta,
fe co' nemici pace generale.
Firenze appresso disfè la moneta
de' bargellini, e fenne una da venti,
che poco stette, ch'ella fu divieta.
Poi fecer grossi da trenta correnti,
e da quarantacinque, e pe 'l divaro
anche regnaron poco fra le genti.
Nel detto tempo i Fiorentin fondaro
dalla Giustizia la costa del Ponte,
che a piè della Torre fa riparo.
Appresso poi alle cose racconte,
il Re Ruberto fece a mano, a mano
armata grande, con ardita fronte;
Di qual Messer Tommaso da Marzano
fu Ammiraglio, e 'n Cicilia passato,
guastò il paese per monte, e per piano.
Per tutto quel Don Federigo armato,
non venne alla difesa ne' suo' danni,
ma di triegua da parte ebbe trattato;
la qual fermò, e fece per cinque anni,
e certe Terre acquistate co' suoi
diede alla guardia di Papa Giovanni,
e 'l Re Ruberto le riebbe poi;
onde Don Federigo di palese
fu ingannato, come appare a noi.
Nel detto anno, d' Agosto, il Ferrarese
si rubellò dalla Chiesa, al ver dire,
e prese poi la signoria il Marchese.
Nel detto tempo, volendo venire
Uguccion detto alla Città Pisana
per un trattato, che credie fornire,
essendo già venuto in Lunigiana,
si scoperse il trattato, e venner manchi
i suo' pensieri, e la speranza vana;
e con furore a casa de' Lanfranchi
si gridò: Muoian questi traditori;
dando lor delle lance per gli fianchi.
Poichè ebber morti quattro de' maggiori,
mandar gli altri a' confini, e 'n Lombardia
Uguccion si tornò con più dolori.
Castruccio poi fe lega, e compagnia
col Conte Gaddo, e cavalcò Spinetta,
ch' ad Uguccione il passo dato avía,
e tolsegli più Terre per vendetta,
le qua' tenne buon tempo con molt' arte;
pognian, che poi tornassero a lor setta.
Allora Genova era a Guelfa parte
per la forza del Re; ma pur tornati
gli Spinoli eran dentro con lor sarte.
Veggendosi da' Guelfi dominati,
furon con gli Ori, e come si ragiona,
se n' andar fuor, senz' esserne cacciati.
Appresso poi Messer Can da Verona,
con altri Ghibellin, con cui si tenne,
pose l' assedio d' intorno a Chermona.
Poi per la forte piova, che allor venne,
che diventaro i paesi pantani,
per viva forza partir gli convenne.
Appresso cavalcò su i Padovani,
e prese molte Terre delle loro,
e i Ghibellin vi tornar per sue mani.
Nel diciotto poi senza dimoro
gli usciti Genovesi di lontano,
come que', che non stan senza lavoro,
fer lega co' Visconti da Melano,
ed altri assai; ond' è, che molta gente
mosse Messer Maffeo lor Capitano.
A Genova n' andò, e di presente
presso alla Terra fermò sua bandiera,
come ordinato s' era primamente.
Gli usciti, ed altri assai nella Riviera
assediaro Albigano, e la vittoria
n' ebber, perocchè poca gente v'era.
E Messer Adoardo, di que' d' Oria,
prese Saona, e fella rubellare
da' Genovesi, come quì si storia.
E più Terre potien signoreggiare
gli usciti sopraddetti nel Ponente,
e nel Levante Monserici pare.
Nel predetto anno Messer Can possente
conquistò di Chermona il signoraggio,
con gran danno de' Guelfi veramente.
Ancora nel predetto anno, di Maggio,
avendo i detti usciti Genovesi
Codifaro assediato di vantaggio,
que' dentro di fornirsi erano attesi,
e dalla Torre, ch'era sopra mare,
tiravan dentro pane, ed altri arnesi.
Gli usciti cominciavano a tagliare
da piè la Torre, donde sgomentati
que' dentro s' arrendero per campare.
E poichè furo in Genova tornati,
fur giudicati a morte, e co' dificj
furon fuor della Terra traboccati;
perchè si disse, ch' avien da' nemici
ricevuti danari, e confessando,
fur giudicati, come vedi quici.
Onde gli usciti poi continuando,
presero i borghi di Genova al certo,
e quivi si ridusser guerreggiando.
E' Guelfi allor mandaro al Re Ruberto,
che soccorresse Genova assediata;
e quel Signor, siccome savio, e sperto,
subitamente fece grande armata,
e poi col Prenze, e con gli suo' fratelli
inverso Genova fece l' andata.
Com' el fu giunto in Genova, e quelli,
ch'eran di fuori alla montagna andati,
si ristrinsero insieme adorni, e belli.
E' Cittadin tenendosi francati,
diedero al Re la Terra per dieci anni,
ond' egli, e' suoi ne fur molto allegrati,
perchè gran voglia n' avie sanza inganni;
poi concedetter tutta la Riviera
per simil tempo a quel Papa Giovanni.
Ma l' oste degli usciti, che 'ntorno era,
crebbe di molta gente d'ogni lato,
e fecer lega con allegra cera
col Sir Costantinopoli pregiato,
e con Don Federigo, e co' Pisani,
e con Castruccio, e quel di Monferrato.
Stando all'assedio, più volte alle mani
fur con que' dentro, e di dì, e di notte
vi traboccavan con molti mangani;
ed ebber parte delle mura rotte,
e di presso alla porta a Santa Agnesa
dentro ne fur più brigate condotte.
Ma come il Re sentì cotale offesa,
co' suoi si fu armato a mano, a mano,
e fu contro a' nimici alla difesa,
E fuor gli pinse colla spada in mano,
e fe rifar le mura incontanente,
ed afforzar dovunque era più vano.
E poi pensando sopra il convenente
iscrisse per Toscana a Guelfi assai,
che gli mandasser soccorso di gente.
E' Fiorentin, che furo de' primai,
gli mandar cento Cavalieri armati,
e cinquecento a piè gigliati, e gai;
e così gli altri Guelfi ebber mandati
Cavalieri, e pedon per tal cagione,
fuorchè i Pisani, ch'erano impacciati.
E tutti fer la via da Talamone,
e 'n Genova veduti volentieri
furon dal Re, e dall'altre persone.
Trovossi il Re dumila Cavalieri,
e molta gente a piè di valimento,
Italiani, ed altri forestieri.
Que' di fuori eran mille cinquecento,
e a piè, chi con balestro, e chi con arco,
avean di popol grande assembramento.
E Capitan di lor fu Messer Marco
Visconti da Melan, che si tenea
co' suoi al poggio, per fuggire incarco.
E 'l Re con lui campeggiar non potea;
faceano insieme guerre guerriate
con badalucchi, ed altro non avea.
E così guerreggiaron tutta state,
ed una parte del vegnente verno,
senza avanzar l' un l' altro due derrate.
E Messer Marco allor, s'i' ben discerno,
sappiendo, che il Re di vittuaglia
fornì la Terra, e d'ogni buon governo,
Richiese il Re Ruberto di battaglia;
cioè, ch' a corpo a corpo combattesse
con lui insieme, senza più travaglia.
E chi l' un l' altro di lor due vincesse,
di Genova Signor po' fosse queto,
e l' altra gente partir si dovesse.
E 'l Re Ruberto, siccome discreto,
rispose: Messer Marco non potrebbe
altro, che pregio aver di tal dicreto;
ma s' e' fosse mio pare, e' non sarebbe
ora a 'nvitar; che per la parte nostra
il primo dì il messaggio avuto avrebbe:
sicchè la grande voglia, che dimostra
della battaglia, saria soddisfatta;
ma io non vo con gli asini alla giostra;
e diede al messo una roba scarlatta.
Udita Messer Marco la risposta,
la sua mandata riconobbe matta,
e molto si pentè della proposta.
c. 53, argumento
Del Re Uberto in Genova assediato,
che uscì fuori, e mise in isconfitta
gli usciti, e gli altri, ch'eran dal lor lato;
e di più altri fatti pur di loro,
che Genova assediar senza dimoro.
c. 53
D' Ottobre, nel detto anno, in Siena nacque
scandolo, e romor mosso da' rei,
talchè a tutti i buon forte dispiacque;
del qual fu capo Messer Sozzo Dei
da più seguito, siccome udirai,
e Messer Deo ancor de' Tolomei,
con Giudici, Notai, e Tavernai,
e dimolti altri di lor Cittadini,
per mutar modo, e furvi presso assai.
Essendo tutti ad arme i Fiorentini,
che n' andavano al Re, vi si trovaro
co' lor soldati, come pellegrini.
Onde teneramente li pregaro
que', che tenevan l' uficio de' nove,
sicchè lor voglia tutti seguitaro;
ed in que' fatti fer sì fatte prove,
che que', che si trovaron congiurati,
furon cacciati, e giro a stare altrove.
Onde per questo, e per altri peccati,
in Siena sempre fu divisione
da poi in quà, che que' ne fur cacciati.
E quel fu veramente la cagione,
ch' al Re Ruberto non avien mandato.
Or torno a seguitar di lui sermone.
Già era stato in Genova assediato
il Re se' mesi, e più, che que' di fuore,
non potie danneggiar da niun lato;
quando partito prese pe 'l migliore,
d' esser appetto a lor, perchè lo stare
rinchiuso si recava a disinore.
E questo già non si poteva fare,
se non uscisse dal lato del porto,
e certa volta poi desse per mare.
Ond' el montò insul navilio accorto,
dì quattro di Gennaio, ardito, e presto,
con tutta la sua gente a gran conforto;
ed arrivò nel paese di Sesto,
dove i nimici mandaro al riparo
dimolta gente, quando sentir questo,
e 'l passo fortemente contastaro.
Ma i Fiorentini, se 'l libro non erra,
dinnanzi a tutti gli altri s' affrontaro,
e furono i primier, che preser terra;
e molti d'ogni parte ne fur morti,
dando, e togliendo, come va di guerra.
Allora gli altri furon tutti accorti
a prender terra con sì grande folta,
che gli avversar veggendoli sì forti,
in isconfitta tutti dier la volta;
ne' borghi rifuggiro gli scampati,
e 'nverso di Saona gente molta.
Non volle il Re, che fosser seguitati,
perchè a Monte Peraldo aveva gente,
che forse i suoi avrebbe danneggiati.
I quali appresso la notte vegnente
si dipartir lasciando molti arnesi,
e que', ch'eran ne' borghi similmente.
E dopo questo i Guelfi Genovesi
rafforzarono i borghi a tutte prove,
e più Fortezze disfer ne' paesi.
Poi nel mille trecento dicennove,
d' Aprile, il Re lasciò Vicario forte
in Genova di gente, e poi si muove,
e di presente se n' andò in Corte.
Ma come fu partita la Corona,
ricominciar gli usciti nuove sorte.
Con loro armata arrivaro a Saona,
e quivi molta gente raunaro
a cavallo, ed a piè; ciò si ragiona.
Sicchè a' tre di Agosto ritornaro
a Genova per terra con lor oste,
e colle lor galee nel porto entraro.
E l' una parte combattea le coste
de' borghi, e l' altra il Porto combattea,
e d'ogni parte ebber franche risposte.
Quando il Vicario del Re ciò vedea,
pensò d' uscir di fuor con sua compagna
appetto a loro, e così si facea,
e lor percosse nel pian di Bisagna;
ma conquistar vi potè poco onore,
che si ricolser tutti alla montagna.
La gente tornò dentro, e que' di fuore
nientemeno e per terra, e per mare
combattevan la Terra a tutte l' ore.
Alquanto quì mi ti convien lasciare,
per alcune altre cose, ch'io comprendo,
che furono in quel tempo; ciò mi pare.
Nel dett' anno, d' Agosto, non volendo
i Padovan rimettere gli usciti
nella Città, per gli patti dovendo,
Messer Can della Scala, ed altri arditi
v' andaro a oste, e 'n breve fecer tanto,
che li rimison dentro a due partiti.
Nel predetto anno i Fiorentin d' accanto
mandaro in Lombardia, se chiaro veggio,
gente, favoreggiando i Guelfi alquanto;
co' qual Messer Ghiberto da Coreggio
prese Chermona, ch'era Ghibellina,
e fella Guelfa, per tema di peggio.
Ancora nel dett' anno, una mattina
il Vicario del Re, ch'era in Piemonti,
Alessandria assediò per sua dottrina;
e mandando per legni per far ponti,
dugento Cavalier fur morti, e presi
in guato da Messer Marco Visconti.
Ritornoti agli usciti Genovesi,
che per forza acquistar Monte Peraldo,
e' borghi, come prima, ebber ripresi;
e con quella vettoria, e con quel caldo
in pochi dì conquistar Codifaro,
un Castelletto molto forte, e saldo.
Quivi regnando, per lo verno amaro,
l' armata degli usciti, ebber fortuna,
ed otto lor galee senza riparo
ruppero a Chiaver tutte, ad una, ad una,
ed a Saona n' andar le scampate;
ed in quel tempo, e per quell'aria bruna
da dodici galee del Re armate
quivi arrivaro, e quelle di Saona
voller combatter, perch'eran piegate.
Que' fur più gente, e come si ragiona,
miser la gente del Re al di sotto
per modo tal, che ciascun s' abbandona,
e delle lor galee presero otto.
Sentendo i Genovesi la novella,
con trentasei galee vi fur di botto;
ma poter poco danneggiare in quella;
sicchè per questa volta andaro indarno,
e 'n Genova tornò la gente bella.
Nel detto anno due volte ghiacciò l' Arno
sì, che parea di smalto murato,
e senza dubbio molti su v' andarno.
Nel detto tempo ancora, per trattato
del Conte a Monte Feltro traditore,
fu di Spoleto ogni Guelfo cacciato.
E preserne dugento con furore,
e misergli in pregione: e' Perugini
giugnendo tardi al soccorso di fuore,
assediaron la Terra; e' Ghibellini
da lor fecero Ascesi rubellare;
onde lasciaro star gli Spoletini,
ed assediaro Ascesi, ciò mi pare.
Onde gli Spoletin per tal cagione,
volendosi de' Guelfi vendicare,
corser col fuoco ov'erano in prigione,
e tutti gli arser quella gente rea,
senza pietà, contro a ogni ragione.
Mille trecendicennove correa,
quando il Re di Tunisi cacciato
da un de' suoi, che per se la tenea,
con gli Arabi si fu accompagnato,
ed assediò la Terra, e finalmente
cacciò quel, che se n' era incoronato.
E come ne fu fuori, incontanente
fe col Re di Cicilia per moneta,
che Tunisi assediò colla sua gente.
Que', ch'eran dentro, già facean dieta,
quando al Re detto fu, che per contanti
Don Federigo gli facea far pieta;
e di presente gliene mandò tanti,
che si rivolse, e fornigli la Terra
di ciò, che nicistà avie davanti.
Poi rincrescendo a quell'altro la guerra,
che non credea, ch'egli avesse rimedio,
sì l' aveva condotto a stretta serra,
quando il sentì fornito, dallo assedio
si fu levato, e prese altri cammini,
e quel rimase Signor senza tedio.
Così ingannò quei due Re Saracini
Don Federigo; ed ebbe di tal cosa
ben quattrocento miglia' di fiorini.
E nel milletrecentoventi chiosa,
che Castruccio, sentendo, che sommosso
era Messer Filippo di Valosa,
che a Messer Maffeo andasse addosso,
a priego suo, e d' altri Ghibellini,
con molta gente subito fu mosso;
e rompendo la pace a' Fiorentini,
insieme colla forza del Pisano,
ch'erano a lega, ed anche eran vicini,
prese Monte Falcone, e poi Cappiano,
e sopra la Gusciana prese il ponte,
e corse insino ad Empoli quel piano.
Ed ebbe appresso Santa Maria a Monte,
e' traditor, che gliel' avevan data,
ne menò seco con turbata fronte.
E guerreggiando poi altra fiata,
recò più Terre alla sua signoria
per forza d' arme; onde si fu turbata
la 'mpresa, che avien fatta in Lombardia
il Papa, e 'l Re Ruberto con lor setta;
e questo basti di tal diceria.
Essendo dagli usciti molto stretta
Genova, e la Riviera corseggiando,
acciocchè dentro roba non si metta,
que', ch'eran dentro, a questo riparando,
con trentadue galee senza dimoro
per mar gli usciti andar perseguitando.
A Lerici giungnendo, tolser loro
una carica cocca, ed altri uscieri,
che a lor bisogno valieno un tesoro,
e mandar per dugento Cavalieri.
Quando gli usciti li vider venire,
appetto a loro sceser volentieri.
E' Cavalier del Re con tanto ardire
li percosser, che a lor non parve giuoco,
e dier la volta nel primo fedire.
Ond' egli il porto, e le galee al fuoco
misero, e poi tornaro a mano, a mano,
dell'altre cose curandosi poco.
Poi il Vicario assediò Albigano,
il quale ebbe per forza, e poi contenti
ubbidir, quasi tutto il Trivigiano.
E 'l Papa avendo più comandamenti
fatti a Messer Maffeo, che tal mesterio
da Genova partisse, come senti;
rispose: Genova è Terra d' Imperio,
e non del Papa, che già non lo scrisse
l' antico Tito Livio, nè Valerio.
E 'l Padre Santo Melano intraddisse,
e qualunque altra Terra in Lombardia,
che sotto sua signoria ubbidisse;
e fe quel di Valosa entrare in via,
con settecento sotto la Reale,
volendo abbatter quella tirannia;
e mandovvi un Legato Cardinale,
con ottocento molto arditi, e presti
ad ubbidire ad ogni suo segnale.
E giunto con sua gente innanzi ad esti,
sentendo, che 'n Vercelli combattieno
i Guelfi, e' Ghibellin tra lor molesti,
Messer Filippo non ritenne freno:
tra Vercelli, e Novara si fu messo,
curandosi degli altri un uovo, e meno.
Sentendo ciò Messer Maffeo, adesso
vi mandò i figliuo', Messer Galasso,
e Messer Marco, ed ottocento appresso;
ch' appetto a lui si posero ad un passo,
e poi mandar pregando quel Signore,
che gli piacesse udirgli più di basso.
Messer Galasso era un bel parlatore,
e quando fu con lui, disse: Messere,
ciascun di noi è vostro servidore,
e però priego, vi debbia piacere,
di non venire in contrario di noi,
a petizione altrui, contro al dovere;
che noi siam quì con più gente di voi,
ma non faremo contro al Re di Francia
mai villania, nè contro alcun de' suoi.
Messer Filippo ciò non ebbe a ciancia,
ma consigliato da' suoi savj cari,
l' altra mattina si partì per mancia.
Dissesi allor, che dimolti danari
il Maliscalco suo n' ebbe contanti;
siccome fanno talvolta gli avari.
Poichè partiti si furon davanti,
e li Visconti acquistar quel Vercello,
e cacciaronne i Guelfi tutti quanti.
Messer Filippo diè loro un Castello,
ed ebbe diecimila fiorin d'oro,
e 'n Francia si tornò sanza rappello,
con gran vergogna; e di cotal lavoro
si scusò, che 'l Pa' non gli avea mandato
danari, e gente, come i patti foro.
Per tutto ciò, che di sopra ho cantato,
l' assedio a Genova non ismagò fiore;
ma d'ogni parte si fu rafforzato.
E fecer lega collo Imperadore
Costantinopoli, e Don Federigo,
e con Castruccio, di Lucca Signore;
il qual con molta gente, com' io rigo,
andò nella Riviera di Levante,
ed acquistovvi; ma di ciò mi sbrigo.
Ne' borghi crebbe la gente davante
tanto, che misero il campo in Bisagna,
per assediar l' entrate tutte quante.
Don Federigo fece armata magna,
poi la mandò a quello assedio adorno,
con dugento a cavallo in lor compagna;
per terra, intorno, intorno
l' assediar sì, che non poteva un' aglio
entrarvi, nè uscir notte, nè giorno.
Messer Currado d' Oria era Ammiraglio,
e tennela sì stretta d'ogni cosa,
ch'esser parea a que' dentro in gran travaglio;
perocchè questi mai non avia posa,
faccendola a tutt' ore ben guardare,
e spesso ricercare alla nascosa;
e se trovava per terra, o per mare
alcun, che dentro roba conducesse,
incontanente il facea impiccare.
Onde ciascun parea, che ne temesse
sì, che la gente dentro stava male,
nè conoscien, che rimedio ci avesse;
e nondimen traieno ad un segnale,
di far della Città magna difesa,
perocchè di suo stato a ciascun cale.
Ma perch'io son, secondo la mia impresa,
dove 'l Capitol finisce suo corso,
la guerra in questo più non ho distesa;
nell'altro seguirò del suo soccorso.
c. 54, argumento
Del soccorso di Genova assediata,
e di Castruccio; e siccome i Cristiani
furo sconfitti dal Re di Granata.
Dell' uficio di dodici creato,
e di Romeo de' Peppoli cacciato.
c. 54
Essendo intorno Genova assediata,
e già richiesti il Papa, e 'l Re Ruberto,
che soccorresser, fecer grande armata;
della qual fue Ammiraglio per certo
Messer Ramondo, che la bella schiera
a Genova guidò, siccome sperto.
Quando il sentiro que' della Riviera,
ne venner subito a Porto Pisano,
poi verso Napoli n' andar mane, e sera.
Giunti all' Isola d' Ischia a mano, a mano
misero in terra Cavalieri, e gente,
e l' Isola guastar tutta di piano.
E quando l' Ammiraglio del Re sente
l' andata lor, di dietro a lor si fischia,
con tutta sua armata arditamente,
ed una sera insull' Isola d' Ischia
li sopraggiunse; ma coloro in mare
ricolti furon, per fuggir la mischia.
Volendogli il Maggior perseguitare,
trenta galee, che avea del Principato,
disse, che si volean rinfrescare,
ed andarsene a Napoli d' allato,
e l' altre quivi posate alcun giorno,
a Genova il cammino ebber rizzato.
Giunti eran gli altri già sanza soggiorno,
gridando, che l' armata avean rotta,
per dare a' Genovesi dentro scorno.
Così avvenne per mala condotta,
ovver per non ubbidire il Maggiore,
che l' armata fu guasta in poca dotta.
Che se Messer Ramondo con furore
seguito avesse i nemici fuggenti,
veracemente egli era vincitore.
Nel detto anno Castruccio con sue genti
addosso a Genova andò con sua lega;
e per ritrarlo i Fiorentini attenti
in quel di Lucca adoperar la sega.
Quando a Castruccio quel venne all' orecchio,
con tutta la suo gente addietro piega,
e' Fiorentin tornarono a Fucecchio,
e poi Castruccio si fermò a Cappiano,
e l' un dell'altro potie fare specchio.
Più mesi stettero in quel luogo strano,
e poi se ne partiro per la piova,
ch'era già fatto il paese pantano.
E ciò, che si acquistò di questa prova,
si fu, di far tornar Castruccio addietro,
che Genova valea men di tre uova.
Quando gli usciti udir ciò, ch'io t' impetro,
cioè, come Castruccio era impedito,
per temenza del verno mutar metro.
Scesero in terra con aspro partito,
e combattér due volte la Cittade;
all' ultima il Vicar fu fuori uscito,
e' Cicilian percosse, e colle spade
li fece rifuggire insulle navi,
e fur morti di lor gran quantitade.
E d' andarne a Saona non fur gravi
una gran parte, e l' altra si ricolse
alla montagna, e furon molto savj.
L' ultimo dì di Settembre si sciolse
Genova dall'assedio de' Mugaveri,
e degli usciti, siccome Iddio volse.
Gli usciti di Dicembre preser Chiaveri,
e col Marchese appresso acquistar Noli,
dove avea gente a seme di papaveri.
A voler ben contare i fatti soli,
che i detti usciti fero alle lor mani,
due libri basterien, come tu vuoli.
Dissesi allor con gl' intelletti sani,
che non fu aspra guerra, nè sì magna,
inverso se la guerra de' Troiani.
Nel detto anno il fratel del Re di Spagna,
co' Cristiani sopra al Re di Granata
andò con molta gente in sua compagna,
e non possendo per quella fiata
riparo fare a' suo' cocenti duoli,
co' suoi Saracin, gente male armata,
corruppe certi Baroni Spagnuoli
sì, che non seguitaro il lor Signore,
quando assaliti fur da quegli stuoli;
onde da' Saracin fur con furore
sconfitti, e morti, e presi diecimilia
Cristiani, e più, per così fatto errore.
La Spagna corsero insino a Sibilia,
usando ogni vergogna, e villania
contro a' Cristiani, cui ognun s' aumilia.
Appresso uno Ammiraglio di Turchia
andò per prender l' Isola di Rodi,
che la magion dello Spedal tenia,
con ottanta galee, e legni sodi,
ed il Comandator di que' paesi
del suo scampo non vedeva i modi.
Giugnendo sei galee de' Genovesi,
ed e' n' avea quattro, ed altri legni
minor, forniti ben di tutti arnesi,
siccome savio, e sperto, e pien d' ingegni,
uscì di fuori, e valorosamente
percosse a loro, e siccom' eran degni,
li ruppe, ed isconfisse incontanente,
e molte lor galee a quella stretta
fe profondar, con molta di lor gente.
E poi sentendo, che in un' Isoletta
cinquemila di lor s' eran nascosti,
sì gli assediaro; i qua' con molta fretta,
veggendosi i nimici sì alle costi,
sì si arrendero a quel Comandatore;
e poichè gli ebbe tutti a Rodi posti,
i vecchi uccise, e que', che avien valore
per ischiavi vendè, e fu tenuto,
ch'e' ricevesse allotta grande onore.
Nel detto tempo Messer Can venuto
a Padova all'assedio, e stato un anno,
come dinanzi puoi aver saputo,
sconfitti i Padovan, come ancor fanno,
e prese lor Fortezze, e serragliati,
che non potien ricever maggior danno,
al Duca d' Osterlicchi si fur dati;
ond' el diè loro il Conte d' Aurizia,
con altri molti Cavalieri armati,
e 'n Padova accettati con letizia;
e Messer Can con sua superbia fronte,
curava poco di quella milizia.
A' dì venti d' Agosto il detto Conte,
con tutta la sua gente fuori uscito,
a Messer Can fece vergogna, ed onte.
E fu sconfitto, atterrato, e fedito;
ma un de' suoi gli diè una cavalla:
se ciò non fosse, rimanea ghermito.
Ma molta di sua gente intorno avvalla,
che furon morti, e presi in quella scuola,
ed el fuggì, com' un fante di stalla.
Ed essendo Uguccion della Fagiuola
venuto, per atarlo in ogni guisa,
là si morío in una Terricciuola.
Nel detto tempo il Conte Gaddo in Pisa,
si disse, ch'era stato avvelenato,
perchè morì di subito, s' avvisa.
Ed in suo luogo fu Signor chiamato
Conte Rinieri saputo, e segace,
che con Castruccio poi si fu legato.
Nel detto tempo, per compier la pace,
il Conte de' Fiamminghi co' Franceschi
venne a Parigi, ed al Re molto piace.
Ed acciocchè tra lor l' amor rinfreschi,
all' un figliuol del Conte diè per moglie
la figlia sua, con atti gentileschi.
Luigi fu, che volentier la toglie,
ch'era nomato Conte d' Universa,
ed adempienne tutte le sue voglie.
E perchè sempre poi fosse sommersa
la guerra, ventidue anni durata,
più Terre il Conte lascia, ed al Re versa;
e in venti anni promise dar d' entrata
mille miglia' di lire Parigini
al detto Re; e così fu fermata.
Poi, come invidia nasce tra' vicini,
dov'era pace, nacque grand' errore
tra i due fratelli, e non da picciolini.
Perocchè 'l Padre amava più il minore,
cioè Ruberto, perch'era più degno,
e faciel quasi del tutto Signore.
Onde Luigi prese molto sdegno,
parendogli esser dal Padre ingannato,
per la baldanza, ch'egli avea del Regno.
Regnando insieme in così fatto stato,
trovar, che 'l Padre loro ad un mangiare
esser dovea d' alcuno avvelenato.
Fu detto, che Luigi il facie fare;
onde il minor signoreggiando mise
in prigione il maggior, per ammendare.
Onde discordia crebbe in tutte guise,
e chi coll' un, chi coll'altro teneva;
e così quasi Fiandra si divise.
Bruggia si rubellò da chi reggeva,
poi s' accordaro, siccome discreti,
reggendo chi con Luigi teneva.
Nel detto anno, d' Agosto, i Guelfi a Rieti
cacciaro i Ghibellini, e cinquecento,
e più n' uccisero, e altri fur divieti.
E poi a quattro mesi di ver sento,
ch'essendo i Guelfi ad oste ad Arione,
i Ghibellin, con loro assembramento
rientrarono in Rieti, e lor Campione
fu Sciarra Colonnesi, e fuor cacciaro
i Guelfi poi con grande afflizione.
E nel mille trecento ventun chiaro,
Firenze lega fe con Ispinetta
Marchese, ch'era a Castruccio contraro;
e diegli gente, che con molta fretta
racquistò parte di quelle Castella,
che Castruccio avie prese per vendetta.
E' Fiorentin per sì fatta novella
mandaro ad oste a Monte Vettolino
ottocento a caval di gente bella.
Quando Castruccio sentì il Fiorentino,
aiuto chiese al Signor di Melano,
e ad ogni altro amico Ghibellino.
Sicchè in Lucca si trovò di piano
mille secento Cavalieri, e venne
incontro a' Fiorentini a mano, a mano;
pe' quali il campo levar si convenne,
e ricolti si furo a Belvedere
i Fiorentin, per non perder le penne.
Castruccio li seguì colle sue schiere,
e se la sera gli avesse percossi,
era vincente, ed avie suo volere,
perchè i suo' Cavalieri eran più grossi,
e puossi dir, che avieno ogni vantaggio
da que', che s' eran per temenza mossi.
Guido della Petrella, come saggio,
mostrando d' aspettar più grossa gente,
con badalucchi fe lor molto oltraggio.
Piovendo forte la notte vegnente,
fece di fuochi grandissimo vampo,
come combatter volesse al presente,
e diè la volta, e lasciò i lumi, e 'l campo,
e tutta quanta la sua gente armata
mise per le Castella sanza inciampo.
Non fu di campo più bella levata,
già è cent' anni, con savia dottrina,
che fece il Capitan quella fiata.
Quando Castruccio vide la mattina,
ch'eran partiti sì alla cortese,
gli fu al cuore una pugnente spina;
e venti giorni corse quel paese,
guastando, e ardendo in tutti que' sentieri;
poi si tornò alla Città Lucchese.
E' Fiorentin mandar pe' Cavalieri,
ch' avea Spinetta, e poichè fur tornati,
Castruccio volse a lui tutti i pensieri;
e que' Castelli, ch' avea racquistati,
tutti riprese, e degli altri migliori
gli tolse, tra per forza, e per trattati.
Nel predetto anno in Firenze i Priori
fur biasimati d' alcun malificio
da' Guelfi, ch'eran di fuor degli onori.
Per la qual cosa si criò l' uficio
de' dodici buon' uomini, che dare
non potean sanza loro alcun giudicio.
Nel detto anno, secondochè mi pare,
Papa Giovanni, collo Re Ruberto,
volendo que' di Piemonte aiutare,
(che sbigottiti rimaser per certo
della partita di quel di Valosa,
che 'l paese lasciò quasi diserto,)
mandar Messer Ramondo senza posa,
con più di mille Cavalier sovrani,
che fosser col Legato ad ogni cosa;
il qual rifè co' Guelfi Taliani
lega, e compagnia tutta palese,
sicchè altri mille n' ebbe per lor mani;
de' quali fu Capitano il Marchese
Cavalcabò di gran sofficienza,
e di buon cuor, perch'era Chermonese.
E' fu dall' una parte di Piagenza,
dall'altra il Patriarca d' Aquilea,
que' della Torre, e di Brescian potenza.
Per lor Chermona, e Crema si tenea,
e guerreggiavano a quel di Melano,
che in Piagenza il suo figliuolo avea.
Messer Galasso, ch'era Capitano
veggendosi la guerra sì di presso,
ed avea il sospetto terrazzano,
per soccorso a Melan mandò un messo,
e' Lucchesi, e' Pisan, per la congiura,
secento Cavalier mandargli adesso.
Cavalcabò er' ito in Val di Tura,
e più Castella avie avute al presente,
e stando sprovveduto alla sicura,
Messer Galasso vi mandò sua gente;
i qua' giugnendo, sanz' altro dimoro
alla battaglia fur subitamente.
E que', che non pensavan di costoro,
sconfitti fur, perocch'eran men forti,
e 'l terzo, e più vi rimaser di loro.
E fu, al mio parer, tra gli altri morti,
il detto Capitan Cavalcabò,
e tutti gli altri al fuggir furo accorti.
Di Novembre fu questo, ben lo so,
e per questa vittoria poi in persona
Messer Galasso co' suoi passò il Po,
ed assediò la Città di Chermona,
e di Gennaio, a dir poche parole,
l' ebbe, e rubò, come quì si ragiona.
E nel predetto tempo scurò il Sole,
e 'l Re di Francia morì senza reda,
e Carlo suo fratel, come si suole,
fu fatto Re della Francesca preda;
come fortuna mi par, che saeppoli,
ed a qual bene, ed a qual mal conceda.
E Bologna, ch' amò Romeo de' Peppoli,
ch'era de' suoi, e ricco oltramisura;
nè vo', che pensi, ch'io me ne colleppoli;
perocchè ciò, che avea era d' usura;
ma ventimila fiorin d'oro l' anno
di suo rendita aveva alla sicura.
Le rime nostre omai si taceranno,
perchè son giunte al segno compitente,
siccome gli altri Capitoli stanno,
e muterem materia nel seguente.
c. 55, argumento
Della morte di Dante, e della vita,
e perchè fu cacciato di Fiorenza,
che la cacciata non avea servita,
e delle gran virtù, che furo in lui,
sol di lui dice, e non parla d' altrui.
c. 55
La mente stata per addietro ardita
di ragionar delle valenti cose,
è al presente tutta sbigottita.
Le rime son diventate ritrose,
ch' aver le soglio con agevolezza,
or con fatica l' ho, e vergognose:
perchè riconoscendo lor grossezza
non hanno ardir di mostrarsi di fuori
sovr' a materia di cotanta altezza.
Detto ho de' Papi, e degl' Imperadori,
senza curarmi del mio grosso 'ngegno,
e di più altri Comuni, e Signori;
Ma sopra tutti mi par, che sia degno
d' esser nomato con un bello stile
colui, del quale a ragionare or vegno.
Bench'io sia tra' dicitor più vile,
che non sarebbe tra' datteri il pruno,
dirò com' io saprò, ma non sottile.
Correndo il mille trecento ventuno,
morì l' eccellentissimo Poeta,
Dante Alighieri, che avanzò ciascuno,
in Ravenna, che ma' poi non fu lieta,
tornando da Vinegia, dov'era ito
Ambasciadore, e fessene gran pieta.
Come vero Poeta fu vestito
colla Corona in testa dell' alloro,
e in sul petto un libro ben fornito.
La bara adorna fu di drappo ad oro,
siccome piacque a' Signor da Polenta,
co' qua' facea continuo dimoro.
Alla Chiesa maggior, per quel ch'io senta,
fu soppellito in ricca sepoltura,
e mai di quella fama non fie spenta.
Quando morì, secondo la scrittura,
di cinquantasei anni era d' etade,
e pianto fu da ogni criatura.
Ed io leggendo n' ebbi gran pietade,
addormentammi, e nel sogno presente
esser mi parve a tal solennitade.
E vidi pianger molto amaramente
sette gran donne, tutte scapigliate
d' intorno a lui colla faccia dolente;
le qua' da lui eran tutte sposate,
e da ciascuna avuta avia la dota,
ond' egli era montato in degnitate.
E la prima di loro, Amico nota,
dicea piangendo: Sopra tutte quante,
posso dolermi; e battiesi la gota.
O caro signor mio, e sposo Dante,
che co' tuoi perfettissimi latini
alluminavi ciascuno ignorante,
chi ci sarà omai, che ben diclini,
che avanzasti Prisciano, e Donato,
che tra gli amanti miei fur de' più fini.
E la seconda, col viso graffiato,
diceva lamentando in tal mestiero:
O Dante mio, chi mi t' ha rubato!
tu non mostravi il bianco per lo nero;
ma ricredente facei chi 'l mostrava
sì, ch' ogni falso vincevi col vero.
Prima di te Aristotile m' amava;
ma poichè avesti tu di me vaghezza,
quasi di lui più non mi ricordava.
La terza, che avanzava di bellezza,
avea il bel viso tutto impallidito,
e lagrimante per la tenerezza,
dicendo: O Dante, ov'è il parlar pulito,
col quale a Tullio togliesti la volta
in rima, e 'n prosa? or se' da me partito.
E la quarta era nel dolor sì involta,
che per lo piagnere avea gli occhi guasti,
e dicea: Or foss'io teco sepolta.
O Dante mio, come multipricasti
di bene in meglio sì, che per natura
ad Euclide a ragione avanzasti.
La quinta, dolorosa in sua figura,
O Dante mio, diceva, o caro sposo,
ch' ogni cosa facevi con misura;
tu fosti al mondo tanto grazioso,
e tanto misurato, ch'io mi vanto,
che Pittagora non fu più famoso.
La sesta appresso diceva nel pianto:
Or chi avrà pietà del mio tormento,
poichè perduto ho l' allegrezza, e 'l canto?
O Dante mio, che non fu mai stormento
al mondo con sì dolce melodia,
nè che facesse ogni uditor contento,
come la tua solenne Commedía,
che accordò sì le corde al suono umano,
che 'l pregio di Boezio s' andò via.
La settima dolente, ad ogni mano
con gran singhiozzi battea le mascelle,
dicendo: Dante, Astrolago sovrano,
tu conoscesti per ragion le stelle
tanto, che Tolomeo per sua virtute
più ricordato non c' era a cavelle.
Ma perch'io non avea giammai vedute
le donne, domandanne alla Salvatica,
ched al mio disiderio diè salute.
Disse: La prima è chiamata Gramatica,
e Loica è chiamata la seconda,
che con Filosofia tien ben la pratica.
La terza, ch' è così leggiadra, e bionda,
che 'n grembo all'altre per dolor si corica,
e par, che quasi tutta si confonda,
è fra la gente appellata Rettorica;
senza la quale (e questo abbi per carta)
al mondo dir leggiadro non si morica.
Ed Arismetrica ha nome la quarta;
la quinta Giumetria, e poi la sesta
Musica ha nome, che tutta si squarta.
L' ultima, che nel piangere è sì presta,
Astrologia ha nome, e tutte a sette
posero a Dante quell'alloro in testa.
E dopo tai parole poco stette,
che una donna piena d' onestade,
da molto più, che l' altre sopraddette,
venne a costoro, e con grande umiltade
nelle fatiche diede lor conforto,
dicendo: Onde vi vien tanta viltade?
Non piangete, che Dante non è morto.
E per noi viverà ancor lungamente,
benchè ricever ce ne paja torto.
Poi si partì, e quei, che primamente
chiarificato dell'altre m' avia,
sanza più domandare, incontanente
disse: Quest'è la santa Teologia,
di cui Dante parlò nel Paradiso
del libro suo con alta maestria.
Io m' appressai, per guardar l' altre fiso,
e l' una disse: Che guardando vai,
idiota, e matto? e diemmi una nel viso;
talchè per la percossa i' mi destai,
e per l' affanno portato nel sogno,
di lagrime bagnato mi trovai.
Or' è di nicistade, e di bisogno,
ch'io dica alquanto della condizione
del gran Poeta, ed io a ciò mi spogno.
Dante fu uom di nobile nazione,
orrevole, ed antico Cittadino
della Città di Firenze a ragione;
ed ebbe le sue case in San Martino,
dov' oggi della lana si fa l' arte,
ed era Guelfo, e non fu Ghibellino.
Ma perchè al tempo, che la Bianca parte
cacciata fu da Carlo di Valosa,
nel mille trecentun, dicon le carte,
Dante era de' Priori, e così chiosa;
sicchè con gli altri per quella cagione
cacciato fu per Bianco senza posa.
E tutti in bando fur delle persone.
Dante allo studio n' andò a Bologna,
poichè si vide fuor di sua magione.
Quivi fornita in parte sua bisogna,
n' andò a Parigi, ove d'ogni scienza
sommo maestro fu senza menzogna.
Poi n' andò in Corte, e 'l Papa in sua presenza
tener lo volle, ma fue una ciancia,
che star volesse a tale ubbidienza.
Appresso se ne andò al Re di Francia,
ed anch'el volle con seco tenere,
e non volle esser sotto sua bilancia.
Dante si dilettava di sapere
le condizioni, e modi de' paesi,
e però gli giovava di vedere.
E più Reami, che non hai intesi,
cercando andò degli uomini valenti,
per disputar con loro i dubbj accesi.
E molti rimaner fe ricredenti,
solvendo le quistioni, e difendendo
le sue ragion, con veraci argomenti.
Dante a quel tempo fu, se ben comprendo,
per lettera solenne dettatore,
e per volgare similmente intendo.
In aringhiera sommo dicitore,
versificar sapea sanza stima
ottimamente sovra ogni Dottore.
E fu il più sommo dicitor per rima,
che fosse allor tra gli uomini mortali,
e fe la Vita nuova d' amor prima.
Poi fece sedici Canzon morali,
tanto eccellenti, e tanto graziose,
che mai d' altrui non si vider cotali.
Poi tre Pistole fece copiose
pure in volgar, con tanto intendimento,
che forse mai non fur sì belle prose.
L' una mandò in Firenze al Reggimento,
mostrando, ch'era sanza colpa fuore
di casa sua, faccendone lamento.
L' altra mandò ad Arrigo Imperadore,
essendo a Brescia, quasi profetando,
che la sua stanza non era il migliore.
E poi la terza, la Chiesa vacando,
mandò a' Cardinali Italiani,
di Papa Italian tutti pregando.
Le qua' venendo alle discrete mani,
fur commendate assai, se ben discerno,
da que', che avevan gl' intelletti sani.
Poi cominciò a compilar lo 'nferno
della Cantica sua, e 'l Purgatoro,
e poi il Paradiso alto, e superno;
e 'n ciascun par, che facesse dimoro,
sì ben distingue le pene, e' peccati,
e sì recita bene i fatti loro.
E così di color, che son purgati
parlò con Filosofiche ragioni,
e dimostrò la gloria de' Beati,
solvendo d' Astrologiche quistioni
colla Teologia, ch'era l' ancudine,
con belle, e nuove comparazioni;
e parlò molto per similitudine.
O quanto questo gli fu greve pondo,
e quanto lunga, e gran sollicitudine!
Dante par, che cercasse tutto il mondo,
e l' aria, e 'l Ciel; che quanto dir sen possa,
esso ne disse con parlar profondo,
con sì bel modo, che la gente grossa
si crede, ch'e' cercasse veramente
li sopraddetti luoghi in carne, e in ossa.
E tal si crede intender veramente,
leggendo il testo, tutte le sue cose,
che la corteccia de' versi non sente.
E tal prende la penna, per far chiose,
che non discerne per la corta vista
le gran sentenze, che vi son nascose.
Che se non è perfetto autorista,
non può comprender la sua poetría,
e benchè legga poco frutto acquista.
Dante fece ancor quella Monarchia,
dove de' Papi, e dello Imperiato
trattò con molta gran Filosofia.
E cominciò un Comento, e trattato
sopra le sue Canzon tutto volgare,
che sol sopra le tre sen' è trovato;
il qual, secondo savio immaginare,
era sì alto dire, e sì perfetto,
che forte mi sarebbe a raccontare.
E cominciò un nobile libretto,
e 'ntitolol De vulgari eloquentia,
nel qual di farne quattro libri ha detto.
Ritrovarsene due con gran prudenzia,
dove riprova li volgar d' Italia,
con be' latini, e con vera sentenzia.
Ben distese in garrire alquanto l' alia
contro a' suo' Cittadin, che per consiglio
gli avevan tolto la poppa, e la balia.
Forse, che 'l fe veggendosi in esilio
contro a ragion cacciato, colla penna,
nè fu di pazienza San Basilio.
Assai cercò, e poi n' andò a Ravenna,
dove trovò Signor sì grazioso,
che mai non si partì da sua antenna.
Dante fu bene assai presuntuoso,
e co' Laici poco conversava,
e di tutti era schifo, e disdegnoso.
Ma simil vita intendo, che portava
ogni antico Filosafo, e fra gente
parlava poco, e poco s' allegrava.
E pare a me, che sia naturalmente,
che l' uom, ch'ha molto senno, chi n' ha meno
malvolentier vuol seco lungamente.
Quel Signor tenea Dante senza freno,
perocchè conosceva sua bontade,
e la sua fantasia; ond' egli appieno
dato gli avea l' albitrio, e libertade,
della qual fu più vago, al mio parere,
che di ricchezze, o d' altra nobiltade.
Provisione avea da Cavaliere,
ed era ben servito, ed onorato,
andare, e star potea al suo piacere.
E quel, ch'io dissi, che avea cominciato,
non seguitò, per l' affrettata morte,
della qual cosa fu, ed è scusato;
perocchè 'l Salvador sì fatta forte
non perdonò a se, nè perdonare
a Dante volle il passo delle porte.
E tali il voller poi calunniare,
che avuto non avrebbono ardimento
nella presenza sua di favellare.
Or chi ci è oggi, ch' abbia sentimento,
eziandio il Papa, e li Cardinali,
che non faccia per Dante ogni argomento?
Dante fu uom de' più universali,
che a suo tempo avesse l' Universo
tra gli scienziati, ed i naturali;
e perpetua fama in ogni verso
alla Città di Firenze ha lasciata,
poichè di questa vita fu sommerso;
perocchè l' ha di pregio incoronata.
E 'n fine egli ha renduto per mal bene,
come si convien fare ogni fiata.
I' priego Cristo, onde ogni grazia viene,
e la sua Madre Vergine superna,
con tutti i Santi, come si conviene,
se in Purgatorio l' anima sua verna,
che la ne tragga per divina grazia,
e conducala a' ben di Vita eterna.
Di ragionar di lui mai non si sazia
la mente mia; però non ti sia grieve,
se alquanto a suo diletto quì si spazia,
ch'io dirò per innanzi assai brieve.
c. 56, argumento
Come Firenze uscì di fedeltade,
e come i Perugini ebbero Ascesi.
Di Pisa, e Siena, e Lucca novitade,
e perchè i Fra' Minor propio non hanno,
e della fiera, che si fe quell'anno.
c. 56
Era nel tempo dinanzi contato,
mille trecenventuno del Signore,
quando in Constantinopoli indegnato
era il figliuol, col padre Imperadore,
perch'egli amava viepiù, che 'l figliuolo,
un suo nipote, e faceval maggiore.
Ond' egli ebbe di questo sì gran duolo,
che mosse contro a lui gran tencione,
e fegli rubellare un grande stuolo.
E veramente quel fu la cagione,
che dibassò gli usciti Genovesi,
e per la sua lasciò l' altrui quistione.
E 'l Papa, che que' dentro avea difesi,
ordinò triegua per tre anni fare
tra li due Re, che s' eran tanto offesi.
Don Federigo non volle osservare,
perch' altra volta si trovò ingannato,
e fece il Re Ruberto disfidare.
Onde il Papa ne fu molto turbato;
scomunicollo, e privollo del Regno,
ed e' n' ebbe il figliuolo incoronato.
Sicchè dipotestando se del segno,
Don Piero avea il Reame tra le mani,
ed egli era il Signor, com' era degno.
Nel dett' anno mandar pe' Friolani
i Fiorentini, e furon cinquecento,
con balestra, e con archi Soriani,
ched a cavallo con molto argomento
correndo avrebbon dato alla chintana;
ed il lor Capitan, pien d' ardimento,
Iacopo ebbe nome da Fontana,
che 'nfin ch'e' fu colla nostra Cittade,
Castruccio mai non valicò Gusciana.
Nel predett' anno uscì di fedeltade
del Re Firenze, che otto anni, e sei mesi
avea sospesa la sua libertade.
Nel ventidue i Baroni Inghilesi
incontro al lor Signor movendo guerra,
e rubellandogli certi paesi,
e Adoardo Re dell' Inghilterra
mandò gran gente addosso a que' Baroni,
e sconfitti, che furo a certa serra,
ne fur menati molti al Re pregioni,
Conte d' Incastro, e Conte di Riforte,
che di tutti quegli altri eran Campioni,
e li predetti condannò a morte
con ottantotto Cavalier, ch' ardire
aveano avuto a così fatte sorte;
e tutti quanti gli fece morire,
per dare assempro a' grandi, e a' piccolini,
che a questo mai non dovesser venire.
Nel ventidue ancora i Perugini
essendo stati più d' un anno a Scesi,
l' ebbero a patti da que' Cittadini.
Poi contro a' patti, ch'egli avieno stesi
le mura tagliar loro a mano, a mano,
e molti Cittadin fur morti, e presi.
Nel predetto anno li Guelfi da Fano
cacciaro i Ghibellin con mal commiato
fuor della Terra, colla spada in mano.
Nel detto tempo fu in Ricanato
morto il nipote cugin del Marchese;
di che il Papa si fu molto turbato,
ed iscomunicogli di palese,
e perdonò tutti quanti i peccati
a ciaschedun, che a lor facesse offese,
onde v' andaron molti Crociati.
Poichè 'l Marchese gli ebbe a suo dimino,
intorno, intorno assediò i Recanati.
Avvenne allora, che 'l Conte d' Urbino
fe grande imposta a' suoi, come Signore,
per dar soccorso a que', ch'erano al chino.
E 'l popol si levò tutto a romore,
e nel Palagio l' ebbero assediato,
ed e' s' arrendè lor per lo migliore;
e fuor n' uscì con un figliuolo allato,
e l' uno, e l' altro in quel furor fu morto,
e per tutta la Terra strascinato.
Que' d' Osimo sentendo quel, ch'ho porto,
gridaron, pace, e dieronsi alla Chiesa,
e' Reggenti fuggir temendo il torto.
E Recanata la novella intesa
s' arrendè al Marchese, ed e' con fretta
intorno dentro ebbe la stipa accesa,
dicendo, ch'eran gente maladetta;
arse la Terra, e la gente, volendo
far del nipote suo aspra vendetta.
Nel detto tempo il Papa, e' suoi veggendo,
che 'l Melanese non si dipartía
da Genova, com' e' mandò dicendo,
allo Re de' Romani ambasceria
mandò dicendo; se sanza timore
mandasse la sua gente in Lombardia,
ch'egli il confermerebbe Imperadore,
ed Arcivescovo poi di Magonza
farebbe appresso un suo fratel minore.
E Federigo con molta baldanza
mandò Arrigo suo caro fratello,
con dumila cavai di sua possanza.
Sentendo il Melanese tal zimbello,
ch' addosso gli venía da ogni parte,
mandò al Cardinal, ch' avea a far quello,
per far l' accordo, ed accanto con arte
mandò al detto Re delli Romani
Ambasciador con danari, e con carte,
dicendo: Se Melan viene alle mani
di Santa Chiesa, ovver del Re Ruberto,
tu non potrai valicar tra' Toscani,
nè prender la Corona per lo certo;
e però manda per gli tuo' Baroni,
non voler, ch'io, che son tuo, sia diserto.
Udite Federigo tai ragioni,
scrisse al fratel, ch'era già nel Bresciano,
ch'e' tornasse, rimosse le cagioni.
Arrigo, ch'era da quel di Melano
già di pecunia forte avvelenato,
si tornò nella Magna a mano, a mano,
Nel dett' anno veggendosi gravato
di guerra da Castruccio il Pistolese,
fe con lui triegua alcun tempo ordinato;
e davagli per menda delle spese
ogni anno quattro migliai' di fiorini,
durante il tempo, che per lor si prese;
contro al voler de' Guelfi Fiorentini,
e di Pistoia cacciar tutti fuore
gli amici lor, che v'eran Cittadini.
Nel detto tempo andò Siena a romore,
perocchè i Salimbeni, come rei,
in casa lor di notte, con furore,
ucciser due frate' de' Tolomei;
per la qual cosa quel popol minuto
fu in tal dubbio, che dire no 'l potrei,
e mandaro a Firenze per aiuto.
Andarvi i Friolani, e' Contadini,
francar lo Stato, e tornaro al dovuto.
Nel predett' anno passò tra gli Erminj
il Gran Soldano, con suo Baronaggio,
con trentamila a caval Saracini,
guastando l' Erminia con ogni oltraggio,
e poichè 'l paese ebb' arso, e rubato,
ne menò molti pregioni in servaggio.
Appresso il Re di Tunisi cacciato
s' accordò con gli Arabi, il cui podere
di Tunisi l' aveva spodestato.
Andovvi ad oste, e chi l' avea a tenere
venne a battaglia con lui alle mani,
que' lo sconfisse, ed ebbe suo volere.
Nel detto anno gli usciti Colligiani
per forza entrar ne' Borghi, e con mal prezzo
ne fur cacciati per modi villani.
Nel detto tempo il Vescovo d' Arezzo
Fronzole prima, e Castel Focognano
ebbe dappoi, e non ne lasciò pezzo.
Nel detto anno, di Maggio, a mano, a mano
Romeo de' Peppoli, il qual di Bologna
cacciato fu col braccio popolano,
volendo racquistar la sua bisogna,
v' andò con gente; e 'l popol, si ragiona,
che 'l fe fuggir con danno, e con vergogna.
Nel dett' anno a romor Pisa risuona,
perchè Messer Corbino de' Lanfranchi
uccise Messer Guido da Caprona.
Ma preso fu da que', ch'erano a' fianchi
egli, e 'l fratello, e fu ad amenduni
tagliato il capo; onde rimaser bianchi.
E 'l Conte co' soldati, e Grandi alcuni
corser la Terra, e fecer di presente
tre popolan della vita digiuni.
Per la qual cosa l' altro dì seguente
il popolo sdegnato contro al Conte,
e contro a' Grandi molto fortemente,
corser la Terra, e con ardita fronte
cacciar di Pisa quindici gran Case,
e de' lor casamenti fecer monte;
e 'l Conte avrien cacciato, ma rimase,
perch'egli era di guardia Capitano,
e de' soldati avea piene le case,
e perchè Castruccio era a San Giuliano
venuto per iscender verso Pisa,
credendosi la Terra aver di piano.
Ma benchè la Città fosse divisa,
a riparar fur tutti d'ogni lato,
e Castruccio n' andò alla ricisa.
E stando il popol così tutto armato,
un Coscetto da Colle molto ardito,
che al cacciare Uguccion capo era stato,
era per altro rubello, e sbandito,
ma dagli amici mandato per lui
fu, ch'e' tornasse a sì fatto partito.
E poichè presso a Pisa fu costui,
si fu ridotto con un suo compare,
di cui fidanza avea più, che d' altrui.
Credendo questi il Conte fuor cacciare,
il compare il tradì, che con gran passi
n' andò al Conte, e fecelo uncicare.
E 'l Conte il fece strascinar senz' assi,
tagliare a pezzi, e poi gittare in Arno,
presente i popolan con gli occhi bassi.
Non credo, che il compar servisse indarno,
ma certo son, che come traditore
i Diavoli allo 'nferno ne 'l portarno.
Morto il Coscetto, s' acchetò il furore;
pognan, che 'l popol campasse con cruccio,
e 'l Conte Ranier fu fatto Signore.
Nel detto tempo, di Giugno, Castruccio
la Gosta fece far senza soggiorno,
per poter me' guardar la carne, e 'l buccio.
E vo', che sappi, che 'l Castello adorno
prese il quinto di Lucca senza fallo,
e ventinove Torri avea d' intorno;
dentro dal cerchio non faceva stallo,
se non Castruccio al nuovo Culiseo,
e soldati da piede, e da cavallo.
Nel detto anno morì Messer Maffeo
Visconti da Melan, ch' anni novanta
era vivuto savissimo, e reo.
Com' el fu morto, come quì si canta,
Messer Galasso suo figliuol maggiore
la signoria si prese tutta quanta.
Nel detto tempo nacque grand' errore
in Corte, e infra tutto il Chericato,
perchè un gran Maestro Fra' Minore
nella Proenza avea predicato,
che Gesù Cristo fu del tutto povero
in comune, e in divisa, e in ogni lato.
A' Fra' Predicatori, e sanza novero
d' altri Maestri parve cosa cruda,
ed al contrario facevan ricovero,
allegando il Vangelio; che se Giuda
era suo camarlingo, e spenditore,
la casa dunque non era così nuda;
che s' egli avea limosine di fuore,
e Giuda avea a dispensar gli affanni,
dunque avea propio, ma non di valore.
Così è ver, disse Papa Giovanni;
s' egli è il contrario, retico son' io,
e quanti Papi fur, già è mill'anni.
A' Fra' Minor si volse con disio,
dicendo: Sopra quel, ch' è detto aguale,
andate, e rispondete al fatto mio.
E' Frati fer Capitol generale,
poi ritornaro al Papa, ove distesa
gli fecer la risposta naturale:
Non s' è per voi commessa alcuna offesa,
perchè ab antico per modo discreto,
fu provveduto per la santa Chiesa.
Allor Papa Giovanni fe dicreto,
tirando i Cardinali ad una fune,
e diero a' Fra' Minor cotal divieto:
che non avesser propio, nè comune,
nè per procuratore addimandare
potesser cose temporali alcune;
nè sotto titol di Chiesa acquistare,
ned essere ad alcuna esecuzione
di testamento, nè poi procacciare
lascio a lor fatto per nulla cagione,
col braccio della Chiesa, ovver col braccio
de' secolar, mostrandone ragione.
Nel detto tempo (in brieve me ne spaccio)
i Fiorentini ordinar, che una fiera
nel Prato si facesse (e ciò lo saccio)
per San Giovanni, ove d'ogni maniera
d'ogni mercatanzia vi fosse presta,
e di bestiame ancor v' avesse schiera.
E durava otto dì anzi la festa
del Batista, di Giugno, e otto dì dopo;
ma poco tempo ci ebbe luogo questa,
perchè pareva favola d' Isopo;
che in Firenze è fiera tuttavia,
faccendo quel', non rilevava un topo.
Nel dett' anno, non so, per cui follía,
al Ponte vecchio il fuoco fu villano,
ed arse quante botteghe v' avía.
Nel detto tempo, essendo Capitano
il buon Messer Ramondo di Cardona
per la Chiesa, dell' oste a Basignano,
fu sconfitto, come si ragiona,
da Messer Marco Visconti, con danno
di ciaschedun, come fortuna dona.
Il Re di Scozia ancor nel predett' anno
sovr' al Re d' Inghilterra mandò gente,
e diegli molta briga, e molto affanno.
Onde il Re d' Inghilterra di presente
armò trecento cocche, ed alcun legno,
e in Iscozia n' andò incontanente
coll' esercito grande, e pien di sdegno,
pensandosi di fare altra vendetta
di quel, che fatto aveva nel suo Regno.
Ma perchè con furor si mosse in fretta,
mal provveduto, ne morir di fame
ben ventimila per la grande stretta,
e niente acquistaro in quel Reame,
e tutti quanti que', che ne tornaro,
parieno stati un anno tra 'l letame.
Nel detto anno per forza rientraro
i Ghibellini in Osimo, e 'l Marchese,
con tutti quanti i Guelfi ne cacciaro.
Io son giunto al segnal, che prima prese
l' ordine mio; non ti maravigliare
se quì la penna alquanto si contese,
ch'io intendo tosto al tuo piacer tornare.
c. 57, argumento
Siccome il Re di Francia vide scorto;
che la Reina gli facea fallo,
e che Ruberto Re voll' esser morto.
De' fatti d' Ungheria, e della Magna,
e poi degli Ubaldini, e lor compagna.
c. 57
Sentendo il Re de' Roman, che 'l Legato
era turbato, perchè la sua gente
mosse di Lombardia senza commiato,
la scusa gli mandò incontanente
pe 'l suo fratello Arrigo, e fe far trieva
la Chiesa, e 'l Melanese di presente.
E questo fe il Legato, perchè aveva
la gente sua assediata a Basignano,
che liberamente tutta la riaveva.
La Rocca, e i Borghi rimasero in mano
d' Arrigo, infinchè la triegua compiuta
fosse d' Ottobre, e non più di lontano.
Venuto il termine, ebbe la tenuta
il Melanese, e 'l Legato tradito
si tenne della beffa ricevuta.
Arrigo quando questo ebbe sentito,
scrisse al Legato, se borgo volesse,
che come prima acconciasse il partito.
Appresso mostra, che Pisa rompesse
al Comun di Firenze certi patti
d' alcun passaggio, che non si dovesse.
Nel detto tempo cavalcaron quatti
popolo, e Cavalier de' Fiorentini
nella Val d' Ambra, e niente fur matti;
che un Castel, che tenean gli Aretini,
chiamato Caposelvole acquistaro,
e poi si ritornaro a lor confini.
Nel detto tempo i Veronesi andaro
ad oste a Reggio, e 'l Comun di Fiorenza
mandò il soccorso, ed e' se ne levaro.
Appresso in Parma ebbe gran differenza,
e finalmente il popol Ghibellino
cacciò il Guelfo, ch' avie men potenza.
E i figliuo' di Messere Bernardino,
per rimaner di Ravenna Signori,
uccisero il Signor, fratel cugino.
Nel detto anno gli usciti, ch'eran fuori
di Genova, acquistarono Albigano,
e Porto Veneri, e furne maggiori.
Appresso Papa Giovanni sovrano
moneta d'oro fe, a altrui consiglio,
al modo Fiorentino, e non estrano,
salvochè dalla parte, ov'era il giglio,
era il nome suo, se ben comprendo,
ond' e' fu biasimato nel bisbiglio.
Nel detto tempo il Re di Francia avendo
trovata la Reina in adulterio,
ne tolse un' altra, la prima vivendo,
figlia d' Arrigo, che tenne lo 'mperio;
e questo fe con dispensazione
del Papa, a cui propor fe tal misterio;
cioè, che disse nella petizione,
come la madre della prima donna
avea lui battezzato per ragione;
per la qual cosa essendo di lui nonna,
non potea per moglie aver la figlia;
e così dispensò la gran Colonna.
Non era però vero, ma si piglia
alcuna volta il dubbio per lo certo
per minor male; e questo a ciò somiglia.
Nel tempo sopraddetto il Re Ruberto
voll' esser morto da' suoi in Vignone,
se non che il guato innanzi fu scoperto.
E questo gli era fatto a petizione
di Messer Ugo dal Palizio, il quale
non ebbe una per moglie a sua cagione.
Appresso ancor nel detto temporale
i Fiorentini il Castel di Casaglia
rifer nell' Alpe, forte, e naturale;
il quale avien disfatto per battaglia
i Conti, e Sinibaldo de' Donati,
quando de' Bianchi fu la gran travaglia,
e di Ampinana i popoli lasciati
ripreser tutti quanti, quest'è vero,
ed a Firenze furono appropiati.
Nel detto tempo insieme combattero
quel d' Osterlicche, e 'l Duca di Baviera,
Re de' Roman ciascuno eletto intero.
E ciaschedun fe di suo sforzo schiera,
e quivi, a modo di torneamento,
l' aspra battaglia fu da mane, a sera.
E finalmente, secondoch'io sento,
il Duca di Baviera fu vincente,
con gli suo' Cavalier pien d' ardimento.
E Federigo rimase perdente,
e furne morti, e presi in fede mia
sì, che pochi campar della sua gente.
Nel detto tempo il Re dell' Ungheria
con ventimila Cavalier, per gara
distrusse il Re di Grascia, e Schiavonia,
e venne con sua gente presso a Giara,
e 'l detto Re fe 'l suo comandamento,
per aver pace; ma costogli cara.
E' Viniziani ebber di lui pavento,
che non prendesse insino alla marina,
come mostrava pel cominciamento.
Nel detto tempo la Casa Ubaldina
di sottoporsi fur tutti contenti
alla presente Città Fiorentina,
e fur per dodici anni fatti esenti;
come Castruccio guerreggiò Fiorenza,
ed e' mostraro a' Fiorentini i denti.
Nel predett' anno essendo di Piagenza
Messer Galasso Visconte Signore,
e Vergiù, ch'era a sua ubbidienza,
s' accorse un dì, ched e' portava amore
alla sua donna, ch' avea il viso bello,
e faceagli vergogna, e disinore,
disse parole, ond' el fu senza appello
battuto, benchè fosse Cittadino,
e funne fuor cacciato per rubello.
E Vergiù, benchè fosse Ghibellino;
s' accostò al Legato; onde di piano
poteva gente avere a suo dimino.
Messer Galasso essendo ito a Melano,
vergiù n' andò a Piagenza con gran gente,
dov'el fu messo dentro a mano, a mano;
e per la Chiesa corse incontanente
la Cittade, e caccionne ogni avversario,
e 'l Cardinal vi venne di presente,
e fel far Cavaliere, e fel Vicario
della Chiesa, e rimise nella Terra
i Guelfi usciti, e caccionne il contrario.
E poi fece d' intorno tanta guerra,
che racquistò le Terre, che 'n podesta
Melan tenea, come per forza afferra.
Nel detto tempo fu sì gran tempesta
di venti in terra ferma, ed anche in mare,
che mai non si ricorda par di questa;
appresso il Re d' Inghilterra, al tornare
di Scozia, com' el giunse alle frontiere
con cinquecento Cavalier, mi pare,
gli Scotti gli assaliro, e di leggiere
molti de' suoi rimaser morti, e presi,
ed el fuggì, come vil scudiere.
Nel sopraddetto tempo i Melanesi
di volontà di lor Signor chiamaro
dodici Cittadini savj, e intesi,
che per accordo al Cardinal mandaro,
impromettendo, che Messer Galasso
il signoraggio lascerebbe chiaro.
E non volendo poi tornare al basso,
i Cittadin si furon tutti armati,
e cominciaro il romore, e 'l fracasso;
e con danar corruppero i soldati,
ed al Palagio andar, gridando: Pace,
noi vogliamo esser ricomunicati.
Messer Galasso, a cui il fatto spiace,
riparar non possendo a ta' furori,
a Lodi sen' andò col cor focace;
e i sopraddetti dodici Signori
rimasero in Melan colla grandezza,
ch' avea il Signore, e con tutti gli onori;
e' Fiorentin ne fer grande allegrezza,
perchè mostrava Lombardia digiuna
di guerra rimaner con gran dolcezza.
Ma non sapevan ciò, che la fortuna
apparecchiava pe 'l tempo futuro;
che non fu chiara, quanto poi fu bruna.
Se l' avesser saputo, sì assicuro,
che non ne arebber dato alla quintana,
com' allor fecero a suon di tamburo.
E però di vettoria mondana
si vuol far festa ringraziando Iddio,
e d' altro no, perchè fallace, e vana.
Nel sopraddetto tempo al parer mio
fer que' di Moncia grande raunata,
per andare a Melan con gran disio.
I dodici mandar loro ambasciata,
che di ciò si dovesser rimanere
finchè la Terra fosse riformata.
E seguitando pure il lor volere
i dodici mandaro le masnade
a Moncia, dimostrando lor podere.
Senza contasto entrar nella Cittade,
e tutta la rubaro, e buoni, e rei
ne ucciser ben dugento in veritade.
Nel dett' anno Messer Deo Tolomei,
con rubelli di Siena, ed Aretini,
ed altri assai, ch'io contar non saprei,
corruppero i soldati Fiorentini,
e di Fucecchio n' andaro a Torrita,
sanza saperlo i nostri Cittadini;
nè mai del detto luogo fer partita,
che del detto Castel vinser la punga,
e trovar la contrada ben fornita.
Quella rubaro, e poi Asinalunga,
e conciar sì d' intorno la campagna,
che non le fa mistier, che più si munga.
Questo facieno in nome di Compagna,
e li Sanesi richieser d' aiuto
i Fiorentin, che mandar gente magna.
Andovvi il Capitan, ch'era saputo,
ed altri Ambasciadori, a non mentire,
per metter ben, s' egli avesser potuto.
Ma il lor nome non vollero udire,
dicendo, ch'essi gli avean mandati,
e poi mostravan di voler servire.
E 'ncontanente fer molti soldati,
de' qua' fu Capitan Conte Ruggieri,
e li rubelli se ne furo andati.
E' Fiorentini alli lor Cavalieri
fecer dar bando, come a traditori,
e i bessi poi li tenner veritieri.
Nel detto tempo i dodici Rettori
di Melan si volien dare al Legato,
con certi patti, per uscir d' errori.
E' Nobili volien dall'altro lato
darsi liberamente, e non avendo
fra lor concordia, subito mandato
fu per Messer Galasso, che correndo
venne a Melano, ed ebbe per danari
le masinade, secondoch'io 'ntendo.
Corse la Terra, e cacciò gli avversarj;
e così vedi, che fortuna persa
si fa, mostrando li sembianti chiari.
Nel detto tempo il Conte d' Universa
Conte di Fiandra fu alla sicura,
e funne ogni altra signoria sommersa.
Nel detto tempo fu grande freddura
per tutta Italia, e 'n Puglia sì gran secco,
che sanza piova otto mesi fe dura;
e gittò sì gran car, che ciascun zecco
fu per Toscana; sicchè alla granaglia
i poveri non potien dar di becco;
e quasi tutta l' altra poveraglia
si ridusse in Firenze, benchè caro
ci fosse grande d'ogni vettuaglia.
Nel predett' anno i Fiorentin mandaro
al Legato dugento lor soldati,
e così d' altre Terre s' afforzaro.
E gli usciti di Genova già stati
cinqu' anni, e più ne' borghi, tra due volte,
quei della Terra avveduti, e pensati
a cavallo, ed a piede schiere folte
mandar di botto al Ponte a San Bernardo,
ed al Poggio salír le schiere sciolte;
e quivi ciaschedun fu sì gagliardo,
che i nimici fuggirono in istracca;
e' Cittadin, benchè 'l sentisser tardo,
usciron per la Porta della Vacca,
e racquistaro i borghi d'ogni parte,
e molta roba quivi fu per acca;
perocchè quivi fu mestiere, ed arte
facea ciascun, come quì si ragiona,
e vera prova ne fanno le carte.
E poi Messer Ramondo da Cardona,
siccome il Cardinale avea trattato,
prese per lui la Città di Tortona.
Quest' anno il Re di Tunisi cacciato
cacciò colui, che cacciato l' aveva,
ed ebbe il suo Reame racquistato.
Nel detto tempo la gente, che aveva
la santa Chiesa, andò in quel di Melano,
siccome il Cardinale allor voleva.
Due Campioni ebbe ciascun Capitano,
Messer Castrone, e Messer Vergiù di Landa,
che ciascun per se stesso era sovrano.
Messer Marco Visconti con sua banda,
popolo, e Cavalieri era venuto,
per contastare il passo, ov'è il fium' Anda.
Messer Vergiù, quando l' ebbe veduto,
si dilungò dall' oste, e passò il fiume
con certa gente, siccome saputo.
E Messer Marco, che 'n ciò vide lume,
gli si fe incontro, e valorosamente
li mise in volta, con aspro costume.
E l' altra gente allora prestamente
passaron l' Adda, e siccome fratelli
dieder soccorso alla parte perdente;
tra qua' Messer Filippo Gabrielli,
e 'l buon Messer Urlimbacca Tedesco,
campion de' Fiorentini adorni, e belli,
contro a' nemici percosser di fresco
sì, che li miser tutti in isconfitta,
e pochi ne tornarono al lor desco.
Messer Marco vedendo la trafitta,
con certi, ch'eran con lui a cavallo,
verso Melan fuggì per la diritta;
gli altri fur morti, e presi senza fallo.
La gente della Chiesa ebbe Trivanzo,
per cui fatto era tutto quanto il ballo.
Poi cavalcar, come dice il Ramanzo,
ed ebber presa la Terra di Moncia,
la qual rubaro, e poco fu l' avanzo.
Nel detto tempo fu la pace acconcia
tra 'l Duca di Sterlicche, e Lodovico,
che prima avea la sua gente sconcia,
promise Federigo al nuovo amico,
di non chiamarsi più Re de' Romani,
e così gli giurò, com' io ti dico.
Ma siccome fu fuor delle sue mani,
volse mantello, come ancor diremo,
e tutti i saramenti fece vani.
Perch'io son del Capitolo allo stremo,
e perchè mi diletta parlar brieve,
prendo l' effetto, e l' avanzo ne scemo.
E molte cose passerò di lieve,
le qua' non son di molto gran valore.
Or fo quì punto, e non ti paia grieve,
che dir ti vo' del Bavero Signore.
c. 58, argumento
Del Baver, di Castruccio, e di Melano,
e come furo arroti i Pennonieri,
per far forte lo stato Popolano
più, ch'esser non solea per antico,
e di molt' altre cose, ch'io non dico.
c. 58
Volendo Lodovico di Baviera,
Re de' Roman dinnanzi nominato,
Melan difender per altrui preghiera,
nel ventitrè, col millesimo usato,
del mese d' Aprile, ambasciadore
dalla sua parte mandò al Legato,
dicendo, ch'era dello 'mperadore
la Città di Melano, e che la 'mpresa,
che fatta avea gli era disinore.
Disse il Legato: Io non faccio offesa,
perocchè 'mperador non ci è ancora,
sicchè de' posseder la santa Chiesa;
e digli, ch'io mi maraviglio ognora,
che' Paterini Eretici difende,
contro alla santa Chiesa, che l' onora.
Nel dett' anno Castruccio, e suoi, s' intende,
andò in Carfagnana ad oste a Lucchio,
ch' a suo poder s' aiuta, e si difende.
E' Fiorentin mandar di gente mucchio
alla difesa, ma fu tanto lieve,
che non fece riparo a sì gran succhio.
Castruccio nè per freddo, nè per neve
non si partì giammai dallo steccato,
che 'l Castel s' arrendè, a dirlo brieve.
Nel tempo ancora, che di sopra è detto,
que' d' Alessandria, come da me odi,
si diedero alla Chiesa con effetto.
Messere Arrigo non possendo Lodi
difender, benchè avesse il brivilegio,
contro a que' di Melan trovò de' modi;
ed accostossi col Legato egregio,
che per la Chiesa ne 'l fece Vicario,
e Capitan di gente il fe di pregio.
Nel detto tempo fecero il contrario
que' da Orbin, che, come si ragiona,
da santa Chiesa allor si rubellaro.
Nel predett' anno lo Re di Ragona
s' apparecchiò; che Sardigna volea,
ch'era privilegiata a sua Corona.
Perocchè 'l Giudice allor d' Alborea,
che 'n Sardigna teneva alcun Castello,
e co' Pisan tener sempre solea,
subitamente ebbe volto mantello.
E non senza cagion prese tal carco,
e di molti Pisan fe far macello.
Nel tempo sopraddetto Messer Marco,
colla sua gente mosse, per guastare
il Ponte, che 'nsull' Adda volge l' arco,
acciocchè non potesse valicare
la vettuaglia all' oste del Legato,
qual era a Moncia per lui guerreggiare.
Sentendo i Capitan cotal mercato,
li seguitar con gente, ed abboccarsi
appresso al fiume dinanzi contato.
Quivi non fur della battaglia scarsi,
ma prestamente senza far parole,
incominciar di grievi colpi a darsi;
e cominciando al tramontar del Sole,
durò infinattantochè le genti
non si riconoscien, come si suole.
Ma pur que' della Chiesa fur vincenti,
e l' altre schiere sbarattate, e rotte;
fu Messer Marco tra lor de' fuggenti;
e se non fosse la subita notte,
di loro al mondo non campava saggio;
e pure ebber così di male botte.
Nel predett' anno, e nel calen di Maggio,
il Conte d' Aurizia, essendo stato
un giorno in festa con chiaro visaggio,
subito cadde morto, e stramazzato.
Dissesi, che Messer Can fosse quello,
che ordinò, ch'e' fosse avvelenato.
Quest' anno ancora il buon Conte Novello,
con dugento a caval venne a Fiorenza,
per esser Capitan senza rappello.
E' Fiorentini appresso, con licenza
del Papa, ventimila fiorin d'oro
al Chericato imposer per sentenza,
per le mura compier sanza dimoro;
ma men, che la metà, sene ricolse,
perchè il Vescovo scrisse al Concestoro
per modo tal, che 'l Papa si rivolse,
e la licenza, ch'egli avea data
imprimamente, al tutto la ritolse.
Nel dett' anno Piagenza fu turbata,
perchè Messer Vergiù parlato avía
con Messer Cane, ed alla sua tornata
Gli tolse il Cardinal la signoria,
e fello Ambasciadore al Padre Santo
per iscusa di se, e mandol via.
Nel predett' anno gli Aretin daccanto
andar sopra le Terre d' Uguccione;
ma finalmente tornò loro in pianto.
Nel dett' anno fe triegua per ragione
il Re di Scozia con quel d' Inghilterra
per tredici anni, e non senza cagione.
Nel detto tempo i Perugin fer guerra
a Spoleto, assediandol d'ogni lato;
non dice, che seguisse della Terra.
Nel dett' anno, dovendo per trattato
Firenze avere il Castel di Buggiano,
Castruccio, non so com, l' ebbe spiato;
e dodici impicconne a mano, a mano,
e poi corruppe, come volpon vecchio,
i nostri Friolani, e 'l Capitano;
il qual pe' Fiorentini era in Fucecchio,
ed a Castruccio un dì ne fu andato,
mostrandoci il contrario per ispecchio.
E questo fe, perchè 'l soldo scemato
gli era in Firenze, e quì amico nota,
di non fidarti a cui tu hai fallato.
Castruccio poi con quella gente arrota
Fucecchio, Santa Croce, e Castel Franco
guastò d' intorno, e poi diede per gota
a Sanminiato, e a Monte Topoli anco,
e poi si riportò subitamente
a Lucca, per posarsi, ch'era stanco.
Nel predett' anno, e nel Maggio presente,
nella Sardigna di Raona venne
Anfuso fil del Re con molta gente.
Quel d' Alborea la sua parte tenne,
e quante Terre de' Pisan vi trova,
che l' ubbidisser per forza convenne,
salvo Castel di Castro, e Terra Nuova,
Villa di Chiesa, e la Gioiosa Guarda,
che fecer contro a lui più lunga prova.
Ma Anfuso allor con sua gente non tarda
Castel di Castro, e Villa di Chiesa
assediò 'ntorno; ma ciascun ben guarda.
E tanto stette alla detta contesa,
che dodicimil' uomini moriro
della sua gente, nè lasciò la 'mpresa.
E li Pisan, per levarsi dal giro,
da trentatrè galee subito armaro;
e' Ragonesi quando quel sentiro,
delle loro altrettante apparecchiaro.
Onde i Pisan sentendo sì gran pondo,
con gran vergogna a Pisa ritornaro.
Nel detto tempo ancor Messer Ramondo,
con gente di più Terre, tra li quali
i Fiorentin fur col giglio giocondo,
mosse da Moncia, e co' suo' Caporali
fermò il Campo alla Villa di Sesto,
presso a Melano a men d' un batter d' ali.
E 'l Signor di Melan sentendo questo,
uscì di fuor co' suoi all' avvisaglia;
onde Messer Ramondo ardito, e presto
si volse a lui, per prender la battaglia,
ma el fu savio, e perchè avea sospetto
si tornò dentro, fuggendo travaglia.
Allor Messer Ramondo con diletto
a Porta nuova sì le guardie stanca,
ch'egli ebbe il Borgo senz' alcun difetto.
Ed appresso ebbe quel di Porta Franca,
ed arse l' uno, e l' altro una mattina,
e poi niente fu sua gente stanca,
e combattér la Porta Tommasina,
e con forza acquistò il Borgo bello;
vi s' accamparon con savia dottrina,
e tolser l' acqua lor di Tesinello,
per accamparsi da Porta Romana,
e quella da Pavia sanza rappello.
Poi era tutta assediata Melana,
che Santo Spirito avien senza inganni
a Porta Vercellina prossimana.
Di Giugno i Fiorentin per San Giovanni
vi fer correre il palio del velluto,
come fanno in Firenze tutti gli anni.
Il Melanese richiese d' aiuto
il Veronese, e' vicini, e' lontani,
ch' avien con lui sempre a lega tenuto;
a Lodovico Re degli Romani
mandò dicendo, che se in quello stato
no 'l soccorresse con Baron sovrani,
che renderebbe la Terra al Legato,
e Lodovico faccendo al contrario
di quel, ch' avea promesso, e giurato,
vi mandò gente, con un Commessario;
il qual siccome fu in Melan giunto,
la prese come d' Imperio Vicario.
Molti trattati v'erano in quel punto
da ogni parte di corromper gente;
ma que' del Papa trasser più all' unto:
che cinquecento n' andar di presente
onde Messer Ramondo molto tosto
a Moncia si tornò come temente.
E' Melanesi, del mese d' Agosto,
con quella gente, ch' avien raunata,
usciron fuor con ardito proposto,
e Moncia intorno, intorno ebber cerchiata,
e quella gente, che v'era raccolta,
vi tenner più di due mesi assediata.
Ma perchè v' infermava gente molta,
l' oste di fuor v' incominciò a scemare
sì, che gran parte avien data la volta.
Que' dentro cominciaro a rincorare,
ed uscir fuori, e que' non gli aspettaro,
fuggendo come rotti per campare;
e tutti i loro arnesi vi lasciaro,
e siccome sconfitti d'ogni lato
nella Città di Melan si tornaro.
Nel dett' anno Castruccio venne a Prato,
credendo i Fiorentin trovare in piega;
ma e' non aspettar troppo il mercato.
Subito fu serrata ogni bottega,
ed uscir fuor popolo, e Cavalieri,
e richieser gli amici, ed ogni lega.
E' Grandi a questo furon volentieri,
e l' Arti vi mandaron ben forniti
a loro spese molti balestrieri.
E fur ben quattromila gli sbanditi,
ch' a Prato si trovaron, poichè 'l bando
andò, come sarebbon ribanditi.
Trovarsi i Fiorentini al lor comando
de' Cavalieri mille cinquecento,
e ventimila fanti rassegnando.
E posto in sodo con molto ardimento,
di uscir di fuor, rimossa ogni cagione,
con tutto quanto loro assembramento,
e Castruccio co' suoi passò l' Ombrone,
ed andonne diritto a Serravalle,
con gran temenza molto di rondone.
Se pari fossero state le balle
de' Fiorentini, al tutto eran vincenti,
e de' nemici avute avrien le spalle;
ma i Grandi Fiorentin non fur contenti
della vittoria, acciocche' popolani
non ne avesser l' onor, come valenti.
Andarone a Fucecchio salvi, e sani,
ed eran sì cresciuti, che potieno
assediar Lucca, ed i suo' Terrazzani.
Ma i Nobili, e Grandi non volieno,
se degli ordinamenti di giustizia
non si cavasse lor di bocca il freno.
E' Popolan veggendo lor malizia,
deliberar di tornarsi a Fiorenza,
nè voller seguitar la lor nequizia.
E' Grandi fecer poi maggior fallenza,
ch' agli sbanditi disser: Non pensate
d' uscir di bando per tal convenenza.
Ond' essi allora a bandiere spiegate
dinanzi agli altri si misero in via,
credendosi per forza aver l' entrate.
Ma fur difesi con gran vigoria,
ed e' si dileguaro incontanente,
che s' appressò la gente, che reddía.
Po' vennero in Firenze di presente
otto Licenziati, e quel lavoro
facean sollicitando il convenente;
e non trovando modo a' fatti loro,
con alcun Cittadino a ciò disposto
trattaro di tornar sanza dimoro.
E ritornaro a dì dieci d' Agosto,
in quantità di sessanta a cavallo,
e da domila a piè, com' è qui posto.
La guardia ci fu grande senza fallo,
e niun si scoprì dentro alle mura,
che tenesse con lor la mano al ballo.
Ond' e' si dipartiron per paura,
e poi si ritrovar tutti i trattati,
e 'l mal, che dovien far oltra misura.
E furne tre Cavalier condannati,
cioè, in dumila lire ciascheduno,
e per sei mesi altrove confinati.
Questo fer que', che reggeano il Comuno,
tacendo di molti altri Cittadini,
acciocchè il chiar non diventasse bruno.
E di que' tre, che andarono a' confini,
fu l' un Messere Amerigo Donati,
poi Messer Lotteringo Gherardini,
e fu co' sopraddetti due nomati
il terzo Messer Tegghia Frescobaldi;
gli altri non furo a nulla ricordati.
E questi compariti allegri, e baldi,
disser, che avevan bene inteso il fatto;
ma che col Popolo eran fermi, e saldi,
perchè non rivelaro al primo tratto,
nè seguitaron le condannagioni,
che tu hai intese, agevolando l' atto.
Appresso a' dicennove Gonfaloni,
i qua' si chiaman delle Compagnie,
arroti fur cinquantasei pennoni,
fortificando in tutti modi, e vie,
che me' potero, il popol sì, che questo
non potesse turbar sue Signorie.
E tutti i Popolani, a Sesto, a Sesto
si raunaro, e fer promessione,
d' esser ciascuno alla difesa presto.
Onde ne nacque poi mutazione,
e sette si criar tra' Fiorentini,
come più innanzi si farà menzione.
Nel detto tempo ebber gli Aretini
Castel di Rondine, u' eran nove mesi
istati ad oste, serrando i cammini.
E Castel Franco volse a' Bolognesi;
ma e' v' andaro di botto, e racquistarlo,
e gastigaron chi gli aveva offesi.
E questo basti, che più non ne parlo,
perchè 'l Capitolo è giunto al dovuto,
e più, che gli altri, non intendo farlo;
ma nuova tema al presente ti muto.
c. 59, argumento
San Tommaso d' Aquin canonizzato
fu da Papa Giovanni, e come prima
a tradimento fu avvelenato.
Di gente raunata in Tarteria,
e poi de' Barbanichi in Lombardia.
c. 59
Essendo gli anni ancor del ventitrè,
dieci galee di Genovesi in corso
per Romania andavan, pare a me;
e per potere aver maggior soccorso,
col Cerabi, Saracin di Sinopia,
fer compagnia, perch'era in ciò trascorso;
e tanta roba altrui fecer lor propia,
che trecento migliai' di fiorin d'oro
stimata fu, secondochè si copia.
E 'l Cerabi condusse poi costoro
in suo paese; e, come quì ti rigo,
diè lor mangiare, e poi senza dimoro
diè lor le frutte di Frate Alberigo,
e mille cinquecento morti, e presi
rimaser quivi; e tosto me ne sbrigo;
così perdér le persone, e gli arnesi,
e fra la gente del convito magno
ebbe quaranta Grandi Genovesi,
che come gli altri rimaser con lagno;
e spesse volte in così fatto caso
arrivan quei, che fan sì mal guadagno.
Nel dett' anno, di Luglio, San Tommaso,
Frate Predicator, d'ogni scienza,
e d'ogni santità verace vaso,
dal Papa fu con quella riverenza,
ch' a lui si convenia canonizzato,
dove la Corte facea risidenza;
ch'era in Campagna stato avvelenato
da un de' Cavalieri, ovver Donzelli
di Carlo di Cicilia incoronato;
perocchè que' d' Aquino eran rubelli,
e nemici mortal della Corona,
e 'l detto San Tommaso era di quelli,
ed era tanto valentre persona,
che 'l Re pensava, se costui sormonta,
come par degno d'ogni cosa buona,
ancor mi potrà far dispetto, ed onta;
e però que', credendo al Re piacere,
gli diè il confetto, che lo scritto conta.
Nel dett' anno, d' Agosto, al mio parere,
Monte Topol guastò d' intorno a Marti:
onde i Pisan mandaron lor podere
a Monte Topoli, e fer simili arti,
guastando intorno; e poi per loro scuse
il simigliante fecero in più parti.
Nel detto tempo, per forza le chiuse
ebbe il Conte di Fiandra, ched un Porto
del Conte di Namurro, e lui rinchiuse.
Nel dett' anno, d' Agosto, un vento accorto
venne in Firenze con sì gran freddura,
che molti ne infermar sanza conforto,
e certi ne moriron per paura;
e poi la pistolenza mutò paschi,
ed in Francia n' uccise oltre a misura.
Nel predett' anno, andando i Bergamaschi
per dar soccorso al Signor Melanese,
fur morti, e presi le femmine, e' maschi.
E i Vinizian, nel detto anno, e mese,
in ventiquattro cocche si scontrarno,
ed isconfisser la gente Inghilese.
Nel detto tempo i Pazzi di Valdarno
diero a Firenze il Castel della Trappola,
il qual fornir di gente, e d' altro indarno;
perocchè gli abitanti per la pappola
miser di notte dentro gli Ubertini,
e la difesa non valse una chiappola;
che ne cacciaro fuori i Fiorentini,
arser la Terra, e poi all' Anciolina
ridotti fur per diritti cammini.
E quivi fur da gente Fiorentina
cerchiati, e poi come gente stanca
se ne partì, giugnendo l' Aretina.
Nel dett' anno, d' Ottobre, Messer Branca,
Guelfucci, corse la Città di Castello,
e fece a' Guelfi di fuor tener l' anca.
E certi, che rimaser, lo sportello
aperser poi al Vescovo d' Arezzo,
che cacciò Messer Branca per rubello,
e poi de' Guelfi non vi lasciò pezzo;
onde fer lega insieme senza inganni
molti vicin, per fargli mutar vezzo.
Nel predett' anno ancor Papa Giovanni
scomunicò il Baver, come s' usa,
perchè aiutò i Melanesi tiranni;
ed el mandò in Corte a far la scusa:
pognam, che poco la poteva fare,
tanto palese al Papa era l' accusa.
Nel dett' anno, d' Ottobre, fur nel mare,
presso a Gostantinopoli fortune,
che molte navi fer pericolare.
Nel detto anno in Firenze, per alcune
novità, di far sacco si sofferse
di gente, che non erano in Comune.
Nel predett' anno, e mese si scoperse,
che Castruccio trattò con Messer Betto
d' entrare in Pisa, e far cose diverse.
Onde sentito, che si fu il difetto
tagliata fu la testa in brieve spazio
al Cavalier de' Lanfranchi predetto.
E 'l trattato scoperse Bonifazio
de' Cerchi di Firenze, com' io dico.
E 'l Conte, poichè fu questo sazio,
ebbe Castruccio sempre per nimico,
e fe, che diecimila fiorin pronti
chi l' uccidesse avesse, come amico.
Nel detto anno Messer Marco Visconti
prese una villa, ed arsela di piano,
e' soldati fuggir con basse fronti;
poi assediò il Castel di Basciano,
qual era molto forte, e ben fornito;
ma e' pur l' ebbe, e tornossi a Melano.
Nel predetto anno i Paesan del sito
d' intorno a Bruggia tutti si levaro
contro a' Nobili lor con mal partito;
e fero un Capitano, il qual chiamaro
per nome Conticino, e con furore
tutti i lor beni arsero, e guastaro.
Poi per trattato del popol minore,
intraro in Bruggia, ed uccisonne assai,
e tenner Bruggia contro al lor Signore.
Nel detto anno Castruccio, ch'io nomai,
entrò in Fucecchio con molta sua gente,
e funne fuor cacciato con suo' guai.
Nel dett' anno in Proenza veramente
uno spirito d' un, che s' era morto
in una torre, apparve, e prontamente
dell'altra vita favellava scorto,
dicendo della grolia, e delle pene,
ch'hanno color, che arrivano a quel porto.
Andarvi Frati, come si conviene,
e l' un di lor portò sotto il terribile,
ed il Corpo di Cristo sommo bene;
e quello spirito, ch'era invisibile,
disse: Ben venga il Salvador del mondo,
al quale niuna cosa è impossibile.
Poi disse: Frati, a voi non mi nascondo,
che per le vostre orazion palesi,
ispero totalmente esser giocondo.
Nel predett' anno Arezzo ebbe Capresi,
dov'era stata, siccome quì vedi,
la gente sua ad oste ben tre mesi.
Nel detto tempo ancor Messer Manfredi
di Landa, e degli usciti di Piagenza,
con gente cavalcò con begli arredi.
Que' dentro usciron fuor con lor potenza,
ed ebbono sconfitta sua brigata,
e molti ne rimaser presi a Lenza.
Nel dett' anno i Pisan con grande armata,
per soccorrere andar Villa di Chiesa,
ch' avea quel di Raona assediata.
Ma quel Signor intanto l' avie presa,
e andarono a assediar Castel di Castro,
si riscontraro, e furo alla contesa.
Anfuso, siccome di guerra mastro,
percosse a loro, onde furon perdenti,
e gastigati con un mal vincastro.
E nel mille trecento quattro e venti,
i Fiorentini in Francia ebber mandato,
per cinquecento Cavalier valenti.
Nel dett' anno la gente del Legato
prese il Castello di Vari, col Ponte,
che sopra l' Adda dà 'l passo fidato.
Onde co' suoi Messer Marco Visconte
vi cavalcò di subito forbondo,
e que' percosse con ardita fronte;
e sconfisse la Chiesa con gran pondo,
e molti ne menò presi a Melano,
tra' qua' fu il Capitan Messer Ramondo;
il qual poichè alla guardia unse la mano,
come colui, che sapeva il costume,
se n' andò verso Moncia salvo, e sano.
Messer Simon della Torre nel fiume
affogato rimase per lo certo,
come quì trovo, se ben vedi lume.
Nel dett' anno il Vicar del Re Ruberto,
ritornando a Pistoia, fu tra via
da Carmignano rubato, e diserto.
Nel predett' anno que' di Tarteria
a caval furon trecento migliaia,
e 'n Grecia fer gran danno, e ruberia.
E perchè maraviglia non ti paia,
tutti vanno a caval per quel Reame;
pognan, che fosse meglio una somaia.
Van sanza ferri, e sanza biada, e strame,
vivon di quelle erbacce, che vi sono,
e gli uomini di pesce, e di bestiame.
Nel predett' anno il Papa diè perdono
di colpa, e pena a ciaschedun, ch' andasse
contro a Melan, come quì ti ragiono.
nel predett' anno mostra, che assediasse
il Melanese Moncia; onde la gente,
che v'era della Chiesa, di fuor trasse,
e levarli da campo incontanente,
e Messer Galeasso poco lieto
a Melan si tornò, come perdente.
Nel detto anno Perugia ebbe Spoleto,
dov'era stato l' assedio due anni,
e, salve le persone, fu il dicreto.
E' primi, che v'entraro senza inganni,
si furono i soldati Fiorentini,
che la francar di fuoco, e d' altri affanni.
Rimaser dunque poi gli Spoletini
al Duca per la Chiesa ubbidenti,
e simigliantemente a' Perugini.
Nel dett' anno si fer gli ordinamenti
contro alle donne, perchè a' lor mariti
le spese rincrescien degli ornamenti.
E di Firenze tutti gli sbanditi,
per la promessa, ch'era fatta a Prato,
per leggier cosa furon ribanditi.
Nel predett' anno fu scomunicato
il Vescovo d' Arezzo, a condizione,
e fu del benificio suo privato,
se non lasciasse la possessione
di Città di Castello, ed in sua vece
mettesse Santa Chiesa per ragione.
Disse il Prelato: Questo non mi lece,
ch'i' vo' per me la Città di Castello,
e della privazion beffe si fece.
Nel predett' anno quel Conte Novello,
ch'era di guerra nostro Capitano,
sanza sapere i Fiorentin di quello,
colla sua gente prese Carmignano;
ma i Fiorentin di Castruccio temendo,
gliel fero abbandonare a mano, a mano.
Nel detto tempo ancor, se ben comprendo,
il Re di Francia arrivò in Toscana,
col Re Giovanni, e con sua donna, intendo;
la qual tornando in Francia allegra, e sana,
morì in parto tra via per lo dolore,
e danno fu di donna sì sovrana,
che figlia fu d' Arrigo Imperadore;
pognam, che l' altra donna era ancor viva,
come dicemmo, con suo disinore.
A Genova nel detto tempo arriva
il Re Ruberto, e di queto, e di piano
per sei anni ebbe la Città giuliva.
Poi se ne venne nel Porto Pisano,
e fece Cavaliere un Fiorentino,
ed a Napoli andonne allegro, e sano.
Nel detto tempo Messer Vercellino
da Melan volle tor la vettuaglia
all' oste della Chiesa insul cammino.
La gente della Chiesa di gran vaglia
il sopraggiunse con sì gran vantaggio,
che di lor campar pochi alla battaglia.
Nell'anno detto, per calen di Maggio,
i Pisan, ch'erano in Sardigna accorti,
a' Raonesi voller fare oltraggio;
e fur la maggior parte presi, e morti,
e 'l rimanente 'nsieme si rauna,
e con temenza fuggiro a' lor porti.
Nel predetto anno, e mese, della luna
scurò gran parte; e gente di Castruccio
a Castel Franco arrivò per fortuna.
Soldati Fiorentin, non senza cruccio
n' ucciser dieci, e gli altri là levaro;
ma pur lasciar, com' è detto, del buccio.
Nel detto tempo i Fiorentin mandaro
a' Perugin quattrocento soldati,
quando Città di Castel guerreggiaro;
de' qua' Messere Amerigo Donati
fu Capitan (quest'è la veritade)
ed ebbe onore infra gli altri pregiati.
Nel predett' anno tornò in sue contrade
Conte Novel, ch'era stato in Toscana
per Capitan della nostra Cittade.
Nel detto tempo il Sir di Chiarentana,
e 'l Duca d' Osterlicchi in Lombardia
venner con molta gente aspra, e villana,
dodicimila a caval d' Ungheria,
ed altra gente sanza alcuna legge,
per torre a Messer Can la Signoria;
i qua' facien, come di porci gregge,
e tristo chi venía alle lor mani,
che cotal gente poco si corregge.
E questo avvenne, perchè i Padovani
liberi s' eran dati alla Eccellenza
del detto Duca, Sir de' Chiarentani.
E Messer Can da Verona Piagenza
tenne per forza, ed alcun' altra Terra,
ch'esser soleva a loro ubbidienza.
Ma benchè a lui facessero aspra guerra,
e' governaron sì e poveri, e ricchi,
ch' ancor ne senton, se 'l libro non erra.
Questi furon chiamati Barbanicchi,
che contro amici, e nemici eran fieri,
que' d' Ungheria più, che que' di Sterlicchi.
Ma Messer Cane ebbe savj pensieri,
perchè con que', che portan d'oro il giglio,
di que' Signor corruppe i consiglieri;
ond' essi a' lor Signor dier per consiglio,
che si partisser, che l' aria corrotta
metteria lor persone a gran periglio.
Sicchè si dipartiro in poca dotta,
e Messer Can si rimase Signore,
e que', che avien quella gente condotta,
di questo fatto ebber pure il peggiore;
pognan, che a Messer Can costasse caro.
Bella cosa è a comperare onore;
ma rade volte addiviene all' avaro.
c. 60, argumento
Come si fero di dieci Casati,
ch'eran de' Grandi, in un dì Popolani,
perchè di stato eran molto abbassati;
e di Castruccio, e d' un Monaco folle,
che a sua petizion tradir ci volle.
c. 60
Resta a contar, che nel mille trecento
e ventiquattro, i nostri Popolani,
sì per fortezza, e sì per ornamento,
ordinaro alle mura i barbacani,
e le Torri d' intorno; e perchè sconcia
il lungo dir, sì ne traggo le mani.
Nel detto anno, partendosi da Moncia
il Passerino, uscito di Melano,
con gente della Chiesa male acconcia,
da Messer Marco Visconti sovrano
fu assalito, sconfitto, e confuso
dalla sua gente, e fuggì per lo piano.
Nel predett' anno, avendo Don Anfuso
in Castel Castro assediati i Pisani,
com' altra volta per addietro er' uso;
al fine s' arrendero salvi, e sani,
dandogli ogni anno alcun censo ordinato,
e ritornossi in suoi paesi strani.
Nel dett' anno, di Luglio, ebbe il Legato
Castello Aquaro da messer Manfredi,
per cinquemila fiorin d'or d' allato.
Nel predett' anno ancor, come quì vedi,
Messer Filippo Tedici a romore
levò Pistoia, e poi senza rimedj
l' Abate da Paccian, ch'era il maggiore,
ed anch'era suo zio, al mio parere,
levò di sedia, e se fe far Signore.
E dissesi, che ciò fu di volere
del detto Abate, e non l' avere a ciancia,
che s' egli era de' suoi, fece il dovere.
Nel detto tempo Carlo Re di Francia
la figlia di Luigi, sua cugina,
tolse per moglie con dritta bilancia,
essendo viva ancor l' altra Reina,
come pe 'l Papa fu diliberato,
che tutto puote per grazia divina.
Quell'anno avendo il detto Re mandato
a edificare alcuna Terricciuola,
dove coll' Inghilterra è confinato,
trasser quel del paese a tale scuola,
e miser ciò, che avien fatto, per terra,
e gli uomini impiccaron per la gola,
ond' el fece a sua gente muover guerra,
e 'n breve tempo fece molti danni
sovra al paese del Re d' Inghilterra.
Nel detto tempo ancor Papa Giovanni
final sentenza, con giusto giudicio,
contro al Bavero diede, sanza inganni,
privandol d' ogni onore, e d'ogni uficio,
come commettitor d'ogni discordia,
d'ogni resia, e d'ogni malificio.
Ed a ciò furon tutti di concordia
i Cardinal, se non venisse tosto
al Padre Santo per misericordia.
Nel predett' anno, del mese d' Agosto
avendo que' di Rimine ad Orbino
intorno alla Città l' assedio posto,
un giorno essendo fatti lì vicino
sei Cavalier novel de' Malatesti,
trasser d' attorno ciascun Ghibellino.
E que' della Città arditi, e presti
usciron fuor, con loro insegna ritta,
ed a' nemici si fer manifesti,
e l' oste d'ogni parte ebber trafitta,
e rimaser di lor più di secento,
e gli altri si fuggiro in isconfitta.
Nel detto tempo avendo intendimento
d' essere il Re di Francia Imperadore,
ordinò fare a Bari un Parlamento,
al qual dovea venire ogni Lettore.
Quel di Buemma, ch'era suo cognato,
e gli altri, che a chiamare han tal Signore,
niun vi venne il dì, ch'era ordinato,
se non quel d' Osterlicchi, e sanza posa,
il Re si fu in Francia ritornato.
Quell'anno Messer Carlo di Valosa
guerreggiando Inghilterra, in que' paesi
ebbe Città di Regola gioiosa.
Al fine s' accordò con gl' Inghilesi,
ed a Parigi con faccia serena
fu ricevuto poi, se ben compresi.
Quell'anno i Ghibellini ebber Cesena,
ma costò loro del cuoio, e del buccio,
perchè ne fur cacciati con lor pena.
Nel predett' anno, d' Agosto, Castruccio
rifè Brandelli, e chiamol Bellosguardo,
di che il Pistolese ebbe gran cruccio,
e' Fiorentin richieser, se ben guardo,
che gente vi mandar sanza dimoro;
ma poi Messer Filippo, a suo riguardo,
fidar niente si volle di loro;
per la qual cosa addietro si tornaro
forte sdegnati, che cacciati fuoro.
E' Pistolesi appresso s' accordaro
con Castruccio, veggendosi a mal passo,
e senza fallo il lor piggior pigliaro.
Nel predett' anno Messer Galeasso
andò ad oste a Moncia (in qual Campione
era Messer Vergiù, di starvi lasso;)
e quella strinse tanto per ragione,
che di Dicembre poi sanza fallenza,
s' arrendér, salvo l' avere, e persone.
Nel predett' anno i Prior di Fiorenza
preser balía di potere acconciare
tutti gli uficj alla lor coscienza;
e vedute le borse, ciò mi pare,
trovar la cosa sì bene ordinata,
che non ne vollero alcuna toccare;
ma dentro ve ne miser gran brigata,
e di ciascuna Setta Cittadina,
perchè la Terra fosse me' guidata.
Nel detto anno, d' Ottobre, Lanciolina
liberamente, sanz' altro viticchio,
s' arrendè alla forza Fiorentina.
Nel predett' anno, e mese poser Vicchio
i Fiorentini con bella compagna,
che primamente non valea un nicchio.
Nel detto tempo ancora nella Magna
il Baver fe parlamento, nel quale
si scusò molto, e pien d'ogni magagna
Papa Giovanni fece, e disleale,
per trentasei capitoli provando,
com' el non era Papa naturale,
e mandoglieli in Corte minacciando.
E questo al Papa fu novella amara;
ma fenne beffe, il suo timor celando.
Nel dett' anno il Marchese da Ferrara
tolse alla Chiesa la Città d' Argenta
per tradimento, e non per altra gara.
Nel predett' anno, per quel, ch'io ne senta,
mandò il Legato gente a prender Lodi,
per una parte, che n' era contenta;
onde que' dentro, come da me odi,
gliene cacciar con gran vergogna adesso,
e furno presi, e morti per più modi.
Nel predett' anno il Papa fe processo,
scomunicando ciascun, che fiorini
facesse per altrui, o per se stesso,
ponendovi il segnal de' Fiorentini.
Di ciò corresse quel di Monferrato,
e' Genovesi, e più altri vicini,
ma non se, ch'era in simile peccato,
che tuttavia ne facea di rivolo;
pognam, che 'l verso fosse divariato.
Dicea dal Giglio: San Piero, e San Paolo;
e 'l verso, ch'era d' intorno al Batista,
Papa Giovanni ricordava solo.
Nel predett' anno, come quì si lista,
cinquecento a caval con belli arnesi
di Francia avemmo al soldo, con gran vista.
Nel detto tempo li Carmignanesi
a' Fiorentin si dier liberamente,
essendo prima sotto a' Pistolesi.
Nel detto anno, sentendo veramente
Don Federigo, che lo Re Ruberto,
per fargli guerra, raunava gente,
di farlo uccidere ordinò per certo
in Napoli ad alquanti di sua Corte,
i quali, poichè 'l fatto fu scoperto,
fur presi, e ferono asprissima morte,
ed erano Talian, que', che 'l peccato
condusse al fine a così fatte sorte.
Nel predett' anno essendo mosso armato
il Prenze, per andare in Romanía,
volendo racquistar suo principato,
arrivò a Cifalonia tra via,
e trovò, che 'l Conte era stato morto
dal suo fratello, e rubellato avía
quell' Isola dal Prenza; ond' egli accorto
sconfisse lui, ed a sua ubbidienza
quell' Isola recò, com' io t' ho porto.
Poi si partío, e passò in Chiarenza
là, dove fu tenuto molto caro,
e fugli fatta grande riverenza.
Nel detto tempo ancor si rubellaro
que' di Bruggia dal Conte lor Signore,
e in Val di Borgo appresso l' assediaro;
e dopo molto danno, e disinore
l' accordo fer que' di Pro, e que' di Guanto,
tra 'l detto Conte, e quel popol minore.
Nel detto tempo, ritornando alquanto
a' Fiorentin, convien, che s' abbandoni
ogni altro dire, e lascisi da canto.
Dico, ch'essendo Bernardo Bordoni
della condotta, per baratteria
fu accusato co' suo' compagnoni.
Questo per setta tutto addivenia,
e degli altri ciascun si fu scusato
a quello Esecutor di tal follia;
e da' Prior Bernardo fu mandato
in altra parte, per lo suo migliore,
perchè non comparisse a tal mercato.
Volendo condannar l' Esecutore,
colla famiglia de' Prior davanti,
Chele suo fratel protestò al Rettore.
Allor si cominciò zuffa tra' fanti;
que' de' Prior volean far del gagliardo
contro alla Corte, ch'eran sei cotanti.
L' Esecutore condannò Bernardo
in duemila lire con mal fele,
e privol d'ogni uficio, se ben guardo.
E condannò co' suoi seguaci Chele,
e tutti quanti gli mandò a' confini,
a petizion della Setta crudele.
E ciò dispiacque a molti Cittadini;
ma sol si fece, per torre gli onori
a que', che si chiamavan Serraglini.
Uscito dell' uficio de' Priori
Zanobi Borghi, anche fu condannato,
perchè era stato de' lor difensori.
Ma quello Esecutor, ch'io t' ho contato,
tenea con gli altri, e non era micciolfo,
ma d'ogni astuzia bene ammaestrato,
ed ebbe nome Piero di Landolfo,
il qual si tornò a Roma Cavaliere
del Popol di Firenze molto golfo.
Ma per gli modi, ch'e' tenne in primiere,
si fece, che' Prior con lor dottrina
cassar potessero ogni forestiere.
E così fu la Setta Serraglina
disfatta, andando contro a lor la piena
della fortuna, che ogni altezza china.
Nel detto tempo, di Febbraio, in Siena,
ricominciaro i Giudici, e' Beccari
contro all' uficio de' nove la mena,
per tor lo stato a que' Cittadin cari;
ed iscoperta, che fu la congiura,
fur condannati in persona, e 'n danari.
Nel predett' anno, e mese (quì proccura)
Castruccio di Pistoi' passò i confini,
e di sue Terre prese oltre misura.
Onde si collegar co' Fiorentini,
rimanendo Signore in suo stato
messer Filippo, e gli altri Cittadini.
E 'l Comun di Firenze fu ingannato,
siccome troverrai più avante,
benchè ne sia per altre volte usato.
Nel predett' anno ancor Messer Ferrante
de' Malatesti, di taglia Campione,
a Città di Castello allora stante,
cavalcò con sua gente a Castiglione,
credendo averlo, e fallandogli il fatto,
fece d' intorno gran danno, ed arsione,
e di tornarsi a Castel non fu matto;
ma benchè gli fallasse la credenza,
con gran preda tornò a questo tratto.
Nel predett' anno si fero in Fiorenza
albitri per corregger gli statuti,
e di farne di nuovi ebber licenza.
Fra le altre cose, che fer que' saputi,
trasser de' Grandi, non con picciol grado,
dieci Casati nel basso venuti,
e venticinque schiatte di Contado
nobili, fero tutti popolani;
la qual cosa si fa molto di rado.
Quest' anno i Piagentini, e' Parmigiani
ebbero a patti Castiglion Lombardo;
e poichè l' ebber liber nelle mani,
il Melanese, che 'l soccorse tardo,
il Borgo a San Donnin prese a sua guisa,
e fece guerra a lor senza riguardo.
Nel detto anno Castruccio mandò a Pisa,
per fare uccidere il Conte Rinieri,
ed altri Grandi, siccome s' avvisa.
Gli assassini fur presi da' Terrieri,
e fecer morte dispettosa, e vile,
come si convenia a tal mistieri.
Mille trecenventicinque, d' Aprile,
i piccioli in Firenze si coniaro
col giglio senza fior, con nuovo stile;
laonde molti mal ne 'ndovinaro
alla Città, e 'l vero dir volendo,
dimolte avversità ne seguitaro.
Nel predett' anno Castruccio sentendo,
che' Fiorentini gli volean far guerra,
e ben da ripararsi non avendo,
di Pistoia, di Prato, e d' altra Terra
tenne trattato; ma perchè altri peschi,
non nuoce a chi ben guarda, e a chi ben serra.
Corromper volle i Cavalier Franceschi:
Tommaso Frescobaldi fe 'l trattato.
Quando di poco eran quì giunti freschi,
un Monaco, che 'l Papa avea mandato,
che gli assolvesse di colpa, e di pena,
guidava, e rispondea per l' altro lato.
Tommaso rubellar dovea di vena
appresso poi Monte Lupo, e Capraja;
ma discoperta prima fu la mena.
Il Monaco fu preso alla primaja,
che nelle Stinche morì con dolore;
un Cavalier ne provò la mannaja,
Tommaso detto, come traditore
fu, poichè fu fuggito, condannato,
e li suoi ben disfatti con furore.
A certi poi de' Pugliesi da Prato,
per que' trattati fu mozzo la testa,
e di Pistoia andò innanzi il piato,
come la cosa ti sia manifesta.
Non posso più dilatarmi al presente,
perchè son giunto al punto della sesta,
e muterò materia nel seguente.
c. 61, argumento
Come Castruccio di Pistoi' Signore
fu, per ingegno, e per forza palese,
onde Firenze n' ebbe gran dolore.
Del Bavero, e d' altre cose, ch'io lascio,
e poi della sconfitta d' Altopascio.
c. 61
Il Duca di Baviera nel dett' anno
del venticinque, come quì si pone,
per cavar se, ed anche altrui d' affanno,
quel d' Osterlicchi trasse di prigione,
e rifiutar gli fe senza rappello
ad ogni Imperiale elezione.
Non consentì Luppoldro suo fratello;
col Papa, e 'l Re di Francia a suo vantaggio
si fu legato, e fessi suo ribello.
Nel predett' anno, del mese di Maggio,
Messer Filippo Signor di Pistoia,
volendo fare a' Fiorentini oltraggio,
diè la Terra a Castruccio, per più noia,
ed e' gli diè diecimila fiorini,
e la figliuola per moglie, per gioia;
e que', che v'eran per gli Fiorentini,
fur morti, e presi tutti di leggiere,
rubati, e pinti fuor da' Ghibellini.
Quel dì in Firenze fatto Cavaliere
s' era l' Esseguitor dinanzi detto,
ed Urlimbanca franco, e buon guerriere.
Ed e' se n' andò, senza alcun sospetto
in San Piero Scheraggio co' Signori,
ed altra gente, con molto diletto;
e la novella fu giunta a' Signori,
come Castruccio era in Pistoia entrato,
e nostra gente avie cacciata fuori.
Gittar le mense per terra, ed a Prato
n' andò la gente, credendo, ch' avuta
non avesse la Terra d'ogni lato.
Sentendo, che Castruccio era in tenuta
tornarsi addietro senza far drappello,
perocchè ogni speranza avien perduta.
Allor Castruccio vi fece un Castello,
che verso Lucca gli dava l' entrata,
ed era molto forte, e molto bello.
E da riprender fur questa fiata
i Fiorentin, perchè dal venditore
potero aver simigliante derrata.
Ma ciaschedun, che ne fu trattatore,
volea sua parte, e dare a lui il resto,
falsando il suo Comun comperatore.
Quando Messer Filippo vide questo,
per disperato, come si ragiona,
la diè a Castruccio, ch' a torla fu presto.
E poi Messer Ramondo di Cardona
giunse in Firenze, ch'era Capitano,
e giurato l' uficio, egli in persona,
e la gente, che ci era a mano, a mano,
andò, e pose il campo ad Artimino,
e combattutol da sera, e da mano,
que' dentro s' arrendero al Fiorentino,
e vennerne prigion dugentosette;
pognan, che fur lasciati a lor dimino.
E 'l Castel tutto per terra si mette,
e la Campana quà ne fu recata,
siccome appar per le parole dette.
Nel predetto anno essendo assediata
la Città d' Osimo da que' della Chiesa,
di notte gente vi fu dentro entrata,
e la mattina usciro alla contesa,
sconfissero il Marchese della Marca,
e molta gente vi fu morta, e presa.
Nel predetto anno con armata barca
il Duca di Calavra andò in Cicilia,
ed a Palermo con sua gente varca;
quella assediò con più di diecimilia,
e stettevi ad assedio bene un mese,
e 'l guasto, che vi diè fu mirabilia.
Ed a tagliar da piè le mura prese,
e già tagliato avea dall' una faccia,
quand' e' si dilungò da quel paese;
e navicando co' suoi in bonaccia,
messo gli venne, che di quelle mura
eran cadute ben trecento braccia.
Ond' el pensando a sua disavventura,
uccider si volea per sì fatta arra,
e Trapali, adirato oltre misura,
e Seragusa, e la Val di Mazzarra,
e Catania guastò, presso a Messina,
poi in Calavra sua passò la sbarra.
Nel detto anno la gente Fiorentina,
di Giugno, dier le 'nsegne, e la Reale,
per assediar Pistoia Ghibellina.
E Castruccio co' suoi prese il Montale,
ed afforzò tutto quanto a tondo;
ma i Fiorentin l' ebber molto per male,
e fecer cavalcar Messer Ramondo,
con tutte le masnade a Prato bello
a cavallo, ed a piè il dì secondo.
Sonando tutte campane a martello,
si ruppe quella, ch'era guadagnata
prima al Montal sotto il giglio a rastrello.
Allora a molti dispiacque l' andata,
e molti Cittadin n' ebber pensieri,
perchè a lor parve male auguriata.
Nientemen popolo, e Cavalieri
usciron di Firenze, ed alle coste
fur di Messer Ramondo volentieri.
Po' giunse l' amistade, e crebbe l' oste,
uscir di Prato, e fermaronsi a Agliana,
guastando intorno a Pistoi' senza soste.
E 'l giorno, ch'era la festa sovrana
di San Giovanni, alla Cittade appresso
corsero il palio velluto di grana.
Messer Ramondo, con sua oste adesso
n' andò a Tizzano, e fel guerreggiare,
e con trabocchi percuotere spesso;
poi una notte fece cavalcare
gente verso Pistoia, acciocchè specchio
fosse contrario a quel, che volea fare.
Dall' altra parte fece altro apparecchio,
e sì mandò, con gli usciti Lucchesi,
il Maliscalco con gente a Fucecchio
a cavallo, ed a piè di più paesi;
e fu di quella gente Capitano,
e guidator, secondoch'io compresi,
de' Brunelleschi Messere Attaviano,
Messer Bandin de' Rossi a lui d' allato,
essendo l' un, come l' altro sovrano.
A Fucecchio trovaro apparecchiato
un ponte di legname, il qual fu posto
sopra Gusciana, e ciascun fu passato.
Quando Messer Ramondo il seppe, tosto
colla sua gente, senza alcuno inciampo,
seguitò gli altri, com' era proposto;
ed appiè di Cappian posero il campo,
e mai quel passo per altra stagione
non si potè aver per nostro scampo.
Se di Cappiano, e di Monte Falcone
fosser sentiti in quella notte stati,
a periglio eran delle lor persone.
Castruccio udendo, ch'egli eran passati,
la gente sua pagò tutta insull'aia,
ed uscì di Pistoi' co' suoi soldati,
e pose il campo suo a Vivinaia.
D' Arezzo, e d' altri nostri avversari
fe venir gente per ogni callaia,
ed anche ne soldò co' suoi danari.
Quando si vide gente, diè di mano
subitamente, e ripose Porcari.
E' Fiorentin, di Luglio, ebber Cappiano,
Monte Falcone, e 'l Ponte; onde gioiosi
stavano tutti per monte, e per piano.
Essendo i Fiorentin vettoriosi,
Siena, Perugia, e Gobbio, e Camerino
di mandar gente furon graziosi.
Di Chiusi n' andò il Conte a San Martino,
e' Bolognesi, e poi Montepulciano,
e San Miniato, e Prato, ch' è vicino,
e poi Volterra, con Sangimignano,
ed Imola, e Faenza, e i Guelfi Conti,
così di presso, come di lontano,
a mandar gente tutti furon pronti;
sicchè d' Agosto, presso ad Altopascio
tremila Cavalieri, e più fur conti.
Allor Castruccio rinovellò il fascio
del suo trattato, e mise sotto il curro
a certi Caporali, i qua' non lascio;
de' qua' fu l' un Messer Milés dal Zurro,
l' altro Messer Guiglielmo di Norè,
che dovean tirar gli altri a tal gazzurro.
Messer Milés ammalato temè
di non morir col peccato compreso,
e quel peccato manifesto fe.
Onde insul letto fu di botto preso,
e 'l capo gli saria stato tagliato,
se non che agli altri era troppo gran peso.
Messer Guiglielmo fu accomiatato,
e fe vista d' andarne per Maremma,
e con Castruccio si fue accozzato;
e fu a lui, come all' anello gemma,
perocchè a' Fiorentin diè poi gran danno,
e questo è vero, come quì s' aemma.
Castruccio fece cavalcare a 'nganno
d' intorno a Prato per quel, ch'io ne creda,
per liberare Altopascio d' affanno;
i qua' levaro grandissima preda,
poscia assaliron gli Carmignanesi,
di quel Castel credendosi far reda.
Alquanti Fiorentini, e de' paesi
vi trasser con dugento Cavalieri,
che ci avevan mandati i Bolognesi,
e percossero a loro arditi, e fieri;
a quattrocento, e più tolser la vita,
e molti ne menaro a' loro ostieri.
Castruccio, e l' oste sua fu sbigottita;
per la qual cosa poi gli Altopascini,
quando sentir, come la cosa er' ita,
di botto s' arrendero a' Fiorentini,
a' quali appresso con ardita fronte
tra lor quistioneggiavan de' cammini.
Certi volevan tornare alla fonte,
cioè a Firenze; altra gente gridava,
che si assediasse Santa Maria a Monte.
L' oste l' un dì più, che l' altro scemava
per gli ammalati, e 'l Maliscalco ancora
per danari molti ne licenziava.
Sicchè il Capitan non avia allora
mezza la gente, che doveva avere;
e non curando i nemici una mora,
certi per boria più, che per sapere,
disser: La gente nostra è prosperevole,
andiamo a Lucca; e così d' un volere
mossero il campo, e posersi a Pozzevole
insul pantan; che se si fosser posti
alla piaggia, era la 'mpresa onorevole.
Com' hai inteso, stando le due osti,
Messer Ramondo domandò balía,
così in Firenze, come per le costi.
Dopo la sua tornata a tal follía,
mosse, avvisando con alcuna setta
aver poi di Firenze Signoria.
Poichè gli fu sua dimanda disdetta,
condusse l' oste con tanto disdegno,
che mise se, e noi in molta stretta.
Castruccio valoroso, e pien d' ingegno
i passi prese per tutto il viaggio,
che dovien fare, e fegli stare a segno.
E poi veggendo, ch'egli avea il vantaggio
della battaglia, s' egli avesse gente,
mandò a Melano un fidato messaggio,
con diecimila fiorin di presente,
pregando molto Messer Galeasso,
che gente gli mandasse incontanente;
che' Fiorentini erano a cotal passo,
che partir non si potien senza duolo,
e di promesse il fece viepiù grasso.
Ond' egli scrisse ad Azzo suo figliuolo,
il quale era nel Borgo a San Donnino,
che a Castruccio n' andasse col suo stuolo.
Il qual si mise subito in cammino,
con ottocento Cavalier, mi pare,
di buona gente, ch'egli avia in dimino.
Messer Ramondo faccendo spianare
inverso Lucca, dugento a cavallo
mandò, per quegli spianator guardare.
Castruccio, che vedea senza fallo
ciò, ch'e' facean, quando dilungati
dagli altri fur bene un miglio di stallo,
de' suoi incontro a loro ebbe mandati,
e fece cominciare il badalucco,
e poich' a zuffa gli vide accozzati,
niente disse, da qual parte mucco,
ma ischierato si venne appressando,
e d' aspettarli pareva ristucco.
Il badalucco venne ringrossando
di dugento a cavallo sprovveduti;
onde Castruccio del poggio calando,
co' suoi percosse, e furon sostenuti
una gran pezza; ma la notte venne
sì, che tra lor non eran conosciuti.
Messer Ramondo le sue schiere tenne;
che se l' avesse pinte alle frontiere,
era vincente; laddove convenne,
che' suoi si ricogliessero alle schiere,
que', che potero, ma ben da quaranta
rimaser morti, e presi, e lor bandiere.
De' quali fu, secondochè si canta,
Messer Francesco Brunelleschi l' uno,
e della Tosa Giovanni si vanta,
e Messere Urlimbacca, e quasi ognuno
de' suo' compagni fu a tal partito,
qual preso, e qual della vita digiuno.
Castruccio in quello stormo fu fedito;
ma come quel, ch' avea sale in zucca,
pure aspettava il soccorso fiorito.
E quando sentì Azzo giunto a Lucca,
e ad Altopascio ridotta la gente
de' Fiorentin, ch'era quasi ristucca,
a Lucca cavalcò subitamente,
e pregò Azzo, ed anche il fe pregare
a donne, ch'el cavalcasse presente,
e fegli ciò, ch'e' seppe domandare.
Tornò al campo Domenica notte,
ed a sua donna lasciò il sollecitare.
I Fiorentin veggendo lor condotte,
la mattina vegnente si trovaro
dumila, e meno a rimetter le dotte.
Ed avendo sentito l' avversaro,
potevan ben cessare ogni travaglia;
ma tutto quanto fecero il contraro,
e richieser Castruccio di battaglia;
ond' egli scese insulla Terza al piano,
col Melanese insieme all'avvisaglia.
De' Fiorentin percosse a mano, a mano
la prima schiera, e l' altra, allo ver dire,
del Maliscalco, e' volse di lontano.
Onde gli altri si dier tutti al fuggire,
e' fanti fur più franchi, e più diritti,
che i Cavalieri, senza alcun fallire.
E così fummo a Altopascio sconfitti,
nel venticinque col mille trecento,
di persone, e di aver molto trafitti.
E Messer Bornio Maliscalco, sento,
che fu que', che ci fece andare al fondo,
secondochè si disse, a tradimento.
Preso fu col figliuol Messer Ramondo,
e molti Fiorentini, ed altri assai
fediti, e morti; e più quì non secondo,
se non Firenze fu piena di guai.
c. 62, argumento
Come il Legato assediò San Donnino,
e come soccorrendo fu sconfitto
lì Messer Cane, e Messer Passerino:
di Fiandra, di Raona, e di Castruccio,
che tornò a Lucca, e noi cacciò con cruccio.
c. 62
Mentrechè i Fiorentini erano in volta,
Castruccio il ponte a Cappian fe pigliare
sicchè a' fuggenti fu la strada tolta.
E non possendo Guisciana passare,
gran quantità ne rimaser prigioni,
i quali fe tutti a Lucca menare.
La salmeria, trabacche, e padiglioni
ebbe, con molti arnesi, e di presente
ebbe Cappiano, con Monte Falconi,
ed Altopascio poi incontanente.
E que', che v'eran dentro, a Lucca presi,
con gli altri ne mandò subitamente.
Nel predetto anno ancor, se ben compresi,
Papa Giovanni, con dolci latini,
rendè il Vescovado a' Cortonesi,
ch'era sommesso prima agli Aretini;
ma per indebolir lor Vescovado,
il tolse a loro, e diello agli Ubertini.
Ed anche tolse a lor del lor Contado,
e diello al Vescovado di Cortona.
E quel d' Arezzo avendolo in disgrado,
li nimicò in avere, e 'n persona,
ed ogni lor Fortezza a terra china,
disfè Montuozi, e lor case, ragiona.
E gli Ubertin rubellar Laterina,
e preso avrien co' Fiorentin trattato,
se non fosse la rotta Altopascina.
Nel venticinque, di Giugno, il Legato,
favoreggiar volendo i Parmigiani,
il Borgo a San Donnino ebbe assediato;
nel quale era Azzo, e molti Oltramontani,
ed altri, che volevan nimicare
la santa Chiesa, con que' Terrazzani;
i quali strinse sì, che da mangiare
poco potea venir lor per cammino:
per la qual cosa insieme, ciò mi pare,
fur Messer Cane, e Messer Passerino,
e' Marchesi con gente, per fornire
il Borgo, acciocchè non cadesse al chino;
e nel Po navi, e gente con ardire,
con molta vettuaglia per difesa
miser, pensando non poter fallire.
Scontrando nel navilio della Chiesa,
fur da loro sconfitti, con gran duolo
di quella gente, che fu morta, e presa.
E li detti Signor, con altro stuolo
non possendol fornir, sì assediaro
contro la Chiesa il Castel di Sassuolo.
Quello, ed un altro ebber senza riparo;
poi si partiro, ed a Chermona alquanti
con vettuaglia in San Donnino entraro.
Onde si francò il Borgo, e tutti quanti
quei, ch'eran dentro, con Azzo Visconte,
e que' di fuor si dipartir davanti.
Nel predetto anno, con ardita fronte,
contro a' Pisani andò il Raonese
nella Sardigna, con sue genti pronte.
Trovò due cocche cariche d' arnese,
Castel di Castro volendo fornire;
perchè l' armata era al Pisan palese,
quelle pigliaro, e sanza molto dire
rubarono, ed uccisono i Pisani,
che pochi ne camparo per fuggire.
Per la qual cosa tutti i Catalani,
che aveano in Pisa piene le valigi,
rubati furon poi da' Terrazzani.
Nel predetto anno il Fiammingo Luigi
cacciò di Fiandra Caporali assai,
che gli facean per Bruggia ma' servigi.
Poi con sua gente se n' andò a Coltrai,
per guerreggiare a Bruggia, com' io porgo,
e quivi a certi dar morte con guai;
i qua' sentendo ciò, se bene io scorgo,
fuggiro in una casa, e que' la serra
col fuoco, ed arse tutto quanto il Borgo.
Per la qual cosa poi que' della Terra
usciron fuori, e s'io ho ben compreso,
e' sconfissero il Conte a quella guerra.
De' suoi fur morti assai, ed el fu preso,
trasservi que' di Bruggia, e ne menaro
il Conte, con molti altri di gran peso.
A mezza via, presente lui, tagliaro
la testa a trentasette suo' compagni,
e miser lui in pregione, ed ebbel caro.
E poi fer, che que' d' Ipro, arditi, e magni,
si rubellaro, e cacciarne d' accanto
i gran Borgesi fuor, con molti lagni.
Nel detto anno, d' Agosto, que' di Guanto,
per soccorrere il Conte, andaro ad oste
a Bruggia, dove raddoppiaro il pianto.
E que' dentro percosser dalle coste,
sconfisser que' di Guanto, e molti presi
ne menarono in Bruggia senza soste.
E' fuggenti tornati a Guanto accesi,
coll'altra minutaglia, furo accorti
a voler fuor cacciare i gran Borgesi;
i qua' si ritrovar tanto più forti,
che lì sconfissero il popol minuto;
e poichè n' ebber molti presi, e morti,
per vendicar l' oltraggio ricevuto,
ne giustiziaron con aspra sentenza
molti altri; e quì di lor sia il dir compiuto.
Nel predett' anno, di Luglio, in Fiorenza
il fuoco s' appigliò in Parione,
ed arse, per la mala provvedenza,
quindici case, con cinque persone.
Per questo modo Iddio talora accenna,
e tal fiata ci dà col bastone.
Nel predetto anno il Dalfino di Vienna
sconfisse in campo il Conte di Savoia,
ed a sua gente diede mala strenna.
Molti ne furon morti, e con gran gioia
ne menò certi, e misegli in pregione,
dove li tenne poi con molta noia.
Nel detto tempo il Conte di Mangone
fu morto a tradimento da Spinello
suo nipote bastardo, ed isterpone;
il quale a' Fiorentin diede il Castello,
per fiorin d'oro mille settecento;
pognan, che di ragione era lor quello,
perchè il Conte Alessandro in testamento
Mangone, e Vernia lasciò al Fiorentino,
nè fe sanza cagion tale strumento.
Appresso que' dal Monte a San Savino
al Vescovo d' Arezzo s' arrendero,
il qual poi mise la Terra al dichíno.
Nel predetto anno, raccontando il vero,
il fil del Re d' Inghilterra Adoardo
in Francia venne, non senza mistiero;
perchè la madre del garzon gagliardo,
e sirocchia carnal del Re di Francia,
trattata avea la pace, se ben guardo,
tra gli due Re, che non l' ebbero a ciancia;
ciò era tra 'l Francesco, e l' Inghilese,
che per Guascogna si dier mala mancia.
Addietro sai, ch'io ti feci palese,
com' eran due Imperadori eletti,
onde tra loro gran guerra s' accese;
e venuti a battaglia i sopraddetti,
il Bavero sconfisse l' altro Duca,
ed ebbelo a prigion, con più costretti.
E nel detto anno il trasse della buca,
ed el promise di rinunziare,
e far, che la sua boce a lui riluca.
Luppoldro suo fratel nol lasciò fare;
ma 'l Baver gli promise tanti onori,
ch'egli assentì di lui proprio chiamare.
Ma quando insieme furono i Lettori,
dissero, a petizion del Papa al certo,
che l' uno, e l' altro ne debb' esser fuori.
Luppoldro, benchè avesse ciò sofferto,
d' essere Signor d' Italia trattato
tenea co' Fiorentini, e 'l Re Ruberto.
Come che andasse, infra questo mercato
Luppoldro si morì; e quì ti lascio;
dissesi allor, che fu avvelenato.
Nel detto anno Castruccio, ch' Altopascio
avea assediato, dopo la stagione
della sconfitta, donde ancor strambascio,
disfè Cappiano, e poi Monte Falcone,
perocchè 'n quella parte gli era a noia
la grande spesa; e ciò fu la cagione;
e con sua gente ne venne a Pistoia.
Non volle andare a Lucca, perchè invano,
i soldati aspettavan la mongioia.
Mandò Messer Filippo a Carmignano
con gente, che 'l tenieno i Fiorentini,
e fue abbandonato a mano, a mano,
salvo la Rocca; e poi a que' confini
venne Castruccio, e' suo' sanza dimoro,
rubando, ardendo, e guastando i vicini,
Lecore, Signa, Quaracchi, e San Moro,
e Campi, e Brozzi, e ad altre ville intorno
allora fe simigliante divoro.
D' Ottobre fe in Peretola soggiorno;
tre dì vi stette, e non pensar, che cali,
fino a Fiorenza correndo ogni giorno.
E 'l dì di San Francesco fe tre palj
correr, l' uno a cavallo, e gli altri a piede,
in su Rifredi faccendo altri mali.
Gente ci aveva assai, ma e' si crede,
che dentro avea tanta gelosia,
che fero a non mutarsi chi ben siede.
A' dì cinque d' Ottobre s' andò via
Castruccio, ardendo quella, e l' altre ville,
e tornò a Signa, ch'era in sua balía.
E fece passar l' Arno a più di mille,
che ne menavan prigioni a brigata,
mettendo tutto a fuoco, ed a faville.
E presso alla Città, ch'era steccata,
da quella parte furo a Monticelli,
e molto si temette quella fiata.
Partironsi i nemici adorni, e belli,
ed in Val d' Elsa per Giogoli andaro,
guastando intorno dimolti gioelli.
A Monte Lupo arsero, e rubaro,
e poi di Carmignano ebber la Rocca,
e presso a Prato tutti s' alloggiaro;
quivi la preda d'ogni parte fiocca.
Veggendosi Castruccio tal tesoro,
niente fu, come persona sciocca.
Venticinque migliai' di fiorin d'oro
mandò a Lucca a quello Azzo Visconte,
che gli aspettava con sua gente in coro;
il qual si mosse a vendicar sue onte,
e tutti insieme tanto cavalcaro,
che furon con Castruccio Duca, e Conte.
Azzo Visconte quì non venne indarno,
dì ventisei d' Ottobre di velluto
un palio correr fe nel gretto d' Arno,
per vendetta di quel, che ricevuto
avea da' Fiorentin presso a Melano,
siccome addietro puoi aver veduto.
Tornarsi a Signa, e di queto, e di piano
Azzo co' suoi si partì incontanente,
e a Melano tornossi allegro, e sano.
E puossi quasi dir veracemente,
che Castruccio guastasse di Fiorenza
tutte villate, ch'ell' ha inver ponente.
E la gente fuggita per temenza
nella Città cominciaro a 'nfermare,
di che ci nacque grande pistolenza;
talchè per non volere sgomentare
gl' infermi, niun morto si bandía,
e le campane fer senza sonare.
I Fiorentini avendo ricadía
della guerra di fuori, ed in Cittade
vedevan cominciata la moría,
al Re Ruberto, ed all'altra amistade
chiesero aiuto; e Colle, e Sanminiato
prima soccorse a nostra nicistade.
E poi perchè Castruccio era vantato,
che riporrebbe il poggio d' Atalante,
subitamente fu preso, e steccato,
e Sanminiato a Monte somigliante.
Veggendo questo Castruccio, non volle
mettersi a valicar verso Levante.
Nel predetto anno Ugo da Battifolle
Ampinana riprese, e condannato
ne fu; ma non se ne curò tre zolle.
Il Duca di Calavra in quà arrivato,
il Conte Ugo gli andò incontro di botto,
e tanto fece, ch'e' fu cancellato.
Nel detto anno, d' Ottobre, a' dì ventotto,
Castruccio venne a Prato, e 'l nono giorno
alla Città di Pistoi' fu ridotto.
E 'l dì seguente a Signa fe ritorno,
e di quà, e di là dall' Arno ancora
fece guastarlo gran parte d' intorno.
A' cinque di Novembre non dimora;
ma subito n' andò in Valdimarina,
e ciò, che v'era, a suo poder divora.
Diceasi fra la gente Fiorentina:
Egli è in luogo, che non può fuggire;
e mandovvisi gente di rapina.
Ma prima fu a lui fatto sentire,
e con gran preda, e molti Contadini
a Signa si ricolse con ardire.
Poi ne mandò Cavalieri Aretini,
e colla faccia dello 'mperadore
fece coniare in Signa i Castruccini.
Poi la fornì, e con molto valore
tornando a Lucca a far bella la festa
di San Martino, con trionfo, e onore,
incontro gli si fe la gente presta,
uomini, e donne, colla processione,
cantando tutti con ghirlande in testa.
E' Fiorentini, ch'erano in pregione
si mandar tutti a lui, com' io ti narro,
quando a appressar si venne alla magione.
Dinanzi a Castruccio andava il carro
colla campana, del quale era privo
il Guelfo, che lasciò, come bizzarro.
I buoi coperti eran tutti d' ulivo,
ed a ritroso bandiere, e pennoni
del Comun, ch'io per dolor non iscrivo.
E dietro al carro andavano i pregioni
legati, e 'nghirlandati, udendo fare
di loro strazio, beffe, e diligioni.
Castruccio a tutti poi diè desinare;
ma come fur levate le tovaglie,
li fece tutti quanti incarcerare;
e pose loro importabili taglie,
e fece tormentar molti di loro,
perchè temesser sì fatte tanaglie.
E più di centomilia fiorin d'oro
trasse tra de' prigioni, e degli arnesi,
che alla sconfitta abbandonati fuoro.
E benchè i Fiorentin fossero offesi,
non isbigottír, ma crescér l' entrata,
e gente fer venir di stran paesi,
ed afforzar Monte Buoni, e Combiata,
acciocchè in Val di Grieve, nè in Mugello
Castruccio non potesse ir coll'armata.
Dugento Cavalier senza rappello
mandaron contro a quel di Lombardia,
acciocchè non atasse il Tiranello.
Ma quì ricider mi convien la via,
perch'io son giunto al termine proposto,
e muterotti nuova diceria;
poi torneremo alla materia tosto.
c. 63, argumento
Come sconfitti furo i Bolognesi
da' Tiranni Lombardi; e di Castruccio,
che cavalcò sopra' nostri Paesi;
di Fiandra, e come i Fiorentin per certo
si dierono al figliuol del Re Ruberto.
c. 63
Era d' Ottobre, l' anno innanzi detto,
che i Bolognesi usciti, per lor meglio
pensar metter Bologna in gran sospetto;
e presero il Castel di Monte Veglio,
con Messer Passerin senza menzogna,
di cui gli usciti allor faceano speglio.
Onde vi cavalcaron da Bologna
popolo, e Cavalier molto di grosso,
ed assediarlo sì, come bisogna.
Rifer di quà dalla Scotenna il fosso;
per la qual cosa Messer Passerino,
veggendosi venir tal gente addosso,
aiuto chiese ad ogni suo vicino,
ed accampossi presso alla Scotenna,
badaluccando la sera, e 'l mattino,
e quel Castello di fornire accenna;
e i Bolognesi sempre contastando,
non vi lasciaro entrar dentro una penna.
Azzo Visconti a casa sua tornando,
con Messer Passerin fu volentieri
colla sua gente, ad ogni suo dimando.
Sicchè presso a tremilia Cavalieri
eran da quella parte tutti quanti,
i suoi pedoni, e tutti i forestieri.
E' Bolognesi, che v'eran davanti,
eran domila a caval con ardire,
e sanza fallo trentamila fanti.
E non volendosi quindi partire,
i Fiorentin d' aiuto, e di consiglio
richieser per la lor voglia seguire.
Dugento Cavalier v' andar col giglio,
ed Ambasciata per nostra Cittade,
ch'e' si partisson da sì gran periglio.
Ond' e' ripreser molto la viltade
de' Fiorentini, e fer beffe di loro,
e confidarsi nella lor bontade.
E li nemici poi senza dimoro
passaron la Scotenna arditamente,
e cominciaro a trafigger costoro.
E' Bolognesi molto francamente
li rispinsero addietro, e nel Castello
per quella volta non misser niente.
E Messer Passerin veggendo quello,
fe vista di partirsi, ed assediare
fe il Ponte a Santo Ambruogio forte, e bello.
E' Bolognesi il fosso fer guardare
a' Fiorentini, ed altri, e furono iti
inverso al detto Ponte a riparare.
E 'l Passerin veggendogli partiti,
tornò verso il Castello, e giunse al passo,
mettendo quella guardia a ma' partiti.
Veggendo i Bolognesi tal fracasso,
in isconfitta fuggír con affanno,
così li mise la speranza in basso.
E' ricevetter però piccol danno:
trecento da caval camparo al chino,
e mille a piè; di questo non t' inganno.
Rimasevi Messer Malatestino,
e 'l Podestà di Bologna, che caro
gli costò far così fatto cammino.
I Bolognesi a Bologna tornaro,
e Messer Passerino una mattina
v' andò ad oste, e non trovò riparo,
e tolse l' acqua loro, e le mulina,
e per far loro più vergogna, ed onte,
fino alle porti diè lor disciplina.
E poi salito a Santa Maria a Monte,
il Popol volie pur di fuori uscire
alla battaglia, con ardita fronte.
Ma li savj non voller consentire:
disfero la Cittade, e fero assai.
E que' di fuor volendosi partire,
per crescer la vergogna dopo i guai,
tre palj fecer correr quivi a gara
i tre Signori, che quivi udirai.
L' un fu quel del Marchese di Ferrara,
l' altro fe correre Azzo, se ben veggio,
e l' altro il Mantovan, che non divara.
Sentendo poi, che per la Chiesa a Reggio
andava gente, tornar con effetto
nel Modonese, per tema di peggio.
Nel predetto anno nacque gran sospetto
tra' Fiorentin per que', ch'eran possenti,
pregion rimasi a Lucca con difetto;
cioè, dubbiando, che li lor parenti,
per cavare i congiunti di prigione,
non facesson degli altri malcontenti;
ed ordinossi per rinformagione,
che niun non potesse esser Castellano,
nè Capitano di Congregazione,
nè di consiglio, Grande, o popolano;
questo fer que', ch'eran di senno il turlo,
per non venire in istato villano.
Nel detto tempo, nota ciò, ch'io urlo,
Castruccio corse a Giogoli da Signa,
ed assediò appresso Monte Murlo
con battifolli sì, che sanza tigna
grattar potiensi que' dentro di quello,
che vedien fare a sua gente maligna.
E quivi dimorando ebbe Chiavello,
qual' era degli Strozzi, e fecel porre
per terra, acciocchè non fosse ribello.
E 'l dì seguente poi ebbe la Torre
a Puligiano, e tagliolla da piede,
e rubando, e guastando intorno corre.
Poi all'acquisto del Castel procede;
con isteccar con dificj, e con cave,
e con combatter, come si richiede.
I Castellan veggendo il fatto grave,
per soccorso mandarono a Fiorenza,
che si poteva far molto soave;
ma soccorsi non fur per nigrigenza:
onde poi, a dì sette di Gennaio,
ebbero appena di campar licenza.
Prese il Castel, che quasi fu vespaio
a tribolar Fiorentini, e Pratesi,
e fu a lui vettorioso maio.
Nel detto tempo, sed io ben compresi,
il Re Ruberto, ond' io memoria fonne,
mandò a Firenze Cavalier Pugliesi
trecento armati, che parien colonne;
nè voller cavalcare in nulla guisa,
ma solo stare a vagheggiar le donne.
Nel detto tempo il Comune di Pisa
mosse, con ventitrè galee armate,
perchè soccorrer Castel Castro avvisa;
e come furono in Sardigna apportate,
furo a battaglia con que' di Raona,
i quali eran maggiore quantitate;
e nel golfo di Calleri ragiona,
ched isconfitto, e rotto fu il Pisano,
e di lor quasi non campò persona.
E 'l Papa fe l' accordo a mano, a mano,
e diede al Re ciò, che in Sardigna giace,
e liberar prigion da ogni mano;
e 'n questo modo fu fatta la pace,
nel ventisei di Giugno poi seguente:
or direm d' altro, e di questa si tace.
Nel venticinque ancora, tieni a mente,
che di Dicembre, tutti quanti quelli,
ch'erano in Signa, Castrucciana gente,
venner correndo insino a Monticelli,
e certi, che uscir fuor, fur malmenati
sì, che sonar le campane a martelli.
Armossi il popolo, e fur seguitati
ben cinque miglia; ma la gente fella,
temendo peggio si furo imbucati.
La detta tratta fu valentre, e bella;
ma non v'era Castruccio, saper dei;
che forse peggiorava la novella.
Nel mille con trecento ventisei,
i Fiorentin veggendo loro affanni,
senza riparo alcuno a' fatti rei,
al Duca di Calavra per dieci anni
dieder la Signoria senza dimoro;
e questo fer per fuggir maggior danni.
E dugento miglia' di fiorin d'oro
doveva aver per anno, e il reggimento
al modo usato lasciar fare a loro;
e mille Cavalier di valimento
dovea tenere, e starci in persona,
e servare ogni nostro ordinamento.
E se infra 'l tempo, che quì si ragiona,
vettoria avesse del nostro avversario,
o pace fosse onorevole, e buona,
potea andare, e lasciar suo Vicario,
con quattrocento Cavalieri, e poi
tornare, alla metà di suo salario;
ed altri patti fur da lui, e noi,
ch'io lascio stare; e del mese di Maggio,
di Napoli si mosse il Duca, e' suoi.
Or mi convien, Lettor, mutar linguaggio,
e raccontar di certi fatti stati,
tornando addietro, e nota, come saggio.
Nel venticinque certi rubellati
dal lor Signor di Bruggia, fur d' accanto
dal Conte di Namurro maltrattati;
ched isconfitti fur tra Bruggia, e Guanto,
e fur morti di lor più di secento,
e gli scampati fuggiron con pianto.
E poi appresso, secondoch'io sento,
quelli di Franco ancor furo sconfitti
dal detto Conte, e con maggior tormento.
Per la qual cosa veggendosi afflitti,
trattaron pace per lo lor migliore
co' lor Maggiori, annullando i delitti,
e trasser di prigione il lor Signore:
e questo basti de' Fiamminghi, avante
volendo mutar cibo a te, Lettore.
Nel predetto anno, d' Ottobre, lo 'nfante,
tornando colle decime di Spagna
il Collettor del Papa, tutte quante
per forza le rubò, con sua compagna;
e quando il Padre Santo sentì questo,
de' Raonesi turbato si lagna.
E lo Re di Raona ardito, e presto
al Papa scrisse con dolci latini,
che la detta pecunia volía in presto,
ch'eran dugento migliai' di fiorini.
Diegli sue Terre in pegno, ed e' le prese,
non possendo altro far contro a' vicini.
Appresso sei galee del Ragonese,
ch' andavano in Sardigna a prender terra,
tra via sconfitte fur dal Genovese.
Nel predett' anno Capitan di guerra
in Firenze fu fatto per ragione
Messer Pier di Narsi, se 'l dir non erra;
qual' era allora uscito di prigione,
per la sconfitta, ove 'l figliuol fu morto,
e Capitan si fe per guiderdone.
Il qual fu tanto saputo, ed accorto,
ch'egli ordinava per sottil trattato,
come Castruccio da' suoi fosse morto.
Ma siccome scoperto gli fu il guato,
tagliò la testa a nove a mano, a mano,
ed agli altri sospetti diè commiato;
e poco appresso il nostro Capitano
a Signa cavalcò con certa gente,
e ritornossi indietro salvo, e sano.
Quando Castruccio il seppe, incontanente
a Signa venne, e sette Caporali
ne menò presi a Lucca di presente.
Colla sua gente lasciò quanti, e quali,
ne venne a Signa e poi in Valdipesa
cavalcò, dove fe dimolti mali,
ed arse Torri, e colla preda presa
si tornò a Signa, e l' altro dì di botto
a San Cascian fe simigliante offesa.
E poich' a Signa fu co' suoi ridotto,
cavalcò a Peretola altra volta,
e a Signa ne menò più di diciotto.
E poichè la sua gente ebbe raccolta,
dì ventotto del mese di Febbraio
arse la Terra, e 'l ponte mise in volta,
e 'n Carmignano n' andò allegro, e gajo,
e fecelo afforzare, e crescere elli,
poichè guasto ebbe intorno ogni solaio,
e diello in guardia a' Fiorentin ribelli;
poi si partì, temendo de' soldati,
ch' a' Fiorentin giugnean chiari, e belli.
Nota Lettor, che fra gli altri trattati,
che fe Castruccio, crudeli, ed alpestri,
perchè i Fiorentin fossero annegati,
fu, ch'el cercò con solenni maestri,
di rimurar la Pietra Golfolina,
acciocchè 'l fiume d' Arno in quà balestri,
per allagar la Città Fiorentina;
ma e' trovaron, secondoch'io 'ntesi,
che più di cento braccia era la china.
Nell'anno sopraddetto, i Bolognesi
la pace fer con Messer Passerino,
e racquistaro i prigioni, e' paesi.
Nel detto anno, mandando l' Aretino
alquanta gente, per guastar la Fratta,
in gente si scontrar del Perugino,
e 'nsieme combattè la gente tratta;
la notte sopravvenne, ed a suo banda
ciascun tornossi; e non fu allor disfatta.
Nel detto anno, Messer Vergiù di Landa
rifè Sassuolo, come saper dei,
per Santa Chiesa, di cui se ghirlanda.
E nel mille trecento ventisei
a' Modonesi fece grande offesa,
e più Castella contro a lor fe rei.
Ed in servigio allor di Santa Chiesa
dugento Cavalier, gente sovrana
mandaro i Fiorentini a loro spesa;
colla qual vinse l' Isola Sezzana,
dove avie molti Cavalieri, e fanti,
co' quali furo a battaglia villana;
ed isconfitti furon tutti quanti,
e gran parte ne furon messi a morte,
e molti presi, come vedi avanti.
E poi appresso prese Borgo Forte,
e' Mantovani fece star tapini,
ed a Mantova corse insulle Porte.
E bontà de' soldati Fiorentini
presero i Borghi, e per poco rimedio
falliron la Cittade, e' Cittadini,
e tutto Luglio stettero all'assedio;
ma finalmente sopra il Chermonese
il Passerin cavalcò senza tedio.
Onde Messer Vergiù, quando lo 'ntese,
arse que' Borghi, e cavalcò a Reggio,
e tutto intorno gli guastò il paese.
Nel predetto anno ancor, se chiaro veggio,
il Vescovo d' Arezzo fe disfare
Castel di Laterina, e poi fe peggio;
che tutto il poggio in croce fe tagliare,
e fece ben cinquecento famiglie,
come smarriti, per lo mondo andare,
ond' io mi fo delle gran maraviglie,
che Iddio non gli mandò aspra sentenza
per la pietà di tanti figli, e figlie.
Il Vescovo si mosse a tal fallenza,
perchè sentì, che gli Ubertin volieno
la Terra dare al Comun di Fiorenza.
Lascio il Prelato di superbia pieno,
e non volendo il termine passare,
pongo al presente alle mie rime freno,
e d' altro nel seguente vo' trattare.
c. 64, argumento
Come que' d' Osimo rientraro in Fermo,
e di Castruccio, e come il Malatesta
cacciato fu, e racquistò lo schermo,
e come il Duca di Calavria venne,
adorno, e bel, come a lui si convenne.
c. 64
Avendo que' di Fermo fatto accordo
colla Chiesa, e faccendo festa bella,
uomini, e donne danzando d' ingordo,
que' d' Osmo, a cui non piacea la novella,
per forza dentro misero l' artiglio,
e preser la Città chiar, come stella.
Ucciser certi, e ad altri dier di piglio,
e miser fuoco nel comun palagio,
dove per tal cagione era il consiglio.
De' quali alquanti in quel fuoco malvagio
arsero, ed altri guastar le persone,
sicchè vivetter poscia maladagio.
Correva allor la detta Indizione,
mille trecento ventisei compiuto,
di Marzo, quando fu quella tencione.
Nel dett' anno Castruccio avendo avuto
per danari il Castel di Castellina,
che un de' Frescobaldi avie venduto,
a Cerreto, a Vinci, ed a Vitolina
si stese, e passò l' Arno con affanni,
Petroio abbandonò, ch' è poi vicina.
Nel detto anno, d' April, Papa Giovanni
in Concestoro privò, e dispose
il Vescovo d' Arezzo pien d' inganni;
e tutto il Vescovado in guardia pose
del Proposto, che fu degli Ubertini;
ma poco valser tutte queste cose.
Il Papa, a petizion de' Fiorentini,
mandò in Toscana Messer Gian Gatani,
Cardinal della Casa degli Orsini,
perchè mettesse accordo tra' Toscani,
avendo intorno a ciò piena balía
contro a color, ch' a lui fosser villani.
Nel predett' anno alla veduta mia
cominciar guerra Furlì, e Faenza,
e' Ghibellin con molta maestría
preser Castel di Lucchio; e di Fiorenza
gente v' andò a que', che l' assediaro,
e 'n fine s' accordar sanza fallenza.
Nel detto anno Castruccio per riparo
de' suoi sottoposti Pistolesi,
più battifolli pose, e per contraro
de' Fiorentin guerreggiaro i Pratesi;
ma sentendo venire il Baronaggio
del Duca, levar tutti quegli arnesi.
E poi a' dì quattordici di Maggio
Messer Piero di Narsi Capitano,
credendosi acquistar pregio, e vantaggio,
trattò con certi d' aver Carmignano,
e con dugento Cavalier fu ito
in quelle parti; ed appresso nel piano
da maggior quantità fu assalito,
ed isconfitto, s'io ho ben compreso,
perocch'e' fu da' trattator tradito,
e con molti de' suoi rimase preso;
e questo a' Fiorentin fu danno, e noia,
perchè di lor vergogna crebbe il peso.
Castruccio i presi ne menò a Pistoia,
e fe tagliar la testa a Messer Piero,
e gli altri la pregion tenner per gioia.
Nel predetto anno, e mese di leggiero
giunse in Firenze il Duca d' Attene,
come Vicar dell'altro Duca altiero.
Seco menò la donna sua dabbene,
che figlia fu del Prenza di Taranto,
che nipote del Re Ruberto viene;
e dimorato in casa Mozzi alquanto,
tutte le Signorie fe giurare,
per lo Signor, che veniva d' accanto;
e' Priori insaccati fe annullare,
e fece d' altri nuova lezione;
pognan, che poco ci avessero a fare.
Nel predett' anno, e mese, e stagione,
la lezion dello 'mperio vacata,
fu il Re Ruberto Vicario, e Campione.
Nel detto tempo si mosse l' armata
del Re, volendo in Cicilia passare,
e per lo Conte Novel fu guidata.
Di Giugno si trovarono arrivare
nella Cicilia, e guastar sanza sosta
a Palermo, e Melazzo, e poi il Fare
passar guastando a Gatana, ed Agosta,
e Seragosa, e 'nsino a Messina,
ed a Melazzo tornaro a lor posta.
Il quale appresso con suo gente fina
corse il Figliuolo di Don Federigo
chiamato Re, per dargli disciplina.
Ma il Conte Novel, com' io ti rigo,
s' era ricolto in galea di presente;
sicchè zuffa non v'ebbe; ond' io mi sbrigo.
Verso Genova andando con sua gente
il Conte, come prima era ordinato,
in Maremma discese allegramente.
Sentì, ch' ancora non era passato
il Duca di Calavra a Firenze,
che dovea essere a Lucca assembrato.
Cominciò a guerreggiare, e con prudenza
prese Magliano, e Colecchio de' Conti
di Santa Fiora, a cui diè penitenza.
Poi si partiro, e tanto andaron pronti,
che fer co' Guelfi Genovesi schiera,
e gli accettaron con allegre fronti,
per conquistar le Terre di Riviera,
e far guerra a Castruccio in Lunigiana,
siccome prima ragionato s' era.
Ma la speranza lor fu tutta vana,
perchè Castruccio v'era alle difese
venuto prima, con gente sovrana.
Invano stetter quivi più di un mese;
l' armata a Napol tornò volentieri,
e 'n Genova tornossi il Genovese.
Conte Novel, con cento Cavalieri
venne a Firenze, per essere allato
al Duca, in cui avea tutti i pensieri.
Nel detto tempo il Cardinal Legato
arrivò in Pisa, e Castruccio gli scrisse:
Benchè fortuna m' abbia prosperato,
se per gli Fiorentin si consentisse,
i' fare' volentier pace con loro.
Ed el beffe si fe di ciò, che disse,
e poi ne venne quà sanza dimoro,
e 'n Santa Croce il Comun gli donone
in una coppa mille fiorin d'oro.
Adì quattro di Luglio piuvicone
a San Giovanni il detto Cardinale
tutto il tenore di sua Legazione:
com' egli era Legato, e Paciale
della Toscana, e Marca, e del Ducato,
e di più altre parti Generale.
E questo a tutti ebbe notificato,
dicendo, che 'l dovessero ubbidire,
e dare aiuto a sì fatto mercato.
Nel dett' anno di Giugno, con ardire
uscir trecento a caval di Pavia,
e gente a piede assai a lor seguire,
per aver di Tortona Signoria;
e cavalcando sparti a tale offesa,
la gente, che v'er' entro, non dormia;
ma uscir loro addosso alla difesa,
sconfisser que' del Signor di Melano,
gridando: Viva, viva Santa Chiesa.
Nel predett' anno quel di Fabriano
con molta gente Ghibellina corse,
per prender Mutro; ma da Reggio Tano,
co' Malatesti subito il soccorse,
e scontrando i nemici, sanza resta
in isconfitta addietro gli ritorse.
Essendo a questo Messer Malatesta
di Rimine, Messer Lamberto Gianni,
e 'l Cugin, con molti altri a suo richiesta,
pensar con tradimento, e con inganni,
e come usanza è di Romagnuolo,
di Rimine esser Signori, e Tiranni.
E Messer Ferrantino, e 'l suo figliuolo,
ed altri Malatesti convitaro
a desinar, per pascergli di duolo.
E quando a mensa fur, poco indugiaro,
che assaliti fur da molti armati;
e' Fanti, che si misero al riparo,
tutti fur morti, e' Signor carcerati:
Messer Lamberto la Signoria prese,
e' Reggenti di fuori ebbe cacciati.
Quando Messer Malatesta lo 'ntese,
con molta gente di quelle contrade,
di subito ne venne in suo paese.
Quando a Rimino fu coll'amistade,
ch'egli avie dentro, ruppe delle porti,
e corse nel suo nome la Cittade.
E trasse delle carcere i consorti,
e in Castel Sant' Angel fu fuggito
Messer Lamberto, e' suoi per esser forti.
Di poco spazio divenne fallito,
ed era gran mercè, che un uom sì truglio
di tanto mal fosse stato punito.
Nel predetto anno, a' dì dieci di Luglio,
il Duca di Calavra, con sua gente
nella Città di Siena fe cispuglio;
e per la guerra nata nuovamente
tra' Salimbeni, e' Tolomei, seguía,
che tutta la Città stava dolente;
laonde i Fiorentin per gelosia,
ch'e' non venisse a Ghibellina parte,
mandaro a detto Duca ambasceria,
perchè non si partisse, e con ogni arte
facesse tanto, ch' avesse verace
il Signoraggio di Siena per carte,
e riponesse i sopraddetti in pace.
E 'l Duca, che ciò intese volentieri,
disse: Fate ciò, ch' a' Fiorentin piace;
poi fe far triegua cinqu' anni a' guerrieri,
di che i Sanesi gli fer grande onore,
ed e' fe certi di lor Cavalieri.
Appresso domandò d' esser Signore,
e per cinqu' anni fu fatto di botto,
con certi patti; ma non di buon cuore:
e dimorovvi insino a' dì ventotto,
poi si partì colla sua gente attenta,
e venne là, dov'egli era condotto.
Nel predett' anno, di Luglio a' dì trenta,
giunse in Firenze, come intender puoi,
se noti quel, che 'l mio dir t' appresenta.
Dinanzi venner tutti i Baron suoi
con suo brigata adorna, ognun per certo.
Diciam chi furo, e di lui direm poi.
Messer Giovan, fratel del Re Ruberto,
il qual veniva, che fosse ziano
del detto Duca, come vedi aperto.
Poi fu Messer Tommaso da Marzano,
e 'l figliuolo del Prenze di Taranto,
Conte Squillaci, e quel di Catanzano;
Messer Guiglielmo Debole d' accanto,
e poi il Conte di Santo Severino,
e quel di Chiarentana di gran vanto.
Messer Amelio poi dal Balzo fino,
e 'l Sir di Bera, e quel di Merlotto,
Conte Romano, e quel di Minerbino,
Giacomo di Cantelmo, savio, e dotto,
Messer Guifrè di Gianvilla discreto,
e Carlo Artù più pro, che Lancillotto,
Conte di Fondi, e quel di Sangineto,
e 'l buon Messer Guiglielmo Lostendardo,
Carlo d' Arnigi di Proenza lieto,
e 'l Signore del Sanguino gagliardo,
e 'l valoroso Conte d' Arnano,
e dimolti altri, ch'io lascio al riguardo.
Appresso venne quel Duca sovrano
sotto Stendardo del Giglio, e 'l rastrello,
con più di cento a piè, co' dardi in mano.
Poi seguitaron quel Signor Novello
Franceschi, e Catalani, e Proenzali,
ed altra gente, che quì non appello,
e mille cinquecento fur, fra' quali
n' ebbe dugento a spron d'oro di vena,
con molti arditi, e franchi Caporali;
senza que', ch' avea il Duca d' Attena
menati prima, ch'eran quattrocento,
come dinanzi ti contai la mena.
Appresso poi con molto ordinamento
giunse Madonna, del Signore sposa,
come udirai, se tien l' orecchio attento.
Figliuola fu di Carlo di Valosa,
della gran Casa di Francia Reale,
di belli arnesi adorna, e d'ogni cosa.
In una gabbia venne triunfale,
di preziose i lati suoi sì pieni,
che si stimò più, che Roma non vale;
portata fu da due palafreni,
ch'eran guidati da due Damigelle,
perchè ciascuna il suo soave meni.
Ed altre quattro gabbie molto belle,
dov'eran donne alla sua compagnia,
ed a cavallo altre donne, e donzelle.
Non conterò la bella salmeria
di carchi muli, perchè veramente
a me, che 'l vidi, par quasi bugia.
Ma ricevuto onorevolmente
da' Fiorentini fu, e nel Palagio
del Podestà smontò di presente;
e riposato, e preso alquanto d' agio,
chiese al Comune, ed ebbe di ristoro,
perchè i Sanesi avie messo in servagio,
più di sedicimila fiorin d'oro.
A' Fiorentin parve cosa crudele;
ma pur gliel dieron sanz' alcun dimoro.
Stava il Vicario in Orto San Michele,
nelle case de' Macci a far ragione,
ed al suo vento volgevan le vele.
Poi quando al Duca parve la stagione,
richiese l' amistà sanza menzogna,
mostrando di fare oste intenzione.
Laonde Siena, Perugia, e Bologna,
Faenza, Orvieto, e 'l Conte Ruggieri,
ed altri Conti fornir la bisogna.
Chi mandò fanti a piè, chi Cavalieri,
e fe venire i nostri Contadini,
com' è usanza, quando fa mestieri;
e 'mpose a' nostri ricchi Cittadini,
per poter mettere ad esecuzione,
più di sessanta migliai' di fiorini.
E poi, qual che si fosse la cagione,
non procedette, e funne biasimato,
e ciascun si tornò a suo magione.
Ma se a Lucca fosse cavalcato,
era vincente della guerra tosto,
perchè Castruccio era forte malato.
E poi a' dì ventinove d' Agosto,
il Duca chiese, ed ebbe signoria
per dieci anni avvenir, com' è quì posto.
Ed ebbe in tutto ogni piena balía
di mutar dentro, e di fuor della Terra
tutti gli usciti, come a lui paría,
similemente di far pace, e guerra;
e li grandi soffiavan con malizia,
che 'n perpetua fosse cotal serra,
perchè gli ordini lor della giustizia
fossero al tutto di camera spenti;
ma poco valse la loro grandizia.
Perocchè 'l Duca tenne co' Reggenti;
cioè, col popolo, che l' avie chiamato;
onde rimaser molto mal contenti.
E questo basti al presente trattato.
c. 65, argumento
Della Reina, che per suo sapere
prese il Marito Re d' Inghilterra,
e fe squartare il Siri Dispensiere;
e siccome falliron quì gli Scali,
e' Fiorentin fur pien di tutti i mali.
c. 65
L' accordo, che Castruccio avea trattato,
che 'l Vescovo d' Arezzo era mezzano
a ragionar con Messer lo Legato,
dalla sua parte al tutto tornò invano,
nè seguir volle quel, ch' avie proposto;
onde turbato il Cardinal sovrano,
mille trecento ventisei, d' Agosto,
insulla Piazza appresso a Santa Croce,
il Vescovo d' Arezzo ebbe disposto;
ed iscomunicò ad alta boce
lui, e Castruccio, e chi con lor tenesse,
partecipando il valer d' una noce;
e fe, che ognuno offender li potesse
lecitamente in avere, e 'n persona,
e chi aiuto, o consiglio loro desse.
Nel tempo, che di sopra si ragiona,
fallir gli Scali, Amieri, e Figliuopetri,
ch'era una Compagnia solenne, e buona;
e vo', che tu Lettor da me impetri,
ch'ell' era centoventi anni durata,
per quel, ch'i' trovi negli scritti metri;
e 'n debito trovossi, ed obbrigata
a quattrocento migliai' di fiorini,
secondochè si disse, la fiata:
e poteron ben dire i Fiorentini,
considerando bene ogni lor danno
dirittamente, siccome tapini,
che questo fosse il più doloroso anno,
che quella età passata avesse mai,
portando ogni fatica, ed ogni affanno;
che, siccome hai udito, ed udirai,
egli ebbon la sconfitta, e la moría,
e l' arsione, ed altre cose assai.
E poi fallì la detta Compagnia,
che fu a' Fiorentin, s'i' ben comprendo,
una sconfitta assai pessima, e ria.
Nel detto tempo i Fiorentin veggendo,
che 'l Duca oste non voleva fare,
afforzár Signa, e Gangalandi, intendo,
acciocchè si potesse lavorare
sicuramente tutto quel paese,
e fecer l' uno, e l' altro ben guardare.
Appresso il Duca a Spinetta Marchese,
per guerreggiar Castruccio, mandò gente,
e il Legato de' suoi mandò palese.
Onde si pose ad oste di presente
al Castel, che Castruccio gli avie tolto,
che Verruca si chiama certamente.
Dall'altra parte, con ardito volto
gli usciti di Pistoia rubellaro
due Castella a Castruccio forti molto.
Castruccio, benchè ancor non fosse chiaro,
vi pose battifolli ben forniti,
ed egli stette a Pistoia al riparo.
Il Duca, che promesso avea agli usciti,
vi mandò Messer Biagio Tornaquinci,
con trecento a cavallo, e fanti arditi.
Ma per le nevi, ch'eran quivi, e quinci,
in niun modo vi poter passare,
onde tornaro addietro lor cominci.
E 'l Duca fece a Prato cavalcare
tutta suo gente; ed a Prato arrivati,
e 'l Conte di Squillaci, ciò mi pare,
con Messere Amerigo de' Donati,
e con Messer Giannozzo Cavalcanti,
a tal soccorso furono avviati,
con trecento a cavallo, e molti fanti;
l' altra cavalleria n' andò al Montale,
e quivi si posaron giorni alquanti.
Ed in quel mezzo fu il tempo tale,
che si partiro; e se Castruccio stato
fosse a Pistoia, ritornavan male;
ma egli avea già il passo pigliato
sì, che la gente, ch' andava a Mamiano,
si tornò addietro, sanz' altro commiato,
ed in quel luogo montanino, e strano
avean poco a star, sanza menzogna,
che mai non ne tornava niuno sano.
E pur così si partir con vergogna,
lasciando stracchi cavalli, e somieri,
e ritornaron per quel di Bologna.
E i detti usciti, e lor masinadieri,
delle Castella uscir di notte accorti,
pochè mancati vider lor pensieri,
e gran parte ne furon presi, e morti,
e que' del Duca tornaro a Fiorenza,
dove guardati fur con gli occhi torti.
Castruccio appresso, con molta prudenza
riprese le sue Terre, e poi con fretta
le Montagne passò sanza temenza,
per tor la vittuaglia a Spinetta;
ma egli avea sentito il convenente,
e tornò a Parma con sua gente stretta;
ma poco aveva a star veracemente,
che da Castruccio coll' oste sovrana
egli era preso con tutta sua gente.
Castruccio fe disfare in Lunigiana
molte Fortezze, per guardarne meno,
e ritornossi alla Lucchese tana
con maggio onor, che mai altr' uon terreno
avesse avuto per simile guerra:
ed a questa materia pongo freno.
La Reina Isabella d' Inghilterra,
del Re di Francia sirocchia carnale,
col suo figliuol maggior, se 'l dir non erra,
nel sopraddetto anno, e temporale,
n' andò in Francia, per compier la pace
tra 'l Re di Francia, e 'l marito Reale,
e poichè fatta fu ferma, e verace,
la detta donna del Re Adoardo,
pensando, quant' egli era a lei fallace,
che si teneva sanz' alcun riguardo
quella di Messer Ugo, il Dispensiere,
ne avie lei a capitale un dardo;
ma quasi mai non la volea vedere,
ched avanzava l' altre donne, e dame
d'ogni bellezza, costume, e piacere;
pensando ancor, che tutto il suo Reame
pe 'l detto Messer Ugo era guidato,
e' suo' figliuoli v'eran per istrame,
nè volie mai esser consigliato
d' alcun Baron, quantunque fosse saggio,
se non da quel, c' ho di sopra contato,
e già non era nobil di legnaggio;
ver' è, ch' avea per moglie la nipote
della Reina, a cui faceva oltraggio;
onde Isabella poi, con dolci note
al Re di Francia disse ciò, c' ha' inteso,
benchè sapesse tutte quelle rote;
e poich'ell' ebbe suo consiglio preso,
scrisse al suo marito in quel tenore,
che udirai, sed io ho ben compreso:
Se tu non ti riman di quello errore,
dove continuamente tu stai,
nè vogli Messer Ugo per Signore,
in Inghilterra non tornerò mai,
nè 'l tuo figliuolo, e 'l mio, il quale è meco,
alla tuo vita più non rivedrai.
Ed Adoardo, che avea con seco
il detto Messer Ugo a suo consiglio,
di lui essendo, e di suo donna cieco,
si fece beffe di cotal periglio,
dicendo: Stea, ch'io non vi do niente;
e mise al non caler la donna, e 'l figlio.
Per la qual cosa la donna valente
diè la figliuola del Conte d' Analdo
per moglie al suo figliuolo incontanente.
E poich'ell' ebbe questo posto in saldo,
in quel del Conte fe fare un' armata,
e soldò molta gente, ed a suo caldo
fece Ammiraglio di quella brigata
Messer Gianni, fratel di detto Conte,
mostrando, con gli Scotti esser legata,
che nimicavan per piano, e per monte,
il detto Re Adoardo, e che con loro
s' accozzerebbe presso a certo ponte;
e di Settembre sanza più dimoro
entrò in mar la valente Reina
con molta gente, e con molto tesoro.
Quando Adoardo sentì la ruina,
che conduceva la moglie, e 'l figliuolo,
si consigliò coll' usata dottrina;
ed a' confin di Scozia con gran duolo
n' andò co' suoi, acciocchè non pigliasse
da quella parte terra il grande stuolo.
Ma l' Ammiraglio l' armata ritrasse;
non la guidò dove mostrato avía,
acciocchè al porto non si riparasse.
Ma inver Giasinco dirizzò la via,
ch' è presso a Londra da settanta miglia,
e prese terra con suo compagnia.
E que' di Londra con gran maraviglia
gridando, incontro gli andar volentieri:
Viva nostra Reina, e sua famiglia,
e muoian tutti quanti i Dispensieri;
e lor seguaci ucciser senza resta,
e 'l Vescovo preser di Silicieri,
e con furore gli tagliar la testa,
perocch'egli era de' maggiori amanti,
che Messere avesse a sua richiesta;
e rubarono, ed arson tutti quanti
i Bardi Fiorentin, che 'n que' paesi
del detto Dispensier fur mercatanti.
E quasi tutti i Baroni Inghilesi
tenien colla Reina a ta' novelle,
perocchè 'n Corte non erano intesi;
perchè con suo parole adorne, e belle
dal detto Messer Ugo era guidata,
ned alcun altro vi potea cavelle.
Come fu in Londra la Reina entrata,
tutti ubbidiron, come figli madre;
e poichè la Città fu riposata,
fu preso il vecchio Dispensieri, e padre
di Messer Ugo, e coll'arme sua indosso
fue impiccato per l' opere ladre.
Appresso poi l' esercito fu mosso,
colla Reina, e col suo figlio caro,
ed era molto più, che prima, grosso,
e 'nfino a Gaulesse cavalcaro;
ma in Carfagli il Re s' era fuggito
col Dispensiere, e quivi gli assediaro.
Il Castello era forte, e ben fornito
sì, ch'egli stetter buon tempo assediati,
e 'n fine poi tra lor preser partito
di non volere star più carcerati,
e l' un l' altro trattar come fratello,
e così insieme fur comunicati;
ed acconciaro, ed armaro un battello,
nel quale entraro con un Pre' Baldotto
di notte in mare, e lasciaro il Castello;
e credendo in Irlanda andar di botto,
non gli lasciò la tempesta passare:
più volte il legno a proda ebbe condotto.
Ond' essi preser terra, per andare
ad un Castel, dov'era il figlio saggio
del Dispensier, secondochè mi pare;
ma e' si ritrovar nel più selvaggio
luogo di Gaulesse, e mal cammino:
or nota quì, come fer mal viaggio.
Il Conte di Loncastro era cugino
del Re; ma nondimeno alla sua gente
il facea perseguir sera, e mattino.
E scontrandosi in lor, subitamente
il Re gridò: Che gente siete voi?
E d' essi, che 'l conobber di presente,
disse l' un: Siamo amici, e servi tuoi;
ma noi vogliamo (e subito guatollo)
che 'l Dispensier se ne venga con noi.
Allora il Re gli gittò il braccio in collo,
dicendo: Amici non siete voi miei,
se siete contro a lui; e rabbracciollo.
E benchè fosser tutti accesi, e rei,
niuno ebbe di toccarlo ardire,
per riverenza del Re, saper dei.
Un Caporal vogliendogli spartire,
chiamò il Re, e dissegli da parte:
Ti vorre' per tuo ben parole dire.
Andato a lui, ed un altro in disparte
a Messer Ugo disse: Vienne meco,
se campar vogli; ed e' l' ebbe per carte;
e per molti aspri boschi n' andò seco,
tantochè l' ebbe a casa sua guidato,
poi dipartissi coll' animo bieco.
E quando il Re si vide sì ingannato,
dolsesi molto; ma s'i' ben compresi,
preso col Prete suo ne fu menato.
Quando il Conte sentì, ch'egli eran presi,
cavalcò in quella parte, com' io rugo,
con suo compagna, e giunto ne' paesi,
trovando traviato Messer Ugo,
tanto ne domandò, com' hai udito,
che della verità rinvenne il sugo;
ed a casa colui tosto fu ito,
ed ebbe presa la moglie, e' figliuoli,
e non trovando lui, ch'era partito,
disse a lei: Tutti morrete con duoli,
s'i' non ho il Dispensier, come tapini,
e se lo 'nsegni, domanda che vuoli.
Chieggendo mille lire di starlini,
la fe contenta, e poi il Dispensiere
menò alla Reina pe' cammini.
Ed ella il mise in man del Giustiziere,
il quale il fece coll'arme a ritroso
strascinare a coda d' un somiere,
e fecelo impiccar sanza riposo,
poi gli tagliò la testa, e dello 'mbusto
fe quattro parti, e così sanguinoso
in quattro parti del Reame giusto
il fe impiccare in un punto, e 'n un' ora;
e per empiere alla Reina il gusto,
fece arder poi le sue interiora,
e la polvere sua gittate al vento,
nell'anno detto, di Novembre ancora.
Il Conte poi ne menò mal contento
a Guidistocco il detto Re pregione,
e poi ebbe con lui ragionamento:
ch'el perdonasse a tutte le persone,
che in que' fatti l' avien perseguito,
e guidasse il Reame per ragione.
S' el nol facesse, preso era il partito;
che il figliuolo sarebbe incoronato,
e la Reina arebbe consentito.
Ma lo Re, siccome molto adontato
delle vergogne ricevute assai
dalla Reina, e dal suo primo nato,
disse: Non piaccia a Dio, ch'io veggia mai
niun di loro: e poich'ebbe risposto,
ne seguitò, come tosto udirai;
che del Reame il Re si fu disposto,
e 'ncoronato il figliuol, che gridando
la gente, il fece far subito, e tosto.
Ma la Reina poi considerando,
che 'l suo Re non le volle perdonare,
come vedova stette dolorando.
E lo Re poi nel suo considerare,
quant' era grande sua vergogna, e danno,
quivi infermò, nè lasciossi curare;
e come piacque a Dio, nel seguente anno,
in quel Castel morì addolorato;
e la Reina n' ebbe grande affanno.
Dissesi poi, ch'el fu avvelenato.
c. 66, argumento
Della venuta del Bavero prima,
e del fanciul del Duca di Calavra,
e di Castruccio più, che non si stima,
e come guastar fe alle sue mani
per un trattato in Lucca i Quartigiani.
c. 66
Ancor mille trecento sei, e venti
i Parmigiani dier Parma al Legato,
benchè v' avesse assai de' ma' contenti.
E' Bolognesi per lor male stato
anche si diero alla Chiesa per certo,
e 'l Cardinal vi si fue annidiato.
Nel dett' an di Dicembre il Re Uberto
a' Fiorentini, e più Guelfi nomati
scrisse, che volea tutto scoverto,
ched ottocento Cavalier soldati
fossero a guardia del Duca, oltre al patto,
pe' Fiorentini, e per gli altri pagati,
se no, che manderebbe per lui ratto.
Onde si turbar molto i Fiorentini,
perchè rompeva i patti a questo tratto.
Ma pur gli dier trentamila fiorini,
ed altra Terra mostra, che mandasse
il suo poder, ma non gli Perugini.
Quell'anno, come che 'l fatto s' andasse,
i Fiorentin della pecunia loro
trovaro spesi, tratti dalle casse,
cinquecento migliai' di fiorin d'oro,
e molti più, che non ti dico adesso,
a' Baron, che col Duca erano in coro.
I Prior non potien chiamare un Messo
(e non voler, ch'io più parole abbichi),
sanza colui, a cui era commesso.
Deh conoscete le sorbe da' fichi,
voi, che reggete; amate libertade,
imparando alle spese degli antichi.
Le donne appresso di questa Cittade
alla Duchessa fero ambasceria,
e lei pregaron con molta umiltade,
ch'ella levasse gli statuti via
degli ornamenti durati più anni,
ed ella lor ne fece cortesia.
Nel predett' anno fe Papa Giovanni
Vescovo d' Arezzo un degli Ubertini,
acciocchè al privato e' desse affanni.
Ma poco valse contro agli Aretini,
coll'aiuto del Papa, e del Legato;
che questi mai non ebbe tre lupini.
Nel dett' anno Castruccio ebbe mandato
un Messer Benedetto Macaioni,
per tor Vico a' Pisan sotto trattato.
Entratovi entro con suo' Compagnoni,
ne fu cacciato, e molti morti, e presi
campar de' suoi Cavalieri, e pedoni.
Nel predett' anno, di Genna' i Pratesi,
Sangemignano, e Colle, e Sanmeniato
si diero al Duca, con patti distesi;
salvochè in perpetua si diè Prato,
e fu per gara, perchè questo, e quello
volea, che da lui fosse accettato.
Questo anno, e mese il buon Conte Novello
cavalcò alle porti di Pistoia,
e mise in terra l' antiporto bello,
e guastò le mulina, e Valdibuoia,
e condusse a Firenze molti arnesi,
e la gran preda, che menò con gioia.
Nel detto anno gli usciti Genovesi
il Monaco, e Siestri all'altre Sette
tolsero a 'nganno, secondoch'intesi.
Nel mille poi trecento ventisette,
il Duca ordinò l' estimo, d' Aprile,
e mobile, ed immobile vi mette,
frutto, guadagno, ed ogni altro simile
per centinai' pagava non so quanto,
e non toccava a gente troppo vile.
Ed una volta si ricolse tanto,
fiorini ottantamila, e fu il sezzaio,
perch' a' più ricchi parve grave alquanto.
Mille trecenventisei, di Gennaio,
per lo venir del Duca alla primiera,
i Ghibellin turbaro il viso gaio,
e Lombardi, e Toscani furo a schiera;
deliberaro, e mandarono a Trento,
per Lodovico eletto di Baviera.
Ond' egli allora fe gran parlamento,
nel quale il Duca fu di Chiarentana,
che di sì fatta impresa era contento;
e molti altri Tiranni, e di Toscana
v' andaron di Castruccio Ambasciadori,
con gran profferte, e aiuto a sua quintana;
e dimolti altri Comuni, e Signori,
a parte Ghibellina collegati,
il simigliante fer, Grandi, e minori.
E poi nel Parlamento raunati,
promiser, che a Melan sanza dimoro
da' sopradetti gli sarebber dati
cencinquanta migliai' di fiorin d'oro;
ed e' promise, e giurò di venire
infino a Roma, presente costoro.
E poi appresso cominciò a dire,
come non era Papa per ragione
Papa Giovanni, e degno di morire,
siccome uon di mala condizione,
ed Eretico, pien d'ogni resia;
ed altro disse di gran diligione.
Poichè compiuta fu sua diceria,
e ciaschedun si fe da lui lontano,
ed e' rimase con suo Baronia;
nel ventisette si mosse di piano,
con Cavalier secento di vantaggio,
a mezzo Marzo, e vennene a Melano.
Appresso poi a' dì trentun di Maggio,
per due Vescovi prese, s'io non erro,
scomunicati, e privati d'omaggio,
con grande onor, la Corona del ferro;
ma l' Arcivescovo a ciò pertinente
non vi volle esser, come quì diserro.
E poi per acquistar pecunia, e gente,
vi stette quasi infino a mezzo Agosto,
sollecitando intorno al convenente.
Nel detto tempo, ch' è di sopra posto,
per la venuta del detto Signore,
Italia tutta si commosse tosto,
e 'l popolo di Roma andò a romore,
e tolse ogni Fortezza, e Signoria
a' nobili, e caccionne molti fuore;
e Capitan fer con piena balía
Sciarra Colonnesi, e così fue
Roma al governo di sua rettoria;
e col consiglio di cinquantadue
buon Cittadini, quattro per rione,
potea far parte delle voglie sue.
Scrissero al Papa con divozione,
che dovesse venire a stare a Roma
continuo, rimosso ogni cagione;
se no, che 'l Re, che de' Roman, si noma,
accetterebber graziosamente,
e la Corona avrebbe insulla chioma.
E poi mandar per lui subitamente,
e questo fer, per riaver la Corte
del Papa a Roma continuamente.
Onde il Papa rispose a quelle sorte,
ch' a luogo, e tempo a Roma riverrebbe,
se prima Iddio non gli desse la morte;
e che il lor peggior molto sarebbe,
se il Bavero da lor fosse accettato,
che Re non era, ned esser potrebbe.
Ma i Romani trattavan d'ogni lato
nientemeno, e col Re Ruberto;
il qual sentendo il Bavero inviato,
mandò il Fratello all' Aquila per certo,
con mille Cavalier pigliando i passi,
e prese Norcia, e Rieti, come sperto.
Dove il Duca d' Atene, come sassi,
lasciò a guardia con suo gente magna,
come per riparare spesso fassi;
e rifornì le Terre di Campagna
per Santa Chiesa d' uomini Romani
da cavallo, e da piè, sanza magagna,
credendosi pe' Nobili Romani
entrare in Roma; ma 'l popolo acerbo
ricever non ve 'l volle per lor mani.
Ond' egli ad oste ne venne a Viterbo,
e mentrech'egli quivi guerreggiava,
e 'l Re Ruberto, di cui non riserbo,
nella Cicilia sua armata mandava
contro a Don Federigo, e fe diserto
dell' Isola, che prima assai fruttava.
Appresso all' Ammiraglio il Re Ruberto
scrisse, che cinque galee gli mandasse,
ed e' le mandò subito per certo,
acciocchè roba a Roma non andasse;
e preser la Città d' Ostia vegnendo,
e tutta mostra, ch'ella si rubasse.
Onde il popol di Roma ciò sentendo,
vi corse ad oste furiosamente;
e' Genovesi forte difendendo,
colle balestra fedír molta gente,
arser la Terra, e ricolsersi in mare,
nelle galee lor subitamente.
Onde i Roman, veggendo così fare,
rupper col Re Ruberto ogni trattato,
nè più ne vollero udir ragionare.
D' Agosto appresso il Fiorentin Legato
mandò a Roma, credendo potere
conciare il Re con quel popol crucciato,
e metter dentro il Prenze a suo piacere,
e' Nobili, che fuor n' eran cacciati;
ma il popol ciò non volle sostenere.
E non possendo per modi ordinati
dentro passar, di Settembre v'entraro
di notte, per San Pier, con molti armati.
Tutte le guardie uccison, che trovaro,
San Pier, la piazza, co' borghi vicini,
com' hai udito, per forza pigliaro.
Al giorno poi gli amici degli Orsini,
ch'esser dovevan dentro in lor favore,
niente gli aiutaro a ta' confini.
Onde gli avversi a grido, ed a romore
la campana sonar di Campidoglio,
e rupper quella gente con furore.
Veggendosi perduto ogni rigoglio,
a metter fuoco fur subito accorti,
acciocchè 'l popol non passasse il soglio.
Se ciò non fosse, egli eran tutti morti,
onde n' usciron fuor con gran temenza,
non senza danno, e ridussersi ad Orti.
Nel dett' anno, d' April, nacque in Fiorenza
un figliuol maschio al Duca, e' Fiorentini
ne feron festa con gran diligenza.
Sindachi del Comun, due Cittadini,
il tennero alla Fonte graziosa,
e nominato fu Carlo Martini;
l' un fu Messer Simone della Tosa,
e Salvestro Manetti. Or dirò, come
il soprannome, ch'egli ebbe, si chiosa.
Ver' è, che Carlo fu il diritto nome;
ma un povero, che avie nome Martino,
vi tenne man; però fu il soprannome.
Il pover poscia non fu pellegrino,
perocchè dalla Corte ebbe larghezza
di ciò, che bisognò sera, e mattino.
Sonando la Campana ad allegrezza,
i' dico della grossa del Comune,
come si fa, quand' altri n' ha vaghezza,
in tutto dì non si lasciò la fune,
infinch'ella si ruppe a tal trastullo.
In pianto ritornò con veste brune,
perch' otto dì vivette quel fanciullo,
po' il vidi in Santa Croce insull'altare,
maggior, che di sei mesi fosse nullo.
Il gran cordoglio non potre' contare;
ma portato ne fu in suo paese;
e questo basti di cotale affare.
Nel detto anno, di Giugno, il Modonese,
gridando pace, fuori ebbe cacciato
il Passerin Signore alla cortese,
e prese la concordia col Legato,
a parte Ghibellina, com' io scrivo,
rimanendo la Terra, al modo usato.
Nel detto tempo in Pisa venne ulivo,
che il Bavero a Melano era per certo
incoronato; onde ognun fu giulivo,
gridando: Muoia il Papa, e 'l Re Ruberto,
e' Fiorentini; viva lo 'mperadore,
e chi non vuole, al tutto sia diserto.
E quasi tutto quel romore
facean gli usciti nostri; onde i Reggenti,
nimici di Castruccio a tutte l' ore,
perchè del Bavero eran malcontenti,
cacciar di Pisa con aspro commiato
gli usciti di lor Terre, ed altre genti.
Nel predett' anno il Duca avea trattato
con più Lucchesi, che gridasser: Muoia
Castruccio: ed era cosíe ordinato,
che l' oste si dovea porre a Pistoia,
e venendo Castruccio alla difesa,
in Lucca si dovie gridar con gioia,
colla 'nsegna del Duca, e della Chiesa,
e dar la Terra alla gente di fuori;
e venia fatto con poca contesa,
se non che l' un di detti traditori
si scoperse a Castruccio per paura,
e nominogli tutti i trattatori.
Onde Castruccio, ch' al fatto procura,
subitamente fe serrar le porti,
e d' intorno guardar tutte le mura;
poi pigliar fece ventidue consorti
di quel, che rivelò, de' Quartigiani,
ed altri, che costor facevan forti.
E quando gli ebbe tutti tra le mani,
odi, che fece il valentre Castruccio;
non aspettò molti prieghi lontani.
De' detti Quartigian Messer Guerruccio
impiccar fe, con tre suo' figliuoli,
con quelle 'nsegne; e poi seguendo il cruccio,
molti altri fe piantar, per maggior duoli,
ed altri lor consorti, più di cento,
ch'eran fuggiti, come cavriuoli,
non possendo di loro esser contento,
gli condannò in avere, ed in persone;
e stette loro bene ogni tormento,
perocch'egli eran Guelfi per nazione,
e tradiron la parte per costui,
e feronlo Signor sanza cagione;
poi, come vedi, voller tradir lui,
dì dodici di Giugno, ed al dichino
cacciarlo, e dar la signoria altrui.
Nel detto tempo ancora Alberghettino,
maggior figliuol del Signor di Faenza,
volendo il signoraggio in suo dimino,
siccome pieno di malvagia scienza,
cacciò il padre, e' frate', per non diviso,
e solo a lui rimase l' eccellenza.
Così non volle tralignar dal ziso,
Frat' Alberigo, che le male frutte
a' suo' consorti diè per simil viso;
e 'l padre fu a quelle cose brutte,
ed or co' modi ne fu meritato;
ma dielle molli, e per se l' ebbe asciutte:
perocchè solamente fu cacciato,
non fu allor nè morto, nè fedito;
ma degno n' era per lo suo peccato.
Perch'io son giunto al punto stabilito,
ragion non vuol, ch'io più oltre mi stenda,
ma nel seguente muterò partito,
perchè non ti rincresca la leggenda.
c. 67, argumento
Come il Duca ebbe Santa Maria a Monte,
e come il Bavero appresso ebbe Pistoia,
e che Castruccio con ardita fronte
il Vescovo d' Arezzo traditore
chiamò in presenza dello 'mperadore.
c. 67
Per non mostrar, ch'e' fosse addormentato,
nel detto anno di Luglio, con grand'oste
mandò il Duca il suo Conte pregiato.
Di là da Signa fur le prime poste,
e per dare a Castruccio gelosia
di Lucca, e di Pistoi', tre dì fe soste.
Saper non si potea per che via
il detto Capitan dovesse gire;
ma tutto si faceva a maestría,
per far Castruccio sua gente partire;
e così fe, e in più parti n' andarno,
volendo riparare a tal seguire.
E l' oste allor di notte passò l' Arno,
seguendo il franco Capitano, e Conte,
che quella volta non andò indarno.
Giunse al Castel di Santa Maria a Monte,
e subito vi fe dar la battaglia
intorno, intorno, con ardita fronte.
Baroni, e Cavalier, se Dio mi vaglia,
vid' io combatter, con palvesi in braccio,
e ricevere, e dar briga, e travaglia.
E fu sì aspro, e subito il procaccio,
che i difensori abbandonar le mura,
e nella Rocca rifuggiro avaccio.
E que' di fuori allor sanza paura
montaron per le scale, e poi le porti
cacciar per terra, e entraro alla sicura.
Quanti nemici giunser, furon morti,
rubar la Terra, e poi il fuoco fiocca
da ogni parte per gli uomini accorti.
Più dì si tenner poi la gente sciocca;
ma non essendo soccorsa lor vita,
a' dì dieci d' Agosto dier la Rocca.
Poichè l' ebbe afforzata, e rifornita,
come si convenia, il Conte Novello,
subitamente fe quindi partita.
Quando Castruccio udì, che quel Castello
era perduto, ch'era un suo specchio,
parve, gli fosse dato d' un coltello.
Appresso l' oste n' andò a Fucecchio,
poi ripassar Guisciana, ed al Cerruglio
n' andaro appresso con bello apparecchio.
Dentro v'era Castruccio, e come truglio
si lasciò svergognare a que' di fuore,
ma non ch' uscir volesse del cespuglio.
Sentendo il Conte, che lo 'mperadore
si rappressava a lui per lo cammino,
co' suoi si dipartì per lo migliore.
Poi assediò il Castello d' Artimino,
dove a combatter non ebber le gotte
la gente sua, che ognun fu paladino.
S' eran posati, rimiser le dotte,
perocchè la battaglia, e la tencione
durò da mezzo giorno a mezza notte.
Poi s' arrenderon, salve le persone,
e l' oste tornò quà, perchè dottava,
che 'l Baver non giugnesse alla quistione.
Com' io ti dissi, in Melano aspettava
lo 'mperador la pecunia promessa
da' Ghibellin quando parlamentava,
faccendone a Messer Galasso pressa;
ed el, che gente avea in abbondanza,
e più forte di lui era con essa,
rispose al Baver con molta arroganza:
Non ci son or; Voi sarete pagato
quand' e' ci sieno; non abbiate dottanza.
Onde il Bavero fu forte sdegnato,
ed appresso ordinò segretamente,
come da' suoi Baron fu consigliato,
che in sua mano giurò tutta la gente
di Messer Galeasso, e 'n sua presenza,
e de' Maggior della Città presente,
disse: Io mi mossi con ferma credenza,
che la promessa mi fosse attenuta,
or detto m' è, ch'io non abbia temenza.
Chiamò Galasso, e dissegli: Rifiuta
la signoria, presente questo stuolo.
E rifiutato con forma compiuta,
ed el fe pigliar lui, ed il figliuolo,
ed il Vescovo, e Marco suo' frategli,
dì sei di Luglio, non senza gran duolo.
E poi la Terra riformò tutta egli,
e diede a ventiquattro Cittadini
balía; e gli altri fur contenti a quegli,
i qua' cinquanta migliai' di fiorini
imposero, e riscosser per ragione,
e diergli al Baver con dolci latini.
Ed el fece Vicario un suo Barone,
e poi appresso nel Castel di Moncia
fe Galeasso mettere in pregione,
e Marco liberò; che cosa sconcia
non potè mai sentir di sua travaglia,
e gli altri, come vedi appresso, concia.
Ad Azzo, ed a Luchin pose di taglia
venticinque miglia' di fiorin d'oro,
de' qua' sedicimila ebbe di vaglia.
Poi si partì, senza far più dimoro,
a Brescia ne menò, com' io ti dico,
cortesemente amendun coloro.
Nota Lettor, ch' adempiè Lodovico
la parola di Cristo, ch' è distesa:
I' pagherò il nemico col nemico.
Ciascuno era nimico della Chiesa;
l' un pagò l' altro: e con quella misura
fia misurata ciascheduna offesa.
Appresso poi per la detta presura,
Tiranni, e Ghibellin di Lombardia,
e di Toscana vivien con paura;
perchè tolta vedien la signoria
a Messer Galeasso, e 'ncarcerato
l' avea poi, per dare altrui balía.
Lo 'mperadore a Brescia riposato,
fe parlamento, e per ogni cammino
mandò per quelli, ch'eran del suo lato.
E Messer Cane, e Messer Passerino,
e Francesco Marchese di Ferrara,
ed il disposto Vescovo Aretino,
ed ogni Terra Imperiale a gara,
e di Castruccio vi furo ambasciate,
per udir quel, che quivi si dichiara.
Presente quelle genti raunate,
lo 'mperadore ad alto, e gli altri al basso,
disse: Signor, non vi maravigliate
di quel, ch' è fatto a Messer Galeasso,
che contro a voi trattava col Legato;
e letter legger fe a passo, a passo.
Ma quel suggello era falsificato,
secondochè si disse, e quì si canta,
che mai con lui non avea trattato.
Poi in dispetto della Chiesa Santa
tre Vescovi ordinò egli in persona,
se colui, che lo scrisse, non millanta,
dì ventitrè d' Agosto si ragiona;
il primo fu di Città di Castello,
l' altro di Como, e 'l terzo di Chermona.
E 'nfino a questo dì senza rappello,
tra di Melano, e d' altri Ghibellini,
ricevuti avea fuor di suggello
più di dugento miglia' di fiorini,
i qua' fur tutti in sua presenza conti;
ed e' si partì poi da que' confini.
Allor Luchino, ed Azzo de' Visconti
nel Castel si fuggiron di Liseo,
ed a far guerra a Melan furon pronti.
E questo al Baver seppe molto reo;
ma perchè aveva altrove suo' pensieri,
non volle star con loro a batasteo.
Con mille cinquecento Cavalieri
n' andò da San Donnin sanza ristare
sì, che a Pontremoli giunse di leggieri.
Ben potea il Legato riparare,
perchè aveva gente assai in quella,
ma non senza cagion gli lasciò andare.
Come Castruccio ebbe la novella,
che a Pontremoli giunto era di saldo
lo 'mperador, colla sua donna bella,
ch'era figliuola del Conte d' Analdo,
incontro gli si fe con gran presenti,
perchè di lui si tenie molto caldo.
A Lucca non voll' ir, se da' Reggenti
di Pisa prima non fosse l' entrata
largita a lui, ed a tutte sue genti.
Ma com' el s' appressò, gli fu vietata,
benchè dessero alcun' altra cagione,
pur temendo Castruccio, fu negata.
Ma incolparo la scomunicazione,
dicendo: Noi non farem per certo
contro alla Chiesa, e non saria ragione,
e romperemo pace al Re Ruberto,
e a' Fiorentini; e non lasciaro entrare
suo Ambascidor palese, nè coperto;
anzi si procacciaron d' afforzare,
e tolsero a' Tedeschi, che gli avieno,
arme, e cavalli, e ferli fuor cacciare.
Disse lo 'mperador pien di veleno:
Mai non mi parto quinci, che 'l Pisano
della mia signoria non tenga il freno.
E 'l Vescovo Aretin si fe mezzano,
e' Pisan gli mandaro a Ripafratta
tre Cavalieri col partito in mano;
perchè tra lor concordia avean fatta,
dargli sessanta migliai' di fiorini,
e lasciassegli star, come quì tratta.
E non piacendo al Baver que' latini,
gli Ambasciador si partiron a rotta,
ed a Pisa tornando pe' cammini,
Castruccio passò il Serchio in poca dotta,
parossi lor dinanzi alla ricisa,
e presi, a Lucca gliene mandò allotta.
Lo 'mperadore appresso assediò Pisa,
fece un ponte di sopra, ed un di sotto,
sicch'ell' era assediata in ogni guisa.
Veggendosi il Pisan così condotto,
isbigottì, ed avendol pensato,
mandato avrien pe' Fiorentin di botto;
perchè infintamente avien trattato
col Duca di Calavra, per temenza
di non pericolare da ogni lato.
E nondimeno s' ebber di Fiorenza
arme, e saettamento, e fersi forti,
pensandosi far lunga resistenza,
e rimurár quasi tutte le porti.
Lo 'mperadore s' accampò a San Marco,
Castruccio, e' suoi dall'altro lato avanti.
E non possendo sostener lo 'ncarco
i Pisan, chieser moneta in prestanza
al Duca, ch' avie sempre teso l' arco.
Mandonne loro, e maggiore abbondanza
n' avrebbe lor mandata, se non ch'egli
sentia trattar col Bavero altra danza;
perchè già presi avie molti Castegli,
combattute le porti, e molte offese
d' intorno con trabocchi, e manganegli.
Quando all'assedio ne fu stato un mese,
il Conte Fazio, per uscir di guerra,
con più Reggenti per partito prese
di dare al Baver l' entrar della Terra,
e poi sessanta migliai' di fiorin d'oro,
con questi patti, se 'l libro non erra,
che rimanesser nello stato loro,
nè dovesse Castruccio in Pisa intrare,
nè gli usciti, che fuor facean dimoro.
Così promise, e giurò d' osservare
lo 'mperador; po' prese la tenuta,
dì undici d' Ottobre, ciò mi pare.
Sua donna, e gente fu ben ricevuta,
e 'n Pisa ritornar gli Ambasciadori;
che per l' accordo fu cosa dovuta.
Castruccio, e gli altri rimaser di fuori,
ed i Pisani il terzo dì vegnente
volendo a quel Signor crescer gli onori,
gli dier la signoria liberamente,
ch' alcuna cosa non eccettuaro,
ed e' la prese graziosamente.
Castruccio, e' loro usciti ritornaro,
e nulla novità per tutto quello,
ch' è detto, nacque per lo buon riparo,
salvochè un, ch'era stato Bargello,
da un gran Conestabole fu morto
nella presenza del Signor novello,
credendosi colui dargli conforto;
ma egli accrebbe pure a se tristizia,
perocchè quel Signor savio, ed accorto,
mostrar volendo, ch' amasse giustizia,
tagliar la testa gli fece di fresco,
e poco si curò di sua grandizia;
che Cavalier fu molto gentilesco,
e nominato fu Messer Currado,
della sua gente valente Tedesco.
E fatto quel, ch' a molti fue a grado,
fe bandir, che ciascun qual vuolsi sia
potess'ir per città, e per contado
sicur, con ogni sua mercatanzia,
pagando allor la gabella ordinata,
otto danar per livra tuttavia;
e ciò fe, per aver maggiore entrata.
Appresso fe come troppo ingordo,
ched una imposta fe molto aggravata,
centomila fiorin, se ben ricordo.
Dì, che i Pisani fur forte pentuti
di ciò, che fatto avean dell'accordo.
Sed anche un mese si fosser tenuti
(e non vi scapitavan tre lupini),
e' rimanevan di lui assoluti.
Onde n' ebber gran doglia i Fiorentini,
perocchè sendo il Baver quasi lasso,
fu esaltato per gli lor fiorini.
Appresso il Vescovo d' Arezzo casso
si dipartì dal Baver con dolore,
perchè Castruccio baldanzoso, e grasso,
presente lui, il chiamò traditore,
dicendo: Io arei avuto Fiorenza,
se fossi stato meco di buon cuore,
quando Altopascio a' suoi diè penitenza;
cioè, che tu ti fossi tratto in giù
dalla tua parte colla tua potenza.
Ed e' rispose: Traditor se' tu,
non volli romper la pace palese
a' Fiorentin, ma da te rotta fu.
Perchè il Baver Castruccio non riprese,
il Vescovo n' andò addolorato
per la Maremma, ed ivi un gran mal prese,
e riconobbe, se aver fallato;
disse, che 'l Papa era giusto, e santo,
e 'l Bavero era eretico dannato.
E' Sagramenti chiese con gran pianto,
ed ebbegli, e presente più Notaj,
disse: S' io campo, a Dio prometto tanto,
ch'io non sarò contro alla Chiesa mai,
ma nemico de' suo' nimici intero.
E poi contrito, siccome udirai,
passò di questa vita in Montenero.
tornò dal Monte di Santa Maria
l' oste Aretina, e a Dolfo, ed a Piero
da Pietramala dier la signoria
d' Arezzo, e poi Messer Pier fu il tiranno;
e questo basti di lor diceria.
Papa Giovanni appresso nel detto anno
diè contro al Bavero ultima sentenza,
privandol d'ogni onore, e d'ogni scanno,
e d'ogni signoraggio, ed eccellenza.
c. 68, argumento
Di Mastro Cecco d' Ascoli, ch'errore
commise tanto in sua strologia,
che arso fu dal nostro Inquisitore.
di Gianni Alfani, che portò la soma,
e come entrò lo 'mperadore in Roma.
c. 68
Regnando ancor nel ventisette detto
mille trecento posti sopra quelli,
in Pisa il Baver, pigliando diletto,
a Lucca con Castruccio Interminelli
n' andò; e quivi posato alcun giorno,
e veduti di fuor Ville, e Castelli,
a Pistoia n' andar sanza soggiorno.
Quindi Castruccio gli mostrò Fiorenza,
e come guerreggiar potea d' intorno;
appresso, di quel luogo fe partenza.
Tornaro a Lucca, e 'l dì di San Martino
lo 'mperador con molta diligenza
armar fe Castruccio a suo dimino
sovr' un caval, coverto per maniera,
che ben pareva Duce, e Paladino;
e mutogli arme, e diegli una bandiera,
dicendo: I' vo' che sempre in te riluca
l' arme del mio Ducato di Baviera.
Così privilegiollo, e fecel Duca
di Lucca, Luni, Volterra, e Pistoia,
e per lui vuol, che ciascun si conduca.
E fatto questo con trionfo, e gioia,
a Pisa si tornaro, a' dì diciotto
del mese di Novembre sanza noia.
E 'nfino a questo giorno per iscotto
dugentomila fiorin d'oro avuti
avie di Pisa, e Lucca il Signor dotto.
Nel dett' anno, d' Agosto, conosciuti
dagl' Inghilesi fur gli Scotti fieri,
che gli assaliron molto provveduti.
Che con quaranta migliai' di Cavalieri
il Re di Scozia fu a far lor guerra,
guastando lor paese, e lor verzieri.
Onde Adoardo terzo d' Inghilterra,
con tutti i suo' Cavalieri, e pedoni,
incontro gli si fe, se 'l dir non erra;
e rinchiusegli in parte, che prigioni
egli eran tutti morti, come cani;
ma gl' Inghilesi tra lor fur felloni
sì, che gli Scotti n' andar salvi, e sani,
perocchè prima era loro 'nsegnato,
nè vennene niuno alle lor mani.
Nell'anno, ch' è dinanzi nominato,
entrò Messer Ricciardo da Faenza
in Imola, con gente del Legato.
De' Cittadin, faccendo resistenza,
furo sconfitti, e morti quattrocento,
e la Città rubata in lor presenza.
Nel predett' anno, se ben mi rammento,
di Settembre a' dì sedici fu arso
Mastro Cecco d' Ascoli, ti convento.
Della cagion ti voglio essere scarso,
perchè morì; e se torto, o ragione
fatta gli fu, non direi per un farso.
Ma dico, ch'era alla provvisione
del Duca di Calavra per Astrolago,
che non avea par di quì a Vignone.
E senza far di suo' fatti gran prolago,
il Vescovo d' Aversa, Cancelliere
del detto Duca, savio, e buon Teolago,
morir lo fe in sì fatte maniere,
forse, ch' a sue domande fu troppo arbo;
qualchessifosse, lascio a te il pensiere.
Nel dett' anno il Maestro Din del Garbo,
in Medicina eccellente Dottore,
morì in Firenze, come quì ti barbo.
Nel detto tempo Messer Can, Signore
di Verona, fe guerra al Padovano,
ed Esti tolse lor per suo valore.
Ond' el mandar pe 'l Duca Chiarentano,
perocch'egli eran suo' raccomandati;
e 'l Duca mandò loro a mano, a mano
mille buon Cavalieri, e bene armati.
Per la qual cosa si tornò a Verona
il detto Messer Cane, e suoi soldati.
Nel detto tempo ancora, si ragiona,
i Panciocchiesi di Maremma, avendo
Maglian da' Fiorentin per guardia buona,
della venuta del Baver temendo,
vi miser fuoco, ed uscirone fuore,
a salvamento lor, giucar volendo.
Poi fu preso ogni lor mallevadore,
e 'l Castel, ch'era prima, s'i' ben guardo,
rifatto fu da' Conti a Santa Fiore.
Appresso il fantin Messer Ricciardo
sopra a Faenza andò ardito, e bello,
pensandosi poter far del gagliardo,
e di cacciarne per forza il fratello,
ch' avie cacciato lui, e così sprona;
ma la suo andata non valse un chiavello.
Nel dett' anno d' Ottobre, di Raona
morì il Re Giano, e poi fu Re lo 'nfante,
che Gian fu soppellito a Barzalona.
Nell'anno ancor nominato davante,
lo 'mperador fe, ch' a Lucca i Pisani
rendér le sue Castella tutte quante.
Nel predett' anno ancora Gianni Alfani,
gran Popolan di Firenze, reggeva
questa Città con gli altri popolani.
Ad un Consiglio, che 'l Duca faceva,
e domandava cosa contr' a' patti,
che il Comune gran danno riceveva,
ritrovandosi egli, che gli avea fatti,
disse: Il Duca domanda oltra 'l dovere,
e' non fa nulla, e mostraci molti atti.
So ben, ch'e' ci promise di tenere
mille buon Cavalier con seco quici;
come l' ha fatto? E' il de' ben sapere.
Tre mesi ogni anno star sovra i nemici
doveva, el sa, ch'io dal ver non mi torco,
che pure in far danari son suoi uficj;
a me pare, che noi ingrassiamo il porco.
E questo disse coll'animo acceso,
al ben Comune, ed a seder fu corco.
Da' Cittadin fu poi molto ripreso,
e fugli posto piè, ch'e' si partisse,
dove dovea da tutti esser difeso.
El si partì in prima, che si udisse
il Vicar domandar: Dov' è il folle,
che contro a Monsignor parole disse?
E non trovandol, di subito volle
disfar le case, e niente s' indugia;
dì sette di Dicembre ne fe zolle.
Fuggendo Gianni, arrivò a Perugia,
e là fu morto, e dissesi: I Donati
l' hanno forato a guisa di grattugia;
perocchè prima s' eran nemicati.
Vecchio peccato fa nuova vergogna;
forse gli nocquer degli altri peccati.
Ritorno al Baver, che più non agogna
di guerreggiar, ma sì d' ornar la chioma
della Corona, ch' ancor gli bisogna.
A' Cherici di Pisa pose soma
di ventimila fiorini, e riscossi,
ed el si mise andare inverso Roma.
Ma prima i Conti di Santa Fior mossi
si fur col Maliscalco, per fornire
di vettuaglia que', che venien grossi.
E non possendo il mal cammin seguire,
il Baver con alquanti entrò in galea;
gli altri n' andaron, come poter gire.
Castruccio seguitò, come dovea,
per terra, con trecento buon guerrieri,
ed altra gente, che con lui tenea,
e mille Genovesi balestrieri;
e in Lucca, ed in Pistoia avea lasciati
a guardia più di mille Cavalieri.
E tanto cavalcò con suo' soldati
da sera, e da mattina di buon cuore,
ched in Viterbo insieme fur trovati.
Giugnendo il Baver, siccome Signore,
fu ricevuto dì due di Gennaio,
ed onorato come Imperadore.
Era allor di Viterbo Signor gaio
un, che Salvestro Gatti era chiamato,
pur Viterbese, e quel dì lasciò il maio.
Veggendo il nostro Duca dileguato
lo 'mperadore, e noi fuor di periglio,
poichè Castruccio l' avie seguitato,
subitamente fece un gran consiglio
là, dove fu l' uficio de' Priori,
e' lor Collegj, e i Capitan del Giglio;
ed allor disse: Fratelli, e Signori
e' m' è di nicistà tornar nel Regno,
e di guardarlo da que' traditori:
priegovi voi, che traiate ad un segno
col mio Vicaro, ch' è savio, e discreto,
servando i patti, com' è giusto, e degno;
Messer Filippo, fu da Sangineto,
con mille Cavalier, che con lui pogno,
e due savj Dottori al suo segreto.
Se 'n questo mezzo vi fosse bisogno,
verrò in persona con tutte mie genti,
a voi servire, ch' altro non agogno.
E' Cittadin mostrandosi dolenti
di suo partita, disser: Signor nostro,
di ciò, che a voi piace, siam contenti.
Diliberato ciò, che quì ti mostro,
per Pasqua di Natal vegnente, credo,
che fosse ciò, che or dirà lo 'nchiostro:
che 'l Duca fece un molto gran corredo
a tanti uomini, e donne, ch' a contare
parrie menzogna, e però no 'l concedo.
Nè mai vi si ristette di danzare,
uomini, e donne, co' Cavalier suoi,
ed al partir li volle ringraziare.
A' dì ventotto di Dicembre poi,
con mille cinquecento Cavalieri,
il detto Duca si partì da noi,
colla Duchessa, tanto volentieri,
ch' a mezzo Gennai' si fu trovato
all' Aquila, dov'egli avea' pensieri.
Nel dett' anno s' accordò col Legato
il Borgo a San Donnino, e suo' vicini,
e fece quel da Coreggio il trattato.
Nel dett' anno accordarsi i Perugini
con Città di Castello, rimanendo
Signor delli Tarlati, ed Ubaldini.
Quest' anno Papa Giovanni volendo
fortificar la Chiesa d' Uficiali,
a' dì diciotto di Dicembre intendo,
di nuovo fece dieci Cardinali;
Arcivescovo l' un fu di Tolosa,
e fu il Napoletan di que' cotali,
e Messer Anibaldo appresso chiosa,
quel di Campagna, e 'l Vescovo di Sponto,
e quel dal Zurro appresso lui si posa,
quel di Cartania valoroso, e pronto,
e quel di Mirapesce non dimorsa
il suo Cappel, sicchè fra gli altri il conto;
quel di San Pol con gli altri ancora imborsa,
quel di Cietieri il nono vo', che sia,
e poi Messer Uberto di Caorsa.
Nel predett' anno appresso Pifania
si fe gran processione in Fiorenza,
pregando Iddio con Santa Maria,
che difendesse d'ogni ria sentenza
la santa Chiesa, e lo scomunicato
Baver tornasse a sua ubbidenza.
Questo fe fare il Fiorentin Legato;
onde quel Papa il fe sanza dimoro
della Badia di Firenze Prelato,
che l' anno di domila fiorin d'oro
mille n' avia il Cardinal gentile,
e gli altri avieno i Monaci tra loro.
Questi le fece alzare il campanile,
e Giovanni Villani nostro Autore,
ad ogni bene ingegnoso, e sottile,
del detto lavorío fu facitore
pe 'l detto Cardinal, di cui amico
veracemente egli era, e servidore.
Nel predett' anno essendo Lodovico
giunto in Viterbo, come detto fue,
in Roma nacque, siccom' io ti dico,
molta discordia tra' cinquantadue;
ch' a certi non piacea la sua venuta,
a certi sì, coll'altre genti sue.
Altri dicien: Noi siam nella tenuta;
facciam patti con lui or, ch' è di fuori,
se no, che nostra impresa sia perduta.
E così gli mandaro Ambasciadori
a ciò trattare. Incontanente quelli,
ch'eran del popol Capitan maggiori;
(ciò fu Sciarra, ed Iacomo Savelli,
insieme con Tedaldo di San Stazio)
cacciaron fuor gli Orsin, come rubelli.
Appresso poi, seguendo tale strazio,
cacciar Messere Stefano per certo,
dall' uno all'altro ebbe poco spazio,
perch'era Cavalier del Re Ruberto;
e pe 'l Bavero preser le Fortezze,
e poi mandar per lui Messo coperto,
dicendo: Non guardare alle grossezze
del popol, che ti manda ambasceria,
fattene beffe di loro stranezze,
e francamente ti metti per via,
ch' altri che Iddio non ti può tor l' entrata,
e nostra forza nel tuo favor fia.
Giunser gli Ambasciadori, e l' ambasciata
dinanzi a quel Signore ebbero sposta,
che prima avea l' altra ben notata.
E 'l Bavero a Castruccio la risposta
commise; ed e', come talvolta fassi,
li fe guardar da parte, e 'n poca sosta
inverso Roma fe pigliare i passi,
e comandò, che fosser ben guardati,
che criatura innanzi a lor non passi.
E poichè gli altri furo apparecchiati,
lo 'mperador cavalcò per un pasto
con quattromila Cavalieri armati.
Giunto in Roma entrò sanza contasto,
come si conveniva, ardito, e fiero,
e tal triunfo da niun fu guasto,
e smontò insulla piazza di San Piero.
Quivi tre giorni volle dimorare,
e poi passò il Tever di leggiero.
Santa Maria Maggiore andò a abitare;
po' fece un parlamento alli Romani,
e le parole disse, ciò mi pare,
un Vescovo de' Frati Romitani,
il quale era solenne dicitore,
e seppe sì fregiare i Popolani,
che tutti gridar: Viva tal Signore;
e fer, che la Domenica vegnente
incoronato fosse Imperadore.
Ma prima il fer Sanator di presente,
e Capitan del popol per un anno,
ed accettollo graziosamente.
Nota Lettor quel, che i Cherici fanno,
che col Bavero fur molti Prelati,
Vescovi, ed altri, come molti sanno;
di tutti gli Ordini ancor vi fur Frati:
Messa non si dicea nel Santuario,
se non pe' retici, e scomunicati.
E nascoso da loro fu il Sudario,
perocchè non si convenia mostrare
a chi di santa Chiesa era contrario.
Preti Romani, per non uficiare,
fuggir di Roma; a Sciarra si commise,
che gli sforzasse; ma nol potè fare.
Nell'altro seguiren nostre divise.
c. 69, argumento
Siccome il Bavero fu incoronato
non sanza grande fatica, ed affanno,
e che Pistoia s' ebbe per trattato,
e morì il Re di Francia, e molta gente
per freddo, fu in quell'anno dolente.
c. 69
Era nel mille trecenventisette,
quando il Bavero fu incoronato
a Roma di Gennaio dì diciassette.
A Santa Maria mosse, accompagnato
della suo donna, e dell'armata gente,
con molti armeggiadori, al modo usato.
Que', che 'l dovieno incoronar presente,
vestiti a drappi d'or gli andavan presso,
siccome richiedeva il convenente.
Sciarra, ed Orsino, e Buccio di Processo,
e Pier da Monte Nero; questi sono
que' quattro, a cui dal popol fu commesso.
E li cinquantadue non abbandono,
ch'eran con lor, seguitando l' effetto
della coronazion, ch'io ti ragiono.
Dinanzi a lui cavalcava il Perfetto,
come il decreto dello 'mperio vuole,
ed un Giudice savio, e ben corretto;
il quale spesso gli dicea parole,
ch' appartenevano allo 'mperiato,
siccome in simil caso far si suole.
Da' nobili Baroni era addestrato,
piene le vie di mortine, e d' alloro,
e poi tutte le case d'ogni lato
poste avien fuor tutte le robe loro
per ogni via dinanzi, e di dietro,
ched istimate furo un gran tesoro.
Col dett' ordine entrò in Santo Pietro,
ed in luogo di Papa era parato
al grande Altare (e nota ciò, ch'io 'mpetro)
un Cardinale eretico, e privato
Vescovo per addietro Viniziano,
che fu nipote al Cardinal da Prato.
Ma il Conte di Palazzo Laterano,
che tien lo 'mperadore a cresimare,
e la corona, ch'e' si cava, in mano,
non voll' essere a questo, per non fare
contro alla santa Chiesa tal mestiere;
e 'l Bavero volendo riparare,
di sua man fe Castruccio Cavaliere,
e cinsegli la spada con gran fretta,
e diegli la gotata con piacere.
Molti altri toccò pur colla bacchetta,
e Conte di Palazzo fece lui,
colla lezion, come potè, perfetta;
che per innanzi far potesse altrui
cotal servizio, e fessi consegrare,
del benificio privando colui.
Poi la Corona non volle pigliare,
che prima non udisse, ed intendesse
a quel, ch'egli era obbligato di fare.
E 'l detto Giudice allora gli lesse
tre Capitoli, i qua' veracemente
promise ogni altro prima, che l' avesse;
di mantener la Fede certamente,
orfani, vedove, e pupilli atare,
e della Chiesa essere ubbidente.
Tutti promise, e giurò d'osservare,
e la Corona, come quì si dice,
gli mise chi 'l dovea incoronare.
E così a Madonna Imperadrice
allor fu messa la Corona in testa;
sicchè l' un fu, come l' altro felice.
Niuna cosa più v'era richiesta,
se non che 'l Papa la confermazione
gli avesse data, e fatt' era la festa.
Non ebbe quel; non valse la lezione;
ma nondimeno el fe compier la Messa,
poco curando scomunicazione.
Detto l' uficio colla grande pressa,
n' andò a Santa Maria dell' Ariacieli,
colla suo donna, e più altre con essa.
Non è di nicistà, ch'io ti riveli
il suon delle campane, e di stormenti,
ch' a molti orecchi parevan crudeli.
Quivi mangiaron, con molti sergenti
tante vivande, che dir non lo voglio;
ma dei pensar, che tutti fur contenti.
E la notte vegnente in Campidoglio
con sua donna dormì lo 'mperadore;
ed al dì, prima che passasse il soglio,
fe Castruccio in suo luogo Sanatore;
quivi lasciollo, e diegli a mano, a mano
colla sua donna, e gente a grande onore.
Se n' andò a San Giovanni Laterano,
e quivi si posò contento assai,
veggendosi in istato sì sovrano.
Nota, Lettor, che niun altro mai
fu incoronato, essendo lui sospetto
del Papa, come questo, ch' udirai.
Questi si mosse ad onta, ed a dispetto
del Papa, e della Chiesa, e 'ncoronato
per forza fu, non con verace effetto.
E dissesi, se fosse cavalcato
subito in Puglia, ch'egli avria del Regno
il Re Ruberto per forza cacciato.
Nel predett' anno, millesimo, e segno,
essendo a Forlì l' oste della Chiesa,
Fabrianesi, che l' avieno a sdegno,
vogliendogli levar da tale impresa,
v' andar con gente; onde Tano da Jesi,
che v'era per lo Papa a tal difesa,
percosse a lor, co' suo' soldati accesi,
e in isconfitta lor gente ebbe torta,
e fur la maggior parte morti, e presi.
Nel dett' anno fondata fu la Porta
di San Pier Gattolin, che appariscenza
ebbe più, ch' alcun altra prima scorta.
Nel dett' anno il Vicaro, che 'n Fiorenza
era pe 'l Duca, tenne alcun trattato
d' aver Pistoia con gran provvedenza.
E fu di molti arnesi apparecchiato,
e mosse quinci, serrate le porti,
e senza soggiornar fu cavalcato.
Giunse a Pistoia, e quegli usciti accorti,
che guidavano il fatto, molto avaccio,
quando pe' Fiorentin si vidon forti,
passaro i fossi su pe 'l fermo ghiaccio,
e puoser più bandiere per le mura,
e gli altri colle scale dier lo spaccio.
Le mura si tagliaro alla sicura,
e passò dentro il Vicario Ducale,
e di sua gente assai senza paura.
A rassegnar vegnendo l' Uficiale,
quando verso costoro alzò le ciglia,
levò il romore, e colsegliene male;
che quivi morto fu con sua famiglia.
Poi combatteron la Porta a San Marco,
ed arson l' antiporto, e ciò, che piglia.
Ringrossando la gente al detto varco,
i figliuo' di Castruccio si fuggiro
in Serravalle, con molto rammarco.
Uomini, e donne con grieve sospiro
solo attendieno a fuggire, e sgombrare
ciò, che portar potieno fuor del giro.
Allor la gente si diede a rubare,
e le sue 'nsegne il Capitano adorno
con poca gente rimase a guardare.
Ma cominciando ad apparire il giorno,
il Capitano in sul prato a ricolta
fece sonare, e tutti gli ebbe intorno.
Veggendo i Cittadin la gente folta,
che riparo alcun per lor non v'era,
per campar le persone dier la volta.
Fuggendo nel Castel di Bellaspera,
ne furon morti, e presi in quel furore;
de' qua' fu l' un, che rifacea la schiera,
quel di Messer Filippo traditore;
e 'l Capitan tornò con molta gioia
vettorioso alla Città del Fiore.
E 'n questo modo fu presa Pistoia,
a' ventisette giorni di Gennaio,
nel predett' anno sanza alcuna noia.
Appresso poi, a' dì sei di Febbraio,
veggendo avuta sì fatta vettoria,
la Castellina di se mandò 'l maio.
Ed essendo Castruccio in tanta gloria
col detto contraffatto Imperadore,
che quasi non poteva aver più boria,
Cavalier, Conte, Duca, e Sanatore,
Maestro della Corte, e più temuto,
che niun altro appresso del Signore;
vestito era di nuovo di velluto,
e d'oro scritto, come quì dirà:
Egli è ciò, che Dio vuole, ed è issuto.
Questo dinnanzi; e di dietro: Sarà,
siccome la scrittura quì favella,
da quinci innanzi ciò, che Iddio vorrà.
Quando a Castruccio giunse la novella,
(che in tre dì l' avea avuta per mare)
si diede della man della mascella,
e 'l Baver cominciò a rimbrottare:
Se voi in quà non m' avessi menato,
quel ch' è 'ncontrato, non potea 'ncontrare.
E subito da lui prese commiato,
e tanto cavalcò con fronte ardita,
che senza posa in Pisa fu arrivato.
Nota, Lettor, che per la sua partita
ogn' impresa, che 'l Bavero avie fatta,
d' andar nel Regno, fu messa ad uscita.
Come Castruccio, di cui quì si tratta,
in Pisa fu con sua Cavalleria,
corse la Terra; e quella gente matta
di subito gli diè la signoria;
ed e' recò a se l' entrata piena
della Città; che bisogno n' avía.
Poi di monete gravò lor la schiena,
e cominciò di presente a trattare,
per dare a' Fiorentin dolore, e pena.
Credendo Montetopoli pigliare,
vi cavalcò, ed essendo sua gente
nell'antiporto, per dentro passare,
que' della Terra valorosamente
corsero alla difesa, e 'l traditore,
che li guidava, ucciser di presente.
Castruccio con vergogna, e disinore
si tornò a Pisa; e ciò, ch'i' t' ho contato,
fu di Febbraio. Poichè fu Signore,
verso Pistoi' di Marzo cavalcato,
rifornì Montemurlo alla cortese,
e senza sosta a Lucca fu tornato.
Nell'anno, ch' è di sopra detto, e mese,
morì il Re di Francia, e gran duoli
ne portò quasi tutto suo paese,
perchè di lui non rimaser figliuoli.
Ma ben rimase grossa la Reina,
della qual, se più oltre saper vuoli,
or sappi, che quest' era sua Cugina,
ma conceduto fu questo legame
dal Papa, ch' a tal mal dà medicina.
Governator fu fatto del Reame
il suo Cugin Filippo di Valosa;
e la Reina al tempo fra le Dame
una fanciulla fece graziosa,
onde Messer Filippo ardito, e saggio,
fu fatto Re di Francia con gran posa.
Nel detto Carlo Re finì il retaggio
del Reame del padre, e fu il sezzaio;
sicchè a Filippo ritornò in vantaggio.
Nel dett' anno, del mese di Febbraio,
per tutta Italia fu corruzione
di febbre, che per freddo empiè lo staio.
Sentirne quasi tutte le persone,
e molti ne 'nfermar di quella punga;
ma pochi ne morir per tal cagione.
Nel dett' anno Guiglielmo Spadalunga,
che fu de' Conti Guidi Ghibellini,
tolse Romena a' Guelfi; e par, ch' aggiunga
il fatto tanto innanzi a' Fiorentini,
ched e' vi cavalcaro, ed assediarlo
co' Guelfi Conti, che v'eran vicini.
Allor Guiglielmo, siccom' io ti parlo,
l' abbandonò, lasciando molti arnesi;
e così i vecchi Conti racquistarlo.
Nel dett' anno di Marzo i Genovesi
preser Voltieri, cioè, que' della Terra,
con danno degli usciti de' paesi.
Nel detto tempo si cominciò guerra
tra' Genovesi usciti, e' Viniziani,
perchè gli usciti, se 'l libro non erra,
rubaro in mare a i loro Terrazzani
più di sessantamilia fiorin d'oro;
poi l' acquisto Castruccio ebbe tra mani,
e mise pace, ed accordo tra loro,
faccendo a' Viniziani alcuna menda;
non però tanti, quanti furo i loro.
Nel predett' anno il Baver, vo' che 'ntenda,
mandò gente a Viterbo, perchè offesa
alla Città d' Orvieto s' accenda,
perchè tenevan colla santa Chiesa,
e più Ville, e Castella fe guastare;
ma la Città fece franca difesa.
Nel dett' anno si vollero azzuffare
i Roman co' Tedeschi, perchè assai
toglievan roba, e non volien pagare.
Onde i Tedeschi di ciò trasser guai,
ed in Castel Sant' Angel per paura
si fuggì il Baver, siccom' udit' hai;
e la sua gente fe dentro alle mura
tutta tornare, e 'n persona, e 'n avere,
condannò molti per la zuffa dura.
Onde a' Romani crebbe il mal volere,
ed a' Tedeschi; talchè per sospetto
alcun di loro non volean vedere.
Appresso essendo allo 'mperador detto,
che 'l Signor di Viterbo raunati
avie molti danari a suo diletto,
mandovvi il Maliscalco, e molti armati;
il qual Salvestro, e 'l suo figliuol per certo
fe, che dinanzi a lui furon menati,
e tormentar gli fece sì, che aperto
ei confessar, che tenevan trattato
contro allo 'mperador col Re Ruberto.
Ed essendo Salvestro domandato,
ov'erano i danari, ch'egli avia,
rispose, di tormento addolorato,
che' Fra' Minor gli avieno in Sagrestia;
e 'l Maliscalco v' andò, e sì trovogli
trentamila fiorin, come dovia,
ed allo 'mperador tutti portogli;
e Salvestro, e 'l figliuol, che gli avea presi,
come gli piacque, a Roma incarcerogli.
Nel detto tempo ancor, se ben compresi,
il Cancellier fe rubellare Asturi,
e diello al Re Ruberto, e così intesi.
Onde disfatte fur sue case, e muri,
che dentro a Roma aveva con furore,
n' egli, ne' suoi vi stetter poi sicuri.
Appresso impose il detto Imperadore
trentamila fiorin, come tu dei
intender, poich' udito avrai il tenore.
I diecimila pagaro i Giudei,
e diecimilia i Cherici avari;
ma non sanza bestemmie, e dire, omei;
gli altri pagaron tutti i secolari.
E quì conoscer poi veracemente,
ch'egli intendeva pure a far danari.
Poichè son giunto al termine corrente,
sì faren fine al presente sermone,
del Bavero parlando, e di sua gente,
nell'altro seguirem nostra Canzone.
c. 70, argumento
Come il Baver privò Papa Giovanni,
e poi fu protestato a San Marcello
da chi lasciò lo scritto sanza inganni,
com' el non era vero Imperadore,
ma sì seminator di grande errore.
c. 70
Sonava il mille ventotto, e trecento,
quando, a' dì quattordici d' Aprile,
il Bavero a San Pier fe parlamento.
Istando incoronato, e signorile
in su uno adorno pergamo reale,
dove la gente a piede stava umile,
vestito di cocolla Imperiale,
colla verga dell' oro, e colla palla,
in una sedia molto triunfale,
avendo appresso a se da ogni spalla
Religiosi, Vescovi, e Prelati;
ma tutti degni della croce gialla.
Dicreti vecchi, e nuovi confermati
da lui allora fece piuvicare,
di quali conterò parte abbreviati.
Prima, se alcun si potesse trovare
che fosse per addietro, od al presente,
o per innanzi si potrà provare
contro alla fede di Dio onnipotente,
e contro alla 'mperiale Maestade,
debb' esser preso, e morto incontanente,
senza servare altra sollennitade,
e nonistantechè non sia richiesto,
od altra legge, ch' è 'n difesa, cade.
L' altro, ch' ogni Notaio fosse presto
in carta a metter, siccom' io ti dico,
poichè 'l tempo di Cristo ha manifesto,
regnando il nostro Signor Lodovico
imperador de' Romani eccellente;
nè senza questo vaglia Carta un fico.
Il terzo, che di danar, nè di gente
alcun, che fosse d' Imperio ribello,
non si aiutasse per alcun vivente,
soppena de' suo' beni, e più, di quello,
che gli paresse giusto, e degno bando;
nè gli varrebbe scusa, ned appello.
E queste Leggi fece, immaginando
perseguitare il Papa di palese,
a suo poter la Chiesa dibassando.
Appresso a pochi dì del detto mese,
nel medesimo luogo fece ancora
un parlamento, e 'n più cose si stese.
E 'l suo seder più, che prima l' onora,
perocchè su 'n un trono era sovrano,
e la suo Baronia appiè dimora.
Un Frate Niccolaio da Fabbriano
de' Romitan, solenne dicitore,
si levò su gridando a mano, a mano:
Sed e' ci fosse alcun procuratore,
od altro messo d' altrui alla corsa,
il qual difender volesse l' errore
di Prete Iacopo nato in Caorsa,
il qual si fa chiamar Papa Giovanni,
traggasi innanzi a dir ciò, ch'e' ne 'mborsa.
Tre volte disse questo con affanni,
e poi sedette, e levossi un Abate,
e molte cose disse, e molti inganni;
ed allegando quella autoritate,
che più gli andava a pelo, a tal tinore
disse: Signori, i' vo', che voi sappiate,
che questo giusto, e santo Imperadore
vien della Magna, per ricoverare
la degnità, e lo stato, e l' onore
della Città di Roma; e per ciò fare
abbandonò il suo Ducato giocondo,
e' suo' figliuoli, come chiaro appare;
pensando, che Roma è capo del mondo,
e la spirituale, e temporale
sedia vacava, ed andava in profondo;
ed acciocchè non fosse tanto male,
non senza grande affanno, a Roma venne,
e prese la Corona Imperiale;
e poichè 'l luogo d' Imperador tenne,
istando nella sedia il Signor fino,
grande richiamo innanzi a lui pervenne;
ch' uno Iacopo Prete Caorsino
Papa Giovanni si facea chiamare,
contro ad ogni ordine umano, e divino;
e ch'egli avea voluto mutare
i Roman titoli, e porgli a Vignone,
se non che' Cardinal nol lasciar fare.
Ancor, che contro ad ogni ragione,
la Croce fe bandir contro a' Romani,
senza niuna licita cagione.
Per la qual cosa per gli Popolani,
e Cherici fu fatto un sindacato,
e dato nelle sue discrete mani;
che contro al detto Iacopo, chiamato
Papa Giovanni, al tutto procedesse,
siccome contro a Eretico dannato;
e che per lui ancor si provvedesse
la Chiesa d' un santissimo Pastore,
come Otto terzo mostra, che facesse.
Ond' el proceder volendo, ad onore
della Città Romana, ed a salute
di santa Chiesa, come buon Signore,
le pruove avendo tutte per compiute,
condanna il detto Papa di resia,
per le infrascritte cose dissolute.
Prima, ch'essendo il Regno d' Erminía
da' Saracini assalito, e volendo
il Re di Francia, e sua Cavalleria
soccorrer quegli Ermin, se ben comprendo,
il detto Papa fe sopra' Cristiani
volger l' armata i Cristiani offendendo:
i quali andaron sopra i Ciciliani
gran quantità, pedoni, e Cavalieri,
e danneggiarli per modi villani.
Ancora, essendo el pregato da' Frieri,
che facesse oste sopra' Saracini,
rispose: In casa gli abbiam viepiù fieri.
Ancor disse, ove molti fur vicini,
che Cristo ebbe propio in quantitade,
comune con gli Apostoli suoi fini;
e noi sappian, ch'egli amò povertade,
e chi ne dice l' altro, è molto folle,
perocchè dice contro a veritade.
Ancora, ch'egli appropiar si volle
de' beni temporali ogni eccellenza
(e la spiritual già non si tolle),
per consiglio del Conte di Proenza.
E ciò facea contro al Vangel santo
là, dove Cristo disse per sentenza:
Quel, ch' è di Cesar, date a Cesar tanto,
e quel, ch' è di Dio, sì date a Dio;
e quest'è assai palese in ogni canto.
Ancora disse Cristo: Il Regno mio
non è di questo mondo, alla brigata,
che gli facean dir quel, che dich'io.
Ancor, ch'egli ha più volte dispregiata
la 'mperial Maestà, la cui lezione
contro al dover da lui fu annullata:
ora è rifatta per ogni ragione;
che da lui fu cancellato, e disposto,
ned ha bisogno di confermagione,
perchè non è ad alcuno sottoposto;
ma tutto il mondo è sottoposto a lui,
e s' egli è il mondo, ognun s'intende tosto.
Onde avendo commessi colui
questi peccati, e ciò ci è manifesto,
e dimolti altri, che sappiam d' altrui,
nonostantechè mai non sia richiesto,
che non bisogna per la legge fatta,
il detto Imperador presente, e presto,
come me' puote, dispone, e ditratta
il detto Papa d'ogni benificio,
e cosa per lui fatta sia disfatta,
sottomettendolo a ciascun, ch'ha uficio,
ovvero Imperial giuridizione,
ch' ognuno il possa punire in giudicio;
e che niuno Prencipe, o Barone,
ovver Comun gli debba dare aiuto,
o favor di pecunia, o di persone,
nè tenerlo per Papa; e chi l' ha avuto
non l' abbia più; ma retico dannato
da ciascun sia riputato, e tenuto,
soppena d' esser subito privato
di ciascheduno uficio, e lezione,
e come eretico esser condannato:
e la metà della condannagione
sia dello 'mperio, e l' altra metà sia
della Romana Camera a ragione.
E chi caduto fosse in tal follía,
cader s' intenda in simigliante pena,
cherico, o laico, o qualchessisia.
E diè termine a far la scusa piena
a ciaschedun de' Taliani un mese,
acciocchè di venire avesse lena,
e due ne diede ad ogni altro paese.
E data la sentenza, quel Signore
si levò, e disse alla gente palese:
Non dubitate, che nuovo Pastore,
e santo Papa avrete incontanente
sì, che ciascun n' arà contento il cuore.
Di che fe festa la minuta gente,
e' savj biasimar molto l' effetto,
e tutti si partiron di presente.
Poi a' dì ventidue del mese detto,
a Roma venne di lontan paesi
messer Iacopo savio, e corretto,
fil di Messere Stefan Colonnesi,
ardito molto, appariscente, e bello,
come vedrai per suoi sermoni accesi;
e 'n sulla piazza di Santo Marcello,
presenti molti Romani a quell'atto,
del Baver lesse il processo, e 'l libello,
che contro a lui il Papa aveva fatto,
il qual niuno ardiva a piuvicare.
E poichè l' ebbe letto, al primo tratto.
disse: Signor, secondochè mi pare,
la copia n' ebbe il Roman Chericato;
e' son cessati, per non contraffare
al falso Imperadore un sindacato,
e comparito fatto falsamente,
che 'l nostro Padre Santo ha infamato.
Ond' io protesto, e dico veramente,
che 'l Baver tiene spirito diabolico,
e 'l suo dicreto val men, che niente;
e 'l nostro Papa Giovanni Apostolico
sempr' ha tenuta buona, e santa vita,
e della fede è più, ch' altro, Cattolico.
Alla sentenza, ch'egli aveva udita,
come colui, che della Rettorica arte
sapeva porger più, ch' altro, pulita,
a tutto contraddisse a parte, a parte,
e soggiugneva: Egli è scomunicato,
e chi 'l consente; e mostrava le carte.
E molto più, ch'io non ho contato,
provar profferse al popolo Romano
a luogo, e tempo, ch'e' fosse ascoltato,
e contro a qual vi fosse il più Sovrano
intendeva provar cotal difesa,
ed eziandio colla spada in mano.
Poi nella porta della detta Chiesa
conficcò quel processo sanza fallo,
dov'era la sentenza tutta stesa;
e di presente montò a cavallo
con sua compagna, e andonne a Pilestrino,
che non potea aver più sicuro stallo:
il mormorar non fu poi piccolino.
Quando a San Piero il Baver l' ebbe inteso,
gli mandò dietro, per ogni cammino.
E veramente se l' avesse preso,
egli avrie fatto di lui grande strazio,
tant' era d' onta, e di nequizia acceso.
Ma egli era già giunto nello spazio
là, dove non curava tutto il mondo,
ed era lieto, ch' avea il suo cuor sazio.
Pensa, Lettor, se 'l Papa fu giocondo,
quando 'l sentì, e quanto l' ebbe a grado.
pensando, ch'era presso a sì gran pondo.
Benchè gli avesse dato un Vescovado,
mandò per lui, ed egli fu ubbidente,
e credo, che 'l ponesse in maggior grado.
Lo 'mperadore appresso, il dì seguente
mandò pe' Capitani, e Sanatori,
e pe' cinquantadue, ed altra gente
della Città, quasi tutti i migliori,
e consigliár sopra tal novitade.
Poi altra nuova legge trasser fuori,
la qual dicea, ch'essendo in unitade
lo 'mperador col popolo, potesse
elegger Papa nella degnitade;
e quel cotal, che per lor s' eleggesse,
ed ogni altro, che fosse in quello scanno,
nella Città di Roma star dovesse,
e quivi non partirsi, come fanno;
ma s' el volesse, al tempo della state
potesse star di fuor tre mesi l' anno,
e quando il popolo alcune fiate
il richiedesse, ovver per lui mandasse,
tornar dovesse, alla lor volontate;
e se alle tre richieste non tornasse,
s' intendesse privato del Papato,
ed un altro in suo luogo si chiamasse.
Appresso il Bavero ebbe perdonato,
presente i sopraddetti suo' Collegj,
al popol ciò, che prima avie fallato.
Queste parole tutte furon fregi,
che sempre il popol veniva fregiando,
perchè ciascuno ogni suo fatto pregi.
Appresso gente del Bavero andando,
per prendere il Castel di Sangermano,
pedoni, e Cavalieri oltre passando,
gente de' Perugini a mano, a mano
era a Spoleto arrivata a' confini,
e al Re Ruberto andavan di lontano.
Quando veduta dagli Spoletini
fu la gente del Bavero iviritta,
a grido, ed a romor co' Perugini
percosser loro addosso, e in isconfitta
misero allor Cavalieri, e pedoni;
e questo al Baver fu mala trafitta,
perocchè molti ne campar pregioni,
e fu de' morti sì grande dannaggio,
che pochi ne tornaro a lor magioni.
A' Cavalier Perugin fu vantaggio,
che ristorarono ogni lor difetto
d' armi, e cavalli, e giro al lor viaggio.
Appresso ancor Papa Giovanni detto
romatizzò il Bavero, e' Baroni
della scomunica, e d'ogni intraddetto,
e dispose Castruccio, e Pier Sacconi,
e ogni lor privilegio disfaccendo,
dal Baver conceduto, e le ragioni.
Nel dett' anno d' April, Castruccio avendo
fornito Montemassi, ov'era l' oste
delli Sanesi, secondoch'io intendo,
i Sanesi il pregaro in lor proposte,
ch'egli non s' impacciasse del Castello,
al qual tant' erano stati alle coste.
Ed e' rispose: Levate chel, chello;
e bench'egli uccellasse in lor latini,
dicea d' un battifolle forte, e bello.
I Sanesi sdegnaro, e' Fiorentini
richiesero d' aiuto per rimedio,
ed e' mandar de' lor soldati fini;
e tanto rafforzaron quell'assedio,
che 'l Castello ebbon, dì nove d' Agosto.
E questo basti, per non darti tedio,
ed allo 'mperador tornerem tosto.
c. 71, argumento
Come il Bavero fece parlamento,
nel quale fe lezion del nuovo Papa,
qual fe più Cardinali a suo talento;
e Castruccio di Pisa fu Signore,
e cacciò via quello Imperadore.
c. 71
Essendo in sulla piazza di San Piero
tutto il popol di Roma congregato,
per ascoltare il parlamento altiero,
il Bavero parato, e 'ncoronato,
mille trecento ventotto correndo,
dì dodici di Maggio al modo usato,
elegger Papa in quel luogo volendo,
mandò per Frate Pietro da Cornara,
Santo Frate Minor, se ben comprendo.
E lui venuto, sappiendo la gara,
quando si vide a così fatto passo,
rifiutar volle, e 'l Baver ripara,
e fel sedere agli suo' piedi al basso.
Poi si levò quel, che levar si suole,
de' Romitan, che non era ancor lasso,
e al popol disse: Lo 'mperador vuole
elegger Papa di sì santa vita,
che contro non possiate dir parole.
Quella di Frate Pietro avete udita,
che so, che a tutti l' animo ne gode,
purchè la Chiesa sia di lui fornita.
Non Papa è l' altro, ma crudele Erode,
e costui si può dire Angel di Dio,
d'ogni carità pieno, e quel di frode.
Appresso il Vinizian Vescovo rio
per tre volte all' esercito propose:
Volete voi quel Papa, c' ho dett' io?
E quel minuto popolo rispose:
Sì, sì; ma non alcun, ch'era discreto,
a cui spiacevan quelle brutte cose.
Allora il Vescovo lesse il decreto,
ch' apparteneva alla lezion Papale,
e Frate Pietro alquanto si fe lieto.
E 'l Bavero con atto imperiale,
poichè parato fu con tutto quello,
che si richiede allo spirituale,
si levò su, e misegli l' anello,
e poi l' ammanto di vermiglio tinto,
e dissegli: Per nome omai t' appello,
e vo', che sia Papa Niccola quinto;
e poi al par di se il fe salire,
e parve allotta al Bavero aver vinto.
Con tal triunfo, ch'io no 'l potre' dire
n' andarono in San Piero, ed alla Messa
promise ciò, ch'egli avea a seguire.
Allor gli fu la mitra in testa messa,
e furgli poste le due Chiavi in mano,
posciach' a Dio fatt' ebbe la promessa.
E molte cose più, ch'io non ti spiano,
si fecer, che non valsero una rapa,
e ciò dispiacque ad ogni buon Cristiano.
Ma Frate Pietro si tenea pur Papa,
e benchè prima no 'l volesse fare,
gli parve poscia più dolce, che sapa.
Con gran festa n' andarono a mangiare,
e ciaschedun si credeva in ogni atto
nella sua signoria continovare.
Il dì seguente, che questo fu fatto,
quattordici galee del Re Uberto
entraro in Tevero, e fero un bel tratto;
che preser la Città d' Ostia per certo,
e per lo Tever ne vennero alquante
fino a San Paolo, e fu lor sofferto,
guastando, ardendo, e rubando davante,
e con gran preda ritornaro al giro
della Città, dov'era l' Ammirante.
Onde i Romani forte sbigottiro,
e 'l Baver cominciaro a rampognare
tanto, che gli fu detto lor sospiro.
Ed el vi fe sua gente cavalcare,
i quali ad assalir fur molto arditi,
po' fu beato chi potè campare;
che di lor fur molti morti, e fediti,
gli altri lasciaron l' arme per oltraggio,
e ritornarsi a Roma sbigottiti.
Nel dett' anno, a' dì quindici di Maggio,
fe l' Antipapa sette Cardinali,
siccome il Baver volle a suo vantaggio,
volendo meritar; l' uno de' quali
Vescovo fu di Vinegia villano,
disposto per gli suoi difetti, e mali.
L' Abate a Santo Ambruogio di Melano,
ancor privato per la sua magagna,
fu il secondo Cardinale invano.
Il terzo fu l' Abate della Magna,
che lesse contro al Papa la sentenza,
che 'l Baver diede, donde ancor si lagna.
Il quarto Cardinal senza fallenza
fu Frate Niccolaio da Fabriano,
e Messer Piero Oringhi fe seguenza.
Messer Giovanni dall' Orto Romano
il sesto fu, e l' ultimo mi pare
il Modonese Arcivescovo strano.
Altri chiamò; non vollero accettare,
perchè parea lor far contro alla fede,
e tutti que', ch'hai uditi contare,
eran privati, e cassi di mercede,
per lor difetti, e scomunicati
dal vero Papa, a cui ciò si richiede.
Dal Baver poi fur tutti confermati,
e l' Antipapa fornì d' adornezza
di robe, e di cava' grossi, e montati;
sicchè se prima spregiava grandezza,
spregiando il Papa, dicendo efficace,
che Cristo dispregiò ogni ricchezza,
allora molto gli diletta, e piace.
Dimenticata avea l' aspra vita,
che solea far nello stato verace,
e volea la mensa ben fornita,
e' Cardinal volea veder felici,
e ciaschedun con famiglia vestita.
E per moneta dava i benificj,
privando ognun, ch' alcun n' avesse avuto
dal vero Papa, com' è scritto quici.
Il Baver dar non gli poteva aiuto,
che non avea per se; sicch' alla colla
chi volie beneficj era premuto,
e privilegj colla falsa Bolla
faceva largamente, e con letizia,
volendo di pecunia far satolla.
Or puoi veder, siccome l' avarizia
rimuta i cuori, e le cose perfette
fa trasmutare in frode, ed in malizia.
Appresso il Bavero, a' dì diciassette,
a Tiboli n' andò, e tornò poi
a' dì ventun, perchè poco vi stette.
E l' Antipapa con quegli altri suoi
gli andò incontro con gran volontade
fino a San Gianni, come intender puoi,
e 'nsieme cavalcar per la cittade,
e smontaro a San Piero al primo tratto;
e quivi giunsero a lor dignitade;
che 'l Baver la berretta di scarlatto
all' Antipapa mise in sulla chioma,
e confermol più, che non avie fatto.
Ed el, che Papa si tiene, e si noma,
lo 'ncoronò, e colla sua potenza
il confermò Imperador di Roma.
Ed egli appresso affermò la sentenza,
che data avea lo 'mperadore Arrigo
contro al Re Uberto con gran diligenza,
e contro a' Fiorentin, come quì rigo,
ed altri Guelfi della lor compagna,
de' qua' volendo brieve dir, mi sbrigo.
Quel dì fu fatto il Conte di Campagna
per l' Antipapa, e 'l Duca del Ducato,
e 'l Marchese, e 'l Conte di Romagna,
ed in più parti fece suo Legato.
Appresso si partì lo 'mperadore,
ed a Velletro se ne fu andato,
ed in Roma lasciò per Sanatore
Renier della Faggiuola, ch' arder fece
per parole due uomini a furore;
perchè dicien, ch'e' non valeva un cece
quell' Antipapa, e che quel da Vignone
era Vicar di Dio al mondo, e Vece.
Nel predett' anno, come quì si pone,
gente del Re Uberto alla Mulara
furo assediati non sanza cagione
da que' del Baver, che vinser la gara,
che s' arrendér, come quì si discerna,
salvo la vita, ed ebberla ben cara.
L' oste del Baver n' andò a Cisterna,
e quella avuta, l' arsero, e rubaro,
come per guerra talor si governa.
E li Romani a Roma si tornaro,
ed in Velletro poi volendo entrare
il Bavero, que' dentro non lasciaro;
onde stette di fuori. In quello stare
la gente, ch'era in Ostia, per dottanza
arser la Terra, e pensar di campare.
E la gente del Baver nella stanza
insieme s' azzuffaron per la preda,
e 'l Baver li divise a suo possanza.
Parte ne mandò a Roma per isceda,
a Tiboli con gli altri tornò al segno,
che non furo i peggior, vo', che tu creda.
E quivi stette un mese, con ingegno
cercando modo, come spesso fassi,
com' el potesse valicar nel Regno.
E poi considerando i forti passi,
che gli eran conti, per quelle contrade,
e che 'l Duca guardava gli alti, e bassi,
tornossi a Roma, quasi per viltade:
dissesi allora, e parmi più verace,
ched e' lasciò l' andar per povertade.
Nel detto tempo si compiè la pace
tra li due Re di Scozia, e d' Inghilterra;
e l' uno, e l' altro volentier si tace.
E per fermezza di non far più guerra,
fer parentado insieme sì gentile,
che per amor l' un coll'altro si serra.
Nel predett' anno, del mese d' Aprile,
ebbono i Fiorentin Castel di Pozzo,
com' udirai, per bel modo, e sottile;
che andando a rifornirlo sanza cozzo
la gente di Castruccio, usciron forti
que', ch'eran dentro, per empiersi il gozzo
E' Fiorentini, come presti, e accorti,
entraro in mezzo tra loro, e 'l Castello,
rupper la gente, e corsero alle porti;
e dentro poi non lasciaro un chiavello,
e tagliarlo da piè, come divisa
colui, che non vuol, che sia più rubello.
Nel dett' anno Castruccio essendo in Pisa,
e non parendo a lui, come quì dice,
che la Città si guidasse a sua guisa,
anzi trattavan con falsa radice,
che 'l Baver Pisa sanza alcun dimoro
concedesse a Madonna Imperadrice;
e' fecel per danar, ch'ebbe da loro,
onde là vi mandò per suo Vicario
un Conte della Magna per ristoro.
Castruccio, benchè pensasse il contrario,
gli fece festa, e poi raunò gente,
e corse Pisa sanza alcun divario,
e prese quel Vicaro incontanente,
e molti Cittadin, sanza timore
d' Imperadore, e di contraddicente.
E fecesi far libero Signore,
e quel Vicaro con grande sospetto
si partì con vergogna, e disinore.
E quando a Roma giunse, nel cospetto
di quella Donna stava dall' un lato,
come colui, c' ha pisciato nel letto.
Disse la Donna: Perchè se' tornato?
Ed e' rispose: Quel vostro Castruccio
mi fe carezze, e poi mi diè commiato.
La Donna del bel viso turba il buccio,
ed allo 'mperadore il mandò a dire;
pensa, se dovie gonfiar di cruccio.
Sed e' fosse vissuto, a non mentire,
si crede, che l' avria per tal cagione
più dibassato, che nol fe salire.
Nel predett' anno il Castel di Mangone
ebbe dal Duca que' de' Salimbeni,
perchè la moglie v' avie su ragione.
Nel detto tempo avendo i patti pieni
il Vicario del Duca, a' Fiorentini
volle altra soma por loro alle reni.
Oltre a dugento miglia' di fiorini,
che l' anno avea, per far nostre difese,
diceva, che volea, che' Cittadini
la Città di Pistoia a loro spese
fornisser, poich'ella s' era acquistata;
ma non pensava, che quando la prese,
la gente sua non vi lasciò derrata,
ed anch'era Signor; sicchè dovia
da se fornirla, poich' avie l' entrata.
Onde per questa presa bizzarria
stava la Terra alla misericordia
di Dio, perchè per niun non si fornía.
Quando Castruccio sentì la discordia,
e che Pistoia non era fornita,
prese con se medesimo concordia.
E gente a sedio vi mandò infinita,
e' Pisan col carroccio incontanente
vi mandò, sotto pena della vita,
ed e' vi venne poi col rimanente,
e mille settecento Cavalieri
vi si trovaro, ed a piè molta gente.
Ma i Pisani v'eran mal volentieri,
e però nella guerra stavan molli,
come color, ch' aveano altri pensieri.
Castruccio fe tagliate, e battifolli
sì, che vi si potea male entrare,
e molto peggio uscir, se non pe' folli;
e più volte vi fe battaglie dare,
con gatti, e grilli, riempiendo i fossi,
e torri di legname fe rizzare,
e manganelle con dificj grossi,
da' quali erano da mane, e da sera
da certe parti aspramente percossi.
Di Giugno i Fiorentin, per dar matera
di levarli dal campo per altre onte,
come si fa per miglior maniera,
fecer disfar Santa Maria a Monte;
onde Castruccio, secondoch'i' odo,
rafforzò il campo con ardita fronte.
I Fiorentin non veggendo altro modo,
richiesero il Legato da Bologna,
e gli altri amici, ch'eran posti in sodo;
e ciascun fornì bene la bisogna
sì, che il Vicario domila secento
buon Cavalieri avea sanza menzogna.
Dì tredici di Luglio, ciò non mento,
cavalcò a Prato, ed a' dì dicennove
mosse con tutto suo assembramento,
di là dal ponte Agliana, non so dove,
fermò il campo, e Castruccio domandare
fe di battaglia, per vincer sue pruove.
Egli accettò, e cominciò a spianare,
e nondimen facea da tutti i lati,
quanto potea, il suo campo afforzare.
E' Fiorentin veggendosi ingannati,
mutaro il campo, ed al ponte alla Bura
presso a' nimici furono accampati.
Quivi otto giorni stettero alla dura,
e tanto il Capitan fu ammalato,
e 'l Cardinal d' avere i suo' procura,
sicchè il campo era quasi sgomentato.
c. 72, argumento
Come Castruccio racquistò Pistoia,
e come appresso morì per affanno,
e 'l figliuol Pisa poi corse con gioia;
e' Fiamminghi sconfitti fur dal lato,
e San Pier del Murron calonezzato.
c. 72
Nel ventotto di Luglio i Fiorentini
per lo miglior da campo si levaro,
e 'n quel di Pisa passaro i confini;
e perchè sprovveduti gli trovaro,
preser subitamente il Ponte ad Era,
e tutto quanto l' arsero, e rubaro.
Così il Borgo del Fosso, e ciò, che v'era,
andò per simil modo insino a Pisa,
ched una casa non vi campò intera.
Al Borgo di San Marco in ogni guisa
si prese,
sicch' a que' dentro dier caro di risa.
E poichè n' ebber tratto molto arnese,
vi miser fuoco, e bestiame, e pregioni
menar gran quantità di quel paese.
Ma non pensar, che Castruccio abbandoni
la Città di Pistoia per questi atti,
che si facevan per quelle cagioni;
perocch'egli era acconcio a far de' fatti,
e non sarebbe di quindi partito,
se i Lucchesi, e' Pisan fosser disfatti.
Ma se il Fiorentin prima foss'ito
a Pisa, siccom' egli andò al dassezzo,
forse, ch' avrebbe suo voler fornito;
perchè Castruccio avrie mutato vezzo,
e se mutato non fosse di piano,
forse che Pisa avria pagato il prezzo.
Messer Simon Tosinghi Capitano
di Pistoia, veggendo dipartita
l' oste de' Fiorentini a mano, a mano,
pensossi di voler campar la vita,
e salve le persone, diè l' entrata
tre dì d' Agosto, ed e' prese l' uscita.
Come Castruccio l' ebbe racquistata,
sì la fornì di vittuaglia, e gente,
ed a' suo' Ghibellin diè la tornata,
e ritornossi a Lucca di presente
con gran triunfo, e così fatta dota,
ben meritava, e maggior veramente;
perocch'egli era in cima della rota
per suo valor montato, sanza inganni;
e non si trova (e quì, Amico, nota)
che dinnanzi da lui quattrocento anni
fosse un Signor sì bene avventurato,
come fu egli, non curando affanni.
Che, come per addietro abbiam contato,
Castruccio avea signoria sovrana
di Pisa, e Lucca, Pistoia, e Ducato;
era Conte, e Signor di Lunigiana,
e Conte di Palazzo in Roma fatto
pe 'l Bavero, la cui lezion fu vana.
Sicchè si potè dire ad ogni patto,
che di trecento Castella murate
si trovasse Signore a questo tratto.
Ma come piacque all'alta Deitate,
che per naturale ordine ragguaglia
grande, e minor di ricchezza, e d' etate,
perch' a Pistoi' si diè molta travaglia,
egli ammalò, e per simil tenore
Azzo Bisconte in Pescia ebbe travaglia;
che d'otto Città prima era signore,
di Melano, di Todi, e di Pavia,
di Como, di Vercelli, e con amore
Chermona, Bergamo, e Noara avia,
e per servir Castruccio era arrivato
a Pescia colla suo Cavalleria.
Quivi morì in assai vile stato,
e quasi non vi fu chi 'l proccurasse,
e così se n' andò scomunicato.
Castruccio prima, ch'egli ammalasse
avea sentito, che 'l Baver tornava
da Roma, e parve, che di lui dottasse.
Onde in segreto l' accordo trattava,
e già se n' eran più parole porte
a' Fiorentin; ma niente montava.
Ma in quel mezzo egli aggravò sì forte,
che 'l trattato rimase, e con gran duolo
fe testamento, temendo di morte;
e lasciò Arrigo suo maggior figliuolo,
Duca di Lucca, e disse: Non mostrare
la morte mia, se prima collo stuolo
non corri Pisa, e fatti Signor fare.
E detto ciò passò da questa vita
a' dì tre di Settembre, ciò mi pare.
Era d' etade nella sua finita
di quarantasette anni; e' Sagramenti
tutti quanti ebbe innanzi alla partita.
Com' el fu morto, e que' ch'eran presenti,
ammaestrati furon, che tacere
la morte sua dovessono alle genti.
Con quella gente, che potè avere,
Arrigo n' andò a Pisa con sua armata,
corse la Terra, ed ebbe suo piacere.
E poich'egli ebbe Pisa riformata,
tornossi a Lucca, e fecesi palese
la morte, ch'era dieci dì celata.
Quando la boce per Lucca si stese,
non potre' dir, quanto dolor ciascuno,
grande, e mezzano, e minor, di lui prese.
Non solamente si vestir di bruno
i suo' consorti, ed altro parentado;
ma dimolti altri, ch'io non conto alcuno.
Dieci cava' coperti di zondado,
con dieci insegne, ch' a cotal misterio
fur figurate ben di grado in grado.
Le prime due coll'arme dello 'mperio,
le due seguenti l' arme del Ducato,
e due appresso di suo Magisterio;
ed il settimo segno figurato
di Lucca fu, e l' ottava bandiera
fu la Pisana, com' era ordinato;
la nona per Pistoia la scacchiera,
di Lunigiana l' ultima; e' colori
lascio, per non far lunga tal maniera.
Non si potrebbe raccontar gli onori,
che gli fer Cittadini, e Forestieri,
quando portato fu a' Fra' Minori.
O come vengon fallaci i pensieri!
Questi pensava, colla mente sana:
Firenze avrò co' miei Cavalieri,
poi mi farò incoronar di Toscana;
e già levata avia parte dell' uggia,
quando gli venne ogni speranza vana.
Nel predett' anno, essendo que' di Bruggia,
ed altri rubellati al lor Campione,
commesser poi, che l' un l' altro distruggia,
Conte Luigi era fuor di pregione,
come dicemmo, e dimorando in Guanto,
i sopraddetti gli mutar quistione.
Andargli ad oste addosso, e feron tanto,
ch'egli il cacciar de' Fiamminghi paesi,
perseguitando lui da ogni canto,
e così tutti i Nobili Borgesi;
e contro a questo ogni cosa era ciancia,
che i lor Maggior volean morti, e presi.
E 'l Conte se ne dolse al Re di Francia,
disse: Così mi fanno i mie' fedeli,
nè contro a lor resister può mia lancia.
Sentendo il Re, com' egli eran crudeli,
comandò, ch' ubbidisser tutti quanti,
e che niun dal suo voler si celi.
Ed e' risposer, siccome arroganti:
Non ci comandi, ed el non ci lusinghi,
che di niuno intendiamo esser fanti.
Sentendogli parlar così raminghi
il Re di Francia, si recò alla mente
le 'ngiurie ricevute da' Fiamminghi;
ed ebbe grande esercito di gente,
ed ebbe seco il Conte di Savoia,
ed il Dalfino di Vienna possente.
Conte d' Analdo vi venne con gioia,
quel di Namurro, e Baron di Bramante,
ed altri molti per sì fatta noia;
sicchè si ritrovò a poco stante
più di diecimila Cavalieri,
e popolo infinito a se davante.
E 'n Fiandra se n' andò con buon guerrieri.
E' Fiamminghi niente spaventaro;
ma lasciar tutte loro arti, e mestieri.
E tutti a piè trassero al riparo,
e puosersi in sul poggio di Casella,
e gli altri appiè del poggio s' accamparo.
Caldo era grande, e quella gente bella;
ciascuna parte era 'n parte sicura,
e volentier posava questa, e quella.
Quando più dì furo stati alla dura,
i Fiamminghi nel campo de' Franceschi
mandarono un di lor sanza paura
isconosciuto a vender pesci freschi,
per veder come stesse il campo adorno,
e come fossero all'arme maneschi.
E stato che 'l Fiammingo fu alcun giorno,
proccurato il campo, e ciò, che v'è,
con allegrezza a' suoi fece ritorno,
e disse: I' vi prometto in buona fe,
che noi possiam, sanza troppa travaglia,
romper costoro, ed aver preso il Re.
Che se con lor s' ingaggia la battaglia
a certo dì, e' si rassicurranno,
sanz' arme voltolando tra la paglia;
ed in quel mezzo, benchè sia inganno,
gli assaliremo, e faremo un bel tratto,
ch'io so ben come il Re, e gli altri stanno.
E come ragionò, così fu fatto,
ch'egli ingaggiaron la battaglia insieme
a certo giorno, e poi ruppero il patto.
Stando i Franceschi sanz' arme in cileme,
la forza de' Fiamminghi arditi, e magni
addosso loro in sul meriggio preme.
E 'l franco Pescator, co' suo' compagni
diritto al Re se n' andò sanza fallo,
gli altri ferendo a molti dieder lagni.
Ma già il Re armato era a cavallo,
quando color, ch'eran per lui andati,
giunser colà, dov'el faceva stallo.
Sicchè i lor pensier venner fallati,
che per lo correr coll'arme, e col caldo
i Fiamminghi eran già molto affannati.
Ferì co' suoi il buon Conte d' Analdo,
che sempre stava armato alla Tedesca
in sulla stremità del campo saldo,
e 'l sostenea; e la gente Francesca
s' armaron tutti, e corser come franchi
là, dove cominciata era la tresca.
Ma li Fiaminghi affannati, e stanchi
non si potieno al campo tener ritti,
che senza esser fediti venien manchi;
e 'n questo modo furono sconfitti,
dodicimilia morti fecer biche,
gli altri fuggír, per non esser trafitti;
ch'egli eran più, che non son le formiche.
Ma i Franceschi non ebber di loro
pietà alcuna, per le 'ngiurie antiche.
E 'l Re poichè sconfitti ebbe costoro,
ebbe sanza battaglia certe Ville,
ed a Bruggia n' andò sanza dimoro.
Quivi a difesa trovar più di mille
su per le mura, con ardita fronte,
accesi, che parien pien di faville.
Allor le donne trasser tutte pronte,
gridando in piazza, colle 'nsegne in mano:
Muoiano i traditori, e viva il Conte;
e' Caporal fuggiro a mano, a mano,
e quelle donne, secondoch'io scorgo
poichè alcun vider fatto lontano,
mandar pe 'l Conte, ch'era a Brandimborgo;
e venuto gli dier la signoria
interamente, siccom' io ti porgo.
Poi v' andò il Re colla suo Baronia,
Conte, e Signor di Fiandra confermollo,
e d'ogni spesa, che quì fatto avía,
per racquistar la Contea, quietollo;
perocchè solo della gran vettoria,
che avea avuta, si tenea satollo;
e 'n Francia si tornò con tanta gloria,
che non si spense mai nella sua Corte,
e noi ancora ne facciam memoria.
E 'l Conte appresso ogni tenuta forte
disfece, e tra più volte con disio
a diecimila fe far mala morte.
Questo fu quasi giudicio di Dio;
perocchè non si potrebbe dir mai
la gran superbia, che quel popol rio
ebbe, dappoichè sconfisse a Coltrai
il Re di Francia, com' io t' ho contato;
e questo basti di loro oggimai.
Nel detto tempo fu canonizzato
pe 'l detto Papa San Pier del Murrone,
in prima Papa Celestin chiamato.
Nel predett' anno, come quì si pone,
gli usciti Genovesi ripigliaro
Voltier, togliendo a molti le persone;
ma poco il tenner, che costò lor caro,
perocchè alla Città, che 'l mare allaga,
per nuovi modi i suoi il racquistaro.
Nel detto tempo da Corte la paga,
che andava al Legato in Lombardia,
trovò gente tra via, che ne fu vaga;
che riposti erano in quel di Pavia,
per tal cagion molti masinadieri,
i qua' lasciar passar la compagnia,
e poi di dietro presero i somieri,
tra' quali avea trentamila fiorini,
e menarne le bestie, e' mulattieri.
Quand' altri va per dubbiosi cammini,
se si dilunga la fida compagna,
tal compagnia val men di tre lupini.
Nel detto tempo gente grande, e magna
del Re Uberto per forza cacciaro
gente del Bavero, e presero Alagna.
Nel predett' anno i Ghibellini entraro
a Rimine nel Borgo, e' Terrazzani
con lor danno, e vergogna, li cacciaro.
Nel detto tempo ancora i Parmigiani,
e que' di Reggio, non senza cagione,
di santa Chiesa si lavar le mani.
Nel dett' anno di Luglio fu in Vignone
diluvio d' acqua, non perchè piovuto
vi fosse di soperchio la stagione;
ma perchè oltramisura era cresciuto
Rodano sì, che quel paese munse
de' frutti, ch' alla gente danno aiuto;
e con tanto furor subito giunse,
che mise a terra più di mille case;
laonde molti di tristizia punse,
e molte si sgombrar delle rimase,
acciocchè sormontando suo cammino,
trovasse l' altre della roba rase.
Nel predett' anno ancora Alberghettino,
ch'era in Romagna Signor di Faenza,
a suo vantaggio Guelfo, e Ghibellino,
per lo miglior, con molta diligenza
s' accordò col Legato, e fece parte
di quel, che volle, contra a sua voglienza.
O quanti ci ha maestri di quell'arte,
che ad ogni acqua rivolgono mantello,
e loro arme, e Comune ad ogni parte!
Perch'io son giunto alla fine di quello
segnal, ch' è posto, a questo porren freno,
e per l' ultimo verso quì suggello:
nell'altro Canto al Baver tornereno.
c. 73, argumento
Come il Baver da Roma venne a Arezzo,
e siccome Luigi da Gonzaga
a Messer Passerin fe mutar vezzo,
e che Don Pier con sua gente assisa
col Baver fu, quand' e' racquistò Pisa.
c. 73
Trovossi il Baver in detti anni chiari
mille trecenventotto ancora in Roma,
con molta gente, e con pochi danari;
e mal possendo comportar tal soma,
vedea, che' suoi tra loro avean ressa,
per la cagione, che addietro si noma;
ed a Don Federigo la 'mpromessa
avie fallata, ed anche a' Ghibellini
d' Italia, che speravan molto in essa;
pe' detti casi, e per altri vicini,
di Roma si partì, e co' suo' Bali
a' dì quattro d' Agosto intrò in cammini
coll' Antipapa, e co' suo' Cardinali,
e con grande vergogna, e disinore,
udendo piuvicar tutti lor mali;
perchè 'l popol di Roma con furore
trasser lor dietro, e fur vituperati,
gridando: Muoia il falso Imperadore,
e 'l falso Papa, e tutti i suo' Prelati,
ch'hanno Roma di resia accesa,
siccome retici, e scomunicati;
viva Papa Giovanni, e santa Chiesa:
e co' sassi n' uccisero, e fediro
assai, nè mai si volsero a difesa;
e cavalcando in caccia, con sospiro
giunse a Viterbo; e la notte seguente,
che fuor di Roma, com' è detto, usciro,
v'entrò Bertoldo degli Orsin possente,
Messer Stefano poi della Colonna,
e Sanator fur fatti di presente.
Ed il Legato poi, che non assonna,
vi venne con Messer Napoleone,
e riformar la Terra, e ferne donna
la santa Chiesa, com' era ragione,
contro al dannato Bavero, e di nuovo
contro a' di lui formò inquisizione,
e contro all' Antipapa, e suo', ti pruovo,
ed ogni lor privilegio, e scritture
furo arse in men, che non si volge un uovo.
E li fanciulli, per divine cure,
quanti Tedeschi v'eran sotterrati
tutti li trasser delle sepolture,
e poscia per la Terra istrascinati,
nel Tever, siccome fracide pelli,
senza dimor tutti gli ebber gittati;
e furon condannati per rubelli
color, ch' al Baver dier la signoria;
ciò furo Sciarra, e Iacopo Savelli,
e dimolti altri fur cacciati via.
Messer Guglielmo Debole, esperto,
con mille Cavalieri, e fanteria,
allor vi venne per lo Re Ruberto,
e tutto quanto il popol ne fu lieto,
e ricevette grande onor per certo.
Il Baver, come ancora ti ripeto,
giunto a Viterbo con sua gente fella,
di subito fece oste ad Orbivieto,
e prese delle sue ville, e Castella,
ed a' dì dieci d' Agosto a Bolsena
n' andò, e diede più battaglie a quella.
Ma egli stava quivi, perchè piena
speranza avea d' avere per trattato
Orvieto, per alcun, che dentro il mena.
Il dì della lor festa seguitato,
Santa Maria, che andando all' offerta,
si doveva scoprir cotal mercato,
ei gente vi mandò, siccome certa.
Ma nostra Donna ricevendo onori,
francò la Terra, che non fu diserta;
e furon presi allora i traditori,
e giustiziati, e 'l Bavero a Viterbo
si ritornò, raddoppiando i dolori.
A' diciotto d' Agosto tutto acerbo,
coll' Antipapa se n' andoe a Todi,
de' patti fatti rompendo ogni verbo.
Com' el fu dentro poi, per nuovi modi,
ne cacciò i Guelfi, e poi i Ghibellini
trattati fur da lui, come quì odi;
che 'mpose lor diecimila fiorini,
e l' Antipapa poi dall'altro lato,
com' udirai, riconfortò i Todini;
che tutto dispogliò San Fortunato
di gioielli, ch' avie, d' argento, e d'oro,
come si dà, quand' altri s' è botato;
che valse quell'arnese un gran tesoro:
di che ancora ogni Todin si lagna,
che dentro gli lasciaron far dimoro.
L' Antipapa mandò uno in Romagna,
con cinquecento Cavalier per Conte,
il qual co' Ghibellini fe compagna.
E cavalcaron con ardita fronte
fino alle porti della Città d' Imola
ardendo, e dibruciando il piano, e 'l monte.
E 'l Bavero dall'altra parte stimola,
e 'l Maliscalco suo mandò a Fuligno,
con gente, che d' intorno li racimola,
credendo aver la Terra per ordigno
di tradimento; e poichè la fallaro,
di ruberia si caricar lo scrigno.
E di presente a Todi si tornaro,
e quivi stando, Romagna, e 'l Ducato,
ed altre parti intorno guerreggiaro.
Ma 'l Bavero era pur sollecitato
da' Ghibellin, che venisse a Arezzo,
mostrandogli, com' era apparecchiato
a poter far mutar Firenze vezzo,
dicendogli: Castruccio di novello
e' n' ha Pistoia, e verrà senza prezzo;
e 'l Conte di Romagna per Mugello
verrà, con gli Ubaldini; onde le strade
chiuse a Firenze fien senza rappello.
Niente poi si terrà la Cittade,
e se voi n' acquistate signoria,
arete piena vostra volontade;
perocchè di Toscana, e Lombardia,
e poi del Regno sanza alcun periglio
signor sarete, con piena balía.
Quando il Bavero udito ebbe il consiglio
de' nostri usciti, e degli altri d' intorno
di santa Chiesa nemici, e del Giglio,
piacquegli molto, e poi sanza soggiorno
scrisse ad Arezzo, che senza fallenza
tosto farebbe quivi suo ritorno.
Quando sentiro i savj da Fiorenza
l' ordine dato a lor distruzione,
non dubitar, ch'egli ebber gran temenza.
E bisognava ben lor per ragione,
perch'era quasi in sulla ricolta,
e 'l caro grande per quella stagione;
e se l' ordine dato quella volta
seguito fosse, egli era da dubbiare,
che la lor libertà non fosse tolta;
perocchè forte cosa era a pensare,
vedersi presso sì grande avversaro,
e da' Tiranni intorno guerreggiare.
Ma nondimeno e' non si sgomentaro,
e di vantaggio fornír le Castella
di vettuaglia, e gente per riparo,
ed il Contado sgombrarono in quella,
ed in Firenze, e d' intorno alle costi,
facevan far la guardia grande, e bella.
E' Fiorentini al tutto eran disposti
a soffrire ogni grande avversitade,
dicendo: Ciò, che vuol costar, si costi,
e muoiam prima, che nostra Cittade
si sottometta a niun uom, che sia,
o che si perda nostra libertade.
Richieser l' amistade, e ambasceria
mandaro al Re, che s' e' non ci mandasse
il suo figliuolo con gran compagnia,
che la provvision non s' aspettasse,
che avuta avea per addietro da loro;
di che il Re mostrò, che si turbasse.
Non mandò il Duca, ma sanza dimoro,
mandò del Balzo Messer Beltramone,
con cinquecento, ma tardi ci foro.
Ma Iddio, che sempre aiuta le persone,
a Castruccio mandò di morte piaga,
siccom' è detto, e noi diliberone.
Nel dett' anno Luigi da Gonzaga
in Mantova, siccome Paladino,
in piazza corse con suo gente vaga,
gridando: Muoia Messer Passerino,
e 'l popol viva, e muoian le gabelle;
e que', ch' avia la signoria in dimino,
corse alla piazza a saper le novelle,
e Luigi l' uccise, collo stuolo
di Messer Cane, e lì lasciò la pelle.
E poscia prese il nipote, e 'l figliuolo;
e perchè prima (fa', che quì m' intenda)
avea fatto patir di morte duolo
a quel Messer Francesco da Mirenda,
e però in man del suo figliuol gli mise,
dicendo: Fa', che tua vendetta prenda;
onde amendue di sua man gli uccise,
e poi Luigi con suo forte schermo
prese la signoria sanza divise.
Nel dett' anno, d' Agosto, que' di Fermo
preser per tradimento Sanlupidio,
e' Guelfi ne cacciar, come t' affermo,
non senza ruberia, ed omicidio:
e que' di Fermo, e gli altri Ghibellini
per un buon pezzo quivi fero il nidio.
Nel predett' anno, e mese i Fiorentini
il Campo de' Sanesi fecer grasso,
con cinquecento lor soldati fini.
Perocch'essendo ad oste a Monte Sasso,
Castruccio si pensò prendere il manico
della tenuta, e rimasene al basso;
ma li Sanesi avien preso Pavanico,
giugnendo i Fiorentin si trasse addietro
Castruccio, per non far de' suoi scanico.
Onde a' dì diciassette mutar metro
que' del Castello, ed arrendersi tosto
a' Fiorentin, che non v'eran di vetro.
Nel detto tempo, ed ancora d' Agosto,
Don Piero figliuol del Re di Cicilia,
con grande armata in mare, e ben disposto,
con Cavalieri più di cinquemilia
mosse, per esser col Bavero addosso
al Re Uberto, ed in ciò non si aumilia.
E benchè alquanto tardi fosse mosso,
pose in Calavria, in Ischia, ed in Gaeta,
e in ogni parte il Re ebbe percosso.
Poi verso Roma coll'armata lieta,
presero Asturi, e in foce di Tevero
ne venner, per trovar la faccia lieta
del Baver, che da Roma s' era scevero,
ed erasene andato a Todi bello;
onde Don Pier, di cui ancor t' abbevero,
fece guastare intorno ad Orbatello;
poi venuto a Corneto una mattina
mandò al detto Imperador novello,
dicendo, ch'egli andasse alla marina.
E 'l Bavero sentendo la gran gente,
che 'n terra, e in mare avea a se vicina,
cavalcò a Viterbo incontanente;
la 'mperadrice, e 'l Papa suo discreto
quivi lasciò, e poscia di presente
con mille Cavalier n' andò a Corneto:
Don Piero scese in terra, e fu con lui,
e per più dì contastar nel segreto;
e 'l Baver mostra, che dicesse a lui:
tu non venisti al termine promesso,
e demmi dar ventimila de' tuoi.
Disse Don Pier: Che non ti muovi adesso
con tua gente per terra, ed io per mare,
e la pecunia ti darò appresso.
E mentre ch'era questo ragionare,
di fare al Re Uberto una gran guerra,
giunse un messo da Pisa, ciò mi pare;
come Castruccio avea corsa la Terra
per se, con suo' Cavalieri, e pedoni,
e 'l Vicario, e sua gente fuor ne serra.
Onde per questa, e per altre cagioni,
diliberar di venirsene a Pisa,
per mar l' armata, e per terra gli sproni.
Di Settembre a' dì quindici t' avvisa,
che 'l Bavero a Grosseto dismontone,
e quell'armata sanza far divisa
avea già preso, e guasto Talamone,
poi a Grosseto col Bavero insieme
la Cittade assediaron per ragione.
E sappi, ched il Baver quivi preme,
per servire agli usciti Genovesi,
e a' Conti a Santa Fior, come quì geme,
per torre a' Fiorentini, ed a' Sanesi
il Porto, e 'l passo, e lor mercatanzia,
e dimolti altri Guelfi de' paesi.
Ma per ischifar Pisa fer tal via,
e combattero la Città assediata
per più fiate con grande valenzía;
e parte della gente dell'armata
per le mura salì con ardimento,
e funne a terra per forza cacciata,
e furne morti più di quattrocento;
ma la Cittade era pure a mal porto,
e già mancava lor saettamento,
quand' uno Ambasciador di Pisa accorto
al Baver giunse, e fegli manifesto,
come Castruccio a Lucca s' era morto.
E prima che' Pisan sentisson questo,
il figliuol corse Pisa, ed ebbe appieno
il signoraggio, per farlo più presto.
Aggiunse, che' Pisan forte temieno,
che non desse la Terra a' Fiorentini,
che vi sarebbero in men d' un baleno.
Quand' ebbe udito il Baver ta' latini,
lasciò Grosseto, e con sua gente forte,
con Don Piero si mise pe' cammini,
e giunse a Pisa, dove delle porte
gli furono i Pisan molto cortesi,
perchè tutti vorrieno anzi la morte,
ch'esser signoreggiati da' Lucchesi,
i qua', come sentiro il Baver giunto,
a Lucca si tornar co' loro arnesi.
E 'l Baver Pisa riformò appunto
alla suo signoria, e suo dimino:
buon per lui, che Castruccio era difunto.
Appresso fe suo Vicar Tarlatino
de' Tarlati d' Arezzo, e Cavaliere
il fe, perch'era grande Ghibellino,
e poi appresso il fe Gonfaloniere
de' Popolani, ed e' furon contenti,
perch'era quel, che facea lor mestiere.
Don Piero appresso con tutte sue genti
da Pisa si partì, ed arrivando
presso a Cicilia, ebbe contrarj venti;
onde l' armata venne traportando,
chi quà, chi là, ed e' n' andò a Messina,
pochi de' suoi con seco ritrovando.
Questa gli fue una gran disciplina,
che quindici galee ne profondaro,
ed altre ruppe con molta ruina.
Se degli uomini alquanti ne camparo,
non camparon gli arnesi a' Ciciliani,
che tutti a casa rubaldi tornaro,
e molto peggio arrivaron gli strani.
Ma perch'io sono al termine proposto,
di questo Canto vo' cavar le mani,
sperando seguitar coll'altro tosto.
c. 74, argumento
Come per forza s' ebbe Carmignano,
e 'l Baver condannò il fil di Castruccio,
e come i suo' fer con lui dello strano,
e 'l Duca di Calavra morì poi,
e in Pisa giunse l' Antipapa, e' suoi.
c. 74
Essendo Padova quasi annullata,
negli anni mille trecentotto e venti,
per la discordia della sua brigata
de' Cittadini, ch'eran malcontenti,
e pigliavan tra loro spesso gara
sì, che d' altrui di stati erano spenti,
più volte avendo già que' da Carrara
cacciati i Guelfi, per esser Signori,
e così eran della Città cara;
ma pur considerando, che di fuori
Messer Can tenie parte del Contado,
nè risister potieno a' suo' furori,
fecer con lui stretto parentado,
di Padova gli dier la signoria,
la quale egli ebbe fortemente a grado,
perchè gran tempo bramata l' avia;
a' dieci dì di Settembre la prese,
con gran triunfo, e con gran festeria.
Nell'anno, ch' è dinanzi detto, e mese
i Fiorentin Vicario, e Capitano,
che sempre istava colle reti tese,
udendo dir, che a que' da Carmignano
pareva esser rimasi a gran periglio,
pochè mort' era il lor Campion sovrano,
con gli Signor Prior prese consiglio,
de' quali un era Giovanni Villani,
che 'n questo libro per maestro piglio;
il qual fe la risposta ad ambo mani,
che vi si vada per sì fatto modo,
che finalmente i passi non sien vani.
E com' el disse allor fu posto in sodo,
che di notte il Vicar con molta gente
vi fu d' intorno, secondoch'i' odo.
Il Castello era grande veramente,
ma egli era di gente mal fornito,
non come richiedeva il convenente.
La gente prese tutto il circuíto,
ed ordinaron, ched al primo suono
delle trombe il Castel fosse assalito.
Così al giorno fu, che parve un tuono,
combattendo le mura, e gli steccati,
con ogni ingegno, che quivi era buono.
Al fin co' raffi a terra fur tirati;
le guardie la difesa abbandonaro,
e nella Rocca si furo intanati.
Passò la gente, e la Terra rubaro,
e poi appresso rimiser le dotte,
che più trabocchi alla Rocca rizzaro;
i qua' gittavan di díe, e di notte,
e quella gente, che v'era fuggita,
avie mal che mangiare a tutte l' otte.
Veggendo, che mancava lor la vita,
in capo d'otto giorni s' arrendero,
e salve le persone ebber l' uscita.
Ed in Firenze n' ebbe, a dire il vero,
grande allegrezza, e per la detta mancia
si murò tutto, com' è oggi, intero.
Nel dett' anno d' Ottobre il Re di Francia,
a priego della Reina Cremenza,
moglie, che fu di Luigi pro lancia,
fece far pace con gran diligenza
tra 'l Conte di Savoia, ed il Dalfino,
e baciaronsi in bocca in suo presenza;
ch'era durata per lungo cammino
briga tra lor per un, che ne fu morto
dal nipote di lei, ovver cugino.
Ell'avie male, e per darle conforto,
si fece questo; ma di quello affanno
ella morì, come quì vedi scorto.
E veramente, che ne fu gran danno,
perocchè quasi tutte l' altre onora
la fama d' una buona sanza inganno.
Nel detto tempo essendo in Pisa ancora
il Baver sopraddetto, abominato
gli fu Castruccio, e' figliuoli in un' ora;
ch' a sua vita tenuto avie trattato
co' Fiorentini contro alla Corona;
di che il Bavero fu forte indegnato.
La donna, che' figliuo' non abbandona
al Bavero n' andò sanza dimoro,
e de' gioielli suoi tanti gli dona,
che valser diecimila fiorin d'oro.
E questo fece la Donna valente,
perchè s' aumiliasse verso loro;
fe loro scusa, e poi liberamente
Lucca, e' figliuoli e ciò, ch' avia, gli offerse,
rimettendosi in lui interamente.
E 'l Bavero accettò ciò, che profferse,
a Lucca andò colla Cavalleria;
com' el fu giunto, e 'l popol si scoperse,
che non volevan più la signoria
del figliuol di Castruccio in niun atto;
ma sì la sua, perchè si convenia.
Ond' e' corse la Terra al primo tratto,
e poi da parte disse a' Cittadini:
Quì bisogna danari ad ogni patto.
Cencinquanta migliaia di fiorini
fate, ch'i' abbia tosto, e ciò non manchi,
e riguardate i poveri tapini,
ed io prometto, ch'io vi farò franchi;
e poi a priego del Re di Raona
liberò di pregion certi più stanchi.
Ciò fu Messer Ramondo da Cardona,
de' Fiorentini stato Capitano
ad Altopascio, come quì ragiona.
Ma quattromila fiorin d'or di piano
pagò innanzi, e 'l Bavero il condusse
con cento Cavalieri a mano, a mano.
Appresso a Pisa il Baver si ridusse,
lasciando ivi il Porcaro, alle cui mani
la detta quantità pagata fusse.
Appresso impose a' Cittadin Pisani
centomila fiorin sovra le coste,
dicendo: Fate, ch'io gli abbia Toscani.
Onde per queste sopraddette imposte,
i Pisani, e' Lucchesi mormoraro;
ma non montò niente alle proposte.
In questo mezzo mostra, che 'l Porcaro
co' figliuo' di Castruccio imparentasse,
e 'l signoraggio rendesse lor chiaro.
E 'l Baver, come che 'l fatto s' andasse,
tornò a Lucca, e 'l Porcaro dispose,
e per isdegno mostra, che sgombrasse;
e' figliuo' di Castruccio in tutte cose
privò di signoria, e di dimíni,
di Ducato, e Contea, e poi li pose
colla madre a Pontriemoli a' confini;
e li Pisani, con consentimento
del Bavero, anche li fero meschini,
e condannargli, secondoch'io sento,
con Ner Saggina, che fu lor tutore,
e' Fiorentini, ed altri più di cento,
perchè fur contro al popolo a romore
in avere, e 'n persona tutti quanti,
e ciaschedun, siccome traditore.
Nel detto tempo de' Tedeschi alquanti,
ch'eran col Baver della Bassa Magna,
per lo disdegno conceputo avanti,
com' è detto, a Cisterna di Campagna,
non possendo esser dal Baver pagati,
fecero insieme congiura e compagna,
ed ottocento Cavalieri armati
di Pisa si partiron, per pigliare
Lucca per lor, sed e' fosser lasciati.
Ma 'l Baver, che li vide apparecchiare,
fe dire a Lucca, che fosse serrata
la porta, e dentro non lasciati entrare.
Quando vietar si videro l' entrata
rubaro i Borghi, e pensaron d' intorno
pigliare alcun' altra Terra murata.
E non possendo sanza far soggiorno,
salirono al Cerruglio, e forzaro
tutto quel Poggio, e ferlo molto adorno.
E poi co' Fiorentin modo cercaro
di fare al Baver dimolta vergogna,
se fatto fosse ciò, che ragionaro.
Ed il lor Capo, e Duca di Sansogna
in Firenze più volte perdè i passi,
perchè 'l suo dir tenuto fu menzogna;
sì perch'el volle i patti troppo grassi,
e sì perchè 'l Comun non si fidava
di loro, i detti lor fur tutti cassi.
Dall'altra parte il Bavero trattava,
ovver facea trattare a Messer Marco
Visconti, che per lui s' adoperava.
E quando furo in concordia del carco,
sessantamila fiorin d'or promise,
siccome il Baver volle per suo scarco.
E 'l termine passato in tutte guise,
e' danar non venendo dal Campione,
ch'egli dovie mandar sanza divise,
i Tedeschi il ritennero a pregione,
e dissesi, che 'l Bavero costui
mandato avea per quella cagione;
perocchè non si fidava di lui,
considerando, quanto avea offeso
a Melano il fratello, e gli altri sui.
Nel detto tempo, se i' ho ben compreso,
giunse in Firenze Beltramon dal Balzo,
con cinquecento Cavalieri acceso,
che mandò il Re Uberto per rincalzo
de' Fiorentin, non avendo disio
di mandarci il figliuol sì di rimbalzo.
Nel detto tempo, come piacque a Dio,
dì nove di Novembre Messer Carlo
figliuol del Re Uberto, al parer mio,
e Duca di Calavra, com' io parlo,
e Signor di Firenze giusto, e degno,
a Napoli sentì di morte il tarlo;
di cui lamento fu per tutto il regno:
nè rimase di lui alcun figliuolo,
ma una sì, e d' una il corpo pregno.
Non si porría stimare il grave duolo
del Re Uberto, perchè non avía
più figliuol, che reggesse il suo stuolo.
Ma quanto fosse la novella ria,
e l' essequio grande in Santa Croce
ne facesse il Comun per cortesia;
ma pur la comun gente ad una boce
furon contenti, per fuggir le spese,
e per uscir di fedeltà veloce.
Questi fu ben grazioso, e cortese,
e morì dell' età, che morì Cristo,
negli anni trentatrè; quest'è palese.
Nel detto tempo, fatto tale acquisto,
i Fiorentin Firenze riformaro,
come tu vedi, ch' al presente listo;
che li Prior due per sesto chiamaro,
e fer la scelta d' uomini sovrani,
che fosser degni dell' uficio caro,
e Cittadini, e Guelfi popolani,
e non ci avesser luogo i forestieri,
nè da' trent' anni in giù, perchè son vani.
E così fecero i Gonfalonieri
con due Arroti d'ogni compagnia,
que' della Parte co' lor consiglieri,
e cinque ancor della Mercatanzia,
con sette Capitudini chiamate
di maggiori Arti, che si convenia.
Fatte che furon tutte le recate,
Gonfalonieri, e dodici Priori
furono insieme tutte e tre brigate,
con certi Arroti, e poi delle maggiori
dodici Arti, due per Capitudine
eletti, e nominati pe' Signori.
Sicch'egli erano a tal sollecitudine
novantotto uomini a far lo squittino,
ch' avien di prieghi grande improntitudine;
e qualunque era sì buon Cittadino,
ch' avesse sessantotto fave nere,
tutti gli uficj aveva in suo dimino.
Ed altre cose v'ebbe, che 'l tacere
m' è più bel, che il parlarne per sentenza,
e per dir brieve, non le dico intere.
Nel detto tempo si puose in Firenza
dodicimila fiorini al Chercato,
avuta prima dal Papa licenza.
Per non pagare, in Corte ebbe appellato,
ed a Firenze puoser lo 'ntraddetto,
e poi con lor vergogna fu levato.
Ed ordinato s' era con effetto,
che fosser fuor della guardia comune;
mad in fine pagaro a lor dispetto.
Nel predett' anno, di Dicembre fune
grande tremuoto a Norcia della Marca
qualchessifosse destino, o fortune.
Torri, e palagi, l' un sopra l' altro scarca,
e per quel nabissar del tempo reo
cinquecento persone morte carca,
e tutto quanto il Castel dell' Ipreo;
non vi campò persona, che in abisso
n' andar le mura, e 'l Cristiano, e 'l Giudeo.
Similemente Montesanto, e Visso,
tutti andar sotto sì, che mai non sembre,
che alcun vi fosse, riguardando fisso.
Nel detto anno, del mese di Dicembre,
il Baver fece in Pisa parlamento,
contro a Papa Giovanni, ed a sue membre.
E Frate Niccolaio del Convento
de' Fra' Minori fue il dicitore,
suo dir provando con falso argomento;
che retico era, e non degno Pastore.
E compiuto il suo dir, tutto parato,
si levò il Baver come Imperadore,
e confermò ciò, ch'egli avea parlato,
e condannò il detto Papa appresso,
siccome eretico, e scomunicato.
Nel predett' anno, e mese, gran processo
fe contro al Bavero il Papa a Vignone,
e condannol per questo modo stesso;
privandol d'ogni onore, e lezione,
e commettendo a tutti Inquisitori,
che lui perseguitasser di ragione;
e così tutti i suo' benefattori,
che l' atasser di gente, o di danaio,
fossero incorsi in simiglianti errori.
Nel predetto anno, a' dì tre di Gennaio,
l' Antipapa, e 'l Collegio incappellato
in Pisa giunse molto allegro, e gaio.
E 'ncontro gli si fe quasi ogni uom nato,
siccome vero Papa. O gente pazza,
che non pensaro al lor grieve peccato.
Appresso predicò in sulla piazza;
e dopo il suo lunghissimo sermone,
del qual chi se ne turba, e chi sollazza,
si confermò ogni condannagione,
che fatta fosse di Papa Giovanni,
siccome d' uom di mala condizione;
che si facea Papa con inganni,
ed assolvette di colpa, e di pena
chi lo spregiasse, bramando suo' danni.
Nel detto tempo cavalcò di vena
messer Beltramon fino a Ponte Sacco,
e gran preda a Firenze sì ne mena.
Un altro dì, tornato a dare scacco,
lasciò de' suoi più di centocinquanta,
che s' allungaron, per empiere il sacco.
E così fa chi di guerra s' ammanta,
che quando è vincitor, quand' è perdente,
e così quando piange, e quando canta.
E quì fa fine il Capitol presente.
c. 75, argumento
Degli Ubaldini, e Giovanni del Sega,
e come l' Antipapa contro al Papa
parlamentò; ma poca gente lega:
e d' altre cose, e come in Lombardia
n' andò il Bavero, ed ebbe Pavia.
c. 75
Cento, e centotto, e centoventi, e mille
anni correvan, quando gli Ubaldini
voller Firenze mettere a faville,
e fer con un de' nostri Cittadini
di gran cuore, e di bassa condizione,
com' udirai, se quì l' animo chini,
che quattro case condusse a pigione
in quattro parti di Firenze, e quelle
empiè di scope sott' altra cagione;
e po' dovien, seguendo le novelle,
venirci molti fanti appoco, appoco,
e stare per gli alberghi, e per le celle,
e la notte ordinata metter fuoco
in quelle case, acciocchè tutta gente
traesser quivi, e non in altro loco;
e' sopraddetti fanti incontanente
dovevan trarre alla Porta del Prato,
ed arderla, o tagliar subitamente,
e dal lato di fuori apparecchiato
doveva esser coll'arme, e con gli arnesi
il Baver, da suo gente seguitato,
co' Pisani, e' Lucchesi, e' Pistolesi,
e metter questa Terra a ruberia,
e molti della vita essere offesi.
Non piacque a Dio, nè a Santa Maria,
che Firenze perisse a questo tratto,
e fece palesar l' altrui follia.
Che colui, che guidava il detto fatto,
un giorno diede ad un suo ragazzino,
che del trattato sapea bene ogni atto.
Onde sdegnato, ad un gran Cittadino
disse: Io so cosa, ch'io potre' campare
questa Città, ch' è per andare al chino.
Udito il come, e que' senza tardare
n' andò a' Signori, e 'n presenza di loro
tutta la cosa fe manifestare.
Preso fu il Caporal sanza dimoro,
e fu punito, come si convenne,
e quel fante ebbe mille fiorin d'oro.
Non si vide pe' savj, e non si tenne,
ch'egli avesser così fatte le balle,
come avvisato avevan d'ogni benne;
perocchè questa non era Capalle,
e la gente, che ci è, coll'arme in mano
avrieno avuto al petto, ed alle spalle.
Nel detto tempo l' Antipapa vano
fe Cardinal, dal Bavero pregato,
Messer Giovan Visconti da Melano,
e di presente il mandò per Legato,
e Vecepapa in tutta Lombardia;
ma poco fu creduto a suo mandato.
E 'l Baver confermò la Signoria
e di Melano, e del suo Territorio
a Messer Azzo, che prima l' avía.
Ed el promise a lui sanza dimoro,
per pagar que', che tenieno il Cerruglio,
centoventi migliai' di fiorin d'oro.
I quali licenziaron del cespuglio
Messer Marco, ch' andasse pe' danari,
mad il Porcaro fu di lui più truglio;
ch' andaro insieme, e giunti freschi, e chiari
trentamila fiorin diè Messer Azzo
a quel Porcar, che gli ebbe molto cari,
e disse: Or dich'io ben, ch'i' sare' pazzo,
s'i' li portassi a chi di me si lagna,
e 'nfra se stesso se ne fe sollazzo.
Poi se n' andò con essi nella Magna,
e Messer Marco ritenuto pegno
fu da que', che gli avien fatto compagna,
e rimenarlo addietro con ingegno.
Là si scusò, che la pecunia in mano
fu data a quel, che si partì dal segno.
Nel detto tempo fe Sangimignano,
e Volterra, per non essere offesi,
triegua col Baver di cheto, e di piano,
perchè non cavalcasse in lor paesi;
di che i Fiorentin fur malcontenti,
e furonne da lor forte ripresi.
Nel predett' anno ancora vo', che senti,
che 'l Capitan del Patrimon superbo
si mosse di Febbrai' con molte genti,
credendo per trattato aver Viterbo,
ed entrò dentro quasi sanza guerra;
e stando in piazza coll'animo acerbo,
i suoi si diero a rubar per la Terra.
Sentendo i Cittadin cotal trafitta,
ad ogni canto fecero una serra,
e miser que' di piazza in isconfitta,
ed a cacciarli fuor furono accorti,
e chi di quà, e chi di là si gitta;
e furne più di quattrocento morti,
e 'l buon caval campò il Capitano,
e gli altri, ch' a fuggir si trovar forti.
Nel dett' anno il Comune Orbivetano
Chiusi rendette senza far dimoro
alli Signori di Montepulciano,
perocchè n' era Vescovo un di loro;
ed ogni uscito, che di fuor si doma,
potè tornar con gli altri a concestoro.
Dett' anno essendo Sanator di Roma
Messer Guiglielmo d' Ebol colle bande
del Re Uberto, che per Signore noma,
avendo li Romani il caro grande,
incontro al Re si levaro a romore,
perchè non gli forniva di vivande,
gridando: Muoia, muoia il Sanatore;
ed assediarlo dentro in Campidoglio;
onde per attutare il lor furore,
disse: La signoria render vi voglio.
Uscissen fuori; e i Roman di novello,
poichè la rabbia lor gittò lo scoglio,
Messere Stefano, e Messer Poncello,
l' un de' Colonna, e l' altro degli Orsini,
fecero Sanator sanza rappello;
qua' di lor grano, e d' altri Cittadini
misero in piazza sì, dicon le carte,
che contentaron grandi, e piccolini.
E non pur lì fu car; ma in ogni parte,
e dal ventotto al quaranta fe dura,
com' udirai, salendo a parte, a parte.
Che valendo lo stai', nostra misura,
del fine grano soldi dicessette,
salì a trenta, e parve cosa dura.
Ma poco tempo a quel termine stette,
ch'e' salì tanto in molti pochi mesi,
ched un fiorino, e più poi si vendette.
Perugia, Siena, Lucca, e' Pistolesi,
ed altre Terre assai, per impotenza,
i poveri cacciar di lor paesi.
Ma la piatosa Città di Fiorenza
tutti li ricettò, siccome madre
i suo' figliuo', con umile accoglienza;
ed il Comun di tutti si fe padre,
e per grano in più parti mandò tosto,
e fero in ciò molte opere leggiadre;
perocchè non guardando a niun costo,
il fero in piazza dar per soldi trenta,
vero, e mischiato d'ogni biada in posto.
E tanta gente allora vi s' avventa,
che convenia, che 'l ceppo, e la mannaia
istesse in piazza, e la Famiglia attenta.
ed in due anni, bugia non ti paia,
che 'l Comun mise in mantenere i poveri
de' fiorin più di sessanta migliaia.
Ma perchè il gran pe' ricchi non si scioveri,
pan di sei once fero ad un quattrino
a Canova, dove si dava a noveri.
E Giovanni Villan, car Cittadino,
si ritrovò a ciò con umiltade,
per mantenere il popol Fiorentino.
Se limosina alcuna, o caritade
s' usò allora in quanto il mondo spazia,
veracemente fu in questa Cittade.
Ond' io credo, che Iddio le faccia grazia,
e guardi di pericoli, e d' inganni,
perchè di sovvenir mai non si sazia.
Nel sopraddetto tempo, mese, ed anni,
in Pisa l' Antipapa per lo certo
di nuovo condannò Papa Giovanni,
e scomunicò lui, e 'l Re Uberto,
e i Fiorentini, e chi con lor si piglia,
in sulla piazza, predicando aperto.
Nota, Lettore, una gran maraviglia,
che predicando questi in dì di festa,
bandito, che v' andasse ogni famiglia,
venne dal Cielo una gran tempesta
d' acqua, di vento, e di gragnuola, senza
avere in tutto quanto il giorno resta.
Molti lasciar l' andare per coscienza
sì, che poche persone eran presente,
al predicar di sì fatta sentenza.
E 'l Baver fe costringere la gente,
ch' andassero ad udir cotal sermone,
e tutto questo fu quasi niente;
che ad udire v' andar poche persone;
ma chi si stava all' uscio, e chi nel palco
alle finestre, a farne diligione.
E sforzando la gente il Maliscalco,
a casa si tornò con molto lagno
sì prestamente, che parve girfalco;
e d' acqua salsa si fe fare un bagno,
nel quale essendo, vi s' accese il fuoco,
ed arsevi entro, e questo fu il guadagno.
E non fu piccol segno cotal giuoco
a que' Signor, che 'l vidon così cotto;
pognan, che ciaschedun vi desse poco.
Nel dett' anno, di Marzo, a' dì ventotto,
il Conte Chiaramonte Capitano
de' Ghibellin, per trattato condotto,
prese la Città d' Iegi, dove Tano
era Signore, ed ebbelo a pregione,
e tagliogli la testa a mano, a mano.
Ma primamente disse in confessione,
che d' esser Capitan de' Fiorentini
aveva già accettata la lezione,
e ch'el dovea pe' grandi Cittadini
volger lo Stato, che ancora non cala;
ma Iddio volse a noi gli occhi divini.
Nel predett' anno que' di Pietramala
impetrar Signoria di Sansipolco,
d' Arezzo, e di Castel tenendo l' ala.
Volendo i Borghigiani uscir del solco,
intorno gli assediaron gli Aretini,
e stettervi otto mesi a freddo, e dolco.
E volendosi dare a' Fiorentini
liberamente, furon rifiutati,
perchè i Tedeschi eran molto vicini.
Veggendosi da' Guelfi abbandonati,
nè possendo aver altra difensione,
di Marzo s' arrenderono a' Tarlati.
Nel predetto anno il Baver per quistione
da Lucca tra' Pogginghi, e 'nterminelli,
v' andò, per non peggiorar condizione.
Trovando, che' Pogginghi erano quelli,
che non voleano esser tra lor mani,
di Lucca gli cacciò come rubelli;
e fe Vicar Francesco Castracani
per ventidue miglia' di fiorin d'oro,
ch'egli ebbe tra promesse, e fiorin sani.
E fatto questo si partì da loro,
e colla gente sua, con festa, e gioia
a Pisa si tornò sanza dimoro.
Nel detto tempo entrarono in Pistoia
i figliuo' di Castruccio, e col Cognato
Messer Filippo, senza alcuna noia:
Vivano li Duchini; da ogni lato
gridando, corser la Terra a furore;
e pochè parve aver lor vinto il piato,
rinovaro i Panciatichi il romore,
con Gualfreducci, e Muli, e Vergellesi,
gridando: Viva il santo Imperadore.
Onde de' lor fur molti morti, e presi,
que' da Castruccio, e Tedici fuggendo,
quivi lasciar dimolti loro arnesi.
Nel detto tempo il Legato dovendo
Reggio aver, vi mandò da Bologna
dimolta gente, secondoch'intendo.
Intanto fu scoperta la bisogna,
e' traditori furo presi, e guasti,
e que' tornar con danno, e con vergogna.
Nel tempo, che da me prima notasti,
faccendo Messer Can guerra a' Bresciani,
assalì un Castel per certi tasti.
E come i fanti suoi fur prossimani,
fu loro aperto; e com' ebber l' entrata,
si dierono a rubare a mano, a mano.
E' Bresciani avvisati dell'andata
dietro a lor cavalcarono sì forti,
che non potè la porta esser vietata,
e cacciargliene fuori, e presi, e morti
ne furo assai, ed e' perdè sue pruove;
e' Brescian furo a rafforzarsi accorti.
Nel mille, con trecento ventinove,
il Bavero n' andò in Lombardia,
e fece un grande parlamento; dove
furon Tiranni, e grande Ambasceria,
e contro a Messer Azzo fece impresa
di guerreggiar, perchè non l' ubbidia,
dicendo, ch'e' trattava colla Chiesa:
onde la gente per cotale oltraggio
fu d' un volere a così fatta offesa.
Laonde il Baver del mese di Maggio
con molta gente andò in sul Melanese,
ed a Moncia si pose a suo vantaggio.
E cominciò a guastare il paese,
ma non ch'egli acquistasse signoria
d' alcuna Terra di tutto quel mese.
Ver' è, che poi di Giugno ebbe Pavia,
e poi entrò con sua gente in Cremona;
e non ne fo più lunga diceria.
Nell'anno, che di sopra si ragiona,
il Legato fece oste a Parma, e Reggio
rubellati da lui, come quì suona.
E poi fer pace, per tema di peggio:
la signoria rimase a chi l' avía,
mettendovi il Legato alcuno scheggio.
Quindi partita la Cavalleria,
al Modonese n' andò di presente;
ma poco si lasciò far villania;
perocchè s' arrendero incontanente,
ch'ebber veduta la gente sovrana,
co' patti, ch'ebbe Parma primamente.
Nel dett' anno il Legato di Toscana,
veggendo dalla Chiesa rubellata
la Città di Viterbo, e fatta strana,
essendo a Roma, fece grande armata;
andovvi ad oste, e dievvi intorno il guasto,
e prese alcuna sua Terra murata.
Ma la Cittade era troppo gran pasto,
a volerla così tosto pigliare,
avendo a petto sì fatto contasto.
Veggendo, ch' altro non potea acquistare,
tornossi a Roma molto malcontento,
e 'l popol men, ch' andava per rubare.
Perchè venuto al termine mi sento,
nè si convien passare il segno dato,
daremo a questo Canto compimento.
Nell'altro cibo ti sarà mutato
sì, che potrai aguzzar l' appetito,
e rischiarar, se tu l' avrai turbato.
Da questo volentier mi son partito.
c. 76, argumento
Di Messer Marco, ch'era nelle mani
de' Tedeschi dal Bavero fuggiti,
e della guerra, e pace de' Pisani.
di Messer Can, che fece sì gran fatti,
e come morto fu Salvestro Gatti.
c. 76
Ritornoti a' Tedeschi rubellati
dal Bavero nel tempo, ch'io ti mostro,
mille trecenventinove contati.
Che per trattato del Vescovo nostro,
insieme con Messer Pin della Tosa,
siccome chiaro ti dice lo 'nchiostro,
fecer lor Capitano ad ogni cosa
il detto Messer Marco de' Visconti,
ch'era lor gaggio, come quì si chiosa.
Ed una notte, con ardite fronti
n' andaro a Lucca, come avien la posta
da certi dentro, ch' a ciò furon pronti,
e dieder lor l' entrata della Gosta.
Come fur dentro pe' patti ordinati,
mandar subitamente sanza sosta
pe' figliuo' di Castruccio confinati,
e Francesco lasciò la signoria
a Messer Marco, co' detti soldati.
Corser la Terra sanza ruberia,
siccom' era ordinato a lor vantaggio,
di fuor faccendo ogni gran villania.
E 'l sesto giorno del mese di Maggio
rubaro, ed arser tutto Camaiore:
e perchè certi difendien l' oltraggio,
n' ucciser più di trecento a furore.
Così facevano a tutti i vicini;
e poich' a Pescia guasto ebber di fuore,
a Firenze mandar Frati Agostini
per la promessa fatta primamente,
ch'erano ottanta miglia' di fiorini.
E promettevan dar liberamente
la Gosta, e Lucca, lasciandosi il cruccio,
che' Fiorentini avevan nella mente
contro a' figliuo', che furon di Castruccio,
e d' esser Cittadin, co' lor famigli;
di che ancora dell' ira mi dibuccio.
Perchè di ciò si fe molti consigli,
dio ci dia grazia, dicíe il dicitore,
che 'l migliore d' esto fatto si pigli.
Onde per tema si fuggì il migliore,
com' udirai, e Firenze costretta
fu poi da' suoi di prendere il peggiore.
O per invidia, che fosse, o per setta,
o per qualunque fosse la cagione,
l' opera andò sì, che non mi diletta;
che contraddisse a ciò Messer Simone
della Tosa, mostrando, ch'era il peggio,
argomentando con falsa ragione.
Per la qual cosa chiaramente veggio,
che Mastro Cecco Astrolago valente
ne disse sì, che più oltre non chieggio,
là, dove disse, che similemente
l' uom, che degli occhi corporali è guercio,
esser dovea degli occhi della mente:
e questi fu di tal difetto lercio;
l' effetto il mostra, ov'el tirò la fune:
più non l' accuso, e più nol ti rimbercio.
Mad io so ben, ched il nostro Comune,
possendo andare in cima, andò nel fondo,
per le ragion, che si mostraron brune.
E per la detta mutazion, secondo
che scrive l' Autore, i più Gramatichi
Ghibellin di Pistoi' veggendo il pondo,
(ciò furo i Muli, e altri co' Panciatichi,
che di Messer Filippo eran nimici,
e co' figliuo' di Castruccio salvatichi),
non vider modo da regnar felici
in quella Terra pe' dubbiosi guazzi,
se' Fiorentin non fosser loro amici.
Messer Francesco Fiorentin de' Pazzi
tra' Fiorentini, e lor si fe mezzano,
e d'ogni nimistà levò gli sprazzi.
Liberamente ci diè Carmignano,
Artimin, Vitolino, e Montemurlo,
e più Castella di queto, e di piano,
ed in Pistoia rimetter senz' urlo,
doveano i Guelfi, salvoche' Tedici,
di cui parole più oltre non burlo.
E poi dovien raccomunar gli uficj,
e per pegno di ciò ci dier Tizzano,
e sopra ciò, ch'io t' ho scritto quici,
ci dier Pistoia in guardia, e 'l Capitano,
acciocchè l' un coll'altro più non cozzi,
vi fosse Fiorentino, e Popolano.
Messer Iacopo allora degli Strozzi,
Sindaco del Comun fu in ta' mestieri;
e perchè tanta nimistà si sgozzi,
fece in Pistoia quattro Cavalieri,
due de' Panciatichi, e 'l terzo de' Muli,
ed un de' Gualfreducci volentieri.
E 'l Comun di Firenze netti, e puli
a lor donar fe domila fiorini,
perchè armeggiasser sanza canapuli.
E poi a spese di lor Ghibellini
là entro fer trentasei cavallate,
e parte ne pagaro i Fiorentini.
L' Aguglie furo spente, ed accecate,
e l' Armi Ghibelline; e' Nicchi d'oro
con Sa' Iacopo fer con unitate.
Nel dett' anno i Pisan sanza dimoro
sentir, che 'l Baver di moneta scarco,
in Toscana tornava verso loro;
onde tra lor ne fu grande rammarco,
temendo, che gravezze non rinfreschi,
ed a Lucca mandar per Messer Marco;
il quale a Pisa venne co' Tedeschi,
ch'eran nemici dello 'mperadore,
e dell'arme erano arditi, e maneschi.
Allor si levò la Terra a romore,
e questa gente, e 'l popol trasse al Conte,
com' ordinato avien per lo migliore.
Appresso a ciò Messer Marco Visconte
guastò il Ponte alla Spina, e 'l Ponte nuovo,
e fece asserragliare il vecchio Ponte,
perchè 'l Vicario, secondoch'i' truovo,
ch'era, come dett'è, Messer Tarlato,
danneggiar non potesse il Conte un uovo.
Quando il Vicar si vide mal parato,
andò pe' fatti suoi, fuggendo guerra,
e ciò, che ne portò, gli fu rubato.
E li Pisan riformaron la Terra,
e dier comiato a molti incontanente,
e poi appresso, se 'l Libro non erra,
provvider Messer Marco riccamente,
ed el, com' un, ch' aveva sale in zucca,
diede commiato a tutta la sua gente,
dicendo: L' esser gaggio mi ristucca,
gite con Dio, non abbiate temenza,
ch'i' torni più per vostro pegno a Lucca.
E poi appresso avuta la licenza
da que', che in quel tempo eran Priori,
venne a veder la Città di Fiorenza;
ed in Calen di Luglio co' Signori,
e con due Vescovi, ed altri Prelati
fu a mangiare con grandissimi onori.
Dopo molti altri fatti ragionati,
i Cherici si dolser dell' offesa,
che ricevuto avien da' suo' passati.
Ed el promise, e giurò la difesa,
e la sua vita, siccome obbrigato,
ed ubbidente della santa Chiesa,
e poi di Lucca ritoccò il trattato.
ma niente montò, perchè costoro,
come dett'è, avien rotto il mercato.
Po' gli donaron mille fiorin d'oro
per lo Comune. Quando gli ebbe in mano,
li ringraziò, e partissi da loro;
e tanto cavalcò, che fu a Melano,
e lì fu onorato, e riverito
da' Cittadin più, che dal Capitano.
E perchè Messer Azzo avie sentito
co' Fiorentini il suo dimesticare,
per gelosia di non esser tradito,
un giorno lo 'nvitò a desinare,
con altri molti; e poich'ebber mangiato,
e tutte genti fur per via andare,
e Messer Marco addietro fu chiamato,
ed e' tornò, e con certi si serra
in luogo, e 'n parte, che fu strangolato;
poscia il gittar dalle finestre in terra.
E questo al popol fu molto spiacevole;
ma niuno a parlar bocca disserra.
Nel detto tempo que' di Valdinievole,
sentendo concordati i Pistolesi
co' Fiorentin, per modo convenevole,
ambasciador ci mandaron palesi,
e domandar di grazia un Capitano,
e fur di loro a' Fiorentin cortesi.
Nel detto tempo sentito il Pisano,
che' Fiorentin volean comperare
Lucca, per trarla lor tosto di mano,
fecer mercato sanza più pensare.
Sessantamila fiorin d'or fu il patto,
ch' a certo tempo ne dovevan dare;
de' qua' tredicimila innanzi tratto
dieder per arra, e perdér quell'avere,
perocchè senza statichi avien fatto.
Sicchè si può chiaramente tenere,
che' Pisan la perderon per lo poco,
e' Fiorentin per troppo antivedere.
Ma pochè de' Pisan sentiro il giuoco,
lì cavalcar, guastando ciò, che v'era,
fino alle porti con ferro, e con fuoco.
Così faccendo entrar nella Val d' Era,
e presero il Castel di Pratignone,
e quel di Camporena alla primiera,
e fecerli disfar sanza tencione
per modo, che di questo, nè di quello
non vi rimase pietra, nè mattone.
Onde 'l Pisan veggendosi rubello
del Baver, come dinanzi è contato,
i Fiorentin gli orlarono il cappello.
Parve loro esser in sì male stato,
che chieser pace, ed ebberla parecchia
d' un' altra fatta nel tempo passato;
e que' patti ebbe questa, che la vecchia,
e fessi in Montetopoli d' Agosto.
Cara costò a certi: e quì ti specchia;
perchè il seguente mese, che fu tosto,
siccome in tal Cittade a Dio piacque,
e cui è bene, e cui è mal disposto,
certi Pisani, a cui la parte spiacque,
co' Lucchesi cercaro vie diverse
di tradir Pisa: or odi, che ne nacque.
Cotal trattato in brieve si scoperse,
e' traditor fur presi, e giustiziati,
e pe 'l meglio di molti si sofferse.
Nel predett' anno furo ripigliati
da' Fiorentini i popol d' Ampinana,
ch' avía il Cont' Ugo più tempo occupati.
Nell'anno, che addietro si rispiana,
i Ghibellini di Monte Catini
cacciaro i Guelfi fuori della tana;
onde vi cavalcaro i Fiorentini,
e Messer Amerigo de' Donati
rimase Capitan presso a' confini,
e Caporal di tutti i collegati
di Val di Nievol, per me' guerreggiare
Monte Catin da tutti quanti i lati.
Poi per volere il simigliante fare,
di Monte Vettolin si mosser certi
de' Caporali di maggiore affare,
ed a Monte Catini andar coperti,
e Messer Amerigo per la via
li fe pigliare, ed avrieli diserti;
se non che diero intera signoria
della lor Terra al Comun di Fiorenza,
ch'erano amici: altro non se n' avía.
Nel detto tempo, colla sua potenza
Messer Can della Scala andò a Trevigi,
che l' Avogar teneva con temenza.
A' dì quattro di Luglio, e' ta' servigi
fe alla Terra, ch' a' dì dicennove
dentro passò co' suoi Bianchi, e Bigi.
Appresso, come piacque al sommo Giove,
egli ammalò, ed a' dì ventidue
rimase il corpo, e l' anima andò altrove.
Poi a Verona portato ne fue
con grande onore, e con sì gran lamento,
che forse d' altri mai non si fe piue.
Di lui non so da me, nè d' altri sento,
che figliuol ne campasse per memoria,
che legittimo fosse del Convento.
Nota, Lettor, ch'i' nol dico per boria,
come in un punto perdè Messer Cane
la vita, e poi ogni mondana gloria.
Vedi, che son felicità mondane;
ben puoi veder, se per costui le noti,
che senza fallo elle son tutte vane.
Rimaser di Messer Can due nipoti,
Messer Mastino, con Messere Alberto,
che fur de' Fiorentin poco divoti.
Nel dett' anno il Legato savio, e sperto
oste a Faenza fe, ch' Alberghettino
l' aveva rubellata per lo certo.
Poi s' arrendè, e gi col capo chino
al Legato, ch' a lui perdonò tosto,
e per amico il tenne a se vicino.
Nel predett' anno, del mese d' Agosto
il Legato in Bologna fe venire
Messer Ghiberto da Coreggio tosto,
ed Orlando de' Rossi, a non mentire;
ma con altra cagion si cuopre, ed arma,
ch' è per volerlo vedere, ed udire;
ma sol per gelosia, ch' avíe di Parma,
Orlando tenne seco, e con buon volto
in fargli onor niente si risparma.
I Parmigiani, che l' amavan molto
si rubellaro, ed ancor fecer peggio,
ch' agli Uficiali ogni cosa fu tolto.
Similemente fe Modena, e Reggio,
perchè diceva la gente famelica:
E' fu fidato, ed or pregione il veggio.
Essendo ad oste la Chiesa a Mattelica,
fu rotta, e sconfitta in tutti gli atti,
nè valse lor parlar con voce Angelica.
Nel predett' anno, Salvestro de' Gatti,
ch'era Signor di Viterbo, fu morto
dal figliuol del Perfetto in pochi tratti;
il qual corse la Terra molto accorto
per santa Chiesa, e colla spada in mano
tornar la fece ubidente al porto.
Vennevi appresso poi Messer Guatano,
Cardinal degli Orsini, e col suo conio
la riformò, e di queto, e di piano.
E l' altre Terre ancor del Patrimonio,
e della Marca ne recò ad un calle
in istato pacifico, ed idonio.
Nel dett' anno Pistoia Seravalle
diè in guardia a' Fiorentin, che l' ebber caro,
perchè a Monte Catini era alle spalle;
il quale aveva Stato molto amaro,
perocch'era assediato intorno, intorno
dalle Castella sanz' alcun riparo
sì, che poco di notte, e men di giorno
vi potie roba intrar, ma pur v' entrava,
e spesse volte ricevieno scorno.
Perch'io son giunto al segno, che mi grava
di far fine al Capitol, così faccio;
che già l' andar più innanzi mi noiava;
nè di questa matera or più m' impaccio.
c. 77, argumento
Siccome il Baver n' andò nella Magna,
e lasciò l' Antipapa al Conte in Pisa:
di Messer Gherardino, e sua compagna,
e del Conte d' Analdo, ch' a Vignone
andava, e 'l Papa il passo gli vietone.
c. 77
O vero Iddio guarda la mia Cittade,
che non arrivi, siccome arrivata
Lucca si vide, onde mi vien pietade.
Nel ventinove detto scapestrata
si ritrovò sanza fren di Rettore
guidar, siccome preda guadagnata.
E que' Tedeschi, ch'eran senz' amore,
vender la vollon prima a' Fiorentini,
poi a molti altri, secondo il tenore.
Poi si levar certi suo' Cittadini,
per comperarla dopo ta' novelle,
dandone ottanta migliai' di fiorini,
ma volien tutte l' entrate, e gabelle
per certi modi, e 'l Fiorentin ne desse
per arra quindici innanzi di quelle,
e che la guardia della Gosta avesse.
Giovan Villani fu de' singulari,
in cui le dette cose fur rimesse.
Dice, che non rimase pe' denari;
ma per la 'nvidia, e per la ipocrisia
de' Cittadini, che a ciò fur contrarj;
mostrando, ch'era mala mercanzia,
e che non era contratto sicuro,
ma cupidigia piena di resia.
Ma chi il presente, e 'l passato, e 'l futuro
ben guarderà, dirà, che mai più fino
contratto non si udì, nè così puro.
Rotto, che fu il mercato Fiorentino,
fu in concordia a mano, a man con loro
il Genovese Messer Gherardino,
e diè lor trentamila fiorin d'oro,
ed a' dì due di Settembre si face
Signor di Lucca, e del suo Tenitoro.
E poi richiese il Fiorentin di pace,
ovver di triegua, ma non v'ebbe modi,
perchè sua 'mpresa a ciaschedun dispiace.
E' rubellare il Castel di Collodi,
il quale ha presso a Lucca suo risedio,
fecer d' Ottobre, siccome tu odi.
E Messer Gherardin vi pose assedio,
ed e' si difenderon bene appresso;
ma non veggendo al fine alcun rimedio,
e non giugnendo il soccorso promesso,
a patti s' arrendero di presente,
con poco onor de' Fiorentini, ad esso.
Poi Messer Gherardin raunò gente
a 'ntendimento di levar la 'mpresa
di Monte Catin, fatta primamente.
Nel detto tempo colla santa Chiesa
si racconciar Melanesi, e Pisani,
e 'l Papa perdonò loro ogni offesa.
E 'l Cardinal Melanese in sue mani
rifiutò il Cappel, ch'egli avie avuto
dall' Antipapa, ch'ebbe i pensier vani,
siccome falsamente conceduto
dal falso Papa, che gliel diè per arra,
e falsamente da lui ricevuto.
Ed e' Vescovo il fece di Noarra,
e levò lo 'ntraddetto da Melano;
ma guardi pur, che Pietro non gli garra.
Quando di Pisa si fece lontano
il Baver, sì co' modi avie lasciato
quell' Antipapa col Conte Pisano,
e molto glielo avía raccomandato;
onde in Maremma ad un suo bel Castello
il facea star servito, ed onorato.
Papa Giovanni poi sentendo quello,
co' Pisani, e col Conte, a passo, a passo
d' averlo preso fe fare il tranello,
e diede al Conte Fazio Montemasso:
ma, più dirne al presente non bisogna,
che ne diren quando fia più al basso.
Nel detto tempo, sanza dir menzogna,
il Baver si credette per trattato,
come diren più innanzi, aver Bologna;
ma piacque a Dio, che si scoprisse il guato.
Onde il Bavero tutto sbigottito,
perch' ogni suo pensier venía fallato,
di subito da Parma fu partito.
andonne a Trento, per crescer compagna,
e tornare a Bologna me' fornito,
e torre a santa Chiesa la Romagna.
E stando quivi per quel, ch'i' t' ho porto,
e novella gli venne della Magna,
che 'l Duca di Sterlicchi s' era morto;
per la qual cosa poi con tutti i suoi
a tornar nella Magna fue accorto;
e mai i Monti non passò dappoi,
nè voglia Iddio, ched el, nè i suo' par mai
li passi sani, e lieti ci sian noi.
Ritornoti al trattato, ch'io lasciai,
del quale il Conte da Panago n' era
il Caporale, e gli altri furo assai;
Orlando Rosso, con tutta suo schiera,
appresso Messer Guido Sabatini
l' Arciprete Galluzzi, e sua bandiera,
e dimolti altri lontani, e vicini,
a cui spiacea signoria del Legato,
che ciascun brama, ch'egli a terra chini.
Alberghettino per l' ordine dato
dovea far Faenza rubellare,
e metterv'entro gente d'ogni lato.
E come di Bologna, per andare
alle Frontiere, uscisse fuor la gente,
e 'l romor dentro si dovie levare;
e 'l detto Conte Ettore francamente,
una con Guiderel da Monte Cuccoli,
e co' masinadier subitamente
dovien battendo colle spade i zuccoli,
il Legato cacciare, e dentro mettere
il Bavero con tutti i suo' tauccoli.
Ma non volendo tanto mal commettere,
come Iddio volle, l' un de' congiurati
scoperse il fatto a bocca senza lettere,
e gl' infrascritti fur presi, e legati;
il detto Alberghettino, e l' Arciprete,
e Messer Guido, con questi nomati.
Il Conte Ettore non diè nella rete,
perocchè alla Montagna sanza motti
per gente er' ito con miglior pianete;
ma fu preso il Cognato, Nanni Dotti.
Poich'ebber confessato il tradimento,
ed il Legato, trovando condotti
a questo così fatto ordinamento
molti grandi, e possenti Cittadini,
di far l' esecuzione ebbe pavento,
e mandò per più gente a' Fiorentini,
che gli mandár trecento Cavalieri
di que' soldati, ch' avieno i più fini,
e quattrocento di lor balestrieri,
tutti vestiti di bianco, e col Giglio,
che d'ogni parte il portár volentieri;
de' qua' fu Capitan sanza periglio
Messer Giovanni Tosinghi Mascella,
che fu del vecchio Messer Rosso figlio.
Veggendo il Cardinal gente sì bella,
riprese cuore, e fecene gran festa,
e la suo gente fe armar con quella;
e 'n sulla piazza fa tagliar la testa
a' detti Caporal, salvoch' all' uno,
che per la cherica ebbe più molesta,
quello Arciprete; il quale in luogo bruno
fu carcerato, e con molto dolore
nel detto luogo si morì digiuno.
E Giovanni Villani nostro Autore
testimonianza ne rende, che mostra,
ch'e' fosse là per nostro Ambasciadore;
e dice chiar, che se la gente nostra
non fosse stata a quel punto a Bologna,
che quel Legato perdeva la giostra,
ed erane con danno, e con vergogna
cacciato fuori, e la Chiesa con lui;
e 'l Bavero forniva suo bisogna.
Per lo miglior non distese ad altrui
quella giustizia, e la gente ritenne
più dì temendo, nè sappiendo cui.
Nell'anno, a Lucca di Novembre avvenne,
che' figliuo' di Castruccio a lor dimino
corser la Terra, e 'l popol ciò sostenne.
Nella Gosta era Messer Gherardino;
se ciò non fosse, egli eran vincitori,
perchè durár dalla Terza al mattino.
Dopo mangiar, co' suoi uscì di fuori
il Genovese, e per la Terra corse,
gridando: Muoian questi traditori.
Non fuggír sì di gualoppo l' orse,
quando di dietro si sentír la caccia,
com l' un l' altro di Lucca fuori scorse.
A lor Castella con turbata faccia
ridotti furo; ed e' co' suoi armati
Signor di Lucca rimase in bonaccia,
e fe appresso molti confinati,
rinnovò gente, come si ragiona,
e cassò molti di vecchi soldati;
ed amici, e parenti da Saona
a Lucca fe venir per sicurtade
sì della Terra, e sì della persona.
E' Fiorentin per quella novitade
l' assedio a Monte Catin ringrossaro
di buona gente, e grande quantitade.
E di Febbraio alquanti s' appressaro,
al Castel colle scale tanto accorti,
ch' una brigata dentro ne passaro.
Ma i Terrazzani fur dentro sì forti,
che ne cacciar la gente malcontenta,
e quanti ne rimaser furon morti.
Negli anni mille con trecento trenta,
que' di Costantinopoli in Turchia
passar con gente di malfare attenta.
E' Turchi allor mandaro in Tarteria
pe' Tarteri, che mosser, come cani,
gente, che tutto il paese copria.
Come giunser, percossero a' Cristiani,
e sconfissergli sì, che 'n quella guerra
molti pochi campar dalle lor mani,
e preser quasi che tutta la Terra
di là dal Braccio San Giorgio, e per mare
la gente in Arcipelago si serra,
e poi ogni anno venieno a rubare.
Lo 'mperador tenuto fu codardo,
e molto dibassò per quello affare.
Nel predett' anno, di Marzo, Adoardo
Re d' Inghilterra al suo Zian carnale
la testa fe tagliar sanza riguardo;
Conte di Canabiera fu; del quale
fu biasimato, perchè mai pensiere
non ebbe contro a lui di niun male.
D' Ottobre appresso prese il Mortiniere,
il qual guidò la sua persona sola,
la madre, e tutto contro al Dispensiere;
e senza domandarlo, o dir parola
gli oppose, ch'egli usava tradigione,
ed impiccar lo fece per la gola.
Nota, Lettor, che cotal guiderdone
rende il Signore al servo di leggiero,
e non gli falla trovar la cagione.
Ma ben si disse, (non so, s' e' fu vero)
che colla madre di chi 'l fe impiccare,
commesso avea più volte avoltero.
Nel detto tempo, d' April, ciò mi pare,
i Fiorentin fer nuovi ordinamenti,
volendo molte spese rifrenare
sopr' a' corredi, nozze, ed ornamenti
delle donne, e degli uomini sfrenati,
con grievi pene a' disubbidenti,
ed Ufficial sopr' a' casi vietati,
che parte avie della condennagione,
ci venne, e furne molti condannati.
Nel detto tempo il Lucchese Campione,
ciò fu Messer Gherardin Genovese,
con molta gente a piè, ed in arcione,
e coll'aiuto di Spina Marchese,
Monte Catin si credette fornire,
e la Rocca d' Uzzano allora prese.
Per tutto ciò niente venne a dire,
perchè trovando sì aspro il passaggio
tornossi a Lucca, sperando reddire.
Poi coll'aiuto de' Pisan, di Maggio
vi ritornò, e trovò monte, e piano
affossato, e steccato di vantaggio.
Da Seravalle al Castel di Buggiano
era tutto steccato, e 'mbertescato,
con fossi larghi, e cupi d'ogni mano.
La Nievole, e la Pescia nel fossato
mettevan colla borra, e fu pe' Colli,
e per lo piano erano da ogni lato
di forti, e ben forniti battifolli,
e solo quel, che lo steccato piglia,
non par, che di sei miglia si satolli.
E non ti paia questo maraviglia,
ch' a voler tutta la guardia cercare,
girava più di quattordici miglia.
Del Castel non poteva uscir, n' entrare
alcun, se non a rischio del capestro,
non ch' altra roba potesse passare.
E dice il nostro Autore, e Maestro,
che vide quel, che questa impresa regge,
e di vedere adagio anch'ebbe il destro:
quella, che fe, secondochè si legge,
Giulio Cesare al Castel da Liso,
del quale ancora appaion le sue vegge,
e pruova, ch' è, secondo suo avviso,
questa de' Fiorentin maggior di saldo,
alla qual ei fu ben con gli altri assiso.
Nel detto tempo il gran Conte d' Analdo,
andando con sua gente inver Vignone,
perchè dal Papa, di santità caldo,
volea aver la benedizione;
per andar poi sopra que' di Granata,
per voto fatto con divozione;
ed essendo a Cardona con suo armata,
Papa Giovanni avendone temenza,
perchè sua figlia al Bavero avie data,
mandò pe 'l Siniscalco di Proenza,
e per tutti altri Baron del paese,
che tosto fosser nella sua presenza
con lor forza, arme, cavagli, ed arnese;
e' Cardinal, Prelati, e Cortigiani
fe tutti armare, e tutti gli richiese.
Cento a caval coverti, allegri, e sani,
e trecento da piede al suo comando,
furono Fiorentini, e non villani.
E 'l Papa al Conte mandò comandando,
soppena di scomunicazione,
ch'el non venisse più innanzi; e quando
ebbe saputo sua intenzione,
dal voto l' assolvette, e fegli dire,
che pe 'l miglior tornasse a suo magione.
E 'l Conte allor, per non disubbidire,
si tornò a casa, e mostrò d' aver caro
di non avere in quelle parti a gire.
S' egli avea dolce bocca, e 'l core amaro,
questo sa Iddio, ed egli il seppe avanti:
buono è il sospetto, e buono è il riparo.
Partitosi quel Conte, i Mercatanti
si disarmaro, e 'l Padre Santo diede
la benedizion sua a tutti quanti.
Io sono in parte tal, che si richiede
di dare alla mia penna posa alquanto,
e però sopra questa pongo piede,
e muterotti poi materia, e Canto.
c. 78, argumento
Di color, che chiusono il Modonese
e poi dell' oste di Monte Catino,
e come il Papa l' Antipapa prese,
e di que', che lasciò, ch' a tutti i poveri
sei piccioli del suo per un s' annoveri.
c. 78
Nel tempo, che dinanzi è chiamato,
mille trecento trenta per ragione,
il Re Uberto mandóe al Legato
Messer Ramondo, e Messer Beltramone,
ed un fratello, ch'egli avea bastardo,
Messer Galasso, ciascun gran Barone,
e 'l Maliscalco suo prode, e gagliardo
con cinquecento Cavalier, mi pare;
e poichè fur nel paese Lombardo
stati d' Aprile, a Reggio, nel tornare
andaro inver la villa di Formigine,
la qual dovien per trattato pigliare.
E' Modonesi udendo la caligine,
popolo, e Cavalier vi cavalcaro
la notte innanzi, che 'l Signore origine.
Quando que' della Chiesa s' appressaro,
sentír, che il Modonese v'era intrato,
onde di maggior gente dubitaro,
e ridotti si furo in su un prato
presso alla Terra; ma non s' avvedieno,
che 'ntorno intorno era poi affossato.
E' Modonesi, che ben lo sapieno
usciron fuori, e preser quella bocca;
sicchè fuggir, nè combatter potieno.
E qualunqu' era persona sì sciocca,
che d' altra parte uscisse fuor del cerchio,
com' egli avvien, ch' alcun di schiera scocca,
subito del padul facíe coperchio,
e s' egli uscisse, donde intrato v'era,
di subito era morto dal soperchio.
Finalmente n' usciron tutti a schiera,
e tutti fur prigion dentro alle mura
di Modona, menatine a bandiera.
E questa fu sì gran disavventura,
che quasi tutti i Guelfi Italiani
se ne turbaro, ed ebberne paura.
Nel dett' anno di Giugno i Parmigiani
preser per forza il Borgo a San Donnino,
il qual la Chiesa aveva tra le mani.
Onde il Legato allor mise in cammino
tutta suo gente, ed in sul Modonese
li fece andar col fuoco, e coll' uncino,
e guasto ch'ebber d' intorno il paese,
con molta preda a Bologna tornando,
dimolta gente lor dietro si stese
infino al fosso della Moncia andando,
di più Città, Cavalieri, e fanti,
Volgetevi, volgetevi, gridando;
nè mai rifletter, ch'eran due cotanti
que' della Chiesa; ma quasi in un corso
rientrarono in Bologna tutti quanti.
Nel dett' anno, di Giugno, gran soccorso
venne di gente a Messer Gherardino:
pognan, che 'n fine valse men d' un torso.
Con mille Cavalieri in suo dimino
mosse di Lucca popolo infinito,
e venne, per fornir Monte Catino.
E pochè fu accampato, a mal partito
fu con Messer Francesco Castracani,
ed e' da un suo parente fu fedito;
e in Buggiano fuggiro salvi, e sani
certi con lui compagnoni efficaci,
ch'erano stati al fatto prossimani.
Messer Francesco con certi seguaci
menato a Lucca ne fue a pregione,
e guasto ne fue un de' più fallaci.
I Fiorentin s' accampar per ragione
presso a' Lucchesi, e 'l fosso era mezzano,
e nondimen guardat' era il girone.
Ed era allora nostro Capitano
Messer Alamanno Obizi, che 'l gozzo
quivi s' empiette d' altro, che di grano.
De' Consiglieri fu Messer Giannozzo
de' Cavalcanti, ed il secondo attento
di Casa Bardi fu Messer Gerozzo;
Messer Francesco de' Pazzi consento,
e Messer Biagio Tornaquinci, e poi
di Casa Bucelli Messer Talento.
E Messer Gherardin faceva a' suoi
combatter gli steccati, e di gran vaglia
eran difesi, come pensar puoi.
I Fiorentin richiese di battaglia;
mad e' la rifiutaro a lor vantaggio,
acciocchè non passasse vittuaglia.
E Messer Gherardin, siccome saggio
di notte i suoi armar fece di fresco,
ed una parte ne mise in viaggio,
de' qua' fu Capo il Gobole Tedesco,
da Gangalandi Durazzo rubello,
che sempre contro a' Guelfi fu manesco;
e con gli sopraddetti andò il fratello
di Messer Gherardin con quattrocento,
e cinquecento fanti ad un pennello.
Ed il Ponte alla Gora, ti convento,
che per forza passaro, e più di tredici
ne rimasero a terra con tormento.
La Pieve combattér, dove de' Medici
Messere Iacopo erane Campione,
e fu pregion, con anche più di sedici:
de' qua' Messer Tedaldo Castiglione,
con gli altri si trovò pregione al basso,
perocch' agli altri fu buon compagnone.
Quando sentì, ch'egli era preso il passo,
Messer Gherardin trasse dalla parte,
dov'era stata la rotta, e 'l fracasso,
e' Fiorentin si recaro in disparte,
e 'l passo tenner valorosamente,
e non passaron: questo abbi per carte.
E que', ch'eran passati in primamente,
dal lato lor combattien la bastia,
e Messer Gherardin similemente.
Veggendo il cerchio, che guardare avía
il Fiorentino, e la gente, che addosso,
com' hai inteso, tuttor gli venía,
fece di gente l' assedio più grosso.
per lo Comun soldár gente i Pontefici,
e da se stesso alcun se ne fu mosso.
A loro spese vi mandar gli artefici;
così la parte Guelfa dal suo lato,
per esser tutti di tal ben partefici.
E perchè 'l Capitano era malato,
v' andò la Podestà al primo tratto;
sicchè 'l campo fu tutto rincorato.
Quando Messer Gherardin vide il fatto,
cioè, che' Fiorentin la guerra presa
avien, per non partirsi in niun atto,
tornossi a Lucca, e lasciò la contesa
con sua vergogna; ma più il cuor gli serra,
veggendosi perduta tanta spesa.
I Fiorentin si strinsero alla Terra,
e cominciaro, per vincer lor prove,
a rinforzar d'ogni parte la guerra.
Onde di Luglio, a' dì dicennove,
a patti s' arrendero, e 'l Fiorentino
v'entrò; e gli altri andaro a stare altrove;
per la qual cosa Messer Gherardino
ne dibassò, ed inalzonne il Giglio.
E poi appresso di Monte Catino
nella Città di Firenze consiglio
si tenne, di disfarlo tutto quanto,
per la vendetta del vecchio periglio.
Ma un buon Cittadin disse da canto:
Signor, mercè, per Dio non siate ingrati,
ricordivi del ben, come del pianto.
Quando di Lucca i Guelfi fur cacciati,
niuna Terra ricettar li volle;
ma sol da questa furono accettati;
onde rimase la proposta folle,
e fedeltà giuraro, e promettero,
e 'l meglio fu, che averne fatto zolle.
E per segno di questo, ogni anno un cero
ci dà per San Giovanni, col Catino,
che del suo nome non presenta il vero;
ch'e' fu chiamato Monte Catellino
per Catellina, ched alle sue mani
vi fe la Rocca, e tennela in dimíno
quando si dipartì da' Fiesolani,
prima ch'e' fosse nel pian di Piceno
sconfitto, com' el fu da' suo' Romani.
Ma come ogni vocabolo vien meno,
quel piano è oggi Peteccio appellato;
ed a questa materia pongo freno.
A mezzo Luglio, Vespro valicato,
scurò il sole, ed a' dì ventisei
di Dicembre la luna da ogni lato.
Nel detto tempo, come saper dei,
il Re di Francia, siccom' io ti dico,
per amendare i suo' peccati rei,
andò a Marsilia, per veder l' antico,
e Real Corpo, che sempre rinverde,
cioè, il Beato Santo Lodovico,
e per veder la Donna di Valverde.
E fatto ch'ebbe quel viaggio adorno
con suo famiglia, c' al ben far non perde,
col Papa stette a Vignone alcun giorno;
dissesi, ch'e' ragionò del passaggio,
e poi in Francia fece suo ritorno.
Nel predett' anno, e giorno, che dett' haggio,
Messer Gherardo Lanfranchi trattato
tenne con certi in Pisa per l' oltraggio;
cioè, di volere al tutto lo Stato;
e come questi fatti fur palesi,
e' si partì, e funne condannato
egli, e più altri; e quattro ne fur presi,
ched impiccati furon molto tosto:
altri per tema mutaron paesi.
Nel predett' anno, dì quattro d' Agosto,
fu 'l Comune di Pisa, e 'l Conte Fazio
in concordia di ciò, ch' avien proposto;
cioè, di far Papa Giovanni sazio
dell' Antipapa, e mandargliele preso,
promettendo egli di non farne strazio.
D' Agosto detto, s'i' ho ben compreso,
giunse in Vignone; e poi il dì seguente
Papa Giovanni, benchè fosse offeso,
in Concestor, davanti a tutta gente,
il fe venire, ed el venne con pianto,
e col capestro a gola, e riverente
a' piedi si gittò del Padre Santo,
confessandosi falso peccatore,
come chi 'l Tullio fa ben tutto quanto,
con belle autorità, e con dolore,
misericordia dimandò per Dio,
che fu di tutti quanti Redentore.
Il Papa udito, ch'ebbe suo disio,
piangendo d' allegrezza, che gli tocca,
a' suoi piè l' assolvette d'ogni rio;
e con quella pietà, che dal cuor fiocca,
per mano il prese, e levol suso in piede,
ed in segno di pace il baciò in bocca;
e presso a se la camera gli diede,
di bello studio, e di libri fornita,
come in sì fatto luogo si richiede;
e sotto buona guardia, quella vita,
ch'el faceva per se, fe fare a lui,
salvochè non avea di fuor l' uscita,
nè favellar non gli lasciava altrui.
E 'n questo modo in quel luogo si stette,
finchè finiti furono i dì sui.
Quivi tre anni, ed un mese vivette,
ed alla fine, ch'e' venne al morire,
il Papa d'ogni offesa l' assolvette,
ed onorevolmente soppellire
il fe, Frate Minor nel suo Convento,
siccom' egli era innanzi a tal fallire.
Nota, Lettore, il grande tradimento,
ch' all' Antipapa ferono i Pisani,
per far Papa Giovanni esser contento.
Nota, ch'essendo peggio, che Pagani,
il Papa gli assolvette, e puose in posa,
perchè gliel desson preso nelle mani.
Se fu ben fatta l' una, e l' altra cosa,
a te, ed agli altri savj lascio quello;
ch'io per me non ci fare' più chiosa.
Nel predett' anno assediato un Castello
il Re di Spagna di quel di Granata,
ed e', venuto al soccorso di quello
a cavallo, ed a piè con grande armata,
sconfitto fu quasi presso a' confini
di quel Castello, pe 'l qual fe l' andata.
E ben quindicimila Saracini
vi furon morti, e que' con sua potenza
ebbe il Castello, e fe guerra a' vicini.
Nel detto tempo morì di Fiorenza
un, ch' avie poco; ma ciò, ch'egli avía
a' poveri lasciò per coscienza,
con questo modo, ch'e' vuol, che si dia
sei piccioli de' suoi ad ogni povero,
ched in Firenze accatti, qualchessia.
A' Munisterj, e Frati crebbe il novero,
similemente a' prigioni, e Spedali,
e a' bisognosi di cotal ricovero;
cioè, che ciaschedun di que' cotali
avesse danar dodici per Dio;
l' avanzo si godesser gli Uficiali.
E poichè morto fu, al parer mio,
gli essecutor volendo al suo comando
soddisfar pienamente con disio,
per tutta la Città mandaro il bando:
chi la tal carità vuol, vada presto
nella tal Chiesa, quella nominando;
che furon sei; che n' ebbe una per Sesto,
e piene fur della gente Cristiana
in men, ch'i' nol ti faccio manifesto.
Appresso fecer sonar la campana,
ed in quel punto la gente contenta
fu della carità, che quì si spiana,
e montar lire quattrocento trenta;
e' Munisterj, co' Riligiosi,
e Spedali, e pregioni, e chi s' avventa,
da parte, e molti pover vergognosi,
questi montaro in tutto lire ottanta:
fa' ragion, quanti furo i bisognosi.
Questi lasciò, secondochè si canta,
dugento fiorin d'or, ch' avie a tenere,
e fe romir Firenze tutta quanta.
Or puoi, Lettor, chiaramente vedere
quel, che montár le dette spese in tutto,
e quel, che appresso restò per godere.
Perchè tal ben non rimanesse asciutto,
volle Giovanni quì farlo palese,
acciocchè anco l' assempro faccia frutto.
Nel predett' anno ancora il Veronese
fe oste a Brescia, e d' intorno, e d' allato
le diede il guasto, e più Castella prese.
Nel detto tempo Messer lo Legato
fe cavalcare a Modona sua gente,
per danneggiar chi l' avie nemicato;
e fe guastar d' intorno il rimanente,
e con gran preda si tornò a Bologna,
e 'l Modonese rimase dolente,
e la vendetta, quanto può, agogna;
ma la Chiesa è si forte, a dir lo vero,
che sopra ciò pensar non gli bisogna.
Cozzar con suo Maggiore è atto fero,
e rade volte, l' una delle sette,
arriva a ben chi ha folle pensiero;
ma egli è apparecchiato: il ben gli stette.
Non dico più, perocchè le parole
del presente Capitolo son dette,
nè valicare il termine si vuole.
c. 79, argumento
Come s' assediò Lucca sanza fallo,
e come l' ebbe poi il Re Giovanni,
e fersi allor le porti di metallo,
e della novità del Colligiano,
di Sanbarduccio, e quel da Vespignano.
c. 79
I' ti contai, che Messer Gherardino
rimessi in Lucca certi usciti avía,
poich'egli ebbe la Terra in suo dimino.
Avvenne poscia, che per gelosia
de' Quartigian pigliò Messer Pagano,
ed anche un suo nipote ebbe in balía,
e tagliò lor la testa a mano, a mano.
Appresso poi i Fiorentini offesi
fur, che da lor si rubellò Buggiano;
cioè, il Castello, e diessi a' Lucchesi,
che venner poi a combattere il Borgo:
onde i soldati, che v'erano accesi,
a lor percosser, siccom' io ti porgo,
e ruppergli, e cacciargli a lor magione,
e rimasene alcun, se bene scorgo.
E per la detta rubellagione
i Fiorentini a Lucca feron oste,
ed il Cerruglio acquistar di Rondone,
ed ebber Vivinaia sanza soste,
e San Martino in Colle, e Montechiaro,
e Porcari seguì cota' proposte;
ed a Lunata appresso s' accamparo;
appresso poi si strinsero alla Terra,
e 'ntorno intorno lor campo afforzaro.
E per potervi far più aspra guerra
vi fecer molte case di legname,
e porti, con che quel campo si serra.
Corser tre palj; l' un di bucherame,
questo si corse con molto sogghigno,
perocchè 'l corser meretrici dame;
e l' altro fu di panno lan sanguigno,
il qual corsero i fanti alla pedana;
il terzo fu da più con bell' ordigno:
una lancia, con una melagrana,
con cinquanta fiorini sanza fallo
iv'entro fitti alla lancia sovrana.
Questo fu quel, che si corse a cavallo;
e tutti e tre si corser per vendetta
di quel, che fe Castruccio in nostro stallo.
E fer bandir presso a Lucca predetta,
che' Cittadini, ed anche i forestieri
fosser sicuri; onde questo s' accetta.
E molti a veder venner volentieri,
che dentro poi sicuri rientraro;
mad e' n' uscír dugento Cavalieri,
che per trattato non vi ritornaro,
col Gobole Tedesco Caporale,
il qual fu poi a lor grande avversaro.
Ma Messere Alamanno principale,
ch'era Lucchese, e nostro Capitano
malvolentier lasciava lor far male;
anzi lasciò lor seminare il grano,
dicendo, che facíe per lo migliore,
acciocchè s' arrendesser più di piano.
Ma per noi ritornò pure il piggiore,
perch'egli, e' suo' consorti n' arricchiro,
e da que' dentro ricevien di fuore.
Onde sentendol que' di nostro giro,
fer nuovo Capitan, se chiaro veggio,
un Cantuccio d' Agobbio, onde sospiro.
Che se 'l primo fe mal, questi fe peggio,
com' ancora udirai a motto, a motto;
ma quel, che prima avvenne, dir ti deggio.
Che tutti que' del Valdarno di sotto,
ch'eran raccomandati a' Fiorentini,
si sottomiser senz' altro condotto.
E questo fecer, perchè i Ghibellini
reggevan Lucca, di cui eran prima
originali, e veri Contadini;
ed obbrigarsi, com' io dico in rima,
di darci ogni anno, alla festa sovrana,
ogni Castello un cer di certa stima.
Nel detto tempo venne in Chiarentana
il Re Giovanni al Duca suo cognato,
movendo di Buemma sì lontana.
Come Brescia il sentì quivi arrivato,
ambasciador gli mandò di coverto,
con tutto generale, e pien mandato.
Essendo sottoposti al Re Ruberto,
la Signoria gli diero, e ferne festa,
e 'l Vicaro del Re n' ebber cacciato.
Torno all'assedio, perchè fu richiesta
nostra amistà, e di molti paesi
vi trasse molta gente manifesta.
Allora sbigottír molto i Lucchesi,
e' Fiorentini con gli altri Sovrani
la cerchiar tutta di gente, e d' arnesi.
Ma pur celatamente da' Pisani
eran forniti, che palesemente
non volien far contr' a' patti certani.
Allora i Fiorentin subitamente
tra Lucca, e Pisa fero una bastia
sì, che passar non vi potie niente.
Quando si vider serrata la via,
a vender cominciar vino inacquato,
e 'l pane a peso con gran carestia.
Allor co' Fiorentin tenner trattato,
e Messer Gherardin dovia lasciare
la signoria, quand' e' fusse pagato
del primo costo, e la Gosta disfare,
e ventiquattro sanza alcun dimoro
di Lucca Cavalier si dovien fare
pe' Fiorentini, e ciaschedun di loro
dovie donar, per mantener quell'atto
almanco cinquecento fiorin d'oro.
E veramente, che venía fatto,
se non fosse la 'nvidia di molti,
che cominciar da canto nuovo patto;
i qua' trattati insieme furo avvolti,
l' un guastò l' altro, dice l' Autore,
che fu de' primi trattatori sciolti.
Attanto giunse il novello Rettore,
e Capitan, Cantuccio Gabrielli
d' Agobbio, il qual ci fece poco onore;
perocch' avendo passato un di quelli
soldati in parte suo comandamento,
il fe pigliar per punirlo; mad elli
era de' Borgognon, ch'eran secento,
i qua' s' armaro, e trasserlo di mano
alla famiglia, e d'ogni impedimento.
E morti ne lasciarono in sul piano,
da sette in su de' suoi masinadieri,
ed anche avrebber morto il Capitano,
se non fossero i savj consiglieri;
ed isconfitti savamo a furore
se Lucca avuti avesse Cavalieri.
Onde Messer Gherardin prese cuore,
e poch'egli ebbe intesi nostri affanni,
non volle più trattar di tal tinore.
Ambasciadore mandò al Re Giovanni,
e diegli Lucca per man di Notaio,
se' suo' danar gli desse senza inganni.
Egli accettò, e mandò di Febbraio
a' Fiorentin, promettendo lor pace,
sed e' lasciasser l' assedio primaio.
E fu risposto: La pace ci piace,
ma l' oste, ch' è a Lucca, è per la Chiesa,
e per lo Re Ruberto, ed in lor giace.
E 'l Re Giovanni, la risposta intesa,
raunò gente d'ogni condizione;
e così i Fiorentin, per far difesa
soldár del Balzo Messer Beltramone,
ched iscambiato per Orlando Rosso,
allora allor tornava di prigione,
e ferlo Capitano, ed e' fu mosso.
L' altro, che v'era si tornò a Gobbio:
beato a lui, che si trovò riscosso.
Ma e' n' andò con vergogna, e con brobbio,
che per guidar tanta gente a sue coste,
e' non valea un mazzo di marrobbio.
Quando Messer Beltramon fu nell' oste,
e certi, poch'el fu giunto nel campo,
in Lucca se n' andaron sanza soste;
ed egli scrisse quà per nostro scampo,
ch'egli era me', che 'l campo si partisse,
che stare a rischio di maggiore inciampo.
Onde fu scritto, che se ne venisse
coll' oste per tal modo, che non paia,
che per temenza la gente fuggisse.
Partissi quindi, e prese Vivinaia:
quella guastaro; ma fer come 'l nibbio,
che lascia l' oca, e prende il topo all' aia:
con poco onor, come gente da stibbio,
tornarono a Firenze, ciò mi pare;
nota, Lettor, colà, dov' ora affibbio:
che di sua impresa giammai gloriare
non si dovrebbe persona veruna,
nè di suo male stato disperare;
che' Fiorentini in prospera fortuna
fidandosi, in un punto vidon porsi
dov'ella dimostrò sua faccia bruna,
ed i Lucchesi a stremità sì scorsi,
che poco tempo si potien tenere,
in un sol punto si vidon soccorsi.
E così fa il Signor, che n' ha podere,
che quando noi crediam montar nel palco,
iscender ci conviene al suo piacere.
Il primo dì di Marzo il Maliscalco
del Re Giovanni, ed i suoi ottocento
entraro in Lucca; nota ov' io cavalco.
Che Messer Gherardin, che stava attento
di non arroger legne alli suo' danni,
uscì di Lucca molto malcontento.
Dolendosene poi col Re Giovanni,
gli disse: Traditor, tu m' abacini,
ed ha' giucato meco con inganni;
che tu volie dar Lucca a' Fiorentini;
e lettera mostrogli ricevuta;
sicch'el perdè trentamila fiorini.
Appresso i Fiorentin, per la venuta
del detto Maliscalco signorile,
guastarono ogni piccola tenuta,
Borgo a Buggiano, e la Costa, e 'l Cozzile;
e questo fecer siccome discreti,
perchè non fosser de' nemici ovile.
E 'l Maliscalco se ne venne in Greti,
prese, e guastò Colligonzi, ed Agliana,
e fece tristi que' paesi lieti;
cento prigion ne menaro a lor tana,
e più di quattrocento bestie grosse,
e dumila minute colla lana.
Niun de' nostri corse alle riscosse,
che ben potevan riparare a' passi;
ma consentiro, però niun si mosse.
Quando si seppe, furon tutti cassi;
ma questo non fu tanto a tal difetto,
che strascinar si volean senz' assi.
Di Marzo Orlando Rosso, per dispetto
del Cardinal, diè Parma al detto Re;
Modena, e Reggio fer simile effetto.
Nel detto tempo, come pare a me,
la guerra cominciò tra' Catalani
dall' una parte, e dall'altra per se
insieme Genovesi, e Veneziani,
per ruberia; ma per piccola menda
fer pace, poichè unte ebber le mani.
Nel dett' anno di Marzo vo', che 'ntenda,
Signor di Colle essendo l' Arciprete
co' suo' frategli insieme ad una tenda,
Agnolo, e Messer Desso, cui monete,
cioè, lor signoria spiaceva tanto
al popol, ch' a pigliargli ordì la rete;
ed ordinar con gli amici d' accanto,
che un giorno, ch'essi uscíen da desinare,
in sulla piazza dimorati alquanto,
furo assaliti, e morti, ciò mi pare,
in prima l' Arciprete, Agnolo appresso,
e tutto avvenne per lo lor mal fare.
Grande difesa fece Messer Desso;
ma poichè l' ebbe forte inaverato
Agnol Granelli, se n' andò con esso;
poi in pregione l' ebbe strangolato,
ed un fanciul, che di cota' sentenze
non era degno, fue incarcerato;
e 'l popol fer con molte provvedenze,
e per franchigia d'ogni popolano,
dieder la guardia al Comun di Firenze,
chiamando Podestà, e Capitano
di quinci, e non d' altronde sanza fallo,
e riposarsi di queto, e di piano.
Nel dett' anno le porti di metallo
si cominciaro a San Giovanni avanti
per Mastro Andrea da Pisa in quello stallo;
e Giovanni Villan pe' Mercatanti
compilatore fu dritto, e leale,
di quella porta pagando i contanti.
Nel detto tempo per lo Cardinale
da Roma nato, e dell' Orsa gentile,
di Badia di Firenze Caporale,
Giovanni, fece alzare il Campanile
della detta Badia; ma niuno
pagò danar, se non la Chiesa umíle.
Negli anni mille trecento trentuno
morirono in Firenze due santi uomini
vivuti in penitenza, ed in digiuno,
e la lor santità vuol, ch'io li nomini;
Barduccio l' uno al luogo Romitano,
e l' altro ancora, ne' detti anni Domini,
Giovanni si chiamò da Vespignano,
ch' è in San Pier Maggior tra gli altri scapoli;
e di lor pigli essempro ogni Cristiano.
Nè sia alcun, che l' anima sua macoli,
ma seguiti lor santo portamento,
che Iddio per lor mostrò molti miracoli.
Nel dett' anno d' April fer parlamento
Legato, e 'l Re Giovanni, e 'n sullo spaccio
in bocca si baciar di buon talento.
L' altro dì insieme mangiaro a Piumaccio;
per la qual cosa, siccom' io ti dico,
dubbiaro i Guelfi, e' Fiorentin più avaccio;
che 'l Re Giovanni era lor nemico
sì per le imprese fatte nuovamente,
e sì pe 'l padre Imperadore Arrico,
ed a riparo fer subitamente
lega col Re Ruberto contro a lui,
e contro a chi con lui fosse seguente.
E questo dibassò molto costui;
e chi guarda sottil siccome saggio
conoscerà, che fu non men d' altrui.
Nel predett' anno, del mese di Maggio
essendo in grande buono stato Rimine,
e' Malatesti molto di vantaggio,
non so per qual delitto, e per che crimine
Messer Malatestin cacciò i consorti,
e fecene morir, per quel, ch'io stimine,
dicendo, ch'essi si facevan forti,
per cacciar lui, e ch'el vedeva lume
tanto, quant' essi a così fatti porti.
Ma' Romagnuoli hanno sempre in costume
di tradire, e cacciar l' un l' altro via,
perch' ognun vuol per se 'l tuorlo, e l' albume.
Nota, ch' ogni mondana signoria,
quando più par, ch' abbia fermo suo stato
volge la rota, e china la balía;
e spesse volte è il cacciator cacciato,
e quegli, che in fortuna più si fida,
colui è quel, ch' è più spesso ingannato.
Dunque non far la fortuna tua guida,
spera in quel, che non mancherà mai,
non seguir l' orme dell' avaro Mida,
ch'el seppe poco, e tu viemen saprai.
c. 80, argumento
Di Firenze intraddetta per la Pieve,
e di Barga, e del fuoco, e de' Leoni,
e di Pistoia, e Siena, e Massa in brieve,
di Santa Liperata, e di Cortona,
e che Bologna alla Chiesa si dona.
c. 80
Conciossiachè 'l Legato di Toscana
avuta avesse dal Papa la Pieve
Santa Maria Impruneta sovrana,
a' Buondelmonti questo fu sì grieve,
perchè ne son padron, che signoria,
non gli lasciár pigliar quivi di lieve.
Al Comun spiacque, perchè la Badia
gli dovea bastar, siccom' è detto,
sanza voler ciò, ch' è di qua in balía.
Onde pose in Firenze lo 'ntraddetto,
mille trecentrentun dinanzi conti;
e dicennove mesi con effetto
si tenne, per amor de' Bondelmonti,
e sarebbe tenuto ancor più anni,
ed e' fur bene alla difesa pronti.
Nel dett' anno, ordinato il Re Giovanni
di rimettere in Lucca i Guelfi usciti,
più tempo stati di fuor con affanni,
vi ritornaron certi; e que' redditi,
parve a' Fiorentin, che fosse il peggio,
perchè gli avversi non eran partiti.
Poichè Modona, Lucca, Parma, e Reggio,
ch'eran sue Terre, siccom' io ti parlo,
riformate ebbe, poi, se chiaro veggio,
lasciò con gente in Lucca il figliuol Carlo;
ed el si mosse, per fare altri uficj,
come diren quando fia da contarlo.
Nel dett' anno Messer Simon Tedici,
Vicar di Lucca, fece assediar Barga,
di che i Fiorentini eran felici;
e perchè quell'assedio si disparga,
mandár Messer Amerigo Donati
sopra a Buggian, perchè lo Re s' allarga.
Masinadieri Lucchesi, e' soldati
ruppero i nostri, ch'eran quattrocento,
benchè que' fosser due cotanti armati;
de' quali vi rimaser più di cento,
gli altri fuggirono in Monte Catini,
con Messer Amerigo a salvamento.
Nel dett' anno di Luglio i Fiorentini
per tradimento perderono Uzzano,
che poi appresso guerreggiò i vicini.
E ricomunicò il Papa Melano,
come ch' andasse; e così fatto giuoco,
nel detto tempo fece al Marchigiano.
Nel predett' anno ancor s' apprese il fuoco
al Ponte Vecchio, e ventidue magioni
d' artefici arse, e non camparo un moco.
E morti vi rimaser due garzoni,
ed arse in parte la casa de' Frieri
di San Sepolcro, e loro abitazioni.
Ed appresso s' apprese a' Soldanieri,
ed arse alquante case di quell' agio,
e morir sei persone in ta' mistieri.
Nel detto tempo arse il nostro Palagio
del Podestade per una mondana,
che lasciò il lume, per dormire adagio.
Appresso in quel dell' Arte della lana
aveva un pregion, che per campare
vi mise fuoco colla mente vana,
perocch' a lui non fu chi diserrare,
arse il Palagio, ed egli, ed anche un fante,
che l' Uficial per guardia facea stare.
Nell'anno, ched iscritto abbiam davante,
ci nacque due leon vivi, e non morti,
com' hanno detto già persone alquante;
ma subito a poppar furono accorti.
Ancor Giovanni li vide palesi,
siccome par, che 'l suo libro ci apporti.
Nel detto tempo essendo i Pistolesi
del Reggimento in grande zenzeria,
che certi a libertà s' erano accesi,
e molti altri volien la signoria
del Comun di Firenze, i Fiorentini
vi mandar tutta lor Cavalleria.
Corser la Terra, e poi li Cittadini
per un anno dier loro il signoraggio,
e confinaron Guelfi, e Ghibellini;
ed infra l' anno poi a lor vantaggio
la Signoria al Comun di Fiorenza
due anni dier, pochè videro il saggio.
E' Fiorentin con ogni diligenza
senza gravezza in pace al lor podere
sempre gli tenner senza violenza;
e fecervi il Castel di lor volere,
acciocchè fosse loro in gola un osso,
da non levare il capo di leggiere.
Nel detto tempo il Sanese fu mosso
coll' oste contro a' Conti a Santa Fiore,
ed essendo ad assedio ad Arcidosso,
i detti Conti mosser con furore,
andando coll'aiuto de' Lucchesi,
per soccorrer la Terra, e loro onore.
Quivi sconfitti furon da' Sanesi,
e perdero il Castello, e con affanno
rimaser di lor molti morti, e presi.
Appresso cavalcaron nel dett' anno
a Baschi di Maremma gli Orvietani,
e d' intorno al Castel fer molto danno.
Nel detto tempo appresso i Massetani
rubellar da' Sanesi, e cacciar tosto
i Ghiozzi fuori, e dieronsi a' Pisani.
Nel predett' anno i Catalan, d' Agosto,
a' Genovesi grattár sì la tigna,
che non si medicár per piccol costo.
Poi dier la volta, e andaronne in Sardigna,
e' Genovesi pensando per certo,
ch' è mal per lor, se tal briga s' alligna,
rimiser nelle man del Re Ruberto
ogni quistione, e così l' altro face.
E quel Signor, siccome savio, e sperto,
gli acconciò insieme, e mise nella pace
il Fiorentin, perchè contro agli usciti
di Genova era stato pertinace.
E per gli patti da questo seguiti,
in Genova tornaro i Ghibellini
con altri patti, ch'io non ho scolpiti.
Ma poi insieme tutti i Cittadini
la signoria prolungar per cinque anni
al Re Uberto, e non giunse a' confini.
Nel dett' anno il Legato sanz' inganni
sopra Furlì, che s' era ribellato,
l' oste mandò, e diegli molti danni.
Quinci alla Chiesa aiuto fu mandato,
poi di Novembre uscì di quelle pene,
e diessi a patti a Messer lo Legato.
Nel predett' anno il Duca d' Atene
passò in Romania con gente magna,
volendo racquistar quel, ch'egli tene;
com' addietro dicemmo, la compagna,
s' a battaglia con lui fosser venuti,
il Duca era Signor sanza magagna.
Ma que' della compagna antiveduti
tenner le Terre, e non fer colla lancia,
che tutti que' paesi avrien perduti.
E 'l Duca, che credea di prima mancia
tutto quel suo Ducato racquistare
con danno, e con vergogna tornò in Francia.
Nel detto tempo essendo a vendemmiare
que' di Buggian con certa compagnia
di Cavalier Lucchesi, ciò mi pare,
i nostri Cavalieri, e Infanteria
percosser loro, e furonne felici,
e poi perseguitando con follía,
siccom' era ordinato pe' nemici,
di Pescia usciron Cavalieri staboli,
che' nostri miser tutti alle pendici;
de' qua' rimaser cinque Conestaboli,
e cinquanta Scudieri, e mascalzoni,
ed altri, di cu' io non so i vocaboli.
Di Lucca poi Cavalieri, e pedoni
andar per prender Castel di Popiglio,
e dismontati tutti degli arcioni,
i cavalli lasciar di lungi un miglio,
ch'e' bisognava ad entrar nel Castello;
onde que' dentro veggendo il periglio,
la campana sonarono a martello;
la gente trasse, e prese i lor cavagli,
e que' dentro difeser bene, e bello,
sicchè camparon tutti ne' travagli,
e fuvvi morto il traditor palese,
che non valse per altro un mazzo d' agli.
Ciò fu Messer Filippo Pistolese,
e pochi ne campar dell'altra gente,
e quel Castel per se molti ne prese.
Nel detto tempo in Marzo vegnente,
cavalcando i Lucchesi a prender Massa,
que' di Monte Catin subitamente
percosser loro, e quella gente abbassa
ogni valore, e tutti di leggiere
furo sconfitti, come gente lassa,
e vennerne a Firenze più bandiere;
chi vi fu morto, e chi campò legato,
come si convenia a tal mestiere.
Nel detto tempo quel di Monferrato
i Borghi prese di fuor di Tortona;
onde que' dentro veggendo il mercato,
per viltà, e tristezza, si ragiona,
che dell'altra Città votaro il casso,
e 'l Marchese passò dentro in persona,
ed uscissene fuor Messer Galasso
fratel del Re bastardo, e quanto può,
per iscampar la pelle istudiò il passo.
Nel dett' anno d' Ottobre crebbe il Po
per ogni verso sì fuor di ragione,
che quasi tutto il paese guastò,
ed affogò diecimila persone,
allagò il Mantovano, e 'l Ferrarese
per modo tal, che furo a condizione.
Nell'anno sopraddetto, ed anche 'l mese,
abbandonata la Chiesa maggiore,
per non aver di che fornir le spese,
ricominciò la guerra, e fu 'l migliore,
per lavorare alla Chiesa sovrana,
perchè v' entravan più danar tutt' ore.
E per comune all' Arte della lana
quel lavorío fu raccomandato,
ed assegnato quel, che quì si spiana:
che di ciò, ch'era di comun cavato,
in camera lasciava senza inganno
per lira due danari ogni soldato.
Dodicimila lire montò l' anno,
e le cassette ancor valser di piano
più di domila, come molti sanno.
Soldi otto allor valse lo stai' del grano,
dinanzi caro era stato due anni,
e però parve a molti alquanto strano.
Nel dett' anno in Buemma il Re Giovanni
tanta gente menò sera, e mattina,
che cinquemila ne fe senza inganni.
Conciossiacosachè 'l Re d' Appollina,
quel d' Ungheria, Starlicchi, e Bavieri
addosso gli venien con gran ruina,
con quindici migliai' di Cavalieri,
ed in Buemma passár francamente,
guastando ciò, che potér, volentieri,
ed isconfisser due volte suo gente,
non senza suo grandissimo dannaggio;
della qual cosa fu molto dolente.
Nell'anno, che di sopra detto t' haggio,
il Re di Francia disse in parlamento,
ch'egli intendeva di fare il passaggio
indi a due anni, e ch' ognun fosse attento,
che richiedeva Prelati, e Baroni,
che fosser sotto suo comandamento.
E scrisse al Santo Padre, e 'n suo' sermoni
domandò grazia, ed aiuto alla 'mpresa,
per ventisette capitoli buoni;
tra' quali chiese il tesor della Chiesa,
la decima in tutta Cristianitade
per anni sei, ed aiuto alla spesa,
de' Benificj tutta quantitade,
che infra 'l tempo vacassero, o vacati
fossero in tutte quante sue contrade.
Ancor volea, che privilegiati
ne fosser due, il figliuolo, e 'l fratello,
com' udirai pe' versi seguitati.
Che del Reame d' Arli il figliuol bello
incoronato fosse, e sì di Vienna
fosse Carlotto Signor sanza appello.
Veggendo il Papa quel, che 'l Re accenna,
rispose: E' son passati anni quaranta,
ch'egli hanno avuto i suoi cotale strenna
per cagion del passaggio, e tutta quanta
l' han consumata in far guerra a' Cristiani,
e non a' Saracin, come si vanta.
Ma s' el si muove a andar sopr' a' Pagani,
la Santa Chiesa è, siccome leale,
apparecchiata a porci ambo le mani
col temporale, e col spirituale,
s' e' bisognasse ancora di por pegno
la Mitra, Ammanto, Chiavi, e Pasturale.
Per qual domanda, e risposta disdegno
s' ingenerò tra 'l Papa, e la Corona
sì, che ciascun di mal voler fu pregno.
Nel predett' anno, come si ragiona,
e Messer Pier Saccon, con suo valore
tenne trattato d' acquistar Cortona,
con Messer Guccio fratel del Signore,
che consentia di darla agli Aretini,
per discordia, ch' avía col suo Maggiore.
E mosso con soldati, e Cittadini,
in Cortona palesi i ma' pensieri
fur prima, che passassero i confini.
Onde il franco Signor Messer Rinieri
fe pigliar Messer Guccio suo fratello,
e trent' altri con lui de' buon guerrieri;
i qua' trenta impiccar fe di novello,
e Messer Guccio in pregion per modi strani
fe morire siccome tapinello.
Nel detto tempo gli usciti Pisani
lega fecer con molti Ghibellini
Lucchesi, Genovesi, e Parmigiani,
e 'n quel di Pisa passaro i confini;
di che i Pisani ebbero gran temenza,
per gli amici, e parenti Cittadini,
e per soccorso mandaro a Fiorenza,
e Cavalier v' andaron cinquecento,
disposti tutti a loro ubbidienza.
Gli usciti si partiro per pavento;
ma se 'l soccorso non vi fosse andato,
Pisa mutava stato, e reggimento.
Nel predett' anno tanto fe il Legato,
che Bologna in perpetua sottomise
a santa Chiesa suo libero stato;
perocchè 'l Padre Santo lor promise
per lettere bollate a suo suggello
abitare in Bologna, e poi il dimise;
ma tantochè mutato fu il Castello,
sotto color di Papale abituro,
d' oggi in domani gli pascea di quello.
Ed altre cose lor mostrate furo,
che s' annullaron, poichè 'l Cardinale
si vide nel Castel forte, e sicuro.
Ma quel Signor, che punisce ogni male,
quel del Legato non lasciò impunito,
che 'n breve in se ricevette altrettale.
Com' el tradì altrui, fu poi tradito,
e fu cacciato con danno, e vergogna,
come più innanzi diren, di quel sito,
e' Cittadin si camparo in Bologna.
c. 81, argumento
Degli Ubaldini, e poi di Firenzuola,
e de' Turchi, e di Brescia, e come Barga
volse mantello, ed altri vi fe scuola,
de' Genovesi, e di Sangimignano,
e de' Marchesi sconfitti nel piano.
c. 81
Anni mille trecento trentadue
correva, quando per gran differenza,
ched infra gli Ubaldin dell' Alpe fue,
a gara tutti al Comun di Fiorenza
profferser, che s' e' fosser ribanditi,
ch'e' sarien sempre a sua ubbidenza.
Ma' Cittadin, ch'eran savj, e sentiti,
si ricordár, che pe' tempi passati
eran venuti a simili partiti,
poi a lor posta s' eran rubellati;
onde si consigliò, e non ci arrogo,
che gli Ubaldini fossero accettati
sì veramente, che di là dal Giogo
si facesse una forte Terricciuola,
e così fatta fue in un bel luogo.
E poi tenendo del suo nome scuola,
rimesso fu in Giovanni Villani,
ed e' le pose nome Firenzuola,
e la Chiesa maggiore alle sue mani
fu per lui nominata San Firenze,
e fur dieci anni esenti i Terrazzani,
e l' arme le si diè per sue sentenze,
che fosse mezza Croce, e mezzo Giglio,
per lo Comune, e Popol di Firenze;
e tratti fur di bando, e di periglio
gli Ubaldini, ed assai della Montagna,
ch' al fatto diero ed aiuto, e consiglio.
Nel detto tempo Conte di Romagna
il Papa fe il Legato Bolognese,
perchè francasse tutta la campagna.
Appresso, a lui si diede il Forlivese,
ed el come Signor discreto, e saggio,
senza indugiar, di subito la prese.
Nel predett' anno, del mese di Maggio
i Turchi vennero addosso a' Cristiani,
per fare a Costantinopoli oltraggio;
se non che i Genovesi, e' Viniziani,
che v'eran forti, pigliaron la guerra
incontro a' Turchi pessimi, e villani,
veramente ch'egli avien la Terra:
l' Isola d' Arcipelago guastaro,
poi si partiro, se 'l libro non erra,
e diecimila Greci ne menaro,
e que' di Negroponte, a non dir ciancia,
siccome tributarj, a lor giuraro.
Sentendo questo il Papa, e 'l Re di Francia,
sì ordinaro, che 'l seguente anno
si vendicasse così fatta mancia.
E così fero, e diessi lor gran danno,
come diremo ancor; ma quì si cala,
volendo ragionar d' un altro affanno.
Nel dett' anno i Brescian Guelfi sott' ala
del Re Giovanni, vivendo tapini,
di Giugno diersi al Signor della Scala.
E cacciaronne fuori i Ghibellini,
e la gente del Re, ed il Castello,
ch' ancor tenie forte i suo' confini,
intorno l' assediaron bene, e bello;
poi s' arrendér que' dentro pe 'l migliore
a' quattro dì di Luglio senza appello.
E così fu Messer Mastin Signore
di Brescia, e come per me s' inverga mo,
per dare alle mie rime alcun colore,
di Settembre ebbe signoria di Bergamo,
ch'era del detto Re, che già montato
per nuovi modi era 'n cima del pergamo.
Poi contr' a lui, e contr' al Baver nomato
insieme tutti fer lega per certo
que', ch'io racconterò per loro stato.
Di Cavalier tremila, e 'l Re Ruberto
fu principale, e po' furo i Marchesi,
e' Fiorentini appresso di scoverto,
Verona, Mantovani, e Melanesi.
Nota, Lettore, e nel mondo ti fida,
se tu vo', poich' arai mie' versi intesi;
che que', che sogliono esser capo, e guida
di parte Guelfa, il Re, e' Fiorentini,
col suo nimico ciascun si rannida
a suo vantaggio, e fer co' Ghibellini,
com' hai udito, lega, e compagnia,
e fu lo scampo loro, e de' vicini.
Nel detto tempo la Cavalleria
del Re Giovanni, e de' Lucchesi avendo
Barga assediata, con gran maestria,
di Luglio i Guelfi Fiorentin volendo
fornir la Terra, v' andár molto grossi,
col Capitan di Pistoia movendo.
Ma per gli battifolli, e pe' gran fossi,
che vi trovaron, non ebber valore
di poter far quel, per che s' eran mossi.
Dieder la volta per lo lor migliore,
e per un' aspra, crudel via, e lunga,
a Firenze tornár con poco onore.
E poi volendo pur vincer la punga,
col Marchese Spinetta Ghibellino
trattaron, non perch'egli al danno aggiunga.
El si vantò, perch'egli era vicino,
che fornirebbe Barga certamente,
e comperrebbe per forza il cammino.
Con quattrocento Cavalier presente
a Barga fu di botto cavalcato;
e 'l Capitan, con tutta l' altra gente
a Monte Chiari, ed ebbel dal suo lato,
e Vivinaia, e poi con ardimento
al Poggio del Mugello fu montato,
e quivi si fermò a 'ntendimento,
che se Spinetta fornisse la Terra,
o' nemici partisson per pavento,
di fare a Lucca poi una gran guerra;
e non venendo l' un, nè l' altro fatto,
subitamente, se 'l libro non erra,
il Capitano a Barga mandò ratto,
e richiese i nemici di battaglia;
ma e' la rifiutaro al primo tratto,
perchè dentro non era vittuaglia,
ed egli il sapien ben, secondoch' odo,
e strinsersi più forte alla visaglia.
Allor veggendo sì serrato il nodo
i Fiorentin, si levaron dal giuoco
per lo miglior, che non v'er' altro modo;
e se prima acquistarono onor poco,
con molto men tornaro, a dire 'l vero,
alla seconda volta di quel loco.
A' cinque dì d' Ottobre s' arrendero
i Barghigiani, ed ebbene in Fiorenza
gran riprension; che fornir la potero
con trecento fiorin sanza fallenza,
che più di centomila fu poi il costo,
ed anche si perdè per nigrigenza.
Nel predett' anno, a' dì venti d' Agosto
andaro i Genovesi in Catalogna
con grande armata, ed animo disposto
di vendicar l' oltraggio, e la vergogna,
che' Catalani a Genova avien fatta,
e fornir chiaramente lor bisogna;
perchè, secondochè il libro tratta,
e' danneggiar Maiolica, e Minorica
sì, che pareva l' Isola disfatta.
Ancor, secondochè per me si morica,
de' Catalan trovar cinque galee
al tornar, come quì la penna corica;
delle qua', siccome pensar si dee,
preser la gente, e 'l navilio di piano,
e tornár con triunfo, e con nomee.
Nel dett' anno que' di Sangimignano,
col Podestà, con levate bandiere,
nel Fiorentino assalir Campo Urbiano,
perchè gli usciti loro in quell' ostiere,
credendo star sicuri, alcuna volta
si ruducien, quand' era lor mestiere.
Preser la Terra, e la roba ricolta,
vi miser fuoco, ed arsero il Castello,
poi si partir con allegrezza molta.
Quando pe' Fiorentin si seppe quello,
contro al Comun cominciaro a procedere,
e contro al Podestà, e più con ello;
e poichè fatti fur tutti richiedere,
perchè non compariro alla primaia,
fur condannati, e ben lo mi puo' credere,
prima il Comune in cinquanta migliaia,
e 'l detto Podestà, ch'era Sanese
con quarantotto, perchè più si paia.
Perchè furono insieme a tali offese
fur condannati, come ancora parsi
per la scrittura, che te 'l fa palese,
tutti nel fuoco, cioè d' esser arsi;
e' Fiorentin sanza niuna discordia
a cavalcarvi non erano scarsi.
Ma quand' egli il sentiro, di concordia
mandarono a Firenze Ambasciadori
con pien mandato, per misericordia.
Diliberossi pe' Signor Priori,
che fosser tutti quanti ribanditi
sì veramente, che per loro errori
dovesser dentro rimetter gli usciti,
mendare il danno dal piede alla cima
di que', che 'n Campo Urbian furo assaliti,
secondochè ne fosse fatto stima
pe' Fiorentin, ch' a ciò furon chiamati,
e non valesse ciò, ch' è detto prima.
Nel dett' anno d' Ottobre, per trattati
dovendo il Melanese aver Chermona,
e già molti de' suoi v'erano entrati,
que' della Chiesa, come si ragiona,
gliene cacciár con lor danno, e vergogna.
Poi Messer Azzo, co' suoi in persona
al Modanese da grattar diè rogna;
onde al Legato già non parve giuoco,
e di Romagna si tornò a Bologna.
Nell'anno in San Martin s' apprese il fuoco,
arse tre case, e 'l palagio de' Giugni,
e quattro ne morirono in quel loco.
Potresti dir Lettore: Il cor mi pugni
a far menzion di quel, che non montava,
e perchè sì vil cosa al libro aggiugni?
Rispondoti, ch' ognor, che s' appigliava,
(e quest'è quel, perch'io te 'l fo palese,)
che quasi tutta la Città s' armava.
Nel predett' anno avendo il Ferrarese
assediato il Castel di San Felice,
qual era del Contado Modanese,
Carlo del Re Giovanni, ciò si dice,
venne co' suoi a soccorrer la Terra,
ed il Legato, per farlo felice,
gli mandò gente, se 'l libro non erra,
e comandò, che mai niun si parta
dal suo voler, durante quella guerra.
E quando Carlo questo ebbe per carta,
non aspettò, che venisse la gente;
veggendo quella de' nemici sparta,
e' percosse a' nimici arditamente,
e durò la battaglia quiviritta
da Nona a Vespro; ma pur finalmente
il detto Carlo in volta, e in isconfitta
mise tutta la gente de' Marchesi;
e fu sì grande allor quella trafitta,
che più di cinquecento morti, e presi
rimaser da cavallo in quel sentiero,
e molti fanti a piè per terra stesi.
Messer Giovanni da Campo San Piero
col Capitan ci rimase pregione
fra gli altri, di cu' io non ho pensiero.
Fu di Novembre, e per cotal cagione
il Re Giovanni ne montò in istato,
e molto migliorò sua condizione.
Similemente ne montò il Legato,
e dar volendo a' Marchesi più scandoli,
nel lor mandò suo gente d' altro lato;
i quali arson la Villa di Sansandoli,
po' si partiro, e tornaro a Bologna;
e li Marchesi poi perseguitandoli,
nel Bolognese, sanza dir menzogna,
arser la Villa, che si chiama Centi,
e tornarsi in Ferrara a lor bisogna.
E Messer Azzo con suo' trattamenti
al Re Giovanni tolse poi Pavia,
salvo il Castel, che ritenner suo genti:
il qual con battifolli, e con bastía
fu circundato, sicchè sanza affanni
alcun non v' entrav'entro, e non uscía.
Con molta gente appresso il Re Giovanni
dall' una parte ad un passo si strinse,
non senza molti suoi, ed altrui danni;
e combattendo, il badalucco vinse,
e brievemente, per non darti tedio,
alquanta vittuaglia dentro pinse;
poi si partì, e rimase l' assedio,
e per tal modo venne rinforzando,
che per que' dentro non vi avea rimedio.
E poi di Marzo, la roba mancando,
ed un Tedesco con ardito volto
diede la 'ntrata, merito sperando.
Onde i Conti rinnalzaron molto,
e 'l Re Giovanni ne dibassò forte,
ed ebbe in altra parte il pensier volto
subitamente, ed andossene in Corte,
e menò più Baron di Val di Rodano,
perchè del Re Uberto temíe forte.
E que' del Re Uberto allor s' annodano
insieme, a riparar con lor potenza
contr' a que' di Buemma, s' egli approdano.
Ma perchè il Papa avía data licenza
levò costor di quella oppenione,
e' Pugliesi ubbidiro a suo sentenza.
Attanto il Re Giovanni fu in Vignone,
e siccom' egli a' piè del Papa giunse,
e 'l Papa gli fe grotte di leone,
ed in palese con parole il punse,
dicendo, ch'e' facíe contro alla Chiesa,
e poi in segreto colle dolci l' unse;
perocch'egli avía fatta ogni sua 'mpresa
di voler del Legato, e 'l Re di Francia;
ma e' non fece scusa, nè difesa,
come ordinato fu di prima mancia;
ma con benignità chiese perdono,
e perdonogli, e baciogli la guancia.
Tutti que' fatti, ch' antidetti sono,
fe il Re Giovanni, distendendo l' alia
pe 'l Papa, e per color, ch'io ti ragiono.
Perchè la Chiesa si fe madre, e balia
del Re di Francia, acciocchè 'l suo fratello
incoronato fosse Re d' Italia.
Il Re Giovanni dopo tal zimbello
istette in Corte, siccome discreto,
quindici giorni, e ciascun dì novello
era col Papa a consiglio segreto,
ed ordinaro insieme molte cose,
come ancor ti dirà nostro dicreto.
Ma sì, ch' assai ne rimaser nascose,
perocchè forse quel, ch'era pensato,
Iddio in altri termini dispose.
Partissi il Re Giovanni, e cavalcato
in Francia fu, per dare esecuzione
a ciò, ch' avía col Papa ragionato.
E 'l Re di Francia, ed ogni suo Barone
incontro gli si fecion con gran festa,
e per quel, ch' ai inteso, avien ragione.
Lettor, tu hai l' Abbiccì manifesta,
poi, come vedi, il nome mio rimato,
perch' è 'l bisogno, rallargo la sesta:
or si convien, che Dio sia ringraziato.
c. 82, argumento
Di Cimpo, del Legato, e 'l Re Giovanni,
come sconfitto fu presso a Ferrara,
e della Compagnia de' Bianchi panni,
e della Porta a Verzaia, e degli Orsini
da' Colonnesi morti in su' cammini.
c. 82
Dico, ch' avendo i Pisan tolto Massa
a' Sanesi per forza, com' è detto,
nel trentadue, ch' ancor quì non passa,
per far loro ancor più onta, e dispetto
mandaron poi Messer Din della Rocca,
a assedio ad un Castel di lor distretto.
Onde 'l Sanese, che la guerra imbocca,
poich'ebbe molti Cavalieri avuti,
in quella parte per soccorso fiocca;
e trovando i Pisani sprovveduti,
del mese di Dicembre gli sconfisse,
e forniro il Castel, come saputi.
E poi, secondochè 'l Maestro scrisse,
a pregion ne menaron grande schiera,
e 'l Capitan, come di ver si disse.
E poich'egli ebber guasta la Valdera,
alla Città di Siena fur tornati
con gran triunfo sotto lor bandiera.
Onde' Pisan contro a loro adirati
fer tra loro primamente danari,
e poi condusser dimolti soldati,
e ferne Capitan Cimpo Scolari,
il qual si mosse di Febbrai' vegnente,
e cavalcò contro a' loro avversari,
ardendo, e dibruciando crudelmente
per quel di Siena, e 'l Bagno a Macereto.
Perchè i Sanesi allor non avien gente,
tornar per val di Strofa, e poco lieto
fer quel paese, e la Badia a Spugnole
ebber con gli altri insieme del racqueto;
ched il valer di tre susine prugnole
non vi lasciaron, siccom' io ti canto,
e le mie rime alla matera giugnole.
E così fero insino a Corposanto,
e saria stata la gente più folle
a cercare il Contado tutto quanto;
se non che 'l Fiorentin mandò a Colle
gente, non in servigio de' Sanesi;
ma perchè 'l suo Contado guardar volle.
Onde que' si tornaro in lor paesi
con pregioni, e con preda, ed alla schiena
a Pisa ne portar dimolti arnesi.
Ver' è, ch'essendo sopra quel di Siena,
mandaron quà i Sanesi a mano, a mano
per gente, e fu negata a bocca piena,
perchè savamo in pace col Pisano,
e romper non si volle; donde poi
ogni lor danno di queto, e di piano
interamente si recár da noi.
E pare a me, che l' uon se stesso inganni,
se serve altrui, guastando i fatti suoi.
Nel dett' anno il figliuol del Re Giovanni
da Parma venne a Lucca a far dimoro,
e' Lucchesi fer festa con lor danni;
perocchè 'l detto Carlo impuose loro,
come colui, che di quel si notrica,
a lor quarantamila fiorin d'oro.
De' qua' riscosse con molta fatica
venticinque migliaia, e in Lombardia
si tornò, poichè di danar fe bica,
incontro al padre suo, che rivenía
con centomila fiorin d'or di Francia,
che 'l Re gli diè, e con gran Baronia;
e di Febbraio in Parma, a non dir ciancia,
si ritrovò domila cinquecento
buon Cavalieri appresso alla sua pancia.
E poi soccorse con molto ardimento
il Castel di Pavia; e non possendo
di quello avere il suo intendimento,
quel di Melano, e di Bergamo ardendo,
andò colla sua gente, e ritornato
di Marzo a Parma fu, s'i' ben comprendo.
Nel predett' anno il Lombardo Legato
i Fiorentin pregò molto coperto,
ch'e' rompesser la lega dal lor lato,
che co' Lombardi avien; onde per certo
risposto fu: La Lega co' Tiranni
ci fece fare il Papa, e 'l Re Ruberto,
e non faremo mai sì fatti inganni,
perocchè quella lega è ordinata
contro al Bavero, e contro al Re Giovanni:
e di presente l' ebber confermata,
e fu gran senno, di farsi il minore
nemico amico per quella fiata,
per riparar l' oltraggio del maggiore;
ma ciò, che 'l detto Legato argomenta,
fe, perchè noi il chiamassimo Signore.
Appresso gente, ch'egli avea in Argenta,
cavalcò a Cosandoli, dov'era
la gente de' Marchesi, all'arme attenta;
i qua' percosser colla loro schiera
sì, che' Marchesi, siccom' io dico mo,
furo sconfitti sotto lor bandiera;
e fu preso il Marchese Niccolò,
ed altri assai, come quì si dichiara,
onde il Legato in superbia montò;
e subito mandò l' oste a Ferrara,
con tanti Bolognesi, che d' intorno
la cerchiár tutta per vincer la gara
per modo, che di notte, nè di giorno
non ne poteva alcun sanza sospiro
uscir, nè entrar, tant' era il campo adorno.
Onde i Marchesi, e gli altri sbigottiro,
e raddoppiati arebbono i pensieri,
se non fosse la lega, se ben miro.
Mandarvi quattrocento Cavalieri
i Fiorentini, e guardárgli con arte
Messer Francesco Strozzi, Ugo di Vieri.
Questi fur que', che toccavano in parte
al Re Uberto, e la sua gente stesa
alle frontiere nostre fu da parte,
perchè di grazia volle tale impresa
da' Fiorentin, non volendo mandare
della suo gente alcun contro alla Chiesa.
E que' convenne, ch' andasser per mare,
poi a Verona fermár loro stile,
e fur molto onorati, ciò mi pare.
Mille trecento trentatrè, d' Aprile,
il Re Giovanni a pasquar col Legato
venne in Bologna molto signorile.
A' Bolognesi non piacque il mercato,
che ventimilia fiorin delle coste
si trasser per lo Re, c' ho nominato,
perch'egli andasse a Ferrara nell' oste,
ed el mandò il Conte d' Armignacca
innanzi al campo, con trecento poste;
ed a Parma tornò, quasi in istracca,
per ordinar sua mossa di presente,
avendo gli avversar per men d' un acca.
Veggendo i Fiorentini veramente
il Legato col Re legato stretto,
mandar di botto a dire alla lor gente
il contrario di quel, ch' avien lor detto;
che 'l Legato trattasser per nemico,
che e' così l' aveano tutto a pretto.
Ed essendo per crescer, com' io dico,
l' assedio del Legato sanza stima,
giugnendo con suo gente il bell'amico,
ordinár que' della lega, che prima
si soccorresse Ferrara, e mandaro
ciascun sua gente, come quì si rima.
E quattrocento Cavalier v' andaro
pe' Fiorentini, oltre a que' quattrocento,
che per lo Re Uberto s' assegnaro.
Giunta la gente con gran valimento
preser partito di coraggio fino
de' nemici assalir senza pavento;
e per la porta uscír di Francolino,
ch'era 'l più forte lato per ragione,
per metter la bastia loro al dechino;
e l' altra gente di porta Leone
tutti ad un cenno fer l' assalto grande,
popolo, e Cavalier, quella stagione.
Ma tutto questo non valíe tre ghiande;
se non che 'l Fiorentin coll' Avvogaro
si strinse allora con molt' altre bande,
e da cinquanta, che vi si trovaro,
de' nostri usciti al Giglio spiegato
con gli altri fur, nè mai l' abbandonaro;
ed assalir di dietro lo steccato,
e per forza passaro appoco, appoco
dove quel d' Armignacca era schierato
con secento caval di Linguadoco,
i qua' percossero; e quella battaglia
più d' un' ora durò, con aspro giuoco.
Al fine i nostri, con que' della taglia
miser per terra la 'nsegna diritta
del Re Giovanni, dando gran travaglia.
Allor la gente volse in isconfitta;
mad il fuggire a lor poco giovò,
e chi vi fu sa, se mente la scritta;
perchè fuggien verso il fiume del Po,
dov'era pien di gazzare, e di legni,
che combattero il Ponte, ben lo so;
e pochi ne campar per loro ingegni,
perchè molti provár del Po la fonte,
che senza partorir d' acqua fur pregni.
Cadde per carco de' fuggenti il Ponte,
e molti ne fur morti, e fra' pregioni
fu d' Armignacca il sopraddetto Conte,
di Linguadoco molti gran Baroni,
e di Romagna gente signorile,
e Cavalier di Bologna, e pedoni;
e fue a' dì quattordici d' Aprile.
Così i Marchesi rimaser felici,
e tennero il Legato, e 'l Re a vile,
ed arricchiron di quel de' nemici;
i Bolognesi, ed altri al lor viaggio
lasciaro andar, per farglisi ad amici.
Nel predett' anno in Firenze, di Maggio,
d' uomini vaghi, con dolce dottrina
si fecer due brigate di vantaggio:
e l' una fu nella via Ghibellina,
che fur trecento vestiti di giallo,
che stavano in goder sera, e mattina.
L' altra fu viepiù ricca sanza fallo,
che cinquecento fur, vestiti a bianco,
che 'l Corso de' Tintor feciono stallo.
E l' una, e l' altra sanza niun manco
duraro insino al dì di San Giovanni,
nè di spendere alcun si vide stanco.
Qual si vestì di drappo, e qual di panni,
ed ebbevi di que', che fur sì pazzi,
che a soddisfare poi penar più anni.
Così regnaro in giuochi, ed in sollazzi,
a coppie andavan con molti stormenti
per la Città, quando non eran guazzi,
danzando certi con be' reggimenti,
altri cantando dinanzi al Signore
incoronato con molti ornamenti,
tenendo corte, e correndo a tuttore
con larghe, e belle spese convitando,
uomini, e donne, con pregio, ed onore;
alcuna volta a cavallo armeggiando
andavan, dando alla gente diletto,
e le donne d' intorno vagheggiando.
In buona fe ti giuro, ed imprometto,
che de' gran fatti, ch'i' vidi fra loro,
i' te n' ho quasi men, che nulla detto.
Ma tanto ti vo' dir, ched un tesoro
valser gli arnesi, e la predetta festa
costò più di semila fiorin d'oro.
Ed altre se ne fecer dietro a questa,
ma indovini si facieno assai,
dicendo: Ancor ci tornerà in tempesta.
E così fu, come tosto udirai,
che Firenze ebbe appresso tale scorta,
che ricordar se ne dee sempremai.
Nel detto tempo si fondò la porta
bella a Verzaia, che è in sul cammino
di Pisa, e i suo' medesimi conforta.
Nel predett' anno, di Luglio, il Dalfino
essendo ad oste in un forte Castello
del Conte di Savoia suo vicino,
andando un giorno d' intorno a vederlo,
per darvi la battaglia stabilita,
ferito fu d' un malvagio quadrello.
Portato via, per curar la ferita
alla trabacca sua, a mano, a mano
allo sferrar passò di questa vita.
Ma nota, che non dee un Capitano
metter se stesso a periglio, ed altrui;
ma de' andare sì, ch'e' ritorni sano.
Ver' è, che que', che seco avie costui,
come valenti al Castel si fermaro,
e tanto fer, che l' ebber dopo lui;
e tutti que', che dentro vi trovaro,
fuor delle mura manganár per certo,
e poi più Terre d' intorno acquistaro.
Poi fu fatto Dalfin Messere Uberto,
ch'era in quel tempo a Napoli palese,
perocch'era col zieso Re Uberto;
il qual venuto, che fu in suo paese,
per consiglio di que', che può con gioia
assolver que', che dimetton l' offese,
la pace fe col Conte di Savoia,
che 'l Re di Francia di Vienna Sire
esser volea, ed altrui era a noia.
Nel dett' anno, di Maggio, fe venire
il Re Giovanni in Bologna il Legato,
e parlato con lui il fe partire.
E poi di Giugno a lui fu ritornato
con gente, per soccorrer Mercatello,
che 'l Comune d' Arezzo avie assediato,
e per Bologna tanto fe drappello,
non cavalcando colla suo possanza,
che gli Aretini presero il Castello.
Dissesi poi, che 'l fe a loro stanza;
onde il Legato ne prese disdegno,
ed e', che se n' accorse per sembranza,
sanza comiato si partì dal segno,
tornossi a Parma, e di Luglio seguente
ne venne a Lucca, ch'era suo ritegno.
Quindicimila fiorin di presente
a i Lucchesi impose, e poi d' Agosto
a Parma si tornò colla suo gente.
Nel dett' anno, com' è quì proposto,
essendosi più volte insieme offesi
duo gran Casati, ciascun mal disposto;
di Roma, dico, Orsini, e Colonnesi,
il Conte d' Anguillara, e suo Cognato
Bertoldo Orsin, con altri de' paesi,
andando a ragionar certo trattato
col Cavalier de' Colonnesi antico,
Messere Stefano savio, e pregiato;
Istefano, figliuol di Sciarra, dico,
co' suoi compagni, più di costor forti,
avendo quegli ciascun per nemico,
ad assalirgli fur presti, ed accorti.
Que' si rivolser valorosamente,
ma da' soperchi amendue fur morti.
La cui morte principio veramente
fu di viemaggior mal, da quel seguito,
nè mai vi fue amor perfettamente.
E puossi dir, che Roma a mal partito
venuta sia per questi due Casati,
che ognun vuol essere il più riverito.
Ma se que' d'oggi guardano i passati,
vedranno lor grandezza andare a terra,
e d'ogni parte gli uomini scemati:
e certo sia, che così và di guerra.
c. 83, argumento
Quì di Morrocco, e poi del Re Uberto,
di Siena, Massa, Francesco Ardilaffi,
de' Malatesti, e di Cesena accerto,
del figliuol di Castruccio, e di quistione,
che 'l Papa fece della Visione.
c. 83
Era nel sopraddetto trentatrè,
quando que' di Morrocco, e di Granata
Saracin, contro ad ogni nostra fe,
venner con una grandissima armata
ad un Castel, ch'ha nome Giubelcaro,
ch' è nella Spagna verso lor contrata.
Col Castellan tradimento trattaro;
ond' e' si dipartì con sua compagna,
e' Saracin con patti dentro entraro.
E come questo seppe il Re di Spagna,
v' andò ad oste sanza dimorare,
e di gente ebbe seco turba magna.
E s' e' non fosse il soprastare in mare,
veracemente l' avrebbe riavuto;
ma la fortuna contastò l' andare.
E se' nimici l' avesser saputo,
egli eran tanti, che senza riguardo
avrebber morto chi vi fosse issuto.
Nel predett' anno, di Luglio, Adoardo
Re d' Inghilterra, assediò con sua gente
la Città di Vernicca, se ben guardo.
Onde Davit Re di Scozia possente,
a cui apparteneva sanza forse,
alla difesa fu subitamente,
e con tutta sua forza la soccorse,
e 'ncontanente fu alla visaglia
degl' Inghilesi; onde l' un l' altro morse.
Ma finalmente tutta si sparpaglia
la gente di Davit, in veritade,
ed Adoardo vinse la battaglia,
ed ebbene pregioni in quantitade
di trentamila, e poi la Signoria
libera egli ebbe di questa Cittade.
Nel detto tempo lo Re d' Ungheria,
con Andreasso suo figliuol secondo
in Puglia venne, con gran Baronia.
A Manfredonia arrivato giocondo,
dal Duca di Durazzo fu innorato,
come s' e' fosse Imperador del mondo.
A Napoli da lui accompagnato,
incontro gli si fe con allegrezza
il Re Uberto, ed ebbelo abbracciato;
baciollo in bocca con gran tenerezza:
e ben si convenia tutto quello,
principalmente per la suo grandezza,
e poi perch'era figliuol del fratello,
che benchè questi avesse nome Carlo,
e' fu figliuol del buon Carlo Martello,
e succedeva a lui, com' io ti parlo,
il Reame di Puglia a coscienza,
perchè Ruberto non ha cui lasciarlo;
perocchè Carlo Signor di Fiorenza,
e Duca di Calavra, era già morto,
e lasciò due fanciulle alla partenza;
delle qua' l' una, come molto accorto
il Re Ruberto diè ad Andreasso,
figliuol del Re d' Ungheria, ch'i' t' ho porto.
Quando per lor si venne a questo passo,
avie cinqu' anni la fanciulla, e sette
il maschio, sicchè ciascuno era basso.
Papa Giovanni questo concedette,
e 'l fanciul fece di Calavria Duca,
e poi Cicilia, e Puglia gli promette;
e vuol, che dopo il Re per lui riluca,
che coscienza mosse il Re Uberto,
siccome spesso altrui morde, e manuca.
La festa grande cominciò per certo:
uomini, e donne per Napoli andaro,
danzando, ed armeggiando a viso aperto;
e' Fiorentini allora vi mandaro
otto gran Cavalier con ricca vesta,
che cinquanta donzel con lor menaro.
Quando compiuta fu la detta festa
quel d' Ungheria si tornò in suo paese,
e 'l suo figliuol col Re Uberto resta.
Nel detto tempo essendo molte offese
per la Città di Massa tra' Pisani,
e' Cittadin della Città Sanese,
ed essendo rimessi nelle mani
de' Fiorentini, e del Vescovo nostro;
i quali acciocch'egli stesser più sani,
dier sentenza, come quì ti mostro,
che l' un, nè l' altro di quella Cittade
avesse a far, come dice lo 'nchiostro;
ma ch'ella rimanesse in libertade,
e 'l detto Vescovo a sua coscienza
tre anni vi mandasse Potestade;
il qual vi mandò sempre da Fiorenza.
Così s' ebbe la pace compimento,
benchè non fosse con benivolenza,
e diecimila marche d' ariento
dovea pagar chiunque la rompesse
a quel, ch' avesse danno, o 'mpedimento.
E' Fiorentini fecer le promesse
per ciascheduno, ed a' morsi, ed a' graffi
fer poi; e poco par, che s' attenesse.
Nel detto tempo Francesco Ardilaffi,
Signor, che solev'esser di Forlì,
essendone tratto fuori co' raffi
di Santa Chiesa, come dice quì,
e statone di fuor buon pezzo a freno,
nascosamente poi rientrò lì;
perocchè in una carrata di fieno
si fe portare dove avie suo stallo,
e mandò per gli amici in un baleno.
I qua' s' armaro, ed e' montò a cavallo,
e cacciò fuor quella gente rubesta,
ed e' rimase Signor sanza fallo.
Nel detto tempo Messer Malatesta
co' suoi seguaci rientrò in Rimine,
per una porta, ch'egli ebbe in podesta;
cacciò la Chiesa, e per quel ch'io n' estimine,
qual fu rubato, e qual di morte pena
portò sanza riguardo d' alcun crimine.
Nel detto dì dalla Chiesa Cesena
anche si rubellò, salvo il Castello,
là, dove i suoi rifuggiron di vena;
il qual fu assediato bene, e bello,
po' s' arrendè la rinchiusa compagna,
nè sanza gran cagion fu fatto quello;
perocchè tutti i Capi di Romagna
pregion fur per la Chiesa del Marchese,
ed il Legato poi di lor si lagna.
E ricolsersi tutti a loro spese,
ned a lor volle, secondoch'io intendo,
dar, nè prestar, che valesse un tornese.
Nel predett' anno, di Maggio, veggendo
il Re Giovanni mancar la vendemmia
di quel, che si credea, s'i' ben comprendo,
e recandosi a noia ogni bestemmia,
per lo miglior pensò, co' suoi soldati
partir d' Italia, e tornarsi in Buemmia.
E stando in Parma, per molti trattati
cercò con Pisa, e con Firenze attento,
di dar Lucca a chi più n' avesse dati.
E poi parendogli far fallimento,
rattemperossi di sì fatto cruccio,
ned al trattato diede compimento.
Sentendo questo i figliuo' di Castruccio,
ch'eran col Re Giovanni per istatichi,
temendo forte del cuoio, e del buccio,
e ch'egli il loro stato non diradichi,
fuggír di Parma, e girne in Carfagnana
arditamente, come franchi ladichi,
e raunár molta gente sovrana,
colla qual di Settembre in Lucca entraro,
e senza offese d' anima Cristiana
corser la Terra, e non trovár riparo,
e tutta quanta, salvochè l' Agosta,
tutto quel giorno la signoreggiaro.
Sentita il Re Giovanni la proposta,
che' figliuo' di Castruccio eran fuggiti,
con sua gente si mosse sanza sosta.
Andonne a Lucca, e que' furon partiti,
e 'l Re corse la Terra con ardire,
e racquistolla pe' presti partiti;
e poi li fe condannare, e sbandire,
siccome traditori, e con ingegno
munse i Lucchesi innanzi al suo partire.
E finalmente Lucca diede in pegno
per trentacinque migliai' di fiorini,
a' Rossi Parmigiani, e tornò al segno,
e poi da Parma prese altri cammini,
e lasciò Reggio al Signor di Fogliano,
Modina diede ad altri più vicini.
E da tutti ebbe danari in sua mano,
non so, con quanti giunse a suo magione,
che 'l Re si credett' essere Taliano.
Nel dett' anno piuvicò in Vignone
il Papa ciò, che fu diliberato
per gli Maestri, di sua oppenione;
cioè, che prima aveva sermonato,
che non potea per sua santitade
alcun di questa vita trapassato
vedere il vero Dio in Trinitade,
ma solamente potean vedere
di Gesò Cristo la umanitade;
e questa vision dovieno avere
infino al giorno, e l' ora del giudicio,
al sonar della tromba, al mio parere:
e che poi sempre avranno 'l benificio,
la Trinità vedran tutti i Beati
perfettamente, per diritto uficio.
Così fia per contradio de' dannati,
come que' per ben fare al primo tratto
non fieno interamente meritati;
così dice, che per aver mal fatto,
sarien le pene, e' martirj imperfetti,
finchè 'l Signor dirà con fermo patto:
Gite al supplicio eterno maladetti.
Nota, ch'e' mostra, secondo il sermone,
che 'nferno prima non abbia suo' effetti.
E questa così fatta visione
provò per molti modi accidentali,
dando alcuno autor per testimone.
E ciò dispiacque a molti Cardinali;
ma nondimeno el fe comandamento
a' Prelati, e Maestri naturali,
che ponessero a ciò lo 'ntendimento,
e sopra la quistion, ch' avia formata,
rapportassero a lui lor sentimento;
e protestò, che per determinata
alcuna delle parti non avea,
ma sol per disputar l' avía trovata.
E nondimen si disse, ch'e' credea
la detta oppinion: dall'altro lato
per vera sperienza si vedea;
perchè quando venía alcun Prelato,
favoreggiasse alquanto i' suo pensieri,
e che 'l suo detto gli avesse approvato,
egli il vedea poi più volentieri,
ed aveva da lui grazia, e servigj,
dove mostrava agli altri gli occhi fieri.
La qual quistion, sermonando in Parigi
appresso al General de' Fra' Minori,
che Caorsino prese i panni bigi,
fu riprovato pe' Predicatori,
e per gli Romitani, e Carmellini,
col dir de' Santi, e di molti Autori,
e per altri Maestri Parigini.
Dal Re Filippo molto fu ripreso,
dicendogli con molti aspri latini:
Se non rivochi quel, ch' abbiamo inteso,
i' ti farò morire incontanente,
siccome Paterin nel fuoco acceso;
e se 'l Papa, che mosse il convenente,
volesse questo sostener di piano,
colla ragione il fare' ricredente.
Dunque si pregherieno i Santi invano,
se per alcun di lor non si vedesse
in Trinitade l' alto Dio Sovrano;
e perdonanza data, o che si desse,
saríe per certo di niun valore,
se 'l giudicio di Dio non procedesse;
la qual cosa sarebbe grande errore,
e guastamento della Fe Cristiana,
e retico è ciascun, che l' ha nel core.
Dico, che tale oppenione è vana,
e non fe ben chi di prima la scrisse,
nè tu provando cosa sì villana.
E comandò innanzi ch'e' si partisse,
il contrario dicesse sermonando;
e così fece, e poi aggiunse, e disse:
Ciò, ch'i' dissi, Signor, fu quistionando,
bench'io mostrassi di voler provare,
veruna parte s'intende affermando;
ch'i' credo, e tengo sanza dubitare
ciò, che la Chiesa Santa per lo certo
ne tiene, ed usa in canto, e 'n predicare.
Appresso il Re di Francia, e 'l Re Uberto
scrissero al Papa: Le cose predette
meritan più riprension, ch' altro merto.
E chi movesse le quistion sospette
dovrebbe discerpar vostra possanza,
non che muoverle voi sì maladette.
Ond' e' si vergognò: e 'l Re baldanza
prese sopra di lui sì, che dimessa
non era sua domanda per certanza.
Questa fu gran cagion della 'mpromessa,
che gli fe il Papa della Signoria
d' Italia, e dello 'mperio innanzi Messa
per gli trattati, che già messi avía
il Re Giovanni, a cui venner le forte
più in contrario, che non si credía.
La quistion detta si trafficò in Corte,
vivendo Papa Giovanni, ed un anno,
e più appresso dopo la suo morte,
e finalmente, come molti sanno,
pe' savj dichiarata, e riprovata
fu come falsa, e piena d'ogni inganno,
siccome ancor diremo altra fiata;
e se fallat' ho io nel dir presente,
la ignoranza mia sia biasimata:
ch'i' credo in Dio Padre Onnipotente,
col suo Figliuolo, e lo Spirito Santo,
come de' creder la Cristiana gente.
Lasciamo star questa quistion da canto,
e torneremo alla nostra Cittade,
di cui di nicistà ci è dire alquanto,
per raccontar la grande avversitade,
e 'l gran pericol, paura, e tremore,
ch'ebbe la gente per tal novitade.
Poichè da Carlo Magno Imperadore
Firenze fu rifatta, si ragiona,
che non avesse avversità maggiore;
perchè 'n quel tempo non ci fu persona,
ricco, nè pover, che non si credesse
di subito morir, come quì suona,
sì, che fu degno, che se ne facesse
per noi memoria, poichè per lo fiume
d' Arno venimmo a così fatte resse;
e l' Autor credette, che 'l volume
di questo libro, dopo sì gran pondo,
avesse fine, e rinnovar costume.
Perocchè come rinovóe il Mondo
pe 'l gran diluvio, quasi tutto quanto,
Firenze rinovò lo stato a tondo.
Ma perch'io non mi credo starci tanto,
che per me far si potesse altro testo,
di fare altro volume non mi vanto,
ma quanto Iddio vorrà, seguirò questo.
c. 84, argumento
Capitolo, che parla solamente
della gran pestilenzia del diluvio,
che in Firenze offese tanta gente,
ch' a voler far ciò, ch'el fe, manifesto,
non basteria maggior libro, che questo.
c. 84
Ognor, ch'i' mi ricordo del millesimo
trecento trentatrè, m' è tanto oltraggio,
ch'i' esco quasi fuor di me medesimo,
considerando, che se Giugno, e Maggio
Firenze stat' era in festa, e in letizia,
come dinnanzi ne vedesti saggio,
poco durò, che dopo la dovizia
dell'allegrezza tutti i suoni, e canti
le tornarono in pianto, ed in tristizia.
Dico, che la mattina d' Ognissanti
incominciò, senza restare, a piovere
nella Cittade, e luoghi circustanti,
nè mai si vide tal modo rimuovere
la notte, e 'l dì; sicchè continuando
fe molti cuori a lagrimar commuovere;
perchè l' aria tonando, e balenando
diventat' era tanto spaventevole,
che non ci si dormia dubitando.
Lunedì cominciò il tempo spiacevole,
e 'l Casentin, Pian d' Arezzo, e 'l Valdarno
guastaro i fiumi, ch' ognun fu nocevole.
Mettendo poi la Sieve grossa in Arno,
guastando venne colla sua rapina
Pian di Sansalvi, Ripoli, e Bisarno,
pescai' rompendo, gualchiere, e molina,
persone, e bestie, e cose moltitudine
innanzi si mettea sera, e mattina
sì, chè savamo in grande amaritudine
dimenticata avamo ogni altra guerra,
e tutta gente con sollecitudine
chi si fuggia di fuori della Terra,
con tutta suo famiglia di concordia,
chi nell'altezza del vicin si serra.
Da giorno a notte avea poca discordia,
tant' era tenebroso in ogni canto,
gridando in boce ognun, misericordia.
Fuor della Terra crebbe l' Arno tanto,
che dalla Croce la porta fortissima
mise per terra; onde raddoppiò il pianto,
veggendo giugner la piena grandissima;
e questo fue il mercoledì notte.
E poichè l' acqua ci fu tanto altissima,
ebbe le mura di Lungarno rotte,
e 'l mur de' Fra' Minori, e più d' un cubito
alzò tra lor, crescendo a tutte l' otte.
Onde in sul tetto della Chiesa subito
fuggiro i Frati, e fecervi l' Altare,
temendo di morir: di ciò non dubito.
E quivi poi con divoto cantare
disser la Messa con gran luminaria,
nè le campane stavan di sonare.
Tant' era scura, e tenebrosa l' aria,
che la veduta d' uomini, e di donne
con tutti quanti i lumi era contraria.
E come appresso quì memoria fonne,
continuando a San Giovanni il crescere
l' acqua, alzò più, che mezze le colonne,
e l' Arno già non ristava di mescere,
e guastò in parte il Castello altra fonte
dov'era il sal, ch' a molti ne fe increscere.
Di quattro non rimase altro, ch' un ponte,
tre ne fece cader la piena orribile,
che un braccio, e più fu sopra il Rubaconte.
E come fu a molti assai visibile,
cadder le case, ove si facíe l' arte
di Cervelliere, ch'era assai possibile.
E cadde allor la statua di Marte
a cui gli antichi facean riverenzia
siccome a Dio (e questo abbi per carte)
ch' al Ponte vecchio facíe risedenzia,
e mai non si rivide sua figura.
Poi dimostrando l' Arno suo potenzia,
fece cader la torre, colle mura,
lungarno, a San Frian, come quì dicolo,
e po' quelle del Prato in gran misura.
Se ciò non fosse stato, a gran pericolo
era questa Città; che ben sei braccia
ci fu l' acqua alta per alcun ramicolo;
ma come aperto fu da quella faccia,
l' acqua della Città cominciò a scendere,
e l' aria alquanto a tornare in bonaccia.
La terza notte poi, per darti a 'ntendere,
rimase la Città piena di mota,
siccome sanza detto puoi comprendere.
La gente, ch'era in quella notte nota,
fuggita alle montagne, s' allegrarono,
quando d' acqua sentír Firenze vota.
Niente allor le porti si serrarono;
sicchè innanzi, ch' apparisse il giorno,
uomini, e donne alla Città tornarono.
Ed io fu' l' un di que', che fe' ritorno,
e poich' alquanti dì così fu varico,
non parve stato mai cotale scorno.
Ma pur si cominciò nuovo rammarico,
perocchè tra' possenti furon certi,
che di danno portaron grande incarico.
E perchè allo sgombrar non furo esperti
perdero biada, e cose senza noveri;
onde se' ricchi fur così diserti,
deh pensa, come star dovieno i poveri,
che quand' è il tempo più bello, e più magno,
trovan di rado alcun, che li ricoveri.
Ma Iddio provvide, e diede lor guadagno,
a sgombrar per le volte l' acqua torbida,
ed altre cose, ch'eran d' altrui lagno;
perchè que', ch'erano usi a vita morbida,
non potean così durar l' affanno,
come que', che sempre la fer sorbida.
A larga stima, ricevette danno
il Comun di fiorin dugentomilia,
siccome molti chiaramente sanno;
e' Cittadini ancor di gran mobilia,
che tale avie fatto endica di grano,
che poi non ebbe per la suo familia.
Dalla parte di sotto per lo piano
Legnaia, Brozzi, Campi, con Peretola,
ed altre ville seminaro invano.
E come casa mal murata sgretola,
di molte l' Arno fe lungo la riva,
ed io il so, bench'i' sia un pascibietola.
Da ogni parte la gente fuggiva
insino a Pisa, siccom' io t' incronico,
alla montagna, per trovarsi viva.
E se non fosse il grande fosso Arnonico,
là, dove l' Arno si volse alla schisa,
cacciava in terra di Pisa ogni intonico.
E pur così le diè caro di risa,
conciossiacosach' al subito giugnere
allagò la maggior parte di Pisa,
e di paura a molti fe il cor pugnere
sì, che avresti veduto d'ogni grado
la gente per temenza gli occhi mugnere;
e molto danno fece in quel Contado
di persone, e di case nel suo correre,
infinchè vicitò San Piero in Grado.
E quivi poco si potè soccorrere;
ma piangendo chi v'era ad alta boce,
a salvamento s'ingegnò ricorrere.
Come l' empito d' Arno mise in foce
più di trecento, a cui tolto avie 'l vivere,
il mar cacciò di fuor da se veloce
gli alberi dibarbati, e vigne livere,
semente guaste, e molti panni, e lana,
non sen potrebbe chiara stima scrivere.
Nè solamente quì fu la fiumana,
che tutti i fiumi usciron di lor termini,
general, quasi per tutta Toscana,
e trasser della terra molti vermini,
i quali usciron d' alcuna montagna,
dove mi par, che tal sementa germini.
Appresso nelle Terre di Romagna,
gran danno mostra, che facesse il Tevero,
ed a Castello, e al Borgo, e sua compagna
Perugia, e Todi, e fuor del corso scevero
Romagna, ed Orbivieto, e 'n quel di Siena,
ed in Maremma, come quì persevero.
E' Fiorentini, dopo questa mena,
non si trovaron di farina polvere,
per le mulina guaste dalla piena;
mancando loro disinare, e sciolvere,
da' vicin fur soccorsi per certanza
di farina, e di pan, faccendo solvere,
Prato, e Pistoia cominciar la danza,
e Colle, e Poggibonizzi, sollecito
ciaschedun fu, e misonci abbondanza.
Per la qual cosa, al mio parere, è lecito
di mantenergli sempre per amici,
e non dimenticar quel, ch'io ti recito.
Veggendo i Fiorentin, che pe' dificj
delle pescaie, e de' mulin terragnoli,
Firenze fu per gire alle pendici,
per isgombrare all' Arno suo' rigagnoli,
si riformò, che mulin, nè pescaia
dumila braccia fosse presso a' Magnoli,
ned infra' Ponti, a pena di migliaia,
non si dovesse alcun dificio mettere,
nè dal lato di sotto alla Carraia.
Non eran quasi rasciutte le lettere,
che que', che fece la legge, davante
a tutti gli altri la volle dimettere.
E però disse bene il nostro Dante:
«L' un dì si fanno leggi con gran prolaghi,
e l' altro dì son guaste tutte quante».
Fessi quistione appresso fra gli Strolaghi,
e Naturali, e Savj in iscrittura,
Religiosi, e Maestri Teolaghi:
se questo fu per corso di natura,
per accidente, o per divin giudizio,
o donde nacque tal disavventura.
E molti disser, che cotale indizio
fu per congiurazion d' alcun pianeto,
al qual convenne far cotale ufizio.
Ed un Maestro saputo, e discreto,
di que' di San Francesco, disse in predica,
ched ogni altro giudicio avea divieto,
salvochè quello, che mai non impedica;
cioè, il volere di Dio, che dà, e tolle
al suo piacer, così ferisce, e medica;
e questo fu così, come Iddio volle,
e contro al suo voler non ha rimedio:
e più figure fe, e dichiarolle.
Ma non volendo, Lettor, darti tedio,
le lascio star, che seguendo il tenore,
diresti: Questi m' ha posto l' assedio.
Or vegno a dir quel, che dice l' Autore,
di quelle avversità, che nel preterito
i' ho veduto, alla Città del Fiore,
e raccontarne alcune non mi perito.
Prima la division, che ancor non manca,
tra' Guelfi, e' Ghibellin con aspro merito;
appresso poi la parte Nera, e Bianca,
che ogni amor di Firenze fece mietere
per modo tal, che ne rimase stanca.
Poi Messer Carlo racconciò le cetere,
cacciando i Bianchi, e diede vinto il giuoco
a' Neri, di cui più non vo' ripetere.
Poi nel trecentoquattro il crudel fuoco:
nel dodici la guerra dello 'mpero,
che fece a noi gran male, e a se ben poco;
ch' avendo Arrigo grande desidero,
nel tredici morì per gli cammini,
come dicemmo quando fu mestiero.
E poco dopo li detti confini
venne in Firenze la grande mortalita,
poi la sconfitta di Monte Catini.
Maraviglia è, come persona ci alita,
che della guerra si riprese il fascio,
nè mostrò la Città d' essere infralita.
Appresso fummo sconfitti a Altopascio,
po' il caro grande alla Città famelica,
che parte, ch'io lo scrivo, ne trambascio.
Da men Firenze, che non è Mattelica,
per le pene sofferte esser dovrebbe,
ma sormontata n' è per grazia Angelica.
Dall' una all'altra piccol tempo v' ebbe,
fiorini spese a seme di papavero
tanti, ch' a raccontar poco sarebbe.
Poi, come dissi, ci fu contro il Bavero,
che ci crebbe anche le pene, e gli affanni,
po' si partì a guisa di Mugavero.
Appresso avemmo contro il Re Giovanni,
po' il diluvio, onde viene la sentenzia
dell' Autor, che dice sanza inganni:
Essendo tutte quante in una essenzia,
non sarebber, secondo il parer mio,
quanto portò la detta pistolenzia.
Ma questa, e l' altre avversità prov' io,
che non dobbiam recarleci ad ingiuria,
ma per l' offese, che facciamo a Dio,
vivendo in avolterio, ed in lussuria,
il prossimo offendendo ogni stagione,
con ogni disonesto modo, e furia;
e se non fosser le buone persone,
avviso me, che l' alto Re di gloria
ci avríe battuti con peggior bastone.
Quando recata fue alla memoria
al Re Uberto nostra avversitade,
si dolse molto di sì fatta storia.
Una lettera scrisse con pietade,
a que', ch'erano allor nel Prioratico,
con santi detti, ed altra autoritade,
e tre parti contenne, com' io pratico;
l' una, che noi comportassimo in pace
l' avvenimento dell' Arno salvatico;
e la seconda, che molto mi piace,
che de' peccati noi ci correggessimo,
ed ammendassimo il tempo fallace.
La terza fu, che noi di lui prendessimo
verace sicurtà, ch' alla bisogna
non mancherebbe in ciò, che noi chiedessimo.
Non fe così il Legato di Bologna;
ma funne lieto, e disse: E' mi sconfissero
presso a Ferrara; e non disse menzogna.
Dopo il diluvio certi Grandi dissero:
Rompasi il popolo, e 'l Ponte si tagli,
acciocchè que' di là non ci assalissero.
Ed un de' Rossi fedío un de' Magli,
qual' era popolan, s'i' ben considero,
e 'l popol s' armò tutto a que' travagli.
E quando gli altri Grandi questo videro,
non seguitaro il male cominciato,
e 'ntorno al fatto con senno provvidero.
Onde quel, che 'l fedì, fu condannato,
come si convenia secondo l' ordine,
e 'l popol si rimase nel suo stato.
Non so, Lettor, se tu, com' io, ricordine,
che certi passando Arno in una nave,
si volser sottosopra, per poc' ordine.
Quindici n' affogaro in men d' un Ave,
gli altri campár per grazia dell' Altissimo,
e non senza paura, e pena grave;
perocchè l' Arno allora era grandissimo;
ma tanto furon d' intorno soccorsi,
ch'egli scampár di punto sì fortissimo,
e forse bevver più di cento sorsi.
Poi di legname ponti s' ordinarono,
che 'n picciol tempo finiron lor corsi,
e forti, e belli poi s' edificarono,
come son oggi, nè credo, che mai
possan mancar, tanto ben si fondarono:
e del diluvio detto abbiamo assai.
c. 85, argumento
Del Legato cacciato di Bologna,
del fondamento del bel Campanile,
e 'l Re Giovanni, per farci vergogna,
donò per carta Lucca al Re di Francia,
ma el fu savio, e tutto l' ebbe a ciancia.
c. 85
Già era giunto il termine alle triegue
fatte col Re Giovanni, e col Legato
dall' una parte, e dall'altra, che segue
la lega, dove il Giglio era appoggiato,
quando ciascuna parte fe consiglio,
se fosse da rifar cotal mercato.
Ver' è, che 'l Cardinal dava di piglio,
purchè la triegua ancor si rifermasse,
perchè la guerra gli era gran periglio.
La lega mostra, che diliberasse
per lo miglior, che nel nome di Cristo,
la dura guerra si ricominciasse,
e confermaron di nuovo il conquisto;
cioè, che 'l Melanese in suo dimino
Chermona avesse, come addietro è visto,
e Parma fosse di Messer Mastino,
Reggio del Mantovano; e del Marchese
Modina, e Lucca poi del Fiorentino.
Onde tutta la forza Melanese
subito cavalcò sopra Piagenza,
a Parma il Mantovano, e 'l Veronese,
e così gli altri, ognun con sua potenza
cavalcò, dove disiava il maio,
ed a Buggian la forza di Firenza.
Nel trentatrè ancora di Gennaio
fu ciò, ch'ho detto; e così i collegati
ricominciár la guerra, e di Febbraio
essendo della lega cavalcati
a Parma quattrocento Cavalieri,
trovár que' della Chiesa apparecchiati
co' Parmigiani; e come arditi, e fieri
percosser lor sì, che li fer trasporre,
ed isconfitti furo in que' sentieri.
E rimasevi preso il Conte Ettorre,
ed altri molti; ma per quel, ch'i' senta,
pochi ve ne moriro al dare, e torre.
Di Marzo, essendo la Città d' Argenta
da' Marchesi assediata, fu mandato
dal Papa, perchè guerra fosse spenta,
uno Arcivescovo savio, e 'nsegnato;
il quale, essendo a Castel di Peschiera
co' Caporal, per cui avea mandato,
tre cose domandò; e la primiera
fu, di disfar la lega, e di far pace;
e la seconda, di levar la schiera;
la terza, ch' a' Marchesi più dispiace,
fu, ch'e' lasciasser sanza niun costo
il Conte, e gli altri, di cui quì si tace.
Allor per un Fiorentin fu risposto,
che rimaner non potea la 'mpresa,
poichè 'n tal parte il termine era posto;
ma se lasciata fosse dalla Chiesa
libera Parma, l' oste cesserebbe,
ma non d' Argenta sanz' altra contesa,
nè pe' Marchesi mai si sosterrebbe
lasciare il Conte, nè gli altri minori:
che 'l Papa prima contento sarebbe,
ch'e' rimanesser del tutto Signori,
dando alla Chiesa ogni anno il censo usato,
e similmente d' Argenta Maggiori.
L' Ambasciadore allor prese commiato,
termine domandando alla risposta,
ed a Bologna se ne fu andato;
Argenta s' arrendè in poca sosta.
Avuta, che' Marchesi ebber la Terra,
con tutta quanta lor gente alla costa
sopra quel di Bologna fecer guerra;
e 'l Legato mandò suo' Cavalieri
a riparare; e, se 'l libro non erra,
fece armar di Bologna due quartieri,
per mandargli in così fatti servigi,
ma egli uscivan fuor malvolentieri.
Levossi allora Messer Brandaligi,
con altri vaghi di mutare stato,
e dell' altrui empier le lor valigi,
e 'n Piazza in sulla ringhiera montato
gridò con molti, colle spade in mano;
Viva il Popolo, e muoia lo Legato.
E 'l popol con furore, a mano, a mano
li seguitò, e andaronne col fuoco
al Maliscalco, ed al luogo del grano,
quivi gridando: Muoia Linguadoco;
n' ucciser molti, ed arsero, e rubaro
ciò, che poteron giugnere in quel loco,
poi il Castel del Legato assediaro:
questo di Marzo fu dì diciassette;
a qual fortuna non ebbe riparo.
E nota, che le cose sopraddette
gli avvenner tutte, per farsi nemici
i Fiorentini, e molto ben gli stette.
Che s' e' gli avesse avuti per amici,
non sarie stato, come fu, sconfitto,
nè di suo stato messo alle pendici;
ma pe' modi, ch'e' tenne, fu trafitto,
e' Fiorentin della novella udita
si rallegraro, e fu quasi diritto.
Ma nondimen per campargli la vita,
vi si mandaro quattro Ambasciadori,
con trecento a caval, gente fiorita,
e balestrieri, e fanti de' migliori.
Giunti a Bologna, con molta fatica
il sicurar dalla porta di fuori,
fasciato tutto della gente amica:
gli Ambasciador d' intorno, com' io mostro,
rammorbidando la parte nimica,
dicendo al popol, come 'l Comun nostro
sempre fratel fu di quel di Bologna,
ed altro più, che non dice lo 'nchiostro.
Ma tutte queste cose fur menzogna,
ch' a gran pericol fu fuor del Castello;
ed isgridando con molta vergogna,
vennero insino al Ponte a Sa' Ruffello,
e' Contadini infino a Lucignano
per simil modo gli orlano il cappello.
E se non fosse stato suo guardiano
il Fiorentino, egli era con sua gente
morto, e rubato da ogni villano.
Il Castel fu disfatto incontanente
sì, che appena si cerniva dove
le mura state fosser primamente;
e come fu piacer del Sommo Giove,
nel trentaquattro con mille trecento
del detto Marzo, ed a' dì dicennove
entrò in Firenze con grande ornamento,
poi donato gli fu sanza dimoro
cera, confetti, ed altro guernimento,
e 'n un bacin domila fiorin d'oro,
i quali addietro rimandò, dicendo,
ch'el conosceva la vita per loro;
e ben lo potie dir, se ben comprendo.
Dì due d' Aprile uscì poi delle porte,
e 'nfino a Pisa, secondoch'io intendo
accompagnato fu con grandi scorte;
i quali in Pisa stetter con lui tanto,
ch'egli entrò in mare, ed andossene in Corte.
E quando giunto fu al Padre Santo,
in Concestoro piuvicò con fretta,
si dolse molto, quasichè con pianto,
de' Bolognesi, gente maladetta,
dicendo, come grandi, e piccolini
gli furon contro; ond' el chiedea vendetta.
Appresso disse, come i Fiorentini
gli avieno allor campata la persona,
e sicuratol per tutti i cammini;
onde la Santa Chiesa, e la Corona
era tenuta in ogni suo dicreto
di meritar quel, che quì si ragiona.
Così nel Concestor; ma nel segreto
al Papa disse: I' vi parlai coperto
de' Fiorentin, per cui son poco lieto:
e siate, Santo Padre, molto certo,
perch'io col Re Giovanni fe' compagna,
che' Fiorentin son que', che m' han diserto;
che rubellar ci fero la Romagna,
po' ci furo a sconfigger nondimeno,
usando contro a noi ogni magagna:
ma poichè dato m' ebbero il veleno,
mi diero il mele; ed altre cose assai
disse, di che la penna tengo a freno.
D' allora in quà Papa Giovanni mai
i Fiorentini nè veder, nè udire
più non volea, siccom' udito hai.
E' Bolognesi poi, dopo 'l partire
del Legato, rimaser malcontenti,
e poco uniti, come udira' dire,
perchè gli amici suoi eran sospetti:
onde dugento Cavalieri armati,
con due Ambasciador, che furo eletti,
dal Comun nostro vi furo mandati.
Se ciò non fosse, pe' segni palesi,
al Veronese si sarebber dati.
La detta gente vi stette duo mesi;
partita poi coll'animo Giudeo,
s' azzuffaron fra loro i Bolognesi;
e finalmente i figliuo' di Romeo,
ch'eran di gente, e di moneta caldi,
la forza dimostrár con ogni reo,
e cacciár fuor Sabatini, e Rodaldi,
e Bovattieri, e più altri Casati,
guastando i beni, ed e' rimaser saldi.
Appresso fecer molti confinati,
e mille cinquecento n' uscir fuori,
tra di lor voglia, e che furon cacciati;
e se non fosse, che gli Ambasciadori
de' Fiorentin vi tornaron con gente,
e ripararo a viemaggior dolori,
Bologna era diserta veramente,
e convenia, che venisse a Tiranno;
ma pur si racquetaron finalmente.
Di Giugno fu ciò, che contato t' hanno
questi mie' versi, e con diritto stile
ritorno addietro non mutando l' anno.
Nel predett' anno, nel mese d' Aprile,
la Lega cavalcò sopra Chermona,
tremila, e più di gente signorile.
Di Maggio s' arrendero alla persona
del Signor di Melan, se chiaro veggio,
con alcun patto, che non si ragiona.
Poi diero il guasto alla Città di Reggio,
e sopra 'l Modonese a mano, a mano,
per simil modo fecion male, e peggio.
Poi volendo assediare il Parmigiano,
udirai quel, che prima era ordinato,
segreto in Corte di queto, e di piano.
Il Cardinal di Bologna cacciato,
con molti Conestaboli de' loro,
per un mezzano avie fermo trattato
di dar cinquantamila fiorin d'oro,
e que' dovien dar presi in suo dimino
i Capi della lega di costoro.
E per potergli pigliar per lo crino
incominciár tra lor certa tencione;
ma rivelato fu a Messer Mastino,
che l' oste fe partir per tal cagione,
e di que' traditor fur presi alquanti,
e tutti guasti fur delle persone.
Gli altri fuggiro in Parma tutti quanti,
ciascun Tiranno si tornò a suo Terra,
e quella cosa non fu piúe avanti.
Po', siccom' era ordinata la guerra,
i Fiorentini a Lucca di presente
mandár lor forza, se 'l libro non erra.
Quivi priemer dovia tutta la gente;
ma per la detta cagion furon vani
tutti gli avvisi fatti primamente.
Nota, Lettor, che gli avvisi mondani
discerne Iddio, e termina a sentenza,
e spesse volte van per modi strani.
Nel detto tempo vennero in Fiorenza
di Santo Iacopo, e di Santo Alesso
orlique degne d'ogni riverenza,
e di quel drappo, che vestì appresso
Gesù; e nell' Altar di San Giovanni
quel grazioso acquisto allor fu messo.
E tal procaccio fece sanza inganni
un Monaco di que' di Valembrosa;
e per suo amor que', che veston que' panni,
debbono esser graditi in ogni cosa,
nè dessi lor lasciar ricever torto,
ma sempre mantenergli in pace, e 'n posa.
Nel predett' anno ad Orvieto fu morto
quel Nepoluccio, che n' era Maggiore,
da un Messere Currado suo conforto,
e cacciò fuor con danno, e disinore
tutti i seguaci suoi, e come truglio,
incontanente si fe far Signore.
Nell'anno, a' dì dicennove di Luglio,
della Chiesa maggiore il Campanile
fondato fu, rompendo ogni cespuglio,
per Mastro Giotto, dipintor sottile,
il qual condusse tanto il lavorío,
che' primi intagli fe con bello stile.
Nel trentasei, siccome piacque a Dio,
Giotto morì d' età di settant' anni,
e 'n quella Chiesa poi si soppellío.
Poscia il condusse un pezzo con affanni
quel solenne Maestro, Andrea Pisano,
che fe la bella porta a San Giovanni;
ma per un lavorío, che mosse vano,
il qual si fece per miglioramento,
il maestro gli fu tratto di mano;
e guidol poi Francesco di Talento,
infinchè al tutto fu abbandonato,
per dar prima alla Chiesa compimento.
Nel trentaquattro, ch'io avea lasciato
si rifondò il Ponte alla Carraia,
che 'l diluvio per terra avie cacciato.
E fo memoria quì, perch'e' si paia,
che di fiorini al Comun venne costo
compiuto ben, venticinque migliaia.
Nel predett' anno, del mese d' Agosto
Messer Mastin Colorno ebbe assediato,
il quale è presso a Parma, ed ebbel tosto.
Nel detto tempo s' ebbe, per trattato
di Messer Beltramon, Castel d' Uzzano,
e presso a Lucca poi fu cavalcato.
Nel detto tempo, essendo in Francia sano
il Re Giovanni, donò al Re di Francia
ogni ragion, ch' a Lucca avie, di piano.
E 'l Re Filippo già non l' ebbe a ciancia;
a' Fiorentini scrisse il fatto aperto,
ch' a Lucca non facesser mala mancia.
Non si lasciò però; e 'l Re Uberto
riprese il Re di Francia suo nipote,
che buona impresa non facíe per certo.
Appresso il priega, quanto fa, e puote,
che quella sia da lui abbandonata,
e se fa contro, a se stesso percuote;
perocchè quel, che gliel' avea donata,
non gliel potea donar, ch' a tradimento
l' avea per se medesimo acquistata.
Onde 'l suo priego fu comandamento
al suo nipote, e con discrezione
rimase ne' suo' termini contento;
nè volle mai pigliar la possessione,
nè mai passò in Toscana di sua gente,
che si sapesse, per cotal cagione.
Così lasciò la 'mpresa di presente,
e parmi, che facesse suo onore;
e basti questo di tal convenente:
nell'altro Canto muteren tenore.
c. 86, argumento
Come in Firenze ebbe sette Bargelli,
e della morte di Papa Giovanni,
e de' Turchi sconfitti crudi, e felli,
de' Genovesi, e di Fra Venturino,
che per invidia fu messo al dechino.
c. 86
Regnando il trentaquattro, innanzi detto,
ed essendo in Firenze assai ciardelli,
che uccidevan gli uomini a diletto,
di nuovo si creár sette Bargelli;
due n' ebbe Oltrarno, un per ogni altro Sesto,
mostrando di dar freno a tutti quelli.
Ma per altra cagion si facíe questo,
perchè ogni Reggente Cittadino
volíe potere andar sicuro, e presto;
perocchè allor si rifè lo squittino,
ed i detti Bargelli ogni stagione,
la notte, e 'l dì, da sera, e da mattino,
cercavan di sbanditi, e di tencione
d' arme, e di giuoco, e sepper sì ben fare,
che non durò più, che quella lezione.
Nel detto tempo i Genovesi in mare
i Catalani tanto danneggiaro,
che sarebbe impossibile a contare.
Quattro galee in Sardigna pigliaro,
e quattro cocche in Cipri delle loro,
e 'n Cicilia altre quattro ne rubaro,
con tanta roba, che valse un tesoro,
e 'mpiccaro secento Catalani,
ed altri molti in mar gittati foro,
ed ucciserne assai colle lor mani,
e poco ebbe dall' una all'altra offesa,
sicchè di lor ne campar pochi sani.
Nel dett' anno l' armata della Chiesa,
del Re di Francia, e di Vinegia andando
in Grecia a far contr' a' Turchi difesa,
i quali andavan tutto dì rubando;
essendo già in Costantinopoli ita,
degl' Infedeli poco dubitando,
trovár, che' Turchi eran gente infinita,
e combattér con loro, e finalmente
sconfitti fur da nostra gente ardita.
Quindicimila Turchi certamente
quivi morír tra que', che fur percossi,
e que', ch' andar per mare alla più gente;
e ben centocinquanta legni grossi,
ed altri molti fur recati a fine
col fuoco, e poi di subito fur mossi.
E gir guastando tutte lor marine,
levando prede, e dando lor gran danni,
che par, che fosser sentenzie divine.
Nel dett' anno morì Papa Giovanni
a' quattro dì di Dicembre in Vignone,
e morì ben disposto, sanza inganni;
e rivocò vivendo la quistione,
che mossa avíe, dicendo, che 'l Beato
di Dio non avíe piena visione;
e ciò fe per consiglio del Legato
cacciato di Bologna, suo nipote,
ovver figliuol per amore acquistato;
e la rivocazion, con piene note
lasciamo nella prosa, con disio
di dirne in brieve quel, che dir si puote.
Giovanni servo de' servi di Dio,
san della mente, dico, ch'io fallai
della quistion, ch'i' mossi al parer mio.
Ed altre cose disse, ch'io lasciai;
e com' egli ebbe suo detto finito,
d' esta vita passò, com' udirai.
E poi a grande onor fu soppellito,
e di Dicembre poi sanza dimoro
l' esequio quì sen fe, com' hai udito.
E dopo lui si trovò di tesoro,
i' dico solamente di coniati,
diciotto milion di fiorin d'oro,
e più vasellamenti molto ornati,
corone, mitre, e di molte ragioni
croci, ed anella, ed altri don pregiati,
valuta ben di sette milioni.
La maggior parte par, che raunasse
il detto Papa di presenti, e doni.
Non mostra, ched allor si ricordasse
di quel, che disse Cristo nel Vangelo,
acciocchè tutta gente l' osservasse:
Non tesaurizzate quì, ma in Cielo.
E a chi 'l ne riprendea come saggio,
sì rispondea: Il faccio per buon zelo,
a 'ntendimento di fare il passaggio;
e col nipote cominciato avía,
quando a Bologna gli diè signoraggio;
e poi per farlo grande in Lombardia,
avea già dato al suo tesor tal botto,
che s'io il dicessi, parrebbe bugia.
Questi tenne il Papato anni diciotto,
e novanta n' aveva naturali,
quando di questa vita andò di sotto.
Aveva trentaquattro Cardinali,
che tutti si trovaro allora in Corte,
mostrandosi di lui molto carnali.
E poi appresso, dopo la suo morte,
dal Siniscalco dello Re Uberto,
che stringer li dovea a quella sorte,
di subito rinchiusi fur per certo
in Conclavi, per far nuova lezione
di Papa, il quale fosse savio, e sperto.
Ma setteggiando, fu tra lor tencione;
e quel di Pelagorgo, Caporale
dell' una setta, come il libro pone,
la boce aveva da ogni Cardinale
della suo setta, non in suo servigio,
che forse non si riputava tale,
ma pe 'l fratel del Conte di Comigio,
al qual disse: Tu mi giurerai,
s'i' ti fo Papa, come quì ti ligio,
ch' a Roma colla Corte non andrai;
ed e' rispose: Gran mercè, fratello;
e quel prometter non gli volle mai,
dicendo: Innanzi lascere' il Cappello.
Onde la cosa fu rimescolata,
e come piacque a Dio, chiamaron quello,
ch'era il minor di tutta la brigata,
ed una boce non ebbe di manco,
faccendo ognun da beffe tal chiamata.
E così Papa fu il Cardinal Bianco,
dì venti di Dicembre, anno predetto,
che di Cestella Abate era stato anco;
poi fu chiamato Papa Benedetto;
il qual disse com' e' fu confermato:
Un asino per Papa avete eletto.
Poi del tesor, che l' altro avíe lasciato,
per non voler cotal servigio indarno,
cento migliai' di fiorin diè lor dallato.
Nel detto tempo crebbe tanto l' Arno,
che' ponti del legname via ne manda,
e poi, come dett'è, si rifondarno.
E così fecero i fiumi di Landa,
e 'l simigliante fe il fiotto marino
per le marine Terre di Silanda.
Nel detto tempo un Frate Venturino
da Bergamo, de' Fra' Predicatori,
per predicar con divoto latino,
convertì molti grandi peccatori
in suo paese, con bella dottrina,
ladri, e micidiali, e rubatori;
e disse loro: I' vo' per medicina,
che voi vegnate pe 'l vostro fallire
con meco a Roma, a far la quarantina;
e fegli tutti ad un modo vestire
colla gonnella bianca, con effetto,
e 'l mantel perso, e poi, a non mentire,
una Colomba bianca avie nel petto,
ch' aveva in becco un ramucel d' ulivo,
e perch'io 'l vidi, lo scrivo a diletto,
e fu viemaggior fatto, ch'i' nol scrivo;
e tutti andavano ordinatamente
siccome Frati a quel, che non è vivo.
Ogni brigata innanzi avie presente
la Croce, con alcun segno per via,
quali eran pochi insieme, e qua' più gente.
E vo', che sappi, che di Lombardia
ne trasse diecimila, ed a cavallo
ve n' ebbe assai, co' qua' dietro venía.
Quando a Firenze giunser, sanza fallo
eran cresciuti sì, che la Cittade,
tutta fu piena, Chiese, ed ogni stallo;
e li buon Cittadin, per caritade,
siccome per gli amici s' apparecchia,
ciascun chiamava la sua quantitade.
Nota, Lettore, e nel mio dir ti specchia,
quel, ch' a Messer Valor de' Buondelmonti
vid' io fare, in sulla Piazza Vecchia.
I' dico, ch'egli, e molti altri fur pronti
a apparecchiare a quelle genti strane
mense, e tovaglie, con allegre fronti,
da ogni parte giugnendo le zane
piene di roba, e chi mandò il barile
pien di buon vino, e chi 'l sacco del pane.
Uomini, e donne di stato gentile
veduto avresti alzare alla ritonda,
e la gente servir con atto umíle.
Quella Piazza era piena da ogni sponda;
come mangiato avien certe brigate,
si rifornia per la gente seconda.
Quindici dì durò, perocchè 'l Frate
andava dietro a tutti, al mio parere,
e gli altri si stendien per le villate.
E quando entrò in Firenze, dei sapere,
che donne, e uomini, grandi, e minori,
per maraviglia il trassero a vedere.
E se non fossero i nostri Rettori,
da' quali e' fu francamente riscosso,
la gente commettea di grandi errori.
E pur così gli fu stracciata indosso
tutta la cappa, perocchè beato
si tenne ognun, che n' ebbe quant' un grosso.
Poich' al Convento si fu riposato,
in sulla Piazza venne a predicare,
ch'era piena di gente d'ogni lato.
Bella loquela avea, e 'l suo parlare
fu della pace, e in quel luogo sovrano
di morte d' uom parecchi ne fe fare.
Quand' ebbe predicato a mano, a mano,
in Pergamo rizzossi un Vesparino,
e disse: Io sono stato nel Frignano
ben quarant' anni, rubando il cammino,
e più di centoventi uomini ho morti:
or m' ha converto Frate Venturino;
e piace a lui, ch'i' tal vergogna porti
infino a Roma, per mia penitenza;
pregate Iddio, ch' al ben far mi conforti.
Partissi il Frate, e gli altri, e di Fiorenza
assai, volendo poner giù la soma
de' peccati, il seguír con riverenza.
Con questi, e con molti altri giunse a Roma,
perocchè tanti ne crebber d' intorno,
che maggior gente fu, che non si noma.
Poi disse lor: Farete quì soggiorno
tanto, ch'i' torni, ed io andrò a Vignone
per grazia al Papa, e farò quì ritorno.
Così si mosse con divozione,
credendo a que', che l' avien seguitato,
acquistar grazia di remissione.
O per invidia, o per altro peccato,
com' el fu giunto in Corte, di resia
al Sommo Sacerdote fu accusato;
e esaminato, come si dovia,
fu ritrovato vero, e buon Cristiano,
di santa vita stato tuttavia.
Ma perchè disse di queto, e di piano
con più presunzion, che non richiede
l' esser presente al suo Pastor sovrano:
Non è diritto Papa, se non siede
a Roma in sulla sedia, ove San Piero
tenne il baston diritto della fede;
pensossi forse il Papa di leggiero:
Questi potrebbe con dolci latini
contro a me molti mutar di pensiero;
ed a Frasacca il mandò a' confini,
e comandogli, ch'el non confessasse,
nè predicasse; ed e' con gli occhi chini,
benchè li suoi malvolentier lasciasse,
per forza gli convenne far l' andata,
e credo pur, che molto gli gravasse.
La ciurma, che aspettava la tornata,
come pecore fan senza 'l pastore,
si sparse tutta quanta sconsolata;
tornarsi a' lor paesi con dolore,
e tal pe 'l Frate s' era convertito,
che s' el fu prima reo, fu poi piggiore.
Il detto Frate, ch' a' confini er' ito,
era di trentacinque anni d' etade,
e, quanto vedi, al mondo fu gradito;
ma s' e' con pace, e con umilitade
sofferse quello esilio, ch'i' t' ho detto,
i' credo, ch'e' sia pien di santitade;
e non credo, che Papa Benedetto
sanza cagion l' avesse confinato:
lasciamo star di cui fosse il difetto.
Nel detto tempo in Genova tornato,
come dett'è, per pace il Ghibellino,
e 'l Re Uberto avendovi mandato
per guardia un Uficial da Tolentino,
con alquanti a caval, con molti fanti,
e per Podestà v'era un Fiorentino,
(qual fu Messer Giannozzo Cavalcanti,
ch' ancora per lo Re v'era col Giglio,
ch' a' Ghibellin dispiacque, a tutti quanti,)
tra' Guelfi, e Ghibellin nacque bisbiglio,
e 'nsieme s' azzuffar sanza dimoro,
e furo i Ghibellini a gran periglio.
Al fine i Guelfi si rupper tra loro,
poi co' Ghibellin parte s' accozzaro,
e più che' Guelfi fur forti costoro,
e gli altri Guelfi, e 'l Re fuor ne cacciaro,
i qua' n' andaro a Monaco per certo,
e' Ghibellini poi signoreggiaro.
Appresso con disdegno il Re Uberto
l' armata vi mandò, che tenne stretta
la Cittade, e 'l Contado fu diserto.
Allora i Ghibellin con molta fretta
i Guelfi, che gli ataro, cacciár fuori,
sicchè de' veri Guelfi fer vendetta.
Appresso degli Spinoli, e degli Ori
fecer due Capitan, ciascuno altiero,
i qua' potean far come Signori.
Nel trentacinque, essendo Messer Piero
Saccon Signor d' Arezzo, e di Castello,
e di Massa, e del Borgo, e d' altro ostiero,
ed avendo diserti sanza appello
i Conti a Montefeltro, e gli Ubaldini,
e i figliuoli di Tano, e lor pennello,
e que' da Monte Doglio, e gli Ubertini,
que' da Faggiuola, ed altri similmente,
e tolta Gallinella a' Perugini,
essi trattaron poi segretamente
co' Perugini, e 'l Borgo a San Sipolco
tolsero a Messer Pier subitamente,
a' dì otto d' April, nel tempo dolco,
salva la Rocca co' suo' confidati,
che 'nfino a venti dì tennero il solco;
de' qua' Messer Uberto de' Tarlati
Caporal era, e, salve le persone,
s' arrenderono, e fur di fuor mandati.
E que', che preser la possessione,
col Perugino all' Aretin fer guerra;
e di lor fatti non fo più menzione,
perchè son giunto ove 'l cammin si serra.
c. 87, argumento
Della Montagna, onde usciro i Serpenti,
degli Aretini, e di Messer Mastino,
com' ebbe Lucca a' suo' comandamenti,
e come nel dett' anno del vaiuolo
ci morì di fanciulli grande stuolo.
c. 87
A voler seguitar la 'mpresa fatta
della materia, che quì si ragiona,
mi convien dir ciò, che la Prosa tratta.
Nel trentacinque, che dinanzi suona,
una Montagna, ch'era tutta salda,
per tremuoto scoscese in Falterona
presso a Firenze una sì grande falda,
che tenne il rovino più di tre miglia,
di Maggio, ch' ancor l' aria non è calda.
Albori, case, e bestie, quanto piglia
si mise sotto, ed uscirne serpenti
tanti, ch' a dir parrebbe maraviglia.
Con quattro piedi, e con aguti denti
se ne trovaron due; che com' un cane
era ciascuno, al parer delle genti.
A Decoman dalle persone vane
portati furo, e molta gente china
a ciò veder, perch'eran cose strane.
Appresso poi della detta mina
uscì acqua sì fatta, che di lieve
avvelenata avrebbe la marina;
e tutti i fiumi d' intorno, e la Sieve,
e l' Arno intorbidò per tal cagione
sì, che a lavar la gente andava in Grieve.
Nel detto tempo Messer Beltramone
pe' Fiorentin di guerra Capitano,
come dett'è dinnanzi per ragione,
un battifolle avíe posto a Buggiano,
dal qual tornando, da nimica gente
riposta in guato fu percosso al piano;
ond' e' si volse valorosamente,
co' suoi, i quali erano cencinquanta,
e sconfisse i nemici incontanente.
E secondochè 'l Libro dice, e canta,
fu morto un lor Conestabole quici,
e venti presi, se 'l dir non millanta.
Poi, com' avieno ordinato i nemici,
uscír di Pescia dugento barbute,
che i nostri miser tutti alle pendici.
Un ne fu morto, e presi con ferute
ne furon più di trenta, e li confini
gli altri fuggir, come bestie smarrute.
Nel detto tempo essendo i Perugini,
e 'l Cortonese andato in Val di Chiana,
guastando in quella parte gli Aretini,
e Messer Pier con suo gente sovrana
si fece loro incontro, ed in persona
co' suoi percosse a quella gente vana.
Que' si rivolsero inverso Cortona,
quasi con fuga sì male ordinati,
che Messer Pier seguitando gli sprona.
Sopraggiunti ch'egli ebbe, sceverati
li mise in isconfitta, e più di cento
cavalier Perugin vi fur legati,
e più di due cotanti, ciò non mento,
di que' da piè rimaser presi, e morti,
e Messer Piero, e' suoi con ardimento
verso Cortona, infin presso alle porti
li seguitò, e poscia non s'indugia:
con gli suoi Cavalier gagliardi, e forti
e' cavalcò sopra quel di Perugia,
e 'n cinque giorni, di ciò, che trovaro,
non vi campò valer d' una grattugia;
ed alle forche loro poi impiccaro
alquanti Perugin col gatto allato,
ed a' brachieri lor lasche appiccaro;
a dimostrar, siccome avea giucato
con lor, col gatto, e co' falsi pensieri,
il Perugin Cacalasche chiamato.
Ma i Perugin, siccome arditi, e fieri,
non come gente sconfitta, venire
di Lombardia fer mille Cavalieri.
E' Fiorentin sanza aspettar d' udire
loro ambasciata, o d' esserne richiesti,
mandár della lor gente al lor servire
dugento Cavalieri arditi, e presti,
la 'nsegna del Comun con lor portando,
acciocchè l' amistà si manifesti.
Nel predett' anno di quinci passando
dugento Balestrieri Genovesi,
a Messer Pier Saccon d' Arezzo andando,
co' pennon degli Spinoli distesi,
ch' avien per sopransegna gli aguglini;
onde i fanciu' veggendoli palesi,
tutti gridár: Muoiano i Ghibellini;
onde i briganti furo apparecchiati,
e tutti li rubár per gli cammini.
Sicchè tornaro addietro peggiorati,
e fediti di lor furono alquanti,
e ritornarsi a chi gli avea mandati.
Convenne poi, che' nostri Mercatanti
del detto danno facesser l' ammenda,
e forse la fer più di due cotanti.
E' Perugin, seguendo la leggenda,
ripreser cuore, e fer gente per certo,
per dare agli Aretin mala profenda.
Nel dett' anno di Giugno, il Re Uberto
mandò gran gente sopr' a' Ciciliani
perchè 'l paese lor fosse diserto:
la qual guidár due franchi Capitani,
de' qua' fu l' uno il Conte Chiaramonte
e l' altro si fu il Conte Curuliani.
E' Fiorentini vi mandaron pronte
cento barbute, e non più, perchè andata
era la gente a vendicare altr' onte.
E ben due mesi stette quell'armata
nell' Isola, e dovunque egli arrivaro,
col fuoco, e ferro non lasciár derrata;
ma nulla Terra però v' acquistaro:
dissesi allora, che 'l Chiaramontese
non v'era stato coll'animo chiaro;
e ben lo dimostrò assai palese;
che siccome l' armata fe ritorno,
dal Re si fu partito alla cortese:
al Bavero n' andò sanza soggiorno,
poi al servigio di Messer Mastino
con suo compagna venne molto adorno.
Nel predett' anno essendo il Fiorentino,
con gli altri insieme, intorno a Parma grossi,
la Terra stretta sì, ch'era al dichíno,
Messer Marsilio, ed Orlando de' Rossi,
ch' avien la Signoria di Parma in mano,
veggendosi così intorno percossi,
Messer Azzo Visconti da Melano
di Parma, e Lucca vollon far contento;
e ciò sentendo di queto, e di piano
i Collegati fecer parlamento,
nel qual fu il sopraddetto Messer Azzo,
e' Fiorentini, e gli altri del convento.
Quivi si fece di più acque guazzo;
cioè, scoprendo colla faccia accesa
tra lor più falli, fuor d'ogni sollazzo.
E Messer Azzo volíe pur la 'mpresa
cominciata seguir co' Parmigiani;
ma' Fiorentini ne fer gran contesa,
perchè Lucca non fosse alle sue mani;
ma viepiuttosto amavan, che l' avesse
Messer Mastin, ch' alcun di que' Sovrani,
avendo fede nelle suo promesse,
che più volte avie detto tra' Maggiori,
di darla a' Fiorentin, sed el potesse.
E dopo il dir di molti dicitori,
rimessa fu con molta diligenza
la lor quistion ne' nostri Ambasciadori:
i quali appresso dieder per sentenza,
che Parma fosse di Messer Mastino,
e poi la Lega acquistasse Piagenza,
e similmente il Borgo a San Donnino,
e l' uno, e l' altro avesse il Melanese,
poich' acquistato fosse, in suo dimíno.
E confermato tutto di palese,
non aspettando i Rossi da persona
alcun soccorso nelle lor difese,
trattaro, e diersi al Signor di Verona.
Messer Marsilio di Carrara in quella
quistion fu mezzo, come si ragiona.
Pontriemoli, con altre più Castella
dovean rimaner libere loro,
a' Rossi, dico, ed abitare in ella,
e cinquanta migliai' di fiorin d'oro
dovieno avere ogni anno, tutti gli anni;
e Messer Pier de' Rossi il Tenitoro,
ch' avie di Lucca, per lo Re Giovanni,
promise dargli; e 'l Veronese accordo
col detto Re trovò poi sanza inganni,
mostrandosi ne' patti molto ingordo,
a' nostri Ambasciador più volte disse:
Ciò, ch'i' ne so, per voi Fiorentini ordo;
ed al nostro Comune ancor lo scrisse,
e ch'el faria con tutto suo podere
contro al fratel, se manco ne venisse.
A' dì ventun di Giugno, al mio parere,
ebbe Messer Mastin Parma per certo;
ma già n' er' ito a Verona a giacere.
E 'l suo fratel carnal, Messer Alberto
entrò in Parma per quella cagione,
con secento a caval, d' arme coverto,
ed osservaro i patti, per ragione,
come si convenia, al Parmigiano,
finchè di Lucca ebber la possessione.
E poco appresso i Signor di Folliano,
con certi patti, per tema di peggio,
trattár col Veronese di lontano,
e diergli a' quattro dì di Luglio Reggio;
il qual, com' ebbe quella Città vaga,
pe' patti della Lega, se ben veggio,
la ridonò a' Signori da Gonzaga,
con patti, ched ogni anno in sua presenza
portassero un Falcon, perchè gli appaga.
Dì ventisette di Luglio Piagenza
si diede a Messere Azzo de' Visconti,
e pochi dì regnò in sua potenza.
I Piagentin, ch' al volger furon pronti,
si rubellaro da lui, e trattaro
col Re Uberto; ma fur corti i ponti.
Non giugnendo il soccorso s' accordaro
con Messer Azzo, secondochè odi,
e di Dicembre i suoi vi ritornaro.
Nel detto tempo per simili modi,
a Messer Azzo, con patti distesi
anche si diede la Città di Lodi.
Di Maggio appresso, secondoch'io 'ntesi,
Modina s' arrendè a' Colligati,
e conceduta fu poi a' Marchesi.
E così fur tutti i patti servati
a ciaschedun, come quì si rassegna,
e solo i Fiorentin furo ingannati.
Per lor non fu nè patto, nè convegna;
le promesse di Lucca s' annullaro,
siccome fa chi di mal far s' ingegna.
Onde gran guerre poi ne seguitaro
da' Fiorentini al Mastin, com' udire
ancor potrai, come si vendicaro.
Ma vuolsi pur dell'altre cose dire,
ched in quel tempo fur, come si canta,
e 'l proposito poi potren seguire.
Nel dett' anno tenendo Pietrasanta
Niccolai' de' Pogginghi con affanni,
che l' ebbe in pegno, come ancor si vanta,
per diecimila fiorin sanza inganni
dal Conestabol di Francia, mi pare,
quando a Lucca fue col Re Giovanni;
Niccolai' non possendola guardare,
la diede in guardia al Comun di Fiorenza;
la Rocca tenne per lo suo abitare.
E 'l primo Capitan, sanza fallenza,
con dugento a caval prodi, e gagliardi,
e trecento pedoni a ubbidienza,
Messer Gerozzo fu di casa i Bardi;
e 'l terzo dì, pochè vi fu in persona,
viemaggiormente convien, che si guardi;
perocchè, siccome quì si ragiona,
certi usciti di Lucca, con valore
preser con altri il Poggio alla Pedona,
qual è tra Pietrasanta, e Camaiore.
Volendolo afforzare, e fare il fosso,
per poterlo difendere a furore,
vi cavalcò co' suoi Messer Pier Rosso,
ed assediolli, ch'eran mal forniti;
e que' veggendosi tal gente addosso,
non aspettaron d' essere assaliti,
a Messer Piero s' arrendér di botto;
e poich' a Lucca a pregion furono iti,
Messer Pier fe impiccar di lor diciotto;
tra' qua', siccome si vide palese,
due de' Pogginghi pagaron lo scotto.
Nel detto tempo Messer Mastin prese
la tenuta di Lucca signorile,
e Messer Pier n' uscì sanza contese.
E Nicolai' Pogginghi poi d' Aprile,
per undici migliaia di fiorini,
gli concedè Pietrasanta gentile.
Poi diè comiato a tutti i Fiorentini,
e misevi la gente del Tiranno,
onde si turbár grandi, e piccolini.
Ma prima, che compiesse il detto anno,
Messer Mastino appose a Niccolaio,
che con gli Fiorentin trattava inganno,
e fel pigliar quand' egli era più gaio,
e di ciò, ch'egli avea, come Signore,
non gli lasciò il valere d' un danaio.
Così tradito fu il traditore
da quel, che contro alla suo coscienza
ci mostrò quel, che non avea nel cuore.
Nel trentacinque fu la pestilenza
tra gli fanciulli, e del mal del vaiuolo
domila, e più ne moriro in Fiorenza,
onde a' lor padri, e madri fu gran duolo,
che tal s' aveva un fanciul piccolino,
che giammai poi non acquistò figliuolo.
Nel dett' anno trovandosi Batino
di Grosseto Signor, che fu per guerra
in Siena stato più tempo a confino,
perchè i Sanesi preso avien la Terra,
e perch'egli era saputo, e discreto,
il tenien quivi, se 'l Libro non erra;
partissi un giorno, ed andonne a Grosseto
con certi suoi compagni alle coste,
caccionne i Bessi, ed e' rimase lieto.
Ma dessi vi tornar di botto ad oste
e diervi la battaglia dall' un lato,
e di lor morti assai fur senza soste.
Poi di Novembre, per falso trattato,
fu dato loro una porta di saldo,
per la qual, come prima era ordinato,
il Capitan lor, Conte Marcovaldo
dentro passò, con trecento soldati,
i qua' fur presi, ed el passò con caldo;
e poi veggendo i Bessi raddoppiati,
Batino andóe a Pisa alla celata,
e secento a cavallo ebbe menati.
Quando i Sanesi sentír la brigata,
lasciaro il campo, fuggendo la piena;
e poi Batin, colla suo masinata
corse guastando il Contado di Siena,
e menonne di preda a questo tratto
uomini, e bestie, con carica schiena.
Poi fe 'l Sanese, come villan matto,
che dopo grande sua vergogna, e danno,
col detto Batin fece accordo, e patto:
così le bestie spesse volte fanno.
c. 88, argumento
Di Massa, e poi di Città di Castello,
e come il Re di Scozia fu sconfitto
dallo Re d' Inghilterra prode, e bello,
e del primo di guardia Capitano,
che fu in Firenze, e poscia del Pisano.
c. 88
Tenendo i Fiorentin nelle lor mani,
come già dissi, la Città di Massa,
per la quistion tra' Sanesi, e' Pisani,
nel trentacinque, ch' ancora non passa,
v'era per Podestà andato quinci
il Tegghia Buondelmonti, e non dibassa,
e 'l Capitan Zampagnon Tornaquinci;
ma due sette v' avea; l' una palese
s' accostò a' Pisan, siccome a Princi;
e quella, che tenea col Sanese,
con Zampagnon si tenea tuttora,
che non senza cagion fe lor difese.
Que', che tenien co' Pisani, a romore
levár la Terra, e gli altri volentieri
richieser Siena d' aiuto, e favore;
onde popol vi venne, e Cavalieri,
e d' entrar nella Terra da quel lato,
co' loro amici, furo arditi, e fieri.
E di Firenze allor vi fu mandato
il Vescovo, con altri Ambasciadori,
per accordar le parti al buono stato.
Ma per forza i Sanesi fur Signori,
dì ventiquattro del mese d' Agosto,
e gli amici di Pisa cacciár fuori.
Onde i Pisani si turbaron tosto
sì col Sanese, e sì col Fiorentino,
nelle cui mani il guardare era posto,
ed era stato ancor, come vicino,
mallevador d'ognun, con chiara fronte,
se tale accordo mettesse al dichíno.
Nel detto tempo i Marchesi dal Monte,
colla lor madre, la qual era specchio
di tutte l' altre, di malizia fonte,
trattato avien con certi da Montecchio,
ch'erano a guardia in Città di Castello,
e lor fedeli fur nel tempo vecchio.
La detta donna fatto avía il tranello,
siccome dar dovevano una porta,
e li Marchesi veggendosi il bello,
con Perugini, ed altra gente accorta
in quella parte furon cavalcati
di mezza notte; e giunta loro scorta,
i traditori furo apparecchiati
dal lato dentro, e levaro il romore;
onde Messer Ridolfo de' Tarlati,
che di quella Città era Signore,
s' armò, e fece armar tutta sua gente,
volendo riparare a tal furore.
Come la lingua va al doglioso dente,
il Cavalier co' suoi subito corre
dove assalir da' nimici si sente.
E siccom' el fu giunto, della Torre
da' suo' gittato fu, per dargli in testa:
onde veggendosi il rigoglio torre,
asserragliar fe la via sanza resta,
e quivi stette a difender la serra
con tutta la suo gente armata, e presta,
mad i Marchesi, e gli altri, che di guerra
erano sperti, con molti stormenti
da più parti assalir fecer la Terra;
laonde molti Cittadin valenti
abbandonár la guardia del serraglio,
credendo riparar maggior tormenti.
E li Marchesi di punta, e di taglio
co' traditor fer tanto, ti prometto,
che passár dentro non senza travaglio;
ed alla sbarra combattendo appetto
a' Cittadini, a cui la cosa tocca,
passaron francamente a lor dispetto.
Messer Ridolfo fuggì nella Rocca,
per iscampar, con certa suo brigata,
come si suol, quando periglio fiocca.
E la Cittade fu corsa, e rubata,
e po' da' Cavalieri, e fanti arditi
la Rocca intorno intorno fu cerchiata;
e perchè dentro molti eran fuggiti,
facean d'ogni cosa vitipero,
perocchè v'eran molto mal forniti.
Non possendo tenersi, a dire il vero,
nè sperando soccorsi d' altri stuoli,
a' dì cinque d' Agosto s' arrendero.
Messer Ridolfo, con due suo' figliuoli,
ed altri molti, come quì si cerna,
n' andaron presi a Perugia con duoli.
Appresso i Perugini ebber Citerna,
e più altre Castella del paese,
siccome piacque a chi 'l mondo governa.
Nel detto tempo il Re dell' Inghilese
in Iscozia passò con molta gente;
e 'l Re di Scozia co' suoi l' arme prese,
e 'ncontro gli si fece francamente,
e combattè con lui con sua travaglia,
perocch'el fu sconfitto incontanente;
e molti degli Scotti alla battaglia
rimaser morti, col fratel carnale
del detto Re, Conte di Cornovaglia;
e lo Re d' Inghilterra naturale,
sanza colpo di spada prese poi
quasi che tutto il paese Reale.
Veggendo il Re Davitte se, e i suoi
così diserti, non gli parve ciancia,
e doloroso, come pensar puoi,
di subito n' andò al Re di Francia,
e da lui ricevette onor sovrano;
e questo basti di sua mala mancia.
Nel dett' anno, di guardia Capitano
creato fue in Firenze da quelli,
che 'l reggimento allora avieno in mano.
Da Gobbio il primo fu de' Gabrielli
Messer Iacopo, ch'ebbe contanti
mille fiorini il mese buoni, e belli,
con cinquanta a cavallo, e cento fanti,
e pieno albítro sanza sindacato,
ed abitò, come trovi davanti,
in quel palagio, che fu edificato,
pe' Figliuopetri, e poi da' creditori
settemila fiorin fu comperato
per lo Comun, perch' è presso a' Priori,
e fece un anno sì rigido uficio,
che 'l temér Grandi, mezzani, e minori,
e per tema, ch' avien del suo giudicio,
molti sbanditi passarono i Monti,
e non ci si faceva un malificio.
Vennegli a mano il Rosso Buondelmonti,
ch' avea bando, non per micidiale,
ma perchè seguitò molti altri pronti,
faccendo contro al bando generale
del suo Comune incontro a Montalcino
pe' Tolomei, e colsegliene male.
Se 'l giorno andava alcun buon Cittadino
a pregar di suo scampo, più di cento,
dicean, la notte ch'el mettesse al chino.
Veggendo il Capitan lo 'ntendimento
de' Cittadin, ch' andavano a quell' otte,
al Rosso disse con molto ardimento:
Per te faria, che mai non fosse notte;
e tenuto, che l' ebbe in sua podesta
alquanti dì, rimise poi le dotte,
e subito gli fe tagliar la testa,
essendo stato un uom molto temuto,
e che avea molta gente a sua richiesta.
Quel Capitano era vecchio, e sparuto;
ma el si potíe metter tra gli arditi,
e parte quì ne puoi aver veduto.
E' condannò, per tenere sbanditi
molti Comuni, e popoli d' intorno,
e molti Cittadin de' più forbiti,
e finalmente a Gobbio fe ritorno.
S' e' ne portò danar, dir nol saprei;
ma credo, che a raccolta sonò il corno.
Nel mille con trecento trentasei,
fu dopo lui Messer Accorimbono
da Tolentino, come saper dei:
il qual fu savio Capitano, e buono;
ma fra 'l suo tempo, se 'l Libro non erra,
avvenne quel, ch' appresso ti ragiono.
Messer Niccola Agobbin dalla Serra,
podestà nostro stato finalmente,
ebbe di petizioni una gran guerra:
l' asseguitore essendo suo parente,
nol volle condannare, e non volea,
che' Sindachi il facesser similmente.
Messer Accorimbon con lui tenea,
ed al Nipote, Messer Fidesmido,
Podestà nuovo, ancora dispiacea.
L' asseguitore, e' suoi missero a grido
tutto il palagio, come gente pazza,
e' Sindachi sospinser fuor del nido;
onde gran gente trasse in sulla piazza,
e furo allor parecchi de' suo' fanti
fediti, qual di pietre, e qual di mazza;
e que' del Capitan presero alquanti
de' nostri Cittadini, e raddoppiando,
venne la gente al suo palazzo avanti.
Nè per comandamento, nè per bando
non si potea far la gente partire;
e s' e' fosser partiti, al suo comando
da quattro in su ne facea morire;
ma per tema del popolo adirato
non ebbe di guastare alcuno ardire.
Messer Niccola fu pur condannato;
e fessi, che d' Agobbio Potestade
fra certo tempo non fosse chiamato.
Appresso venne un' altra novitade,
che 'l Capitano ebbe informagione,
che tradir si dovea questa Cittade
per certi, che 'l faceano a petizione
del Veronese Can, Messer Mastino,
contro a' quali formò la 'nquisizione.
E della Tosa fu l' un Messer Pino,
che più d' un mese dinnanzi era morto;
e l' altro fu, siccome quì dicrino,
Feo di Messere Odaldo suo consorto;
degli Ubaldin Mainardo fue il terzo.
Non so, se 'n questo ricevevan torto;
ma io so ben, siccome quì ti sferzo,
che 'l fi' di Messer Pino fu collato
per tal cagione, e non gli parve scherzo.
E non trovandosi vero il trattato,
il Capitan per altro diè sentenza
contro a Messer Pin morto, e sotterrato,
dicendo, ch'e' sanza alcuna licenza
avea voluto Lucca comperare,
a petizion del Comun di Fiorenza,
e fecegli una sua casa disfare
in sul frascato; e gli altri fur prosciolti
con poco onor del Capitan, mi pare.
Dissesi per la Terra poi per molti,
che per invidia fu cotal partito,
e chi l' appose a' suo' consorti stolti.
E poichè 'l Capitano ebbe finito
l' uficio suo, non ci furon chiamati
più Capitan, perch'egli avea fallito.
Nel trentacinque, dopo più trattati
fatti col Veronese per Orlando
di Lucca, a nostra stanza ragionati,
ed il Mastin promettendo, e giurando,
che per gli Fiorentin tutto facea,
acciocchè avesser Lucca al lor comando,
Messer Pier Rosso, che la possedea,
se ne partì di Dicembre per certo,
perch' a Messer Mastin data l' avea,
ovver per lui a Messer Giliberto
Tedesco, il quale avea Vicario fatto
capo di cinquecento savio, e sperto.
E Messer Pier, siccom' era di patto,
prese Pontriemoli, ed altre Castella,
che gli fur concedute al primo tratto.
Ancor per tutta la detta novella
dicea Messer Mastin, che procacciato
pe' Fiorentini aveva Lucca bella;
e siccom' altre volte avea giurato
con falsità, ancor giurò, e disse,
che 'l detto suo non verrebbe fallato;
ed a Firenze falsamente scrisse,
che prima Lucca riformar volía,
e poi diríe, che 'l Fiorentin venisse.
Ma presa, ch'ebbe intera signoria,
ogni promessa fatta fece vana,
siccome traditor pien di follía,
signoreggiar credendosi Toscana;
ma la speranza gli venne fallata,
come diremo ancor, con mente sana.
Nel detto tempo essendo dibassata
la forza de' Tarlati, e 'l Perugino
la sua avendo cresciuta, ed alzata,
coll'aiuto, ch' avíe del Fiorentino,
e d' altri molti a' lor servigi accorti,
riposto, ch'ebber Montesansovino,
Arezzo corsero insino alle porti,
e fecer gran paura alla Cittade,
perocchè 'ntorno v'eran molto forti,
e rupper per più volte lor masnade:
e veggendo Cennina, e Galatrone,
de' quali Arezzo aveva libertade,
che non potieno in niuna afflizione
alcun soccorso aver dagli Aretini,
si miser quasi ch' a disperazione,
e diersi pe 'l migliore a' Fiorentini,
a' dì due di Novembre; e per cinque anni
francati fur, com' amici, e vicini;
ed ogni anno dovevan sanza inganni,
ciascun di loro un bel cero offerere
di Giugno, per la Festa a San Giovanni.
Nel predett' anno Pisa, al mio parere,
essendo stata per un grande spazio
partita, e non unita d' un volere;
che' Reggenti tenien col Conte Fazio,
l' altra parte eran sofficienti, e buoni,
fuor degli uficj, ma non fuor del dazio,
e Messer Benedetto Maccaioni,
e Messer Ceo, amendue de' Gualandi
fur Caporali in tutte le quistioni,
e con più altri Popolani, e Grandi
vollero il Conte mettere al dichíno,
sperando, che a lor Lucca gente mandi,
come trattato avea Messer Mastino,
a cui dovean poi della Cittade
conceder signoria in suo dimino;
del mese di Novembre il Potestade
rubarono, e cacciar fuor delle mura,
e rupper le prigion di volontade,
ed arser del Comune ogni scrittura,
e combatteron casa gli Anziani,
i quali allor non fur sanza paura.
E 'l Conte Fazio, e gli altri Popolani
erano in sulla piazza di San Sisto
alla difesa, con armate mani.
La parte avversa, secondoc' ho visto,
alla porta alla Piaggia si distese,
e quivi s' afforzár per altro acquisto;
cioè, d' avere il soccorso Lucchese
il quale era già giunto presso Asciano,
quando la notte al Conte fu palese.
Ed el co' suoi percosse a mano, a mano,
e cacciaron di Pisa al primo tratto
i sopraddetti colla spada in mano.
E quando i Fiorentin sentiro il fatto,
mandaron gente in aiuto del Conte:
non bisognaro; e rimandogli ratto,
e ringraziò il Comun con chiara fronte.
c. 89, argumento
Siccome furon traditi, e 'ngannati
i Fiorentin da' Tiranni Lombardi,
co' quali in prima s' eran collegati,
e con Arezzo fer guerra a diletto.
e poi del nuovo Papa Benedetto.
c. 89
Il Conte Fazio dal popol Pisano,
pochè cacciati fur tutti quelli,
che gli eran contro, si fe Capitano,
e fe disfar tutti i ben de' rubelli,
ed essi a Lucca tutti se n' andaro,
a que', che fatti lì s' avie fratelli.
Allora que' di Pisa s' afforzaro
di gente, d' arme, e d'ogni guernimento,
per far contro a' nimici buon riparo.
E seguitando il suo proponimento
di voler Pisa il Signor Veronese,
siccome pregno d'ogni mal talento,
tanto ordinò, che Spinetta Marchese
fe rubellare a' Pisan Serezzana,
e desso per Messer Mastin la prese.
Quando sentír la novella villana
il Conte Fazio, e gli altri di suo setta,
ch' avien perduta Terra sì sovrana,
contro a Messer Mastino, e Spinetta
si turbarono allora oltramisura,
e volentier n' avrien fatto vendetta;
e giorno, e notte vivieno in paura
della Città, cotal vicino avendo,
ed a tutt' ore guardavan le mura.
Nel detto tempo i Fiorentin veggendo
a' Tiranni mostrar luna per sole,
faccendo male, e bene impromettendo,
e che gli avieno tenuti in parole
d'oggi in doman tanto, che fur Signori
di Lucca, donde ancor molto mi duole,
mandarono a Verona Ambasciadori,
per saper chiaro il loro intendimento,
e se di fede egli eran mancatori.
E poichè fur con loro a parlamento,
e con gli altri Legati a questi fatti,
domandár Lucca con molto ardimento,
mostrando lor, com' egli era ne' patti
della lor lega, e poi continuando,
si vedevan trattar siccome matti.
E poi Messer Mastin fece ad Orlando
co' Fiorentini di Lucca trattare,
gran quantità di danar domandando;
perchè costava, ed era per costare,
volendo pace aver col Re Giovanni,
ch' offeso si tenea di quello affare.
Gli Ambasciadori scrisser, che' Tiranni
mancavan lor di tutte lor promesse,
e' danar, che chiedien sopra gl' inganni.
Quinci risposto fu, se non vi avesse
altro rimedio, ch'e' fossero attenti
a patteggiare il me', che si potesse.
I quali dopo più ragionamenti,
Messer Mastino, e Messere Alberto
della profferta furo assai contenti,
dovendo in alcun termine aperto
aver trecento sessanta migliaia
di fiorin d'or da' Fiorentin per certo.
E nota, e maraviglia non ti paia,
che Lucca aver si potè ne' passati
per men, che 'l terzo, per altra callaia.
Non volle Iddio, per purgare i peccati
de' Fiorentini, e Lombardi, e Lucchesi;
ma pochè i danar furo apparecchiati,
que' della Scala, traditor palesi,
per lo consiglio di quel di Melano,
e di molti altri contro a noi accesi,
che mostrár lor, ch'e' potean di piano
acquistar di Bologna signoria,
poichè fuor n' era il Cardinal sovrano,
ed avendo Bologna in lor balía,
leggier cosa era poi aver Fiorenza,
e quella avendo, era fatta la via;
che Terra poi non faria resistenza,
perchè quest' era pur la più sovrana
di tutta Italia, e di maggior potenza;
e ch'el sarebbe Signor di Toscana,
parendo loro averla già in dimíno,
de' Fiorentin per la speranza vana;
dicendo loro il giovane Mastino
ambizioso, pien di fellonia,
qual non volea nè pari, nè vicino,
credendosi Toscana, e Lombardia
signoreggiar, come colui, che vede
di lungi il porto, dove andar disia,
non riguardando promessa, nè fede,
ma con parole faccendo ripari,
verso gli Ambasciador così procede:
Se voi volete Lucca, amici cari,
come la vista infino a quì dimostra,
e voi l' avrete, ma non per danari.
Ma noi voglian, che colla forza vostra
siate con noi ad acquistar Bologna,
e noi vi daren Lucca, ch' è ora nostra.
Veggendo i Fiorentin tanta menzogna
regnare in que' Tiranni Veronesi,
e che per loro ogni cosa s' agogna,
diliberaro ne' consigli palesi,
di lasciar Lucca prima, e poi Fiorenza,
ch'esser volesse contro a' Bolognesi;
alla 'mbasceria scrisser, che 'n presenza
de' Signor della Scala protestasse,
com' e' facean contro a lor sentenza:
e fatto questo subito voltasse.
Così fero, dicendo: Maraviglia
non ve ne fate, s' altro ne 'ncontrasse.
Ma non fur dilungati molte miglia
dal Veronese, che 'l detto Tiranno
mandò sua gente con irate ciglia
in su quel di Firenze, con inganno,
senza richiesta, ovvero sfidamento,
con ferro, e fuoco, faccendo ogni danno,
e in Valdinievole dier tal tormento;
dall'altra parte così danneggiaro
il Modonese, che n' avia pavento.
Gli Ambasciadori a Firenze tornaro
del mese di Febbraio, e rapportato
ch'ebber, come i Tiranni gli trattaro,
il Comun di Firenze fu crucciato,
ed ordinár, che con ambo le mani
Messer Mastino fosse guerreggiato.
E 'ncontanente fer sei Terrazzani,
ch'ebbon piena balía sopra la guerra,
e fur due Grandi, e quattro Popolani.
Quattordici trovar, se 'l dir non erra,
ch' ebbono a trovar modo, che 'n comune
danar venisser da que' della Terra.
E così tutti tiraro a una fune,
dicendo: Mettasi avere, e persona,
se riparar vogliamo alle fortune.
Perocchè detto avea quel di Verona,
che in sul Maggio, chiar, come cristallo,
ci verrebbe a veder, come quì suona,
con quattromila uomini a cavallo,
abbatterebbe l' argoglio Reale,
e 'l Fiorentino sanza niun fallo.
E ben potea far questo, e maggior male,
perchè signoreggiava sua potenza
dieci Città colla sua principale,
Verona, Brescia, Padova, Vicenza,
Trevigi, Feltro, Civita, e poi
Modona, Parma, e Lucca a ubbidenza;
sicch'egli avea di rendita da' suoi
settecento migliai' di fiorin d'oro
ogni anno, e più, com' avvisar ti puoi.
Non fa di quíe a gran pezzo dimoro
niun Signore, per quel ch'io abbia udito,
ch' abbia d' entrata ogni anno tal tesoro.
Sicchè a' Fiorentini era aspro partito,
ricominciando guerra, essendo stanchi
del giuoco, che non era ancor finito;
ma nondimen d' un voler, come franchi,
e vertudiosi si recaro a mente
que', che stat' eran lor di fede manchi;
ed in un punto fero tanta gente,
ched infino a Verona cavalcaro,
guastando il suo Contado fieramente.
Quivi co' lor danar tanto ordinaro,
che facien colla Chiesa i Modonesi
rubellar poi, se non fosse il riparo,
che fer contra ciò i Bolognesi;
conciossiacosachè secondo il patto
Modona doveva esser de' Marchesi.
E' Fiorentin si dolsero a quel tratto
de' Signor della Scala, che in aperto
gli avien traditi, e 'ngannati in ogni atto,
e nuova lega fer col Re Uberto,
e con altri Signori Italiani,
per dibassare il Mastino, ed Alberto.
Nel detto tempo ancora i Colligiani,
compiendo il tempo, od era per compiere,
che fatto avieno i Fiorentin sovrani,
da capo, come fu di lor piacere,
per tre anni diè lor la libertade
maggior, che non avieno, al mio parere;
e' Fiorentin, per maggior sicurtade,
di lor voler vi fero a mano, a mano
una Rocca, pagando per metade
la spesa d' essa; ed anche il Castellano,
con certi fanti per lo modo detto
furon pagati di queto, e di piano.
Nel predett' anno Papa Benedetto
più Concestori avea fatti in Vignone,
con più Maestri di grande intelletto,
per voler dichiarar l' oppenione,
se poi 'l Giudicio lo spirito gaio
crescerà gloria, o no, come si pone;
ed a' dì ventinove di Gennaio,
in Concestoro fu determinata,
e dichiarato ogni dubbio primaio;
cioè, che tutta la gente beata,
hanno compiuta grolia, e perfetta,
e' Santi in vita eterna ogni fiata
veggion la Trinitade benedetta,
e che dopo il Giudicio sia stensiva
al corpo, e all'anima la gloria detta;
ma che non cresca all' anima sensiva
più, che si fosse prima certamente
nell'anime beate; e perchè viva
cotal sentenza, ordinò di presente,
che chi altro credesse, fosse eretico,
e in tutto fuor della Cristiana gente.
Ma per lo meglio, usciam di tal farnetico,
che volendo altro dirne, non saprei,
e ritorniam dov' io sento il solletico.
Nel mille poi trecento trentasei,
a mezzo April, sentendo il Fiorentino,
stando in guardia de' nemici rei,
che Messer Pier de' Tarlati Aretino,
per far guerra a Perugia, ed a Fiorenza,
trattava lega con Messer Mastino,
diliberar con tutta lor potenza
aperta guerra fare alla Cittade
d' Arezzo, e darle grieve penitenza,
e 'ncontanente romper fer le strade.
Chi disse allor ch' avam rotta la pace,
e chi il contradio, e fu più veritade;
considerando, quanto fu fallace,
quando a Castruccio prima diede aiuto
contra di noi, come quì non si tace,
e nuovamente, siccom' hai saputo,
volíe far lega con quel della Scala,
sempre nimico di Firenze issuto.
Ma quando i Fiorentini stender l' ala
vider de' suoi sanza misericordia
verso di lor, la paura non cala;
e falsamente cercaron concordia
con Firenze, e Perugia, e finalmente
fur conosciuti, e crebbe la discordia;
perchè aspettavan da Verona gente,
della qual già eran giunti in Romagna
ottocento a caval subitamente.
E' Fiorentin sentendo tal compagna,
fer con gli amici, che milledugento
ve ne mandaro di que' della Magna.
Ed ogni passo, secondoch'i' sento
tennero a quella gente tutta state,
ne provar di passare ebbe ardimento.
E mentrechè le vie eran serrate
a' Cavalier del Mastin traditore,
com' hai inteso sotto brevitade,
e 'l popol di Firenze con valore,
dì tre di Luglio, ciò dicon le carte,
a Arezzo cavalcò con gran furore,
e' Perugini fur dall'altra parte;
poi s' accozzaron, per esser più forti,
e cominciaron della guerra l' arte.
A danneggiar fur d' un volere accorti,
sicchè d' intorno Arezzo fer ghirlanda,
col fuoco ardendo infin presso alle porti,
rubando, divampando d'ogni banda,
menandone pregioni, e roba assai,
come richiede la guerra, e comanda;
e quivi si fermár, com' udit' hai,
presso alla Terra, e 'nfinchè non fu guasto
da ogni parte, non si partiron mai.
Ma poich'egli ebber ben carico il basto
agli Aretini, a' dì otto d' Agosto
si dipartiron sanza alcun contasto,
ed a Firenze si tornaron tosto,
cantando ciaschedun col viso lieto;
e quì da' fatti d' Arezzo mi scosto.
Nel detto tempo i Guelfi di Spoleto,
coll'aiuto de' Guelfi Perugini,
che alla richiesta lor non fer divieto,
cacciaron della Terra i Ghibellini,
ed essi Guelfi rimaser contenti:
basti di loro, e torno a' Fiorentini.
Nel detto tempo i nostri Reggenti
pensando, ch' avien fatta l' alta impresa
contro a' Signor della Scala possenti,
e non vedendo da far loro offesa,
se non a Lucca (e quest' era tal serra,
che ci gittava gran periglio, e spesa),
cercár de' modi da levar la guerra
di queste parti, e di mandar gli affanni
in Lombardia, se 'l Libro non erra.
E sopr' a ciò tentár molti Tiranni;
ma niun volle appiccare il sonaglio,
temendo a se non raddoppiare i danni.
Sentendo i nostri, ch'erano in travaglio
que' della Scala contro al Viniziano,
che non gli avea a capitale un aglio,
a Vinegia mandaro a mano, a mano
Ambasciadori, i quali trasser lega
da loro a noi di queto, e di piano.
E 'l Dugi di Vinegia già non niega
cotale accordo; ma benignamente
a contentar gli Ambasciador si piega.
E stringendosi insieme al convenente
ciascuno disse quivi suo volere,
ed ordinaro i danari, e la gente;
ch' ognun dovesse metter per dovere
a distruzion di quel crudel Tiranno,
come più innanzi ancor potrai vedere.
Ma perchè gli altri Capitoli fanno
a' cento capoversi finimento,
ed io non voglio guastar l' ordin, c' hanno,
considerando, ch'i' son giunto a cento,
farò quì fine, per posarmi alquanto;
e se de' patti vogli esser contento,
fa, che tu legga nel seguente Canto.
c. 90, argumento
Come il Comun di Firenze fe lega
co' Vinizian contro a Messer Mastino,
nè curò spesa, per metterlo in piega,
e se a' Fiorentin fe villania,
la comperò infino in Lombardia.
c. 90
A voler seguitar quel ch' è narrato
nell'altro Canto, della lega egregia,
mi convien dir, come stette il mercato.
La lega fu confermata in Vinegia
con gl' infrascritti patti, che contare
udrai leggendo, ove la penna fregia.
In prima, ch'ella dovesse durare
da San Michele di Settembre a un anno,
e di presente si dovesse fare
per Firenze, e Vinegia sanza inganno
domila Cavalieri, ed altrettanti
franchi pedoni a sofferir l' affanno,
che guerreggiasser Trevigiana avanti,
e se maggior quantità bisognasse,
soldar potesson Cavalieri, e fanti;
e che un buon Capitano si chiamasse,
che seco avesse
due Cittadin, con cui si consigliasse;
ed ogni spesa, che 'n ciò si facesse
fosse comune, e detti Consiglieri
potieno ognora, ched a lor paresse,
crescere, e scemar fanti, e Cavalieri,
e spendere ogni grande quantitade
in ciò, ch' a lor paresse di mestieri;
rubellar fare o Castella, o Cittade,
che sottoposta fosse, de' sapere,
a que' Tiranni pien di crudeltade.
E ciaschedun Comune a suo piacere
tener potea pe' patti palesi
nell' oste sopraddetta due bandiere.
Dovien dinnanzi alla fine tre mesi
i detti quattro insieme ragionare,
e partito pigliar de' fatti impresi;
e potean la lega prolungare
sanza consiglio d' altri di lor Terra,
e 'n tutto ancor la potieno annullare.
A Lucca i Fiorentin dovien far guerra,
e poi a Parma, se quella s' aveva,
dovea l' oste andar, se 'l dir non erra.
Alcun di detti Comun non doveva
far pace, o guerra sanza coscienza
dell'altro, e 'n grieve pena si correva.
Ferma la detta lega per Fiorenza,
e per Vinegia, il medesimo giorno
bandita fu con molta diligenza
con sì gran festa, e modo tanto adorno
da ciascheduna parte, ch'hai compresa,
che dir non si potrebbe sanza scorno.
E fu ragion, perchè sì alta impresa
non si fe mai per alcun Taliano,
come fu questa, se l' hai bene intesa.
Perocchè mai il Comun Viniziano
non avie lega fatta veramente,
da questa addietro, con alcun Cristiano,
salvochè una volta anticamente
per lo conquisto, ov'e' fur paladini
in Romania, ed anche maggiormente
gran fatto fu, perch'eran Ghibellini,
e fersi a' Ghibellini aspri nimici,
favoreggiando i Guelfi Fiorentini;
e non avien cagion d' essere amici
de' Fiorentin; perch'e' fur colla Chiesa,
quando a Ferrara andaro alle pendici.
Ma piacque a Dio, che per nostra difesa
queste due parti si facessero una,
perchè abbattesser la superbia accesa
delli detti Signor, che per fortuna
erano indegnamente sormontati,
nè credieno aver par sotto la luna,
e come molto sconoscenti, e 'ngrati
a Dio, e poi alle genti del mondo,
i sacramenti avean dispregiati.
Piuvicata la lega, il dì secondo
i Viniziani dal lor lato ordinaro
ciò, ch' avieno a portar di cotal pondo.
E' Fiorentini elessero, e chiamaro
dieci valenti Cittadini, e chiari,
con balía piena, sanza alcun riparo,
ch' avieno a trovar modo, che danari
venissono in comune ad ogni patto,
per guerreggiare li detti avversari;
ed assegnaron loro innanzi tratto
fiorin dugento sessanta migliaia
sulle gabelle ogni anno a questo fatto.
E i detti dieci, acciocchè ben si paia
la possa di Firenze, e di contanti
fosse la gente pagata in sull' aia,
appiccár questo carco a' Mercatanti;
de' qua' fu il detto Autore, che la vita
ci avrebbe messa in fatti, ed in sembianti.
Tra' Mercatanti fu la cosa ordita
per modo, che danar, nè vettuaglia
mancar potie insino a guerra finita;
ed ordinaron tra loro una taglia
d' accattar centomila fiorin d'oro,
de' qua' per dare agli altri men travaglia,
la terza parte si poser tra loro,
e le due parti sopra le ricchezze
della Città poson sanza dimoro.
E perchè no 'l tenessero a gravezze,
gli assegnar loro sopra le gabelle
del Comun nostro, e poi per più certezze,
e perchè non dubbiasser di cavelle,
i detti Mercatanti promettieno
di pagare essi, non pagando quelle;
e que', che sopra se prestar volieno,
aver dovesser per lor guiderdone
per centinaio l' an quindici almeno,
nè tenuti erano a restituzione,
perch'era consigliato primamente
per gran Maestri di religione,
che sì li potien tor lecitamente,
benchè le cose ancor paresser brune,
perchè più oltre non vedea la gente.
Chi non volesse credere al Comune,
da' detti Mercatanti avía la scritta,
ma non tirava a più d'otto la fune;
e chi facea la scrittura diritta,
cinque per centinai' di tal fidanza
ricevie dal Comun, come quì ditta.
E chi avea della detta prestanza,
e fossegli impossibile il prestare,
perchè avesse di mobile mancanza,
trovava chi per lui volea pagare,
alcun vantaggio ricevendo pria,
per lui pagava, e facealo acconciare.
E 'n questo modo il fatto si fornia,
nè mancavan danari a' Fiorentini,
ma prestamente n' avien tuttavia.
Spesi ch' avien centomila fiorini,
per simil modo facieno ogni mese,
ed a Vinegia a' nostri Cittadini
eran mandati, per fornir le spese,
ed eranvi du' altri Ambasciadori
sempre col Doge in segreto, e 'n palese;
l' un Cavaliere, e l' altro de' migliori
Giudici, che avesse questa Terra,
con senno eletti pe' nostri Priori.
A dar consiglio, ed ordine alla guerra
ancor du' altri savj Cavalieri
stavan col Capitan sempre alla serra
nell' oste appresso lui per Consiglieri;
e per gli Viniziani similmente
posti eran certi a sì fatti mestieri.
Dato l' ordin del modo di presente,
di Romagna v' andaron, se ben guardi,
secento Cavalier di nostra gente.
Messer Gerozzo Fiorentin de' Bardi,
che nomar si potea tra' savj, e buoni,
fu Capitan di Cavalier gagliardi.
Di Firenze v' andar mille pedoni
vestiti a bianco, col Giglio vermiglio,
e con Sa' Marco, e così ne' pennoni.
Ed in Vinegia con savio consiglio
pe' Fiorentini, e per gli Viniziani
a soldar gente assai si diè di piglio;
e mille cinquecento Oltramontani
bene a cavallo allora ebber soldati,
e dimolti pedoni Italiani;
e 'n sulla Trevigiana cavalcati
la guerra cominciár, faccendo il peggio,
che far potien contro a' Tiranni ingrati.
Prima, che giunta fosse, se ben veggio,
la nostra gente nel detto paese,
si rubellò il Castello d' Aureggio
dal Signor della Scala Veronese.
Quel da Camin gli fece ta' servigj;
ma poco il tenne, posciach'egli il prese,
perchè Messer Alberto da Trevigi
subitamente vi fu cavalcato,
dicendo: E' converrà, che tu svaligi.
E dievvi la battaglia d'ogni lato
per modo tal, che dopo molto affanno
il detto Castello ebbe racquistato,
non senza gran pregiudicio, nè danno
di color, che gli avien le mura rotte,
e tolto il detto Castel per inganno.
Nel detto tempo, di Luglio, di notte
di Buggian gente di Messer Mastino
uscì, volendo rimetter le dotte;
ed a Cerreto Guidi Fiorentino
venner, faccendo gran danno d' arsione:
presero i Borghi, e miserlo al dichíno.
Poi quando parve lor tempo, e stagione,
gran preda ne menar con festa, e gioia
sanza contasto alcuno; e la cagione
fu, che la gente nostra era in Pistoia
per la festa Sa' Iacopo, e temenza
avevan di ricever maggior noia:
perch'era allor Pistoia di Fiorenza,
e' Fiorentin n' avean gran gelosia,
però guardavan con gran provvedenza.
E bisognava bene in fede mia,
perchè de' Terrazzan poca fidanza
si potia aver, come di gente ria.
Appresso, per la mala vicinanza,
ch' avien di Lucca, ove coll' arco teso
stava il Tiranno colla gran possanza;
e, per quel, che mi paia aver compreso,
questi trattati aveva più di mille,
ed in più Terre aveva il fuoco acceso.
Se quivi entrate fosser sue faville,
potevan ben po' dir nostri Reggenti,
che mala serpe fosse tra l' anguille.
Appresso poi a' cinque dì seguenti,
che da Cerreto Guidi eran partiti,
venner, per raddoppiar nostri tormenti
da ottocento Cavalieri arditi,
con molti fanti a piè gagliardi, e chiari,
e Ghibellin di Guelfe Terre usciti;
de' qua' fu Capitan Ciupo Scolari,
della Città di Firenze rubello,
seguitato da più nostri avversari;
e gli usciti di Lucca fur con ello,
e passar l' Arno, e 'l Borgo a Santa Fiore
guastarol tutto, ch'era molto bello.
E dimolt' altre Ville con furore
rubarono, e guastaron crudelmente,
sanza misericordia, e sanza amore.
Non mostra, ch' allor Ciupo avesse a mente,
che in San Giovanni fosse battezzato,
nè che in Firenze avesse di sua gente;
ma siccome nemico dispietato
fece ardere, e rubare il monte, e 'l piano,
infin presso al Castel di Sanminiato,
ed albergar due notti a Martignano;
onde la gente d' Empoli fu presta,
e dell'altre Castella a mano, a mano
Valdarno, e Valdinievole non resta;
ma tutti d' un voler corsero a' passi,
com' avuto ebber la prima richiesta.
E ciò sentendo i nimici lassi,
non essendo forniti a vittuaglia,
incominciaro a rallargare i passi;
e per fuggir del tutto ogni battaglia,
a' dì sette d' Agosto si partiro
quasichè rotti, e non sanza travaglia,
passando a Santa Gonda con sospiro.
Per la paura de' Sanminiatesi,
ch'erano stesi a' passi, non ardiro
di metter fuoco, e molti morti, e presi
rimaser di dolor senza riparo;
ed oltre a questo allor, se ben compresi,
fuggendo per campar ne trafelaro
di loro assai in sulla camminata,
ed in Gusciana molti n' annegaro.
E se la gente nostra fosse stata
di cavalcar più sollecita, allotta
non sarebbe di lor testa campata;
perocchè fatto avien mala condotta,
ed eransi già messi in luogo, e 'n parte
da essere assaliti in poca dotta;
ma erano a periglio (abbi per carte)
le Terre non murate del paese,
se Ciupo avesse seguitata l' arte;
spezialmente (ti dico palese)
che 'n Creti, ed in Valdarno n' avie assai,
che non avrien potuto far difese,
nè senza lor molti tormenti, e guai
avrebbono accettata quella gente,
che di mal far non si saziava mai.
Onde il nostro Comun discretamente,
considerando le cose avvenute,
provvide a riparare incontanente,
e parte delle mura, che cadute
ad Empoli eran per diluvio d' Arno,
siccome fa chi poscia l' ha vedute,
compiutamente, e ben si racconciarno
sì, che volendo i nemici tornare,
sarebber poscia cavalcati indarno.
E fessi allora compier di murare
il Borgo a Montelupo molto forte,
e come bisogno era imbertescare
sì, che di guerra non temeva sorte;
ma di notte, e di dì sicuro, e lieto
potea ciascuno star dentro alle porte.
Similemente il Borgo di Cerreto
in brieve fu rifatto per ragione.
perchè di lor voler si fe dicreto,
che' Cerretani alcuna esenzione,
ovver franchigia avesser di gabelle
per certo tempo, che quì non si pone;
ed e' dovien rifar le mura belle
a certo tempo, ad ogni loro spesa;
e così fer dopo molte novelle.
Appresso per cagion di quella offesa,
che ci fe Ciupo alla nemica setta,
che fu con lui a così fatta impresa,
volendo della 'ngiuria far vendetta,
ed osservar quel, che s' era promesso
de' patti della lega innanzi detta;
cioè, che cavalcar dovieno adesso
in quel di Lucca sanza niun fallo
i Fiorentin; per la qual cosa appresso
dimolta gente a piede, ed a cavallo
soldaro, e raunar, volendo fare,
come dett'è, d' intorno a Lucca il ballo.
Mancaci quì la Prosa per rimare;
ma se Villan, figliuol dell' Autore
vorrà, potremo ancora seguitare;
se non vorrà, mi scuso a te, Lettore.
c. 91, argumento
L' ultimo Canto dice, come stava
Firenze, quando fine il dicitore
fece al presente Libro, ch'e' rimava,
e le Schiatte, da cui era abitata,
e com' ell' era in pregio sormontata.
c. 91
Settantatrè mille trecen correndo
mi veggio vecchio, e non mi dice il core
poter più oltre seguitar volendo.
Lasciando adunque il dir dell' Autore
ad altro di maggior sofficienza,
mi parrebbe commetter grande errore,
s'io non dicessi della mia Fiorenza
alcuna cosa, come situata,
ed adorna la veggio in mia presenza;
perchè alla gente, ch' ancor non è nata
memoria sia, ed a que', che non sanno,
com' ell' è bella, e 'n pregio sormontata.
E ciò si vede per gli stati, c' hanno
racconto i versi miei del tempo antico,
nel qual si fe memoria del suo affanno.
Secondo il mio parer, comincio, e dico,
che le tre parti di Firenze è posta
in piano, allato all' Arno, e come a bico.
L' altro quartier di là dal fiume sosta,
e quasi inver Levante alza le fronti,
perocchè 'n parte piglia della costa.
E 'n sopra 'l detto fiume ha quattro ponti
bellissimi di pietra, e di calcina,
con altri adornamenti non quì conti.
Appresso ha del Comun belle mulina,
onde non ha temenza, che per guerra
poss' essere assediata di farina.
Le mura poi, che cerchian questa Terra
hanno tre braccia, e mezzo di grossezza,
di sopra, dico, e quattro, e più sotterra.
E dal lato di fuori hanno d' altezza
ben trenta braccia di buona misura,
col barbacan, ch' è fatto per fortezza,
ed infra 'l cerchio delle belle mura
tredici porti son, braccia settanta
alta ciascuna, e venti di largura.
Le Torri, che l' adornan son sessanta,
colla grossezza ognuna, che l' è tocca,
e ciascun' alta il men braccia quaranta.
E li fossi di fuor son larghi in bocca
ben venticinque braccia colla sponda,
che 'l terren della via sostiene in cocca.
Sedici braccia poi la via seconda,
con termini, che mostran veritade,
perchè il terren comun non si nasconda.
Quindicimilia braccia la Cittade
gira d' intorno, e non è maraviglia,
contando il fiume nella quantitade.
Se alcun dice, che gira cinque miglia,
ch' è per misura anticamente usata,
tremila braccia per miglio si piglia.
Firenze è dentro tutta lastricata,
e fra l' altre ha due vie, che stanno in croce,
che ti dimostran, quant'è lunga, e lata.
L' una si muove alla Porta alla Croce,
ch' è dal Levante, e poi verso 'l Ponente
alla Porta del Prato è l' altra foce.
Dall' una all'altra andando rittamente
ha quattromilia settecento braccia:
Mercato vecchio è il mezzo veramente.
E misurar volendo l' altra faccia
dalla Porta a San Gal, ch' è a Tramontana,
ed al diritto seguitar la traccia
infino al sito di Porta Romana,
la qual si chiama San Pier Gattolino,
e tiene in mezzo l' Arte della lana,
son cinquemilia braccia di cammino:
deh come naturalmente comprese
qualunque fu quel caro Cittadino!
Appresso ha dentro più di cento Chiese,
sanza contar gli Spedali, ch' a onore
di Dio son fatte tutte queste spese.
Lascio dell'altre, e vo' della Maggiore
alquanto, dir di Santa Reparata,
o vogliam dir Santa Maria del Fiore.
S' ella si compie, com' è stanziata,
sì bella Chiesa non fu già mill'anni,
come fia questa, nè sì adornata.
Appresso questa si è San Giovanni,
ch' a tutto 'l mondo debb' esser notorio,
ch' ogni altro Tempio avanza senza inganni.
Di nostra Donna ci è poi l' Oratorio,
che costa più, che non vale un Castello,
qualunque ci è di maggior tenitoro.
Ecci il Palagio de' Signor sì bello,
che chi cercasse tutto l' universo,
non credo, ch'e' trovasse par di quello.
Cercando la Città per ogni verso,
è piena di palagi, e di giardini,
più bello l' un, che l' altro, e più diverso.
E più di ventimila Cittadini
dentro ci son tra Grandi, e Popolari,
lasciando star da parte i Contadini.
E questi sono i Casati più cari:
ciò sono i Bardi, Rossi, e Frescobaldi,
e Cavicciuli insieme, ed Adimari,
e Pulci, Gherardini arditi, e baldi,
Tornaquinci, Bisdomini, e Donati,
e Cavalcanti, e Buondelmonti caldi,
Cerchi, e Nerli, Pazzi, e Giandonati,
Uberti, Abati, Amidei, e Lamberti
ancor ci son, benchè sieno scemati.
Bostichi, Berlinghieri savj, e sperti,
Franzesi, Brunelleschi; ed or di quelli,
che son di popol, ti conterò certi.
Albizzi, Ricci, Strozzi, e Baroncelli,
Medici, Alberti, altoviti, e Guasconi,
Vettori, Castellani, e Rondinelli,
Peruzzi, Giugni, Bastari, e Covoni,
E Salviati, Mancini, e Magalotti,
Oricellai, Beccanugi, e Bordoni,
Sacchetti, Pigli, Serragli, e Biliotti,
E Soderini, e Mozzi, e Quaratesi,
Ridolfi, Pitti, Pepi, e Pegolotti,
Que' da Panzano, Davizi, e Bagnesi,
Boscoli, Risaliti, e Rinuccini,
Ricoveri, Acciaiuoli, ed Antellesi,
E Gianfigliazzi, Cocchi, e Scali, e Spini,
Baldovinetti, Bucelli, e Barrucci,
Cerderni, Macchiavelli, e Guicciardini,
Agli, Vecchietti, ed Asini, e Ferrucci,
E Ramaglianti, Magli, e Canigiani,
E Bonaccorsi, Velluti, e Rinucci,
Aldobrandin, Bombeni, e Raffacani,
Razzanti, Filicaia, e Manovelli,
Ed Attavanti, ed Ughi, e Cerretani,
Guadagni, Lupecani, e Boverelli,
Busini, Siminetti, e Sassolini,
Manetti, Lanfredini, e Belfredelli,
Aglioni, e Sirigatti, e Valorini,
Que' da Strada, Marsili, e Tigliamochi,
E Marignolli, Fagiuoli, e Benini,
E Passavanti, Usimbardi, e Giuochi,
E Compiobbesi, Corsi, ed Aldighieri,
E Macci, Foraboschi, e Cigliamochi,
E Soldanier, Pretasini, e Manieri,
Duranti, Rocchi, Armati, e Scodellari,
Malegonnelle, Mangioni, ed Amieri,
Marchi, Magaldi, Erri, e Giambollari,
E Biffoli, Carucci, ed Avviati,
Guidalotti, Ammoniti, e Portinari,
Manfredi, Michi, Figliuopetri, e Zati,
Arnolfi, Guidi, Orlandi, e Corsini,
E que' da Castiglionchio, ed Infangati,
Girolami, Brancacci, e Ferrantini,
Ed Arrigucci, Bonarli, e Viviani,
Ed Ardinghelli, Ardinghi, e Tolosini,
E Falconier, Pallarcioni, e Villani,
E Caponsacchi, Guardi, e Salterelli,
Ed Orlandini, Arcagnoli, e Soldani,
Benizi, Botticini, e Cafferelli,
E Corbizi, Bellandi, e Riccomanni,
Ciuffagni, Vai, Gattoli, e Carcherelli,
Angiolini, Uganelli, e Figiovanni,
Bianciardi, ed Ammirati, e Tedaldini,
Sigoli, Sannambenci, ed Alamanni,
E Falconi, Sassetti, e Porcellini,
Que' da Sommaia, Chiarmontesi, e Baldi,
Baronci, Cosi, Alfieri, e Cornacchini,
Aliotti, Bellincion, Casi, e Tedaldi,
Lottini, e Borsi, e poi que' da Rabatta,
Que' della Casa, Mazzinghi, e Monaldi,
Bonciani, Ardinghi, e di più non si tratta,
perch' al presente non ebbi notizia,
bastinti que', de' qua' memoria è fatta.
Firenze governa oggi sua grandizia
per otto Popolan, che son Priori,
ed un Gonfalonier della Giustizia;
de' qua' son due Artefici minori,
che per due mesi han del Comun pensieri
nel Palagio maggior, come Signori.
E dodici altri son lor Consiglieri,
il cui uficio per tre mesi dura,
e sedici son poi i Gonfalonieri,
che duran quattro mesi per misura,
e quel, ch' è per costor diliberato,
per due Consigli ancora si proccura.
L' uno è Consiglio del Popol chiamato,
che son dugento, e delle ventun' Arte
convien, che v' abbia d'ogni Consolato,
e Capitani della Guelfa parte:
e per non voler far le cose brune,
quel, che si vince quì per le due parte,
appresso va al Consiglio del Comune,
che son dugento, Popolani, e Grandi,
e 'n simil modo tirando una fune,
convien, che poi a secuzione il mandi
Podestà, Capitano, e Asseguitore,
quando per gli Signor ciò si comandi.
E niuno Grande può esser Priore,
dodici ancora, nè Gonfaloniere;
d'ogni altro uficio han parte dell' onore.
Nè Ghibellino alcun, nè forestiere,
(secondochè per legge par, che sia)
cittadinesco uficio puote avere.
Firenze è Terra di mercatanzia,
ed ecci ogni Arte; pognan, che ventuna
son quelle, ch'hanno del Comun balía.
Le qua' ti conterò ad una, ad una,
e chiaramente poi conoscerai,
che par Città non è sotto la luna.
La prima è di Giudici, e Notai,
e la seconda sono i Fondachieri
di Calimala, siccom' udit' hai.
La terza, Cambiatori, e Monetieri,
che risedenti a i loro banchi stanno,
cambiando lor pecunia volentieri.
La quarta è Lana, come molti sanno,
che molta gente pasce tuttavia,
e fa ben trentamilia panni l' anno.
La quinta si è Porta Santa Maria
di Setaiuoli, e di molti altri, i quali
legati son con loro in compagnia.
La sesta sono Medici, e Speziali,
e Dipintori, e di più altri assai,
ched in quest' Arte son con loro iguali.
La settima Vaiai, e Pellicciai;
l' ottava son Beccai; e poi la nona
sanza compagna sono i Calzolai.
La decima de' Fabbri grossi suona,
l' undeci Rigattieri, e Panni lini,
ch' è 'nsieme un' Arte con lor, si ragiona.
Maestri della pietra Cittadini
ch' a' Fornaciai s' accostan di leggieri,
dodecim' Arte son tra' Fiorentini.
La terzadecima è de' Vinattieri,
che vendon vin, che ne berrebbon gli Agnoli,
l' altra gli Albergator de' Forestieri.
Quindecima, sono i Pizzicagnoli,
la sedecima sono i Galigai,
che sentir fan da lungi i lor rigagnoli.
Seguitan poi Corazzai, e Spadai.
Della diciottesima son figliuoli,
con altri membri insieme, i Coreggiai.
Diciannovesima sono i Chiavaiuoli,
con Calderai, ed altri lor mestieri;
e ventesima sono i Legnaiuoli.
L' ultima son Fornai, e Panattieri;
e ciascun' Arte di queste è reggente,
sicchè il governo è quasi degli Artieri.
Questa Città è ricca, e sofficiente
d' avere, e di persone, e di sapere,
e delle ingiurie molto sofferente.
Ma quand' ella dimostra suo potere,
non ha Città d' intorno a più giornate,
che la sua forza non faccia temere.
Quando alle spese le mancan l' entrate,
ed ella accatta da' suo' Fiorentini,
e le prestanze assegna meritate,
e impon cinquanta migliai' di fiorini,
tre per miglia' di ciò, c' ha di valsente,
benchè si stenda a' più bassi vicini.
E chi n' ha due, o men, sicuramente
può venti soldi per fiorin pagare,
ed assegnato non glien' è niente.
Di maggior somma chi non vuol prestare,
truova chi presta con allegra fronte
per certo prezzo, e faglisi assegnare.
E se de' creditori è grande il Monte,
non ti maravigliar, che molto avanza
l' onor, che vendicate son più onte.
E quasi d'ogni mese una prestanza
abbiamo avuta, e ciascuna è riscossa
abilemente; e sappi per certanza,
ched aspramente Firenze percossa
fu pe 'l diluvio, e più bella, che prima
oggi è rifatta, e cresciuta la possa.
Sicchè le spese grandi sanza stima,
che secondo i bisogni son portate,
del Monte han fatto più crescer la cima.
E come che le cose sieno andate,
co' danar nostri più Città d' intorno
abbiam con noi insieme rifrancate.
E 'l nostro Comune è, di pregio adorno,
nella sua libertà rimaso al fine,
ed è per sormontar di giorno in giorno.
E dico, se le donne Fiorentine
portar potesser quì le gioie loro,
che in Firenze averie mille Reine
incoronate d' ariento, e d'oro,
con tante perle, e con tanto ornamento,
che veramente vagliono un tesoro.
Ben fe chi la chiamò quinto elimento,
ed io, per grazia del Signor verace,
non ne fu' mai, com' oggi son, contento.
Perch'io la veggio riposata in pace,
e veggiole recate al suo mulino
dimolte Terre, onde molto mi piace.
Veggiole sotto in parte il Casentino,
e del Valdarno di sopra, e di sotto,
e di Val d' Elsa più Terre in dimino;
agli Ubaldini tolto ogni ridotto
dell' Alpe, del podere, e d'ogni lato,
ed in più parti, di che non fo motto.
Non tacerei del bel Castel di Prato,
Volterra, Valdinievole, e Pistoia,
e 'ntera signoria di Sanminiato.
E veggio Pisa, con Firenze in gioia,
e Lucca a parte Guelfa; laond' io
poco mi curo omai, perch'io mi muoia,
poich' acquistato è tanto al tempo mio.
son. finale, titoloSonetto fatto sopra la presente Scrittura.
son. finaleSavio Lettore, quand'io cominciai
il presente volume, i' mi credetti
al fin corregger tutt'i suoi difetti,
che certo son, che ce ne sono assai.
Ma perchè vecchio, e stanco mi trovai,
dissi, come Pilato a' maladetti:
Quod scripsi, scripsi, lasciando incorretti
i versi miei, nè gli rividi mai,
sperando, che pe' savj con disio
corretta fosse ciascheduna parte,
quando vedesson quello, che non vid' io.
E però tu, che leggi queste carte,
pregato se' dalla parte di Dio
adoperarvi tuo ingegno, ed arte;
perchè da me si parte,
ed è partita già sia la memoria,
che non ha luogo in così fatta Storia.