L. 1, 1.1
O sorelle etc. Nel principio del suo
libro fa l'autore, secondo
l'antico costume de' componitori, una sua invocazione, e chiama le
Muse in suo aiuto alla presente opera; e chiamale «
sorelle» perciò
che furono nove, tutte figliuole di Giove e d'una che si chiamò Memoria,
secondo che i poeti scrivon «castalie» le chiama per una
fonte che è in Boezia, c'ha nome Castalia, consecrata alle dette
Muse.
Elicona è un monte nel quale esse
similemente dimorano.
L. 1, 1.3
gorgoneo fonte etc. Scrivono i poeti che una femina fu, la quale ebbe
nome Medusa, e era chiamata Gorgone; la quale aveva questa proprietà,
che chiunque la vedea diventava di pietra; la qual cosa udendo
uno giovane, ch'avea nome Perseo, avuto uno scudo di cristallo
da
Pallade, andò verso questa Gorgone; la quale, come se
medesima vide nel cristallo, fu vinta, e Perseo le tagliò la testa; e
delle gocciole del sangue che caddero di questa testa si
generarono
diversi animali, tra' quali si creò uno cavallo, il quale aveva ali; e
questo cavallo volando in sul monte Parnaso, là dove giunto percosse
col piè, e
uscinne una fonte, la quale si chiama
gorgonea, perché
fatta fu di colui che nato era del Gorgone: questa fonte
similemente è
consecrata alle
Muse.
L. 1, 1.4le frondi amate etc. Febo s'innamorò d'una
vergine chiamata Danne, la quale non amando lui, ma fuggendogli
innanzi, diventò alloro; alle frondi del quale Febo portò e porta
tanto amore, ch'egli, essendogli e i poeti e gl'imperadori vittoriosi
consecrati, volle che per merito delle loro fatiche fossero coronati
di queste frondi, sì come ancora sono; e però dice che le Muse stanno
sotto la loro ombra, perché esse sono cagione degli onori de' poeti.
L. 1, 2.4che latino autor: non è stata di greco traslata in latino.
L. 1, 3.1Siate presenti etc. Perciò che trattar dee e di battaglie e
d'amore, invoca similemente l'aiuto di Marte, secondo gli antichi
pagani iddio delle battaglie, e Venere, madre d'Amore, e Cupido,
cioè Amore.
L. 1, 5.7
amazona:l'Amazone, donne, le quali, uccisi tutti li
maschi loro, si diedero a l'armi e fecersi seccare tutte le
destre poppe,
perciò che le impedivano a tirare l'arco; e però sono chiamate amazone,
che vuole tanto dire quanto senza poppa.
L. 1, 6.1
Egeo fu padre di Teseo. - Con
ciò sia cosa che la principale
intenzione dell'autore di questo libretto sia di trattare dell'amore e
delle cose avvenute per quello, da due giovani tebani, cioè Arcita e
Palemone, ad
Emilia amazona, sì come nel suo proemio appare potrebbe
alcuno, e giustamente, adimandare che avesse qui a fare la
guerra di
Teseo con le donne amazone, della quale solamente parla il primo
libro di questa opera. Dico, e brievemente, che l'autore a niuno altro
fine queste cose scrisse, se non per mostrare onde
Emilia fosse venuta
ad Attene; e perciò che la materia, cioè li costumi delle predette donne
amazone, è alquanto pellegrina alle più genti, e perciò più piacevole,
la volle alquanto più distesamente porre che per avventura non bisognava;
e il simigliante fa della sconfitta data da Teseo a Creonte, re
di Tebe, per dichiarare donde e come alle
mani di Teseo pervenissero
Arcita e Palemone. Le quali due cose mostrate, assai delle seguenti
rimangono a' lettori molto più
chiare.
L. 1, 6.2Scizia è un paese di là
da Constantinopoli, sopra il mare della Tana
L. 1, 7.1Belo fu re in una parte di Grecia, e ebbe due figliuoli; l'uno
ebbe nome Danao, il quale fu re dopo la morte del padre e ebbe
cinquanta figliuole; l'altro ebbe nome Egisto e ebbe cinquanta figliuoli
maschi; e di pari concordia diedeno le cinquanta figliuole di
Danao per mogli alli cinquanta figliuoli d'Egisto; e ordinò Danao,
per tema la quale aveva de' figliuoli d'Egisto che non gli togliessero
il regno, che ciascuna delle figliuole, la prima notte che co' mariti
giacessero, ciascuna uccidesse il suo; e così fecero, fuori che una
etc. Ipermestra, Lino, etc.
L. 1, 14.1
Marte tornava etc. Vuole in questa parte l'autore mostrare,
poeticamente
fingendo, qual fosse la cagione che movesse Teseo
contra le donne amazone a fare
guerra; e a mostrar questo, pone
due cose: l'una è i ramaricamenti fatti da' suoi degli ostaggi ricevuti
ne' porti d'Ipolita, e questa è posta nella stanza che è dinanzi a questa;
l'altra è l'animoso sdegno che di ciò gli nacque, il quale vuole mostrare
gli nascesse per una
valorosa cosa fatta, in quegli tempi,
magnificamente
da uno valente uomo, chiamato Tideo; la quale fu in
questa forma:
Etiocle e Polinice figliuoli d'
Edippo, re di Tebe,
composero insieme di regnare ciascuno il suo
anno, e mentre l'uno
regnasse, l'altro stesse come sbandito fuori dal regno.
Etiocle, che
era di più tempo, regnò il primo
anno; e Polinice, andando in
esilio,
pervenne ad una città, chiamata
Argo; e quivi, in una medesima
notte, avendo prima avuta quistione e battaglia con Tideo, presero
per moglie due figliuole del re Adrasto, re d'
Argo. E essendo finito
l'
anno che
Etiocle dovea aver regnato, venne a Tebe Tideo, a richiedere
il regno per Polinice; il quale non solamente non gli fu renduto,
ma fu di notte in uno bosco assalito da
cinquanta cavalieri, li
quali Tideo, fieramente combattendo, tutti uccise, e poi consecrò
a Marte, iddio delle battaglie, il suo scudo. Vuole adunque dire
l'autore che la
fama di questo fatto pervenne a Teseo, il quale si
tenea ed era tenuto, in quegli tempi, de'
valorosi uomini d'arme del
mondo; per che più ardore gli crebbe che femine
oltraggiassero lui,
essendosi Tideo difeso solo da
cotanti uomini: e questo brievemente
intende qui l'autore.
L. 1, 15.6poi nelle valli etc. Scrivono fingendo i poeti che la casa di
Marte, dio delle battaglie, sia in Trazia, a piè de' monti Rifei. Alla
quale fizione volere intendere, è da sapere che, secondo che vogliono
alcuni filosofi, che l'ira e il furore s'accende più fieramente e più
di leggiere negli uomini ne' quali è molto sangue, che in quegli
ne' quali n'è poco; e questo veggiamo noi essere vero per aperta
testimonianza di quelli di Barberia e di quelli della Magna: quegli
di Barberia sono sotto caldo cielo e hanno poco di sangue e sono uomini
mansueti; quegli della Magna sono sotto freddo cielo e tutti
pieni di sangue, furiosi e vaghi di guerra: per che ottimamente finsero
i poeti la casa di Marte, cioè l'appetito della guerra, in Trazia,
cioè in quella provincia posta sotto tramontana là dove sono similmente
li monti Rifei.
L. 1, 40.3
passando: Partendosi uomo da Attene e andando inverso
il
mare della
Tana, si truovano molte isole, tra le quali sono queste
che qui sono nominate: cioè
Macroni, Andro e Tenedos.
L. 1, 40.7
entrando poi etc. Sì come
manifestamente appare sopra la carta da navicare,
volendo del
mare di
Grecia
entrare nel mare della
Tana, si
passa per uno braccio di mare il quale oggi si chiama per alcuni lo
stretto di Costantinopoli; il quale braccio è in alcuna parte sì
stretto,
che non ha più di largo che tre miglia. Sopra questo
stretto sono
duo terre, l'una dall'una riva e l'altra da l'altra, e chiamasi l'una
Abido, come che oggi li navicanti la chiamino Aveo; l'altra si chiama
Sesto. Era in Abido uno giovane, il quale aveva come nome Leandro, e
amava molto una giovane di Sesto, ch'avea nome ero. Il quale, acciò
che il loro amore fosse
occulto, la notte, notando, passava da Abido
a Sesto, e stato con la giovane quanto gli parea, notando tornava
indietro; ma tra l'altre volte, ne gli colse male una che egli v'afogò,
sì che se stato gli era soave, gli fu alla fine reo.
L. 1, 41.1
E oltre quel cammino etc. Sì come i poeti scrivono, Atamante,
re di Tebe, ebbe per moglie una donna, chiamata
Nefile, della quale
egli ebbe due figliuoli: l'uno maschio, chiamato Frisso, e l'altra
femina, chiamata Elles. E
morta
Nefile, Atamante prese per moglie
una figliuola di Cadmo, re di Tebe,ch'avea nome Ino, la quale
sommamente odiava li
figliastri; e dopo molte cose da lei contro a
loro
maliziosamente fatte,
ordinò che per cessare una
pistolenzia, la
quale essa
maliziosamente faceva parere che nella contrada avvenisse,
questi due suoi
figliastri per fare sacrificio agl'Iddii fossero uccisi;
ma
Nefile, la quale era divenuta
dea, veggendo i figliuoli a tale
pericolo,
subitamente apparecchiò loro uno montone, il quale avea
i velli d'oro, e comandò che su vi montassero e fuggissero. Frisso
salì dinanzi e Elles in groppa, e
fugivansi verso il mare della
Tana,
così chiamata da uno fiume ch'ha nome Tanais che dentro vi mette; e
venuti a quello
stretto che oggi si chiama di Costantinopoli, Elles,
avendo paura, cadde in quello mare e affogovvi: onde poi fu chiamato
Ellesponto, cioè mare d'Elles. questa via adunque fece Teseo,
e pervenne a una città, chiamata allora Bisanzio: oggi si chiama Constantinopoli
L. 1, 55.3
Nettunno e Glauco, secondo le
fizioni poetiche e gli errori
degli antichi, sono due degl'iddii del mare.
L. 1, 58.8
ad Acheronta etc. Acheronte è l'uno de' quattro fiumi d'inferno.
L. 1, 59.3con l'arte che in Flegra etc. Sì come li poeti fingendo scrivono,
una maniera d'uomini furono, che furono chiamati giganti; li quali,
sentendosi molto forti, presunsero di volere torre il cielo a Giove,
il quale gli antichi dicevano che n'era iddio; e ragunatasi insieme per
torgliele, Giove insieme con gli altri iddii, tra' quali fu Marte, uscirono
loro incontro in uno luogo il quale si chiama Flegra, e quivi
combatterono con loro; e in quella battaglia fece Marte maravigliose
cose d'arme, tanto che gli sconfissero. Di questi giganti fu uno Anteo.
L. 1, 60.1
E tu, Minerva etc. Minerva tenevano gli antichi che fosse
dea della sapienzia, e questa oltre a ogni altro iddio era onorata in
Attene, sì come i Fiorentini più che alcuno altro santo onorano San
Giovanni Battista.
L. 1, 60.4né ch'io ti liti: cioè sacrifichi.
L. 1, 60.5alcuno giuco etc.
Solevano gli antichi fare certi giuochi ad onore degl'iddii, sì
come li Fiorentini fanno, ad onore d'alcuni santi, correre diversi
palii.
L. 1, 60.8teco d'un sesso: quasi dica: - Minerva, tu se' femina, e però
aiuti costoro che sono femine come tu -
L. 1, 61.3achiva: cioè greca.
L. 1, 62.1Apollo: cioè il sole.
L. 1, 65.2
I Centauri si dicono essere mezi uomini e mezi cavalli, ferocissimi
e forti in arme.
L. 1, 65.3Lapiti sono certi popoli di Tesaglia
similemente fortissimi e arditi in fatti d'arme.
L. 1, 84.2
Essendo in
Grecia, in una padule chiamata Lerna, una serpe
con sette teste, la quale i paesani chiamavano Idra, e corrompendo
tutta la contrada,
Alcide, cioè
Ercule, andato per
ucciderla e combattendo
con lei, s'avide che quale ora egli le
mozava una delle sue teste,
subitamente ne le
rinascevano sette. Pensò che se al principale luogo
della vita dell'Idra non pervenisse, mai non potrebbe avere vittoria
di quella; per che,
rachiusala in alcuno
stretto luogo, l'accese un gran
fuoco sotto, e così l'uccise.
L. 1, 102.2
Medea, avendo uccisi i figliuoli, che avuti avea di Iansone,
perché egli avea presa altra moglie, si fuggì di
Tesaglia e andossene
ad Attene, e quivi si maritò ad
Egeo, padre di Teseo, il quale era
già vecchio. E tornando Teseo d'alcuna parte, diede Medea a vedere
ad
Egeo che questi era uno che
venia per torgli il regno; di che ella
fece un beveraggio avelenato, e diello in mano ad
Egeo, che sotto
spezie di
fargli onore il
desse a costui, quando dinanzi gli venisse.
Teseo adunque venendo a visitare il padre, senza essere da lui riconosciuto,
prese di sua mano il beveraggio, e già era per bere, quando
Egeo alla manica d'uno coltello che al lato avea il riconobbe, e subitamente
gli fece cadere il beveraggio di mano. Medea si fuggì, né
mai più di lei si seppe
novelle.
L. 1, 130.7
Elena,
sirocchia di Castore e di Polluce, fu prima rapita da
Teseo che da Paris; poi essendo Teseo con Peritoo, suo amico, andato
per rapire proserpina (là overo in altra parte che fosse ito),
la madre di Teseo rendé Elena a' fratelli.
L. 1, 131.1-2È da sapere, secondo che i poeti scrivono, che Amore
porta due saette: l'una è d'oro e ha punta aguta, e questa genera
amore; l'altra è di piombo e è torta nella punta, e questo genera odio:
dice adunque qui l'autore che Teseo avea nel core la più cara, cioè
quella dell'oro, per la quale dimostra Teseo essere innamorato d'Ippolita.
L. 1, 132.7
Perciò che mentre erano in fatto d'arme, facevano andatura
d'uomo, nella quale si fanno i passi più lunghi che quando si fa andatura
di donna.
L. 1, 134.2Citerea si è Venere, così chiamata da uno monte ch'è
sopra Tebe c'ha nome Citerone, nel quale Venere è adorata.
L. 1, 134.7Imeneo appo gli antichi fu tenuto lo dio delle noze.
L. 2, 10
Poscia che l'autore ha dimostrato di sopra, nel primo
libro,
donde e come
Emilia venisse ad Attene, in questo secondo intende di
dimostrare come Arcita e Palemone vi pervenissero. Alla quale cosa
fare, gli
conviene toccare la
guerra stata tra
Etiocle e Pollinice, e
quello che di quella adivenne; ma perciò che brevissimamente trapassa
nel testo, acciò che le seguenti otto stanzie e assai cose che apresso
seguitano s'intendano più
chiaramente, quanto più brievemente potrò
qui la racconterò, acciò che la cagione altressì della
guerra che segue
tra Teseo e Creonte sia più manifesta. Dico adunque che, essendo
Etiocle e Pollinice, fratelli, in composizione di regnare ciascuno il
suo
anno in Tebe e che, mentre l'uno regnasse, l'altro stesse in
esilio
fuori del regno, e
Etiocle avesse il primo
anno il reame, Pollinice,
andando in
esilio, pervenne ad
Argo, e quivi prese per moglie Argia,
figliuola d'Adrasto, re d'
Argo; e finito l'
anno del regno d'
Etiocle,
Tideo, il quale aveva per moglie Deifile,
sirocchia d'Argia, andò in
servigio di Pollinice a Tebe a domandare che
Etiocle lasciasse il regno
a Pollinice per lo seguente
anno, secondo i
patti; dal quale Tideo
ebbe mala risposta, e, oltre a ciò, fu, tornandosi egli ad
Argo, assalito
una notte da
cinquanta cavalieri d'
Etiocle, gli quali egli tutti uccise;
e, tornato, ad
Argo, commosse ad andare a vendicare la ingiuria fatta
a Pollinice, e quella che stata era fatta a lui, Capaneo re, Anfiorao
re, Ippomedone re, Partenopeo re, e Adrasto suo suocero; e con grandissimo
esercito di gente a piè e a cavallo, e egli e Pollinice co' predetti
altri cinque re andarono ad assediare Tebe, e quivi dopo molte battaglie,
senza potere prendere Tebe, furono tutti morti,fuori che Adrasto,
il quale si fuggì indietro ad
Argo: e fuvvi nell'ultima battaglia
ucciso
Etiocle, perciò che egli e pollinice s'uccisero insieme. E dopo
la
morte de' detti due frategli, non essendovi rimaso re in Tebe
e l'assedio essendo partito, Creonte, uomo nobilissimo e possente,
della città incontanente prese la signoria; e fattosi re, perciò che uno
suo figliuolo chiamato Menesteo, combattendosi un dì alle
mura e
difendendo egli
valorosamente, era stato ucciso e caduto morto fuori
delle
mura e rimaso senza
sepoltura, comandò che a niuno che di
fuori fosse morto, qual che si fosse, o re o altro, non fosse, sotto pena
della vita, data
sepoltura. Eransi da
Argo partite le donne de' morti
re, e venivano a dare
sepoltura a' corpi de' mariti loro con molte
altre nobili donne; le quali, nel
cammino udito il
comandamento di
Creonte, una parte di loro non volle andare a Tebe, sì come fu
Evanne,
moglie di Capaneo, e altre molte, ma se ne andarono ad Attene, a
dolersi di questo
oltraggio di Creonte a Teseo, il quale in quegli
tempi era famosissimo vendicatore d'ogni ingiuria di che stato gli
fosse posto richiamo; e non
trovandovelo, non vollero
entrare in
casa d'alcuno cittadino, ma tutte se ne andarono in uno tempio,
il quale era consecrato ad onore della
Clemanzia, e quivi aspettarono
la tornata di Teseo. Il quale anzi che del triunfale
carro
smontasse,
in abito così misero come erano, gli si
feron incontro e posergli il
richiamo della ingiuria di Creonte; per la quale Teseo, senza arestarsi
punto, con le donne insieme si andò a Tebe, e quinci combatté
contra Creon e ebbe vittoria e l'uccise. E in questa battaglia furono
presi Arcita e Palemone, li quali erano Tebani, e menati ad Attene
e
messi in prigione da Teseo, sì come apresso
chiaramente appare.
L. 2, 10.1Lernei etc.: cioè greci. - id.: È in Grecia una padule molto famosa,
la quale è chiamata Lerna, e da questa li Greci sono chiamati Lernei.
L. 2, 10.3trofei etc.: trofeo è uno picciolo onore, il quale si fa a colui
il quale ha vinto alcuno famoso nemico e trattegli l'arme; e suolsi
fare in questa guisa, che si prende uno tronco di legno come fosse
uno uomo, e vestonglisi l'arme tratte al nemico, e ponsi in uno luogo
publico, dove da tutti si può vedere e essere conosciuto il valore di
colui ch'è stato vincitore.
L. 2, 11.1Amfiorao: re.
L. 2, 11.2Ippomedone: re.
L. 2, 11.3Partenopeo: re.
L. 2, 11.5Campaneo: re.
L. 2, 11.6agone: battaglia.
L. 2, 11.7Etiocle: re. - Polinice: re.
L. 2, 11.8Adastro: re. - Argo: città.
L. 2, 12.1
regno: di Tebe.
L. 2, 12.3Creonte: re. - invaso: assalito.
L. 2, 13.6fuoco si desse etc.: usavansi anticamente d'ardere li corpi morti
e di sepellire la cenere che di quegli si facea.
L. 2, 14.1argoliche etc. Argos fu già in Grecia famosissima città, e da
lei furono li Greci, e sono, chiamati Argivi e Argolici.
L. 2, 14.2stremo: cioè ultimo.
L. 2, 14.3con maestà: cioè con apparenza.
L. 2, 20.2
teatri: teatro era
generalmente ogni luogo publico, come
oggi sono le loggie e i ridotti, come che alcuno per
eccellenza avesse
più quello nome che gli altri, sì come il Coliseo di Roma, il quale
era teatro
generalmente di tutti.
L. 2, 23.7
Pallade e Minerva sono una medesima cosa, e di sopra dicemmo
Minerva essere sopra ogni altro iddio onorato in Attene.
L. 2, 24.5tomolto: romore come si fa nelle feste.
L. 2, 25.3achiva: cioè greca. - id.: Li Greci sono chiamati Achivi
da una contrada ch'è in Grecia, chiamata Acaia.
L. 2, 26.3
atri: cioè neri.
L. 2, 27.5-8Quasi dica: - In cotale abito, in chente ora veggiamo te,
raspettavamo li nostri mariti, ove ora gli andiamo a sepellire -.
L. 2, 28.4mesta: trista.
L. 2, 28.5Campaneo: re.
L. 2, 29.1-2
del tiranno etc.: cioè d'
Etiocle.
L. 2, 31.5
e di qua l'ombre etc.: fu oppinione degli antichi che ogni
anima n'andasse in inferno, fuori quelle di coloro li quali deificavano;
e credevano che a ciascuna fosse certo luogo
diterminato nel quale
si punissero i peccati nella vita commessi, e, puniti quegli, credevano
loro andare in uno luogo dilettevole, il quale chiamavano
Eliso, e
quindi dopo certo tempo poi tornare nel
mondo. E
similemente
credevano essere in inferno uno fiume chiamato Acheronte, di là dal
quale per andare al luogo
diterminatole non potesse passare niuna
anima insino a tanto che il corpo, del quale era uscita, non fosse sepellito,
anzi
errasse cento
anni di qua dal fiume; e per cotale credenza
erano
sollecitatissimi i
parenti e gli amici che rimanieno a sepellire
i corpi di coloro che
morieno; e bene che l'autore dica qui
palude stigia, non monta guari, perciò che la palude di Stige nasce
del fiume d'Acheronte, sì che puose l'uno per l'altro: la qual cosa
spesse volte usano fare i poeti.
L. 2, 32.7i qua': cioè prieghi.
L. 2, 35.6
attei: cioè atteniesi, perciò che la contrada nella quale è
Attene si chiama Attica.
L. 2, 36.3neglette: cioè non ornate.
L. 2, 36.5la maestà: l'autorità.
L. 2, 47.5
Demofonte: fu figliuolo di Teseo.
L. 2, 50.8
glebe: cioè terre.
L. 2, 65.6
riviera: d'Acheronte.
L. 2, 70.4
assediaro: que'
cinquanta de' quali è detto di sopra.
L. 2, 70.5Citeron: monte.
L. 2, 71.7Bacco è iddio del vino, e fu figliuolo di Giove e di Semelè,
figliuola di Cadmo, re di Tebe; e Ercule fu figliuolo di Giove e d'Almena
tebana; sì che amenduni furono di Tebe.
L. 2, 72.7Cadmo fece Tebe e funne re.
L. 2, 73.6
le case sante: cioè i templi.
L. 2, 74.2Asopo è un fiume presso a Tebe.
L. 2, 74.7urna: vaso. - di Lieo:
cioè di Bacco.
L. 2, 75.1all'ombre: all'anime.
L. 2, 78.3
a l'olfato: cioè
all'
odorato.
L. 2, 79.8
estrutti: cioè ordinati. -
id.: Soliensi
anticamente fare certi
monticelli di legne, come noi diciamo oggi cataste, ordinate in certi
modi; e questo monte di legne, così ordinato, si chiamava rogo;
poi vi poneano su diversi ornamenti, secondo la qualità e
possibilità
di chi 'l facea e di colui per cui si facea; poi sopra tutto questo ponevano
il corpo morto e mettevano fuoco nelle legne; e come era
acceso, non si chiamava più rogo, ma pira; e tanto il facevano ardere,
che del corpo si faceva cenere e quella
sepellivano.
L. 2, 81.4urne: vasi.
L. 2, 81.6Argo: città.
L. 2, 83.6
poco: cioè piccolo.
L. 2, 92.6
onusti: carichi. -
commilitoni: cavalieri.
L. 2, 95.4
le frondi di Pennea: cioè la corona dello alloro.
L. 2, 96.4reina: Ipolita.
L. 3, 1.1
Iunone fu moglie di Giove, e ebbe sommamente in odio i
Tebani; e questo era per gli adulterii da Giove, suo
marito, commessi
con le donne tebane, sì come con Semelè, di cui ebbe Bacco, e con
Almena, di cui ebbe
Ercule.
L. 3, 1.3regione: quale sia la regione di Marte
si vedrà appresso, dove assai interamente si discrive.
L. 3, 1.6di Cupido: cioè d'Amore.
L. 3, 2.2
de' Tebani: cioè d'Arcita e di Palemone.
L. 3, 2.4insani: cioè pazi.
L. 3, 2.6a le mani: cioè a battaglia.
L. 3, 2.8a l'un: cioè ad Arcita.
L. 3, 4.5Vener: dea.
L. 3, 4.7eletto: da Venere.
L. 3, 5.1
Febo, salendo, etc. Vuole qui l'autore discrivere che stagione
era allora dell'
anno, quando Arcita e Palemone s'innamorarono d'
Emilia,
e dice che era dal mezo
aprile al mezo maggio; e questo mostra
per discrizioni de' pianeti in
cielo, e
massimamente del sole, il quale
dice che era con quello umile animale che trasportò
Europa, cioè
col Tauro, col quale egli sta nel soprascritto tempo. E la
favola dell'
essere
Europa stata trasportata dal tauro è questa: Agenore, re di
Fenicia, aveva una figliuola bellissima, la quale aveva nome
Europa,
la cui bellezza sappiendo Giove e piacendogli forte, si trasformò in
forma d'uno bellissimo tauro, e
andonne là dove questa giovane era
con altre compagne; e quivi si mostrò sì mansueto e sì bello, che a
queste giovani e
massimamente ad
Europa piacque, e venne volontà
d'averlo, e accostoglisi, e
vedendolo così mansueto lo prese per le
corna, e dopo molto avere veduta la sua mansuetudine, vi salì suso;
il quale quando si sentì adosso costei sì come egli disiderava, incontanente
cominciò a correre verso il mare, e costei, per tema di non
cadere, ad attenersi alle corna;
ultimamente si mise in mare, e notando
ne la portò in Creti, e quivi ebbe di lei più figliuoli. E cominciando
da quella isola, e andando a diritto verso tramontana e da
tramontana girando
inver ponente, e poi da ponente tornando a
diritto verso levante, infino alla sopradetta isola, volle che da costei
fosse nominata
Europa; e così ancora si chiama. E quello tauro,
nel quale convertito s'era, trasportò in
cielo, e
fecelo l'uno dei
XII
segni del sole,
ponendolo in quella parte nella quale veggiamo il
sole da mezo
aprile infino a mezo maggio. -
Febo:
Febo, il sole. -
li suoi cavalli: che tirano il
carro suo.
L. 3, 5.2l'umile animale: cioè il segno che si chiama Tauro.
L. 3, 5.5e con lui: cioè col Tauro.
L. 3, 5.6de' passi etc.: cioè de' gradi.
L. 3, 5.8Amon: cioè Giove. - in Pisce: in
quel segno. - d'Amon, che 'n Pisce etc. Volendo dimostrare il cielo essere
ottimamente disposto a fare altrui innamorare, dice che Giove, il
quale è pianeto benivolo, era in Pisce, cioè in uno segno del cielo
così chiamato, nel quale Giove ha più di potenzia che in alcuno altro
a bene e paceficamente operare. E chiamalo Amone, cioè montone,
perciò che gli antichi scrivono che essendo Bacco in Libia a combattere
e non trovando acqua, pregò Giove, suo padre, che gli mostrasse
dove egli dovesse trovare acqua; e fatto il priego, gli apparve innanzi
un montone e menollo ad una fonte, il quale montone i Libiani
dissero ch'era stato Giove, e sempre l'adorarono in forma di montone,
chiamandolo Amone, il quale in latino viene a dire montone.
L. 3, 9.6
fando: cioè facendo.
L. 3, 12.2
l'orizzonte: l'
orizonte è quella parte del
cielo la quale ci
pare che sia congiunta con la terra.
L. 3, 14.6
Citerea: cioè Venere.
L. 3, 16.3Fetonte fu figliuolo di Febo e di Climene. Il quale Febo, sì
come nel principio di questo libro è mostrato, fu ferito da Amore
per una vergine chiamata Diana, che poi si convertì in alloro.
L. 3, 17.8
l'altro: strale.
L. 3, 20.5
quel fiero arcieri: cioè Amore.
L. 3, 24.3
mi veggo qui imprigionato: cioè incatenato e stare in
priegione.
L. 3, 25.2gli argomenti esculapii. Esculapio fu sommo medico, in
tanto che i poeti fingono che egli con sughi di sue erbe ritornò in
vita Ipolito, figliuolo di Teseo, il quale era, e rimaso appiccato ad alcuna
parte di quello, tirato da' cavalli in qua e in là tra le pietre e
tra' bronconi del bosco, tutto fu sbranato; li quali brani raccolti
insieme da Esculapio, gli ricongiunse, e lui ritornò in vita. questo
Esculapio fu d'Epidauro e fu figliuolo d'Appollo e d'una ninfa chiamata
Coronide.
L. 3, 25.3il qual: Esculapio.
L. 3, 25.5poi ch'Apollo, sentita etc.
Apollo, cioè Febo, come in più parti dinanzi è detto, fu sommamente
innamorato di Danne, figliuola di Penneo, e da questo amore non
si seppe né si poté con la virtù delli sughi delle sue erbe medicare né
guarire, come che egli ogni altro uomo guerisse, e tutte le conoscesse,
e fosse iddio della medicina.
L. 3, 25.6i sughi mondani: dell'erbe.
L. 3, 25.8medela: medicina.
L. 3, 27.2
Scrivono i poeti che
Eolo è iddio de' venti, e dicono che
egli gli tiene
rinchiusi sotto uno sasso in certe caverne di Cicilia, e
quando vuole che vadano atorno, apre loro, e essi
furiosamente escono
fuori: così uscivano i sospiri del petto de' due
nuovi amanti. E dico
sicule, cioè ciciliane.
L. 3, 27.3-4le basse: la terra. - e le superne parti:
cioè l'aere.
L. 3, 27.5delle parti più interne: cioè del cuore.
L. 3, 27.8la piaga:
d'amore.
L. 3, 28.1costei: cioè Emilia.
L. 3, 28.5l'omei: che aveva prima tratto
Palemone.
L. 3, 29.4
arguta: cioè alta.
L. 3, 32.5Cupido: Amore.
L. 3, 32.8ella: piacea.
L. 3, 33.4della sua mistura: cioè del veleno.
L. 3, 33.5l'uno: membro.
L. 3, 33.8aumentando: accrescendo.
L. 3, 34.3e a ciascun etc.: erano palidi e magri.
L. 3, 35.7colui il sa etc.: che sono io.
L. 3, 36.7
queste cose: cioè i pensieri di queste cose.
L. 3, 37.6il fior etc.: cioè Emilia.
L. 3, 38.5versi misurati: sonetti e canzoni.
L. 3, 40.7
e canta etc.: pone qui il suono per lo canto, perciò che Apollo
suona meglio che alcuno altro.
L. 3, 43.2Ariete è uno de'
XII segni del sole e Libra è uno altro. Sta in
Ariete il sole da mezo marzo infino a mezo
aprile, e in questo tempo
tutto il
mondo si rifà bello di frondi, di fiori e d'
erbe. In Libra sta
da mezo settembre infino a mezo ottobre: in questo tempo non solamente
si seccano tutte le frondi, ma caggiono tutte degli alberi, sì
che Libra toglie al
mondo quella bellezza che Ariete gli aveva
data.
L. 3, 44.4e 'l popol d'Eol
L. 4, 1.2-5
Orione è uno
segno in
cielo, e le Pliade sono stelle poste
nel
segno del Tauro; questi due, cioè Orione e le Pliade, cominciano a
vedersi in oriente, poi che il sole è coricato, del mese d'ottobre, quando
le
piove, i venti e i malvagi tempi cominciano, per che antico proverbio
è l'Orione con le pliade recare malvagio tempo. E perciò,
volendo mostrare l'autore essere pessimo tempo, dice che orione e le
Pliade ciò che potevano operavano, e con loro
Eolo, iddio de' venti.
L. 4, 10.5
di Dite: d'inferno.
L. 4, 12.6
Boezia è uno paese in
Grecia, come è Toscana in Italia, nella
quale Boezia è la città di Tebe.
L. 4, 12.7Parnaso: monte.
L. 4, 13.3Anfione fu re di Tebe, e, secondo che i poeti fingono, egli
sonava sì dolcemente, che al suono della sua cetera li monti circustanti,
dispartendo da loro le pietre, fecero le mura a Tebe.
L. 4, 14.3Semelè: figliuola di Cadmo.
L. 4, 14.4-5a quel che etc.: cioè
a Giove.
L. 4, 14.7Iuno: moglie di Iove. - Almena: moglie d'Anfitrione e
madre d'Ercule.
L. 4, 14.8
che doppia notte etc. Almena fu moglie d'Anfitrione,
il quale essendo andato allo
studio e menato seco uno suo
fante, che aveva nome Geta, Iove s'innamorò d'Almena, e mandò
Mercurio in terra, e fecegli mettere una
voce per la contrada d'Anfitrione,
che Anfitrione tornava; la quale cosa udendo Almena, lieta
della tornata del
marito, si rifece ancora più bella che non era, e
sollecitamente l'aspettava; per che una mattina presso al dì, essendo
Anfitrione giunto ad uno porto presso a Tebe, Giove, presa la forma
d'Anfitrione e a Mercurio fatta pigliare quella di Geta, se ne andarono
alla casa d'Almena; la quale, credendo che quegli fosse
veramente
il
marito, lietamente il ricevette, e insieme se ne andarono al letto.
E Giove, a ciò che avesse più
spazio di stare con Almena, fece ritornare
la notte indietro, tanto che ella fu, da quella ora che egli
entrò
ad Almena, così grande, come se
intrato vi fosse la sera; per che appare
che furono due
notti, come che una sola paresse. In questa notte così
raddoppiata, ingravidò Almena di Giove, e poi dopo nove mesi
partorì
Ercule; e questo vuole dire l'autore: «che doppia notte etc
.».
Amfitrione tornò poi quando fu fatto dì, essendosi
† Giove partito
e senza avvedersi alcuno dello inganno di Giove
† Amfitri
one
[]. -
plena: cioè gravida.
L. 4, 15.1Dionisio: re di Tebe. -
L. 4, 15.4de' popoli etc.: vinti da Bacco,
figliuolo di Semelè.
L. 4, 16.1Laio: re di Tebe e padre d'Edippo.-
L. 4, 16.2Edippo: re di
Tebe. - i figliuoli: Etiocle e Pollinice -
L. 4, 16.3il fuoco graio: cioè greco,
perciò che greche furono le donne, come di sopra è mostrato, che
misero fuoco in Tebe. -
L. 4, 16.4li nostri duoli: di noi tebani
L. 4, 16.5il primaio: fuoco
L. 4, 16.6Iunon: dea. - dunque che vuoli etc.: quasi dica:
- Avuta n'hai ogni vendetta che disiderare si può, poi che dopo tutti
gli altri nostri danni, le femine, non che altri, ci hanno arsa la città
nostra. -
L. 4, 17.3
Agenore: il quale fu padre di Cadmo, che fece Tebe, del
quale Cadmo erano
discesi Palemone e Arcita.
L. 4, 18.2da quella: da Tebe.
L. 4, 18.3Corinto: città.
L. 4, 18.5Mecena: contrada.
L. 4, 18.8Menelao: re.
L. 4, 19.4quel ch'era etc.: cioè l'essere di reale sangue.
L. 4, 19.6portava: sosteneva.
L. 4, 20.4
del suo intendimento: cioè d'
Emilia.
L. 4, 20.6Egina: isola.
L. 4, 20.7Pelleo: re, padre d'Acille.
L. 4, 21.1Quivi sperava etc.: perciò che Egina è forse LX miglia presso
ad Attene.
L. 4, 21.6con la sua brigata: cioè co' suoi famigliari.
L. 4, 21.8la terza mattina: partito da Mecena.
L. 4, 22.2suoi: famigliari.
L. 4, 22.3del re: Pelleo.
L. 4, 25.6
prava: malvagia.
L. 4, 27.4
Né credo ch'Erisitone etc. Erisitone fu
disprezatore delle forze
degli iddii, il quale per dispetto di Diana fece tagliare una quercia
la quale era consacrata a Diana; di che Diana turbata, gli mise sì
fatta
fame adosso, che, primieramente
manicatosi ciò ch'egli aveva e
non potendo
torsi la
fame, vendé una sua figliuola, e avendo
mangiato
ciò che del prezo aveva potuto comperare, non avendo più
che mangiare, divenne
magrissimo, e
ultimamente morì di
fame. Così
magro dice che divenne Penteo.
L. 4, 28.6le come: i capelli. - irsute: levate in su.
L. 4, 29.1La voce etc.: cioè non parlava così baldanzoso come solea.
L. 4, 31.1
i dolenti fati: Fati sono le
disposizioni divine, le quali sono
liete e dolenti chiamate, secondo che colui di cui si parla lieta o
dolorosa
cosa riceve.
L. 4, 31.2costui: Arcita.
L. 4, 32.6mite: dolce.
L. 4, 40.2
commiato prese: dal re Pelleo.
L. 4, 40.3e 'nver di quella: d'Atene -
soletto: sanza alcuno suo famigliare.
L. 4, 41.4ora li torna etc.: in quanto non lo lascia riconoscere altrui.
L. 4, 41.8sotto altro aspetto: che il primo, ch'era bello.
L. 4, 42.2are: altari.
L. 4, 42.6memorare: ricordare.
L. 4, 43.1
O luminoso Iddio: cioè il sole.
L. 4, 44.2armento: bestiame.
L. 4, 44.3lauree: d'alloro. - censo: cioè riccheza.
L. 4, 44.6are: altari.
L. 4, 46.1
Sì come te etc.: Fu
Febo innamorato d'una figliuola d'Ameto,
re di
Tesaglia, la quale non potendo altrimenti avere, si trasformò
in pastore, e posesi col detto re, e stette con lui guardandogli il bestiame
suo, in così fatta forma, sette
anni.
L. 4, 46.3Anfrisio: fiume.
L. 4, 46.4Ameto: re di Tesaglia.
L. 4, 46.5il possente signore: cioè Amore.
L. 4, 46.7mandato: comandamento.
L. 4, 47.2e 'l nuovo nome: cioè Penteo.
L. 4, 47.5la mia rabbia: d'amore.
L. 4, 49.8
seconde:
prospere.
L. 4, 54.1
Maggior letizia etc. Pandione, re d'Attena, aveva due figliuole,
delle quali l'una aveva nome
Progne e l'altra
Filomena; e avendo
maritata
Progne a Tereo, re di Trazia, avvenne che
Progne, avendo
voglia di vedere la
sirocchia, mandò tereo per lui. Il quale, come la
vide bellissima, subitamente innamorò di lei; e non
volendola Pandione,
ch'era già vecchio, mandare in Trazia, perciò che altro né
figliuolo né figliuola avea, tanto e con
prieghi e con pianti lo stimolò
Tereo, che egli gli concedette di grazia che egli la
menasse. Di che
Tereo fu oltre modo allegro; e
entrato con lei in mare, non a casa
sua la menò, ma in uno bosco ad una casa di suoi pastori, e quivi
la sforzò. Il che
Filomena
sostenendo impazientemente, il minacciò
di
dirlo a
Progne; per la qual cosa Tereo le trasse la lingua, e lasciolla
quivi imprigionata, e tornò alla moglie vestito di nero, dicendo
che
Filomena era morta in mare. Dopo alquanto tempo
Filomena
raccamò sopra una
peza di panno lino lettere, le quali raccontavano
tutto ciò che Tereo fatto l'avea, e
mandollo a
Progne.
Progne non
fece sembiante d'averne sentito nulla, ma aspettò il tempo de' sacrifici
di Bacco, li quali le donne facevano di notte in boschi e in luoghi
solitarii; e venuto quel tempo,
Progne, di notte, faccendo sembiante
d'andare sacrificando a Bacco, andò nel bosco dove era in prigione
Filomena, e, rotta la casa, la trasse fuori e
menollane
nascosamente
seco; e avendo nell'animo di fare una gran vendetta di questa cosa,
e non sappiendo di che farsela maggiore, uccise uno picciolo figliuolo
che avea nome Iti, che avuto aveva di Tereo, e
cosselo e
diedelo
mangiare a Tereo. Di che quando Tereo s'accorse, correndo loro
dietro per
ucciderle,
Progne diventò rondine e
Filomena
usignuolo,
e Iti diventò
pettorosso e Tereo
becchipuzzola.
L. 4, 55.3
abile:
disposto.
L. 4, 55.4per tale obietto: quale è l'amadore.
L. 4, 55.7non le dispiace: che altri l'ami.
L. 4, 55.8colui: che ama lei.
L. 4, 56.7deforme: sozo.
L. 4, 58.5
scaggia: infermità.
L. 4, 59.7la reina: Ipolita.
L. 4, 59.8la fantina: Emilia.
L. 4, 70.3
ella: cioè
Emilia.
L. 4, 70.8pruova: Emilia.
L. 4, 72.8
da Titon: cioè dal sole.
L. 4, 73.1Filomena: cioè l'usignuolo.
L. 4, 73.2La novella di Tereo è
scritta due carte davanti a questa distesamente.
L. 4, 73.3polo: il cielo.
serena: chiara.
L. 4, 73.6lavoro sì bello etc.: come è il cielo.
L. 4, 73.8Citerea: Venere.
L. 4, 73.8-74.1vedendo chiarezza: perciò che è quella stella che
volgarmente è chiamata la stella Diana.
L. 4, 75.3Febo: sole.
L. 4, 75.4dea: Venere.
L. 4, 75 5figliuol: Amore.
L. 4, 77.7Febo: sole. - e tu, Febo, etc.: perciò
che Febo è iddio della sapienza.
L. 4, 77.8cheta: cioè nascosta.
L. 4, 78.2metteva in nota: cantando. - lo amante: Arcita.
L. 4, 78.7del signor: di Teseo.
L. 4, 80.2
moti: movimenti.
L. 4, 80.5le vilissime: genti.
L. 4, 80.6in esse: cose.
L. 4, 81.4città di Bacco: Tebe.
L. 4, 81.7altrui: di Creonte.
L. 4, 82.5
quivi: in prigione.
L. 4, 83.4le catene: cioè la prigione.
L. 4, 83.5delle qua': catene.
L. 4, 84.7Pelleo: re.
L. 4, 85.2cacciai via: da me.
L. 4, 85.3e qui: in Atene.
L. 4, 10.8
quando starà la luna: che sempre si muove e è mossa.
L. 5, 12.8nascosto: cioè imprigionato.
L. 5, 13.2
da cieco Edippo etc.:
Edippo fu figliuolo di Laio, re di
Tebe, e di Iocasta; la quale essendo gravida, trovò Laio che colui
che nascerebbe il dovea uccidere, per che comandò che o figliuolo
maschio o femina che Iocasta facesse, fosse morto. Nacque
Edippo,
il quale, secondo il
comandamento di Laio, fu dato a due sergenti
che l'uccidessero: costoro, mossi a compassione del fanciullo, non
l'uccisero, ma,
foratili i piedi, l'appiccarono ad uno albero e raportarono
che morto l'aveano. Uno pastore del re Polibo, ch'avea nome
Forba, il trovò, e,
spiccatolo, il portò al signor suo, il quale, non
avendo figliuolo, il nutricò come figliuolo e nominollo
Edippo.
Costui cresciuto e udendo che figliuolo non era di Polibo, volle sapere
chi fosse il padre; e andando in sul monte Parnaso per
domandarne
nel tempio d'Apollo, iddio della
indivinazione,
entrò in una
città chiamata Focis; nella quale cominciatasi una briga e Laio
framettendosi
di
spartirla,
Edippo l'uccise, non
conoscendolo; e poi
prese Iocasta, sua madre, per moglie, e
ebbene due figliuoli,
Etiocle
e Pollinice, e due figliuole, Antigona e Ismene. Poi,
riconosciuto
la madre il figliuolo e il figliuolo la madre, ebbe
Edippo tanto dolore
di ciò che avvenuto era, che egli si cacciò gli occhi e misesi a stare in
una caverna: e questa fu la «lunga notte», cioè la cechità. Quivi essendo
pessimamente trattato da' figliuoli, cominciò a
pregare Tesifone,
che è l'una delle tre Furie infernali, che tra loro mettesse
scandalo
e briga, e così fu fatto: e come ella
entrata nel petto de' due
fratelli vi mise briga, così
entrata nel petto di Palemone vi generò
la
discordia che seguita, che fu tra lui e Arcita.
L. 5, 17.3-4
il volo che Dedal etc.: Dedalo fu di Creti, e fu
ingegnosissimo
uomo; il quale insieme con uno suo figliuolo che aveva nome
Icaro, fu messo in prigione da Minòs, re di Creti, perché aveva trovato
che per ingegno di costui
Pasife, sua moglie, era stata ingravidata
da uno toro del quale s'era innamorata. E non vedendo Dedalo
via donde potere uscire di prigione se non per aere, fece a se medesimo
un paio d'ali e un paio ne fece al figliuolo, e così volando uscirono
di prigione.
L. 5, 18.4
di tanti: quanti guardavano.
L. 5, 24.7
cioncato: bevuto.
L. 5, 29.3
e 'l gran Chiron. Chirone Aschiro fu uno centauro, il
quale fu maestro d'Achille, e fu trasportato in
cielo, e fattone quel
segno il quale noi chiamiamo Sagittario, nel quale mostra qui che
era la luna, la quale per ciò si dice che
conforta il
gielo, perciò che
di sua natura è fredda e umida.
L. 5, 29.4-5il conforta: cioè la luna.
L. 5, 29.7e quasi piena etc. Cenìt è quel punto in cielo, dal quale se una linea si
movesse, la quale cadesse giù diritta a corda, verrebbe appunto sopra
il capo nostro. Il mezo cerchio è uno cerchio il quale divide il cielo
in due parti equali, delle quali l'una è verso levante, l'altra inverso il
ponente; e chiamasi il cerchio del mezodì e della mezanotte, perciò
che, come il sole viene sopra quelle, così è sempre mai mezodì, e
quando vi vengono le stelle, le quali si lievano allora che il sole si
corica, così è appunto mezanotte. Dice adunque che in questo cerchio
era la luna, non per mostrare che mezanotte fosse, ma per dare
a vedere che la luna era nel mezo del cielo.
L. 5, 30.1l'ebbe rimirata: cioè la luna.
L. 5, 30.3
- O di Latona etc.: Scrivono
i poeti che Latona fu bellissima donna, della quale Giove innamorato
e avuto a fare di lei ebbe due figliuoli, Appollo e Diana, cioè
la luna, la quale è chiamata inargentata sì perché li suoi raggi paiono
d'ariento a petto a quegli del sole, li quali paiono d'oro, o vero la
chiama inargentata dal suo effetto, perciò che la luna è quel pianeto
il quale genera l'ariento.
L. 5, 30.7in questo: cioè in farmi lume.
L. 5, 30.8nell'altro: di che io ti priegherò.
L. 5, 31.1
Io vado tratto etc. Qui sono da vedere due cose: primieramente
chi fosse Tifeo, a presso chi fosse Pluto e come rapisse la luna,
alla quale Palemone parla. E primieramente è da sapere, secondo che
i poeti scrivono, che Tifeo fu un gigante, il quale volendo contrastare
a Giove, iddio del
cielo, come gli altri giganti, Giove il fece prendere e
distendere in terra, e posegli sopra il capo un monte ch'è in Cilicia,
il quale volgarmente è chiamato Mongibello, e in su l'un braccio gli
pose un altro monte di Cicilia chiamato Peloro, e in su l'altro un altro
monte chiamato Pacchino, e in su le gambe gli
pose un monte chiamato
Appenino. E dicono che questo Tifeo alcuna volta, operando
tutta sua forza, si
scuote e ingegnasi di levare; nel quale scuotersi li
monti che gli sono posti adosso e la terra circustante triema, e questo
tremare è quello che noi chiamiamo tremuoto. Pluto, secondo i
poeti, è iddio del ninferno; il quale sentendo una volta forte tremare
la terra, e in alcuna parte veggendola sì aprire che alcuna luce apparve
in inferno, e sappiendo che questo avveniva per lo muovere
di Tifeo, detto di sopra, dubitando di quelle apriture, venne su nel
mondo; e andando procurando come l'isola di Cicilia fosse fondata e
forte, gli venne veduta in
prato una bellissima giovane, chiamata
Proserpina, figliuo' di Giove e di Cerere; la quale sommamente
piacendogli, subitamente la rapì e
portossenela in inferno, e
fecela
sua moglie. Cerere, trovatasi meno la figliuola, pianse molto, e
ricercolla
molto, e
ultimamente saputo che Pluto l'aveva rapita, si
dolfe a Giove di questa
rapina; per che Giove volle che Pluto la rendesse.
Pluto disse, poi essere non poteva altro, egli era acconcio di
renderla, ove ella non avesse
mangiato in inferno alcuna cosa, perciò
che, se
mangiato avesse, rendere non si potea.
Cercossi e trovossi che
ella avea
mangiata una
melagranata; onde vedendo Giove che di
ragione non si poteva riavere, per
consolare Cerere, fece di fatto
che ella stesse mezo l'
anno in inferno col
marito, e 'l mezo si venisse
a stare con Cerere, sua madre: e così fa. E acciò che io non
sponga
ogni parte della
favola, che saria troppo lungo, è da sapere che questa
Proserpina è la luna, la quale sta in mezo l'
anno in inferno, cioè sotto
terra in parte che noi non la possiamo vedere, e mezo l'
anno sta sopra
terra, cioè in parte che noi la possiamo vedere; perciò che chi considererà
bene e misurerà
dirittamente i tempi della luna,
apertamente
vedrà noi non
poterla in tutto il lunare vedere, se non forse la metà
del tempo che il lunare dura: questo, adunque, quello amore il
quale Palamone tocca che fu da Plutone portato alla luna.
L. 5, 31.4iscarsi: piccoli.
L. 5, 32.2Chi fosse Leandro, fu mostrato su di sopra nel primo libro. -
i lacerti: i bracci.
L. 5, 31.3padre tuo: Giove.
L. 5, 31.7l'avversario: cioè Arcita.
L. 5, 35.1
Febea: cioè la luna. -
id.: La luna è chiamata
Febea, perciò
ch'è
sorella di
Febo.
L. 5, 42.6
ammirandi:
maravigliosi.
L. 5, 57.1
I primi nostri etc. Vuole qui mostrare Arcita che tutti li
suoi
predecessori,
discesi di Cadmo,
facitore e re primo di Tebe,
abbiano fatta mala
morte, e così
convenire fare a loro due che rimasi
n'erano, cioè a Palemone e a sé. E dice primieramente di quelli «che
nacquero de' denti seminati» etc
.: a che è da sapere che avendo
Giove in forma di toro, come
davanti dicemmo, rapita
Europa, figliuola
d'Agenore, re di
Fenici, Agenore comandò a Cadmo,suo
figliuolo, che andasse cercando d'
Europa, sua
sorella, e mai a lui
senza lei non ritornasse. Cadmo, non potendola ritrovare, non osando
tornare senza lei al padre, si posò là dove fu poi Tebe; e vogliendo
cominciare a fare la detta città,
ordinò sacrificii a Giove; e tra più
volte mandò più suoi compagni per acqua fresca ad una fonte ivi
vicina, de' quali non tornandone niuno, v'andò egli e trovò che uno
serpente, che era allato alla fonte, gli aveva tutti uccisi. Il quale Cadmo
uccise, e, trattigli i denti, gli seminò, de' quali nacquero molti uomini
armati; li quali, come nati furono, cominciarono a combattere insieme,
e tutti fra loro s'uccisero, fuori che cinque li quali poi furono
insieme con Cadmo a fare la città di Tebe.
L. 5, 57.6
Atteon disbranaro etc.
Atteone fu bellissimo giovane, e nepote di Cadmo. Questi, andando
un dì con molti suoi cani cacciando, s'avenne in uno bosco ad una
fonte, nella quale per avventura Diana,
dea della castità, avendo
insino a quella ora cacciato, per
rinfrescarsi s'era spogliata
ignuda, e
bagnavavisi; la quale, vedendo che da Atteone era stata veduta
ignuda,
turbatasi forte e vergognandosene, prese dell'acqua con mano e gittolla
nel viso ad Atteone, dicendo: - Va, e, se puoi, dì che tu m'abbi
veduta ignuda -. Atteone subitamente si convertì in cerbio, il quale
i suoi cani medesimi, non
conoscendolo, l'uccisono e
isbranarono tutto.
L. 5, 57.7e Atamante etc. Atamante fu re di Tebe e marito d'una
figliuola di Cadmo, chiamata Ino, al quale Tesifone, una delle tre
furie infernali, per comandamento di Giunone entrò per sì fatta
maniera adosso, che egli impazò; e veggendo questa sua donna in
mezo di due piccioli figliuoli che di lui avea venire verso di sé, gli
parve che fosse non donna, ma una leonessa con due leoncini, per
che, subitamente corse verso di loro, prese l'uno de' figliuoli, ch'avea
nome Learco, e percossegli il capo al muro, e ucciselo. Ino, veggendo
la furia d'Atamente suo marito, prese in collo l'altro figliuolo, chiamato
Melicerte, e seguendola costui, si fuggì e venne sopra un balzo
che era sopra il mare, e di quello si gittò e insieme col figliuolo in
braccio affogò.
L. 5, 58.1Latona uccise etc. Anfione fu re di Tebe e marito di Niobe,
della quale aveva XIIII figliuoli, VII maschi e VII femine. Questa Niobe,
veggendo le genti andare a fare sacrificio a Latona, madre d'Appollo
e di Diana, cominciò loro dire male e a disprezare Latona, e diceva
che essi farieno molto meglio a fare sacrificio e onore a lei che a Latona,
perciò che ella aveva XIIII figliuoli, dove Latona non aveva che
due. Di che Latona turbata, se ne dolfe a' figliuoli, gli quali incontanente
scesi con gli archi loro in uno bosco vicino ad uno prato, nel
quale Niobe si diportava con tutti questi suoi XIIII figliuoli, in poca
d'ora, saettando, Apollo uccise li VII maschi, e Diana le VII femine.
L. 5, 58.4
arder fé Semelè etc. Semelè fu figliuola di Cadmo, e molto amata da
Giove; e essendo gravida di lui, Giunone in forma d'una vecchierella
andò un dì a lei, e,
intrata in
novelle seco, l'adimandò se Giove
l'amava molto. Semelè rispose che credeva di sì; a cui Giunone disse:
- Vuoi tu conoscere se egli t'ama quanto egli dice? Ora il
priega
che egli si congiunga teco nel modo che egli si congiugne con Giunone:
se egli il fa, allora potrai dire che egli sommamente t'
ami -.
Semelè così fece; di che Giove, per lo saramento che fatto avea, non
potendolo indietro tornare, la fulminò; laonde ella arse e tornò in
cenere.
L. 5, 58.5e qual d'Agave etc. Penteo fu figliuolo d'Agave, figliuola
di Cadmo, il quale faccendo beffe d'uno chiamato Aceste, il quale
raccontava molte cose miracolose della deità di Bacco e similmente
de' sacrificii che al detto Bacco si faceano, avvenne che andando Agave
con le sirocchie e con più altre persone a' detti sacrificii fare, Penteo
per impedirgli si parava davanti, il quale non Penteo, ma un porco
salvatico parendo alla madre e a tutti gli altri, subitamente dalla
madre fu assalito e, aiutata dalle sirocchie e dagli altri che quivi
erano, tutto fu sbranato.
L. 5, 58.7e simile d'Edippo etc. Chi fosse Edippo,
e come egli uccidesse il padre, e come prendesse poscia sua madre
per moglie, e avessene più figliuoli, distesamente è detto di sopra,
vicino al principio del secondo libro.
L. 5, 59.3il fuoco fé etc. Detto è di sopra, vicino al principio del secondo
libro, che Etiocle e Pollinice, fratelli e figliuoli d'Edippo,
s'uccisono insieme; a' quali, poi che furono morti, per fare loro onore
della sepoltura venne Argia, figliuola del re Adrasto e moglie di
Pollinice, da Argo, e di notte, avendo tanto cerco fra' corpi morti,
nel campo che ella aveva ritrovato Pollinice, piangendo sopra di lui,
sopravenne Ismena, sirocchia di Pollinice; e riconosciutesi amendue,
come meglio poterono, aiutate dalla loro compagnia, fecero un gran
fuoco e miservi entro i due fratelli morti, cioè Etiocle e Pollinice;
li quali sì tosto come entro vi furono, la fiamma e tutto il fuoco si divise
in due parti, quasi non volessero ardere in uno medesimo fuoco;
la quale cosa fu assai evidente dimostramento dell'odio che portato
s'avevano in vita, poi che morti recusavano d'essere insieme. E questo
dice: «il fuoco fé testimonianza d'elli» etc.
L. 5, 59.5Creonte: re di Tebe.
L. 5, 59.6molto lodare: perciò che non gli fé avere vittoria sopra Teseo.
Bacco: dio del vino.
L. 5, 59.8del teban sangue: cioè di Cadmo.
L. 5, 62.2
Appollo surgente: il sole che si levava.
L. 5, 62.3Fauni: iddii de' boschi. - Driade: dee degli alberi.
L. 5, 62.7Priapo: dio degli orti.
L. 5, 88.7l'un: Penteo. - Egina: isola.
L. 5, 88.8l'altro: Palemone.
L. 5, 92.5-6
per colui pietà etc.: Rapì Teseo nella sua giovanezza Elena,
figliuola di Tindaro, la quale fu poi rapita da Paris; ma la madre di
Teseo la rendé a Castore e a Polluce, suoi fratelli, senza essere ella
stata tocca da Teseo: per che gli fu cotale ingiuria perdonata.
L. 5, 96.4
altrettale: cioè di schiatta reale.
L. 5, 96.5la reina: Ipolita.
L. 5, 96.6imperiale: cioè signorile.
L. 5, 97.6a te: Arcita.
L. 5, 96.7teatro: che sia teatro è mostrato di sopra.
L. 5, 98.1di fore: del teatro.
L. 5, 98.3l'altro: il cacciato.
L. 5, 99.1mal sol: cioè troppo caldo.
L. 5, 99.2Noto: vento il quale è chiamato Ostria.
L. 5, 99.3Zeffiro: vento chiamato Ponente.
L. 5, 99.4aurora: l'alba.
L. 5, 99.5
gloriosa: cioè bella.
L. 5, 99.7costor: Arcita e Palemone. - raccolto: udito.
L. 5, 103.1
Febo era già etc. Dimostra qui l'autore di che stagione
dell'
anno era e quale ora del dì, quando Palemone e Arcita si misero
a tornare con
Emilia ad Atene; e dice che era di state, perciò che il
sole era in Cancro, nel quale egli sta da mezo giugno infino a mezo
luglio; e dice che era ora di mezodì, perciò che quando che 'l sole
era salito a mezo il
cielo e Cenìt è alto quanto può più salire. - L'animale
che tenne Garamante si è il granchio; e è nota la
favola in
cotal forma: Giove partitosi di Creti per
andarsene in Africa ad Atalante,
in Libia, avvenne che egli per lo caldo, che era di giugno, si
pose a riposare alla riva d'un fiume chiamato
Oragada; dove stando,
vide ivi presso una bellissima giovane, il cui nome era Garamante,
la quale subitamente amò; e andando per
prenderla, come ella il
vide, volle fuggire, e già era mossa, quando uno granchio, presala
con l'una delle bocche per lo minore
dito del piè, sì forte la
strinse,
che ella per lo duolo ristette, né prima si poté levare il granchio dal
piè, che Giove la sopragiunse, e tra per amore e per forza avuto a fare
di lei, ne generò uno figliuolo, il quale ebbe nome Giarba e fu re de'
Getuli; e perciò che per beneficio di quel granchio l'aveva giunta,
preso il granchio, il trasportò in
cielo e
poselo in quella parte dove
allora era il sole, e divenne quel
segno che noi chiamiamo Cancro.
L. 6, 14.1
Il primo venne etc. Venendo Adrasto, re d'
Argo, con altri
re in
servigio di Pollinice, suo genero, ad assediare Tebe, pervennero
nel regno di
Ligurgo in una parte chiamata Nemea. Quivi essendo il
caldo grande e non trovando acqua, per avventura coloro che cercando
andavano trovarono in uno giardino Isifile, la quale aveva in
guardia un piccolino fanciullo di
Ligurgo, chiamato Ofelte. E essendo
da costoro domandata dove acqua potessero trovare, ella rispose
loro di mostrarla, e, posto il fanciullo tra l'
erbe e' fiori in uno
prato,
si mise loro innanzi e
menogli ivi presso ad uno fiume chiamato
Langia. E poi che tutto l'
esercito ebbe bevuto, significò al re Adrasto
e a' compagni chi fosse e quello che avvenuto l'era per adietro. Quindi,
ricordatasi del fanciullo che tra l'
erbe avea lasciato,
corse a lui e
trovollo morto, perciò che il fanciullo s'era addormentato, e passando
fra l'
erbe un grandissimo serpente, menando la coda in qua in là,
senza vedere il fanciullo, gli avea tale dato in su la testa, che l'aveva
ucciso. Della
morte di questo fanciullo portava ancora bruno
Ligurgo
e ancora ne piagnea.
L. 6, 15.4
di seme di formiche etc. Essendo
Eaco, padre di Pelleo, di
cui qui si fa
menzione, re d'
Egina, avvenne che una
pistolenzia d'infermità
e di mortalità nacque sì grande in
Egina, che quasi niuna persona
vi rimase. La qual cosa
Eaco con gran dolore
sostenendo, gli
avenne che dormendo egli, gli parve vedere una quercia, il cui pedale
e li cui rami gli pareva che fossero pieni di formiche, e parevagli dire:
- Oh! Se tutte quelle in uomini si convertissono, il mio regno sarebbe
ristorato -. Il quale disiderio, dagl'iddii
esaudito, venne ad effetto,
perciò che tutte quelle formiche si convertirono in uomini, li quali
abitarono e riempierono
Egina, e chiamaronsi Mirmidoni, perciò
che in greco la formica si chiama «
mirmidon»; e questo vuol dire:
«che si rifeo di seme di formiche» etc
.
L. 6, 17.3micanti: risplendenti.
L. 6, 17.8
termodontiaca: di quel paese così chiamata. -
bipenne:
questa è
accetta con due tagli.
L. 6, 18.5fé sospirare: per la sua bellezza.
L. 6, 19.1-4Cefalo d'Eolo, Foco, Telamone, Agreo epidauro, Flegiàs
di Pisa, Alcone sicionio: tutti furono i compagni di Pelleo, e nobilissimi
giovani.
L. 6, 19.3epidaurio: cioè di Durazo.
L. 6, 19.4Pisa: di Romania.
L. 6, 20.2
dionei. Venere è chiamata Dione, e i colombi sono uccelli
di Venere e da lei sono chiamati dionei, de' quali sono molti in Nisa,
cioè in quella contrada così chiamata. la cui principale città ha nome
Alcatoe.-
Niso: re.
L. 6, 20.4Alcatoe: città.
L. 6, 20.7guardando quel capello
etc. Questo re Niso si dice ch'avea in capo un capel porporino, il
quale era stato fatato: mentre l'avesse, non potea perdere il regno
suo, e per ciò il guardava bene.
L. 6, 21.2di Trenarea: di quella contrada. - Agamenone: re. -
L. 6, 21.5sé già degno etc.: ch'e' fu fatto generale imperadore di tutto l'esercito
de' greci.
L. 6, 22.4rilucenti: dorati.
L. 6, 24.5Venere: dea.
L. 6, 24.6lui: cioè Menelao.
L. 6, 25.4gli avesse il cigno etc. Leda fu moglie di Tindaro re, e fu
bellissima donna, della quale innamorato, Giove, trasformato in
cecero o cigno che vogliàn dire, le venne innanzi cantando dolcemente:
laonde ella, invaghita di lui, il prese e se nel menò in casa.
Quivi Giove ebbe a fare di lei, di che si generarono due vuova;
delle quali due vuova, dell'uno nacque Castore e Polluce, bellissimi
e valorosi giovani, de' quali qui si parla; dall'altro nacquero Clitemestra,
che fu poi moglie d'Agamenone, e Elena, che poi fu moglie
di Menelao e rapita da Paris.
L. 6, 27.1nemeo: di quella selva.
L. 6, 27.2tirinzio: di quel paese.
L. 6, 27.3al padre: Ercule.
L. 6, 27.4avea sentito: quello leone di cui era stato quel
cuoio.
L. 6, 27.7Strimon: nome propio. - Diomede: re.
L. 6, 27.7-8Diomede fu
re di Trazia, e fu crudellimo uomo, perciò che egli chiunque gli
capitava a casa uccidea, e dava i corpi morti a mangiare a suoi cavalli
ferocissimi, li quali egli avea. La cui crudeltà saputa da Ercule, andò
in Trazia, e ucciso questo re e gran parte de' suoi cavalli, ne menò
in Grecia Strimone, di che qui si ragiona, il quale sempre ritenne
quella fierezza di mangiare gli uomini quando giugnere n'avesse potuto
alcuno.
L. 6, 27.8mangiator: cioè quel cavallo.
L. 6, 28.6
si fer sentir di Silla etc. A dimostrare il romore che faceva
Strimone, tocca qui l'autore la
favola di Silla e la verità nascosta sotto
la
favola. Fu adunque Silla una bellissima giovane di Cicilia, la quale
fu sommamente amata da Glauco, iddio
marino; il quale Glauco
essendo molto amato da
Circe, figliuola del Sole, e per l'amore il
quale Glauco portava a Silla
veggiendosi
Circe da lui
disprezare,
con suoi incantamenti andò e contaminò uno luogo nel quale Silla
si soleva bagnare. Per la qual cosa, come Silla v'
entrò, subitamente si
sentì prendere da due cani marini, de' quali ciascuno
trangugiò
l'una delle gambe di lei e la coscia infino all'anguinaia, e così la
tirarono in mare, forte latrando, là dove ella fu trasmutata in uno
scoglio, il quale ancora si chiama Silla; né mai per ciò si partirono i
cani, anzi ancora s'odono alcuna volta abaiare, come se Silla loro
volesse uscire di bocca. E come l'autore appresso tocca, nel vero
Silla è uno scoglio vicino della Cicilia, il quale in quella parte dove il
mare agiugne è molto cavernoso, e per ciò quando
Scilocco soffia,
e il mare si muove impetuoso e
entra per le caverne di questo scoglio,
e nello
entrare si rompe, e rompendosi risuona per quelle caverne a
guisa che fossero molti cani che
abaiassero: e tale romore quale egli
fa, cotale dice che il faceva il cavallo di Cromis, cioè Strimone.
L. 6, 29.1Oetalia: provincia di Grecia.
L. 6, 29.3Ippodomo: nome propio.
L. 6, 29.7calidonio: cioè di quella contrada.
L. 6, 30.1Pilos: città. - Nestor: re.
L. 6, 31.8
più li fu larga: era ricco.
L. 6, 32.2in piatte: cioè erano inarientate le piatte del ferro.
L. 6, 34.1
Ciclopi sono chiamati gli Ateniesi da uno re il quale ebbero,
che fu chiamato Ciclopo, overo Cicropo.
L. 6, 35.1Evandro: re d'Arcadia. - Evandro etc. Evandro fu re d'Arcadia,
la quale l'autore chiama qui Nonacria perciò che in essa sono
nove monti, e perciò la chiama sterile perché è brutto terreno. Fu
Evandro, secondo che i poeti scrivono, figliuolo di Mercurio e di
Carmenta, nobilissima e savia donna, concetto in su uno monte d'Arcadia,
chiamato Cilleno.
L. 6, 35.2di colui: cioè di Mercurio.
L. 6, 35.7essendo ancora etc.: ché poi ne fu cacciato.
L. 6, 36.5libistrico: di quella selva così chiamata.
L. 6, 37.1
lunati: cornuti a modo di luna.
L. 6, 37.2limbi: orli. - circuite: atorniate.
L. 6, 37.3in cinghiar: cioè nelle pelli de' cinghiari.
L. 6, 38.1armi: omero.
L. 6, 38.2Uno scudo etc. Secondo che nelli poetici
libri si può vedere, gli antichi Greci non usavano di portare nelli loro
scudi alcuno segno, sì come oggi si porta, anzi vi portavano istorie
della loro nobiltà: e così mostra qui l'autore che faceva Evandro, per
dimostrare che di Mercurio fosse stato figliuolo.
L. 6, 38.3Atlanciade: Mercurio.
nel qual pareasi Atlanciade etc. Atlanciade è patronimico di
Mercurio, perciò che Mercurio fu figliuolo di Giove e d'una figliuola
d'Atalante.
L. 6, 38.4
fatto, Argos etc. Giove amò una giovane, la quale
ebbe nome Io, figliuola d'Inaco, e essendo un dì con lei s'avide che
Giunone, avendo sentito questo fatto, veniva là ove egli erano, per
sopragiugnerlo con lei. Per la qual cosa Giove subitamente trasmutò
la giovane in una vacca: di che Giunone avvedutasi, chiese a Giove
questa vacca. Giove, non
potendolo acconciamente disdire, gliele
donò, e Giunone la diede a guardare ad uno suo pastore il quale avea
nome
Argo, e aveva cento occhi co' quali non dormiva mai se non
con due occhi, cioè, come due n'avevano dormito e
destavansi, e
egli ne dormivano altri due, sì che sempre ne vegghiavano novantotto.
Increscendo a Giove che questa giovane fosse in forma di vacca e
così guardata, mandò Mercurio in terra e
dissegli che facesse sì che
gliele togliesse. Mercurio, presa forma e abito d'uno pastore, s'andò
a stare con
Argo, e cominciò sì dolcemente a sonare una
sampogna,
che
Argo s'adormentò con tutti e cento gli occhi. Il che veggendo
Mercurio subitamente l'uccise e
tolsegli la vacca; e Giunone, vedendo
il pastore suo morto, il convertì in uno paone, e i cento occhi
ch'egli aveva nella testa gli
pose nella coda. E Mercurio
punse questa
vacca per modo che ella n'andò correndo insino in
Egitto, e quivi
ritornò nella sua prima forma. E questo è quello che l'autore dice
che era dipinto nello scudo d'
Evandro.
L. 6, 38.7Geta: Come e perché
Mercurio divenisse Geta, è mostrato di sopra dove si parla della
generazione d'Ercule.
L. 6, 38.8del padre:di Giove.
L. 6, 39.1Erse: Eravi ancora etc.: Herse [].
L. 6, 41.2ancora le guance etc.: non era barbuto, sì era ancora giovane.
L. 6, 42.1
Adone: Mirra fu figliuola di Cinara, e innamorossi di lui,
e fatto sembiante d'essere un'altra femmina, giacque con lui, e
ebbene
questo Adone, il quale Venere sommamente amò.
L. 6, 42.6del seme etc.
Era una raza di cavalli in Grecia ottimi, li quali li Greci dicevano essere
stati procreati da Nettunno, iddio del mare.
L. 6, 44.1E il duca narizio: cioè Ulisse.
L. 6, 44.2Laerte: re, padre d'Ulisse.
L. 6, 44.7
Diomede: figliuolo che fu di Tideo.
L. 6, 45.1Pigmaleone: re.
L. 6, 46.2il gnosiaco re: cioè Minòs - dittea: Creti ha più nomi, sì
come Gnosia e Dittea.
L. 6, 46.5Androgeo: questo Androgeo, figliuolo
di Minòs, essendo poi, dopo queste cose, ad Atene in istudio, vi fu
ucciso.
L. 6, 46.6lernea: cioè greca.
L. 6, 47.1
Radamante: fratello di Minòs.
L. 6, 47.2Sarpedone:fratel di Minòs.
L. 6, 48.2i regni etc.: cioè il mare. - di Nereo: cioè di Nettuno,
iddio del mare.
L. 6, 48.3e come Giove etc.: come Giove in forma di toro
rapisse Europa, figliuola del re Agenore, è detto di sopra.
L. 6, 48.4onde nasceo: Minòs.
L. 6, 48.5e' liti: cioè di Creti.
L. 6, 48.6ditteo: cioè di Creti.
L. 6, 48.7la casside: cioè l'elmo.
L. 6, 48.8lucea della paterna stella: portava
Minòs per cimiero la stella di Giove.
L. 6, 50.5
né biasimarono il focoso etc. Essendo dopo queste cose stato
ad Attene ucciso Androgeo, figliuolo di Minòs, re di Creti, Minòs
per vendicare la
morte del figliuolo andò sopra gli Atteniesi e sopra
gli amici loro con grandissimo
esercito. E tra gli altri amici degli
Atteniesi il qual egli offese, fu Niso, del quale di sopra è detto, re di
Nisa: costui assediò Minòs in Alcatoe, sua città: e mentre che egli
stava allo assedio, Silla, figliuola di Niso,
vedendolo da una torre della
città, s'innamorò di lui, e desiderando di compiacerli si pensò di trarre
al padre uno capello
purporino, il quale mentre egli l'aveva non poteva
perdere la terra; e così fece, e
trattogliele, il portò a Minòs,
laonde Minòs prese la città e uccise Niso; e
dispiacendogli ciò che
Silla aveva fatto, la fece gittare della
nave; ma gl'iddii la convertirono
in allodola, e Niso in
ismerlo. Ora dice qui l'autore che coloro li
quali si ricordavano d'avere veduto Minòs così bello e così visto come
in Atene era venuto, non tenevano a maraviglia se Silla s'era innamorata
di lui e se ella aveva tradito il padre per avere l'amore di Minòs,
etc
.
L. 6, 51.1bistone: Bistonia è una provincia sotto tramontana, nella
quale ha fierissimi uomini e forti.
L. 6, 52.3Ida piseo: cioè di Pisa, la quale è una
città in Grecia, alla quale corre d'intorno uno fiume chiamato Alfeo.
E di questa Pisa vennero coloro che fecero Pisa ch'è in Toscana.
L. 6, 52.6I giuochi olimpiaci si facevano di cinque in cinque anni: chiamati
olimpiaci perché in Olimpo, monte di Macedonia, si faceano.
L. 6, 53.1nel corso leggiere: della leggerezza che qui pone l'autore che
avea questo Ida, scrive Virgilio di Camilla, e quindi fu tolto ciò che
qui se ne scrive.
L. 6, 53.3da Partico o Cidone: Partici e Cidoni sono due
maniere di gente, ciascuna ottima arciera.
L. 6, 54.2crucciato: turbato per fortuna.
L. 6, 55.1
Ameto: re di
Tesaglia.
L. 6, 55.5in forma etc.. Di sopra è
detto come Febo, innamorato d'una figliuola d'Ameto, transformato
in pastore, guardò sette anni gli armenti d'Ameto.
L. 6, 56.1Foloèn: Foloèn e Irim furono due cavalli, della raza discesi
d'uno cavallo che si chiamò Pegaso, del quale nel principio di
questo libro dicemmo, il quale Pegaso fece col piè il fonte castalio,
come di sopra si dice; per ciò dice qui: «il quale da il castalio simigliando»,
cioè da Pegaso.
L. 6, 57.1Ematici: Tesaglia è altressì chiamata Emazia e perciò dice
qui con gli Ematici, cioè Tesalici.
L. 6, 58.1
Boezia è una parte di
Grecia, della quale è la città di Tebe.
L. 6, 59.1i Dircei: cioè i Tebani.- id.: sono i Tebani chiamati
Dircei da una fonte, la quale è presso a Tebe, chiamata Dirce.
L. 6, 59.2fuggiti: quando Tebe fu prese.
L. 6, 59.5Ismeneo: è uno fiume presso
a Tebe.
L. 6, 59.6Citeron: è uno monte.
L. 6, 59.8Elicona: monte.
L. 6, 60.1Esopo: fiume.
L. 6, 60.2
Egina fu figliuola d'
Esopo, la quale Giove
rapio, e ebbe di lei
Eaco, padre di Pelleo e avolo d'Accille; il quale
Esopo, per ciò che
pericolosissimamente crescie alcuna volta,
fingono
i poeti che egli
crucciato allora s'ingegna d'agiugnere al
cielo per
vendicare la sua ingiuria da Giove fattagli della figliuola.
L. 6, 60.3sincero: chiaro.
L. 6, 60.5Antedon: città.
L. 6, 60.7de' signor: d'Arcita e di Palemone.
L. 6, 61.1Cefiso: fiume.
L. 6, 61.2Narcisso fu figliuolo di Cefiso, e fu bellissimo
giovane e grandissimo cacciatore, e di più belle giovani, che
di lui s'erano innamorate, s'aveva fatto beffe senza volerle udire o
vedere o amare. Avvenne un dì che, avendo egli, e per la stagione che
era calda e per la fatica durata, grandissimo bisogno di rinfrescarsi e
di riposo, s'abatté in una valle nella quale era una chiarissima fonte.
Quivi, non avendo egli mai né in ispecchio né in altro veduto se
medesimo, facendosi col viso sopra la fonte forse per bere, vide nell'
acqua la sua effigie stessa, la quale gli parve sì bella, che, credendo
che fosse una giovane che dentro vi fosse, s'innamorò di se medesimo,
né mai di su quella si partì, che egli vi morì, e fu dagl'iddii convertito
in un fiore violetto, il quale ancora si chiama narcisso: e per questo
non poté essere con gli altri gentili uomini ad Attene.
L. 6, 61.3tespiaci: cioè di quella contrada chiamata Tespia.
L. 6, 62.1
Chi fosse Leandro e come morisse è detto di sopra: è vero
che, poi che affogato fu, i delfini, così morto, il
sospinsero al lito di
Sesto, dove Ero, sua donna, dopo molto pianto, il fece sepelire.
L. 6, 62.7né' suoi: uomini.
L. 6, 63.1Chi Erisitone fosse, e come di fame morisse e perché, è
detto di sopra.
L. 6, 63.6Ceres: dea delle biade.
L. 6, 65.7
egeo: re d'Atene.
L. 6, 67.5regione: d'Atene.
L. 6, 67.6così fatto tesoro: come era Emilia.
L. 6, 68.1
'l suo: d'
Emilia.
L. 6, 68.4quantunque: cioè di tutto il mondo.
L. 6, 68.6probi: cioè valorosi.
L. 6, 69.8non potean sentire: Arcita e Palemone per indovinamento.
L. 6, 70.8da' fini amadori: cioè da Arcita e da Palemone.
L. 6, 71.1
Pallade,
dea della sapienzia, e Nettunno, iddio del mare, fecero
la città d'Attene, la quale fatta ciascuno voleva nomare a sua
guisa. Di che sendo tra loro la questione grande, vennero a questa
composizione, che ciscuno di loro battesse con una verga la terra, e
quale, secondo il giudicio di Giove, producesse più nobile cosa, colui,
come gli piacesse, la nominasse. Nettunno adunque percosse con la
sua verga la terra, la quale percossa subitamente produsse un cavallo;
Pallade
similmente la percosse, e subitamente nacque uno ulivo. Di
che Giove disse che
Pallade la dovesse nominare, perciò che quello
che della sua percossa era nato, cioè l'ulivo, significava pace e tranquillità,
dove il cavallo nato dalla percossa di Nettunno significava
guerra. Nominolla adunque
Pallade Atene, la quale tanto vuole dire
in latino quanto cosa immortale.
L. 7, 2.2
labdacii: greci. -
eminente: alto, sopra tutti.
L. 7, 2.4
più umilemente: più bassi.
L. 7, 4.8palestral gioco: Palestrale giuoco era che gli uomini si solevano
sopra le carni vestire un cuoio strettissimo e morbido, nel quale
niuno altro pertugio si vedea se non per me' gli occhi, acciò che veder
potesse, e per me' la bocca, acciò che potesse spirare; poi così vestiti
s'ugnevano tutti o d'olio o di sevo, e quindi si prendevano a guisa di
coloro che fanno alle braccia; e era reputata gran forza e gran destreza
quella di colui che alcuno altro poteva o mettere in terra o
tener fermo. E in questo cotale giuoco entravano alcuna volta le
donne; e elena, anzi che fosse moglie di Menelao, essendo ancora
pulcella, intrata in questo giuoco, come che molto chiusa fosse, pur
fu conosciuta da Teseo e rapita da lui, come di sopra brievemente
si toccò.
L. 7, 5.2achivi: greci.
L. 7, 8.8
pur d'un sangue etc.: cioè tutti siamo Greci.
L. 7, 9.2larisseo: greco. - id.: Larissa è una città di Tesaglia, dalla
quale i Greci sono, secondo l'usanza poetica che dalla parte spesso
nominano il tutto, chiamati Larissei.
L. 7, 9.4come al seme etc.: Di sopra
è mostrato come i denti del serpenti ucciso da Cadmo e da lui
seminati, ne nacquero uomini armati, li quali fra sé s'uccisero.
L. 7, 12.5
bipenni: acette.
L. 7, 23.6
rorati:
innaffiati.
L. 7, 24.3al sol etc.: perciò che non vedeano il sole.
L. 7, 24.5agli orgogliosi etc.: Scrivono i poeti che la Terra partorì i giganti, li quali
come da Giove e da Marte vinti fossero per forza d'arme è scritto
di sopra.
L. 7, 25.3
per quella pietate etc.: Scrivono i poeti che
giaccendosi Marte
con Venere, la quale egli amava sopra ogni altra cosa, il Sole se ne
avvide e
disselo a Vulcano, iddio del fuoco,il quale era
marito di
Venere. Per la qual cosa Vulcano, essendo
ingegnosissimo
fabro,
acciò che egli vedesse se ciò era vero, fece una rete di ferro fortissima
e
fecela sì sottile che appena si
discernea; poi la tese intorno al letto
suo, in guisa che chiunque v'
entrava rimaneva preso. Laonde avvenne
che un giorno, non essendo egli a casa, Venere e Marte, sanza avvedersi
della rete, se ne
entrarono ignudi nel letto, nel quale Vulcano
tornando gli trovò, e
mostrògli a tutti gl'iddii, li quali vedendo ciò se
ne risono; ma Marte, volendosi levare, non poté per la rete nella
quale si trovò preso. Alla fine, di questa cosa increbbe a Nettunno,
iddio del mare; per che egli pregò tanto Vulcano, che egli ruppe
la rete e lasciògli andare.
L. 7, 27.1per lo santo foco: cioè per l'amore che tu portasti a Venere.
L. 7, 27.3palestral gioco: Detto è di sopra che sia il giuoco palestrale, e
bene che questo non debbia essere così fatto, parla l'autore al modo
poetico, li quali non curano in uno medesimo modo chiamare diverse
cose, solo che in sé abbiano in alcuno atto alcuna similitudine, come è
questo a quello.
L. 7, 28.6
offensione etc.: cioè non se gli aveva ancora mai né rasi
né tonduti.
L. 7, 29.1Era allor etc.: Vuole per questo mostrare l'autore Marte
allora essere ozioso quando a lui giunse l'orazione d'Arcita, perciò
che gli uomini d'arme, quando non hanno a fare alcuna altra cosa,
fanno forbire l'armadura, o raconciare selle, o simili cose.
L. 7, 29.4quando d'Arcita etc.:
Sì come tra due signori li quali sieno l'uno da l'altro
lontano, sono molte volte gli ambasciadori mezani a fare sapere a
l'uno la intenzione dell'altro, così è tra noi e Iddio la orazione; e
perciò qui l'autore la finge avere forma di persona acciò che possa
dire quello che intende, perciò che dal farla persona prende conseguentemente
cagione al disegnare la casa di Marte, sì come cosa da
questa orazione veduta.
L. 7, 30.1
ne' campi trazii etc. In questa parte discrive l'autore la casa
di Marte, intorno alla quale sarebbero da considerare tritamente molte
cose, chi ordinatamente volesse
disporre; ma perciò che per innanzi
assai
leggiermente s'è proceduto, così qui spegnendo
sommariamente
passeremo. E acciò che più
ageviolmente la
sposizione si comprenda,
dice l'autore che intende dimostrare qui
IIII cose. La prima si è la
qualità del luogo dove è la casa di Marte; la seconda si è come sia
fatta la casa di Marte; la terza si è chi sia nella casa di Marte; la
quarta si è di che cosa sia ornata la casa di Marte. Dice adunque primieramente
che la casa di Marte è in Trazia, in luoghi freddi e nebulosi
e pieni d'acqua e di venti e di
ghiacci, salvatichi e pieni d'alberi
infruttuosi, e in luoghi ombrosi e inimici del sole e pieni di tumulto.
Ad intelligenzia della qual cosa è da sapere che in ciascun uomo
sono due principali appetiti, de' quali l'uno si chiama appetito concupiscibile,
per lo quale l'uomo disidera e si rallegra d'avere le cose
che, secondo il suo giudicio, o ragionevole o corrotto ch'egli sia, sono
dilettevoli o piacevoli; l'altro si chiama appetito irascibile, per lo
quale l'uomo si turba o che gli sieno tolte o impedite le cose dilettevoli,
o perché quelle avere non si possano. Questo appetito irascibile
si truova prontissimo negli uomini ne' quali è molto sangue, perciò
che il sangue di sua natura è caldo, e le cose calde per ogni picciolo
movimento
leggiermente s'accendono; e così avviene che gli uomini
molto sanguinei subitamente s'adirino, come che alcuni con grandissima
forza di ragione e ricuoprano la loro
ira. E perciò
che sì come in altra parte ponemmo, nelle regioni fredde gli uomini
sono più sanguinei che altrove, pone qui l'autore il tempio di Marte,
cioè questo appetito irascibile, essere in Trazia, la quale è provincia
posta sotto la tramontana e molto fredda, nella quale sono li uomini
fierissimi e battaglievoli e iracundi per lo molto sangue. Nebuloso
dice che è, a dimostrare che l'
ira
offuschi il consiglio della ragione;
il quale intende più giù per lo raggio del sole, il quale dice che la
casa di Marte caccia da sé. Per lo
ghiaccio intende la fredeza dell'animo
dell'adirato, il quale, vinto da questo accendimento d'
ira, diviene
crudele e rigido e senza alcuna carità. Per li
guazi intende le
lacrime le quali per isdegno molte volte gli adirati gittano. Dice
similemente che ella è in una selva; per la quale intende li segreti
cernimenti
di nuocere che fanno talvolta gli adirati. E per l'essere la
selva sterile, intende gli effetti dell'
ira, li quali non sono solamente
toglitori de' frutti delle
fatiche degli uomini, ma guastatori di quegli.
E quinci viene che in così fatta selva non ha né pastore né bestia,
cioè che l'adirato non regge né sé né saluti altrui. È adunque l'abitazione
di Marte in sì fatto luogo come brievemente è dimostrato. Seguita
a vedere la seconda cosa, cioè come sia fatta questa abitazione overo
casa di Marte. E dice che ella è tutta d'acciaio risplendente e ha le
porte di
diamante e le colonne di ferro: per l'acciaio intende la dureza
della ostinazione dell'adirato, e questa mostra che sia la
copritura
della casa, perciò che dice poi che le colonne sono di ferro; e questo
acciaio dice che
riverberando caccia da sé la luce del sole, e
meritatamente,
perciò che, se questo acciaio s'
ammollisse tanto che lasciasse
passare dentro la luce del sole, cioè il sano consiglio della ragione
nella
mente dell'adirato, ella non sarebbe più casa di Marte, cioè
di
guerra e di tribolazione, ma di pace. E non solamente a questa
ostinazione il tetto d'acciaio fa fuggire la divina grazia che di sopra
viene, cioè il salutevole consiglio della ragione, ma ella ha le porte
di
diamante, acciò che dentro non passi nessuna umana persuasione,
la quale possa o piegarla o
amollirla, e è
sostenuta da colonne di
ferro, cioè da non
rompevoli proponimenti. E sono in questa casa
molte genti, le quali sì come terza cosa vegnono da essere dimostrate.
Dice adunque che in questa casa di Marte sono gl'
Impeti
dementi, i
quali dice che uscirono fuori della porta, a dimostrare che il primo
atto dell'uomo adirato sia l'
impeto, perciò che, sì come noi veggiamo,
gli adirati subitamente corrono all'arme o vanno adosso altrui, e
chiama questi
impeti
dementi, cioè pazi, sì come veggiamo che
sono. Apresso dice che v'è il cieco Peccare, il quale è effetto dell'
impeto,
perciò che chi corre sanza diliberazione ragionevole a fare
alcuna cosa, ciecamente pecca. Dice che v'era ancora ogni Omei,
cioè ogni maniera di guai; e ciò è assai ragionevole, ché dalle cose
pazamente fatte è di necessità seguire guai o a chi ingiustamente
le riceve o a chi si riconosce ingiustamente averle fatte. Appresso
pone che v'erano l'
Ire, rosse come il fuoco, nella quale cosa
esprime
l'apparenza dell'adirato, il quale
generalmente nella prima vista
veggiamo arrossare, e dice l'
ire, in numero plurale, a dimostrare
che due maniere d'
ira sono, e ciascuna fa arrossare l'adirato: l'una
si è l'adirarsi senza ragione, e questa è viziosa e è quella di che qui
si parla; l'altra può essere ragionevole, sì come il turbarsi d'alcuna
cosa non giustamente fatta,e questa riceve il consiglio della ragione
in riprendere e in fare ammendare quella cotale cosa mal fatta; e
vuole l'autore costei essere nella casa di Marte, perciò che da questa
sono nate e possono nascere tutto dì molte giuste guerre.
Similemente
vi pone la Paura, la quale suole molto
sotto
entrare negli adirati, poi
che alquanto si sono
raffreddati, o vogliamo dire ne' guerreggiatori,
quando non si veggiono succedere le cose come nelle 'mprese l'
avisavano;
e dice che questa Paura era pallida, perciò che noi veggiamo
li paurosi pallidi, e la cagione è per lo sangue che è ricorso dentro
al cuore che teme. Dice ancora che vi sono i Tradimenti co'
ferri
occulti, e le 'nsidie, cioè gli aguati, con giusta apparenza, le quali
sono cose pertinenti
agli effetti che
nascono dell'
ira, cioè le guerre. E
èvvi la
Discordia co'
ferri sanguinosi, la quale
similmente è degli
effetti dell'
ira, come che molti dicano l'
ira nascere dalla
discordia.
Dice che v'è ogni Differenza, cioè ogni maniera di quistione e di
riotta. Dice ancora che ogni luogo v'è
strepente, cioè risonante,
d'aspre Minaccie e di Crudele Intenza, cioè
garimento, i quali,come
noi conosciamo
apertamente, sono atti d'adirati. Oltre a questo
dice che v'è la Virtù tristissima; per questa intende la corporale
forza, la quale, quando indebitamente s'adopera nelle morti e nelle
fedite degl'innocenti, è tristissima virtù, e povera, cioè senza alcune
degne di lode. Appresso dice che v'è l'alegro Furore, il quale senza
fallo noi veggiamo in ciascuno atto di colui che ingiustamente è
adirato, perciò che tutti sono furiosi; allegro il chiama, perciò che
con
impio animo e con romore e con pompa si corre alle 'mprese
furiosamente. Dice appresso che v'è la
Morte armata e lo Stupore,
quasi due fini delle guerre nata dall'
ira, perciò che o nell'armi si
muore, essendo dagli armati ucciso, o, rimanendo vivo, s'ha ammirazioni
delle gran cose avvenute da piccioli principii, sì come molte
volte abbiamo veduto avvenire. Quinci procede l'autore a dimostrare
la quarta cosa, cioè di che sia ornata la casa di Marte, cioè il tempio.
E dice che ogni altare v'è copioso di sangue, non di bestie come
agli altri iddii quando si facea loro sacrificio s'uccidevano, ma
di sangue umano sparto nelle battaglie; e questo pone, e ancora l'altre
cose che seguono, a dimostrare li crudeli fini che hanno l'
ire non
mitigate dalla ragione. Dice
similemente: ogni altare di Marte luminoso
etc
.: quali siano gli altri ornamenti assai chiaro apparisce.
Nondimeno so che assai più cose e meglio sopra questa materia si
potrebbono dire; lasciole a coloro che con più diletto partitamente
le vorranno ancora raguardare e scrivere, perciò che a me basta,
scrivendo questo ad instanzia di donne, averne detto quello che qui
appare.
iberni: cioè sempre freddi.
L. 7, 30.2agitati: stimolati.
L. 7, 30.3nimbi: nuvoli.
L. 7, 30.6agroppati: aghiacciati.
L. 7, 32.2
questa: orazione.
L. 7, 32.3pulio: pulito.
L. 7, 32.5abborreva: schifava.
L. 7, 32.6entrata: del tempio.
L. 7, 32.7etterno: cioè che non vien meno per la sua dureza.
L. 7, 33.1costei: cioè questa orazione.
L. 7, 37.2
guastati: dalle fedite.
L. 7, 37.4elati: superbi.
L. 7, 37.8si veda Marte etc.: cioè l'ardore dell'ira.
L. 7, 38.2Mulcifero: cioè Vulcano.
L. 7, 38.2-4La
favola di Marte e di Venere
e di Vulcano è qui poco dinanzi distesamente scritta; e è chiamato
Vulcano Mulcifero, perciò che amollisce il ferro, sì come noi
veggiamo: Vulcano, cioè il fuoco, fa il ferro ch'è duro,
scaldandolo,
sì
tenero, che l'uomo ne fa ciò che vuole.
L. 7, 38.3Citerea: Venere.
L. 7, 38.5Il quale: Marte.
L. 7, 38.6colei: l'orazione.
L. 7, 39.1questa: orazione d'Arcita.
L. 7, 39.5iddio: cioè Marte.
L. 7, 39.7le porte: del tempio.
L. 7, 40.1Li fuochi: fatti da Arcita.
L. 7, 40.2e diè la terra etc.: per la venuta di Marte.
L. 7, 40.5le cui armi: cioè della imagine di Marte.
L. 7, 40.6dolce: piacevole.
L. 7, 42.2
fummare: sacrificando.
L. 7, 42.5Citerea: Venere.
L. 7, 42.7vittime: sacrifici.
L. 7, 43.2bella dea: Venere. - Vulcano: idio del fuoco.
L. 7, 43.3s'allegra: cioè con la festa. - il monte Citerone: in su questo monte è
adorata Venere.
L. 7, 43.5Adone: figliuolo di Cinara e di Mirra.
L. 7, 45.4dea: Venere. - lontan: lungo.
L. 7, 46.6lontana: lunga.
L. 7, 48.3
e di mortine: come si fa oggi alle feste.
L. 7, 50.1
Come d'Arcita etc. Di sopra è mostrato quale sia la cagione
per che l'autore dà certa forma all'orazione, e però qui non curo
di
replicarlo. E sì come
davanti ha disegnata la casa di Marte,
così qui intende di disegnare quella di Venere; e come che egli non
si curi in porre e la qualità del luogo dove è la casa e le cose che
sono pertinenti alla detta casa ordinatamente e successivamente,
nondimeno si possono esse considerare ordinatamente per chi vuole,
e
discernersi qui posta la qualità del luogo, dove è la detta casa,
chi sieno quelli che abitano detta casa e che forme e che ufici abbiano,
come sia fatta la casa e quali siano gli ornamenti della detta
casa. È da vedere adunque primieramente della qualità del luogo.
Il quale dice l'autore che è nel monte Citerone, fra pini etc
., come
nel testo appare. Ad
evidenzia della quale cosa è da sapere che come
di sopra, dicendo Marte consistere nello appetito irascibile, così Venere
nel concupiscibile. La quale Venere è doppia, perciò che l'una
si può e
dee intendere per ciascuno onesto e licito disiderio, sì come
è disiderare d'avere moglie per avere figliuoli, e simili a questo;
e di questa Venere non si parla qui. La seconda Venere è quella
per la quale ogni lascivia è disiderata, e che volgarmente è chiamata
dea d'amore; e di questa disegna qui l'autore il tempio e l'altre
cose circustanti ad esso, come nel testo appare. Discrive adunque
l'autore questo tempio di Venere esser nel monte Citerone, per due
cose: l'una, perché di fatto vi fu, perciò che il monte Citerone è
vicino a Tebe, e sopra quello facevano i Tebani in certi tempi dell'
anno
solennissima festa, e offerevano molti sacrifici ad onore di
Venere; la seconda cosa si è per la qualità del luogo, la quale è molto
conforme a Venere, perciò che è regione molto temperata di caldo
e di freddo, come assai chiaro si vede da chi bene
consedera; perciò
che quelle parti di
Grecia nelle quali è il monte Citerone non sono
troppo sotto tramontana né troppo verso mezodì, ma quasi tra l'uno
e l'altro; e questa temperanza negli atti venerei è molto richesta;
perciò che, se noi riguardiamo bene, uno uomo il quale sia di frigida
natura, o sia per accidente ancora
freddo, non può sanza gran
difficultà a quello atto pervenire per le virtù attive dal freddo impedite.
Similmente colui o che è di natura troppo caldo, o è per accidente
o di soperchio vino o di fatica riscaldato, ha sì resolute le
attive virtù, che
esercitare non si può in cotale atto. È adunque necessaria
la temperanza a cotale
esercizio, per la qual cosa
meritatamente
in temperato luogo pone l'autore il tempio di questa
dea. E perciò
che varie cose possono i troppo frigidi provocare a cotale atto, e
similmente li troppo caldi riducere a
debita temperanza, discrive qui
l'autore assai cose nelle quali sono queste forze. Egli dice che il luogo era
pieno di pini, il frutto de' quali, usandolo di mangiare, ha
mirabilissime
forze a
provocare quello appetito, secondo che i fisici vogliono; e oltre
a ciò, pone in più segreta parte con Venere Bacco e Cerere, per li quali
due s'intende il bere e il mangiare: le quali cose, nelle preziose vivande
e ne' buoni
vini
debitamente usate, risuscitano, in qualunque
l'usa, mirabilemente cotale appetito. Appresso pone che il luogo era a
vedere bellissimo, e che quivi si vedeano conigli, cervi, passere, colombi,
e
ultimamente donne
scalze scinte
danzare. Le quali cose, alcune per
li loro effetti, sì como i conigli e le passere e' colombi, incitano molto,
veduti da' libidinosi; e alcune dalli loro abiti e atti, sì come le donne
scalze e scinte e
danzanti. E oltre a ciò, in più segreta parte discrive
Venere
ignuda, la quale veduta ha maravigliosa forza. Oltre a questo,
dice v'erano bellissimi fiori e mortine: questi hanno a
confortare
l'
odorato, e
massimamente la mortine, la quale scrivono i poeti
essere albero di Venere, perciò che il suo odore è
incitativo molto.
Odevi ancora canti e istrumenti, le quali cose hanno forze da cacciare
via ogni malinconia, la quale, sì come cosa da frigidi omori
mossa, è forte avversa
agli effetti di Venere. Dice
similemente il
luogo essere ombroso e pieno di fontane. Per l'ombre vuole intendere
due cose: l'una per lo
rinfrescamento opportuno a' troppi caldi,
e per questo ancora le fonti; l'altra per la qualità del luogo che
richeggiono gli effetti di Venere, i quali vogliono agio e buio: il che
similemente dimostra quando disegna il luogo dove Venere dimora. E
poi che egli ha disegnato quelle cose le quali
generalmente possono,
secondo le forze naturali,
provocare a l'atto venereo ciascuno, disegna
quelle le quali provocano alcuni, li quali noi chiamiamo volgarmente
innamorati. E queste pone in forme di persone, e
ponle di diverse maniere,
perciò che alcune ne pone naturali e sì come cagioni
eccitative. E
queste sono:
Vagheza, la quale dice che è la prima che si truova nello
'ntrare di questo luogo di Venere; per la quale intende quello disiderio
naturale il quale ciascuno uomo o donna ha di vedere e di possedere o
acquistare più tosto le belle e le care cose che l'altre; e questa
Vagheza
è quella che tira i giovani alle feste e nelli luoghi ove donne sieno adunate,
acciò che tra molte n'elegga alcuna, secondo il suo giudicio più
degna del suo amore; e ancora di queste
eccitative: Bellezza, Giovaneza,
Leggiadria, Gentileza, Piacevolezza, e simiglianti. Alcune ne pone
quasi
confermative dello appetito
eccitato per le sopradette: tra le quali
pone Cupido, il quale noi volgarmente chiamiamo Amore. Il quale
amore volere mostrare come per le sopradette cose si generi in noi,
quantunque alla presente opera forse si
converrebbe di dichiarare,
non è mio intendimento di farlo, perciò che troppa sarebbe lunga
la storia: chi disidera di
vederlo, legga la canzone di
Guido Cavalcanti
Donna mi priega, etc., e le chiose che sopra vi fece Maestro
Dino del Garbo. Dice adunque
sommariamente che questo
amore è una passione nata nell'anima per alcuna cosa piaciuta, la
quale
ferventissimamente fa disiderare di piacere alla detta cosa piaciuta
e di
poterla avere; al quale
fervore disegnare, perciò che egli
non può essere senza gravissime punture,
generalmente ciascuno che
di lui parla dice che egli è armato di saette. Altri vogliono per queste
saette intendersi il suo subito e
penetrativo
entramento; le quali
si possono prendere. Dice adunque che Cupido
fabricava queste
saette, alla perfezione delle quali v'agiugne tre: cioè Voluttà e
Ozio
e Memoria. Voluttà dice che le tempera in una fonte; ove è da sapere
che Amore prese per moglie una giovane, la quale fu chiamata
Psice, e ebbe di le' una figliuola, cioè questa Voluttà; per la quale
Psice intende qui l'autore la speranza, la quale quante volte viene o
dimora con amore nella
mente dello innamorato,
cotante volte generano
questa figliuola, cioè Voluttà; la quale s'intende qui per uno
diletto singulare che l'anima sente dentro a sé, sperando d'ottenere
la cosa amata; e questa cotale dilettazione è quella che tempera le
saette d'Amore, cioè che le fa forti a potere bene passionare il cuore;
e
temperale nella fonte della nostra falsa
estimazione, quando per
questa
dillettazione, nata d'amore e di speranza, giudichiamo che
la cosa piaciuta sia da preporre ad ogni altra cosa o temporale o divina.
Ma perciò che queste cose dette non si possono senza ricordamento
della cagione d'esse e senza
spazio di tempo fermare, perciò
agiugne Memoria e
Ozio a
ferrare queste saette,
fabricate dal
fervore
d'amore e temperate dalla dilettazione intrinseca, nata dalla
speranza. E chi non sa che se non ci ricordasse e della forma e degli
atti della cosa piaciuta, che noi non la potremmo amare? E
similemente
se noi pure ce ne
ricordassimo e fossimo da molte e varie
faccende impediti, questo piacere non si potrebbe fermare nella
mente, anzi si passerebbe e darebbe luogo
agli altri affari? Dunque
e Memoria e
Ozio
danno perfezione a questa cotale passione. Oltre
a queste, pone l'autore certe cose accidentali, le quali sono induttive
allo effetto del disiderio nato da questa passione: e sì come
Adorneza, perciò che per l'essere ornato molte volte l'amante viene
in piacere della cosa amata. Appresso pone Affabilità, la quale è
graziosissima cosa alle persone intendenti. poi pone Cortesia, la quale
non senza cagione dice del tutto essere perduta, perciò che pochi
sono coloro li quali sieno o sappiano essere cortesi: questa cortesia
ha grandissime forze in acquistare amore e grazia d'altrui, e sanza
fallo molti altri difetti ricuopre. Ancora dice che v'erano l'Arti magiche,
le quali con varie trasformazioni spaventano, e con forze di
diversi incantamenti inducono molte volte e gli uomini e le donne
ad amare ciò che, se quelle non fossero, non amerebbono. Eravi
Ardire, il quale giova molto ad ottenere quello che si disidera; e
chiamalo folle, perciò che ardire rade volte, o non mai, può venire
da savio consiglio; e il savio consiglio non concede mai altrui se non
quello di che vede il fine; ma delle cose che l'uomo ardisce è incerto
che ne
dee seguire: vero è che di questo Ardire che qui s'intende
è più propio nome Temerità. Dice ancora che v'erano
Lusinghe e
Promesse e Arte, le quali cose variamente e in varii tempi possono,
come coloro sanno che già l'hanno provato. Appresso queste, pone
l'autore che v'era
Pazienzia, senza la quale niuna speranza potrebbe
durare, né per conseguente avere effetto niuno amore; e questa dice
che era pallida: e
ragionevolmente, perciò che
pazienzia non
ha luogo se non là dove pene e angoscie sono; le quali, come noi
dalla
esperienza veggiamo, fanno dimagrare e impallidire chi gli
sostiene.
Dice ancora che madonna Pace v'era, a dimostrare che i disideri
che per forza s'hanno non sono da dire amorosi, perciò che
gli amorosi richeggiono
pari concordia dell'una parte e dell'altra.
E poi che ha infino a qui senza
distinzione alcuna mostrate queste
cose, mostra di che fosse il tempio di Venere; e brievemente dice
che tutto era di rame; e dentro vi mette certe cose le quali quasi
avegnono a chiunque dentro al tempio
entra, come apresso si scriverà.
Le
ragioni per le quali dice il tempio esser di rame, sono queste:
primieramente, perché dal pianeto di Venere nascie il rame e
l'ottone, li quali uno medesimo
metallo sono in genere, come che in
ispezie abbiano alcuna diversità; e qui è da prendere quello che dice
rame, per rame e per ottone. Appresso è da sapere, il rame o ottone
che vogliamo dire, avere tre
singulari propietà: la prima è che
egli salda e congiugne e allega ogni altro
metallo, sì come per
esperienzia
si vede o, se non tutti, la maggior parte; la seconda si è che
l'ottone, esendo pulito, luce come oro; la terza è che egli ha soavissimo
suono; le quali tre cose sono negli effetti di Venere, perciò
che per la sua influenzia tutti i congiugnimenti naturali a procreare
alcuna cosa, e
massimamente dove congiugnimento bisogni, per lei
si fanno. Appresso, sì come quello
pare oro e è vilissimo
metallo,
così i congiugnimenti, prima che provati sieno, paiono dovere avere
in sé somma dilettazione, dove, dopo il fatto, si truovano pieni di
grave amaritudine. Oltre a questo, ha soavissimo suono; per lo quale
ottimamente si comprende, se ne' fatti di Venere è alcuna dolceza,
quella consistere più nel ragionare che nell'operare. E questo
basti avere detto del tempio. Dentro al quale pone uno
tumolo di
sospiri, e da questi dice essere nutricati i fuochi posti sopra gli altari
bagnati di
lagrime: e queste cose dice mosse da Gelosia. In che
vuole l'autore intendere non nascere prima i sospiri né venire le
lagrime,
che l'uomo sia dentro al tempio, cioè innamorato e tocco da
gelosia; perciò che i sospiri di chi ama, senza essere geloso, sono
leggieri e le più volte piacevoli; ma gelosia porge amarissime sollecitudini
e infinite, le quali e sospiri e
lagrime e angosciosi guai tirano
spesse volte fuori de' petti de'
gelosi: come coloro sanno che il
pruovano o che provato l'hanno. E queste angoscie sono le fiamme
le quali ardono sopra gli altari di Venere, cioè ne' cuori di coloro
che al
servigio d'amore con poca fortuna si sono dati. Dice ancora
l'autore che in quel tempio Priapo, iddio degli orti, tenea sommo
luogo in quello abito etc
. Ove è da sapere che, secondo che i poeti
scrivono, essendo più iddii ad una certa festa, e quivi avendo fatto
certi loro
tabernacoli e
albergandovi, v'erano tra gli altri una
dea
chiamata Vesta, la quale era bellissima giovane, e eravi il sopradetto
Priapo, il quale, vedendo la belleza di costei, invaghito di lei, appostò
là dove ella doveva la notte dormire; e venuta la notte, lucendo
la luna, Priapo tutto ignudo si levò e
andonne tacitamente al
luogo dove Vesta dormiva, e essendo già
disposto per
entrarle allato,
avenne per isciagura che uno asino, sopra il quale Sileno, vecchio
balio di Bacco, era venuto e giacevasi presso là dove Vesta dormiva,
cominciò a ragghiare sì forte, che Vesta e molti altri si
destarono.
La quale veggendosi, per la luna che luceva, presso Priapo,
e conoscendo quello per che veniva, cominciò a gridare; laonde
Priapo cominciò a fuggire verso il suo
tabernacolo, ma non poté
sì prestamente fuggire che da tutti non fosse veduto così ignudo:
per la quale cosa sempre fu poi la sua imagine posta ignuda in ogni
parte. Il quale l'autore dice che era in questo tempio figurato così
ignudo; e vuole per questo disegnare quale sia la cagione alle femine
da amare, con
ciò sia cosa ch'egli nel
discrivere della forma di
Venere mostri l'affezione degli uomini. E per ciò pone Priapo in
più aperta parte che Venere, perché gli uomini curano meno che
le loro
occulte parti sieno dalle femine vedute che le femine non
fanno. Questo detto, procede l'autore a mostrare alcuni ornamenti
del tempio. E primieramente dice vi vide ghirlande di varii fiori;
per le quali intende il brieve diletto di coloro alli quali è, secondo
il loro disiderio, bene avenuto d'avere amato. Seguentemente dice
vi vede archi tolti a' cori di Diana; ove è da sapere che Diana appo
gli antichi era
dea della castità e non riceveva in sua compagnia altra
femina che vergine, e dicevano gli antichi che l'
esercizio di costei
e delle sue seguaci era solamente ne' boschi e in cacciare, a dimostrare
che chi vuole interamente servare la sua castità,
dee fuggire
in quanto può ogni umano consorzio, e
similemente l'
ozio; perciò
che queste due cose, se bene si comprende ciò che di sopra è
detto, sono grandissime cagioni di cadimento ne' lacciuoli di Venere.
Solevano adunque quelle vergini le quali seguivano Diana andare
con gli archi alle caccie; e già ne furono assai vinte da Amore,
le quali, lasciato di seguire Diana, seguirono Venere; in testimonianza
delle quali vittorie, pone qui l'autore vedersi nelli templi di Venere
appiccati gli archi di quelle che vinte furono. E ponne qui
d'alcuna, cioè di Calisto. Fu questa Calisto una bellissima giovane
d'Arcadia, la quale aveva
botata a Diana la sua
virginità, e
seguivala
per li boschi cacciando; della quale Giove s'innamorò; e veggendola
un giorno in uno bosco sola, si
transformò nella sembianza di Diana,
e fecelesi incontro. Calisto, credendo che costui fosse Diana
veramente,
si levò suso e andò verso lei e, secondo la loro usanza, si
basciarono insieme; di che Giove più infiammò e,
trascinatala in
parte segreta del bosco, si giacque con lei. Di che ella ingravidò,
ma nondimeno, quanto più poté, celò questo inganno
fattole da
Giove. Alla fine, bagnandosi un giorno Diana e avendo fatto spogliare
lei e altre delle sue vergini perché la lavassero, videro il corpo
di costei grande e conobbero ch'ella era pregna; di che subitamente
costei con gran vergogna fu cacciata da loro. E essa partorì uno figliuolo,
il quale fu chiamato Arcas. La qual cosa Iuno conoscendo,
discese in terra e trasmutolla in
orsa. Poi essendo cresciuto questo
Arcas, e andando un dì a cacciare, scontrò la madre, e non conoscendola
la volle saettare; ma Giove, avendo misericordia di lei, subitamente
convertì Arcas in orsa, e
trasportonne l'una e l'altra in
cielo:
e chiamasi l'una
Orsa Maggiore e l'altra
Orsa Minore, nella coda
della quale è quella
stella che noi chiamiamo Tramontana. Dice
adunque che l'arco di costei è in quel tempio. E ancora dice che vi
sono le tre pome della fiera Atalanta e l'armi dell'altra
altiera Atalanta.
Della prima Atalanta è la storia così fatta: Ceneo, re d'Arcadia,
ebbe una figliuola bellissima, il cui nome fu Atalanta, la quale
più che alcuna altra persona correva
velocemente. Costei con alcuno
iddio si consigliò se ella si dovesse maritare o no: fulle risposto
che ella fuggisse di maritarsi, ma che pure alla fine, male per sé,
si mariterebbe. Per la quale cosa costei, acciò che niuno la dimandasse
per moglie,
pose uno cotale
patto: che chiunque la volesse per moglie,
dovesse correre a pruova con lei; e se egli
corresse più di lei,
l'avesse; se ella
corresse più di lui, che quello cotale che fosse da lei
vinto, fosse ucciso. Per la quale pruova, non potendola alcuno vincere,
più giovani furono morti. Alla fine uno giovane, il quale era
bellissimo e gentile uomo, avendo molto biasimato coloro li quali
per avere costei per moglie si mettevano a tale
pericolo, la venne a
vedere, e, vedutala, sommamente gli piacque; di che egli disse di
volere correre con lei; ma ella,
vedendolo così bello, ne cominciò
ad avere compassione e a
pregarlo che egli non si mettesse a quello
pericolo. Alla fine
Ipominès disse del tutto che pure volea correre,
laonde ella disse di farlo. Ma prima che corressero,
Ipomenès divotamente
pregò Venere che l'aiutasse e dessegli vittoria; per li cui
prieghi Venere subitamente se ne andò in Cipri, in uno suo giardino,
dove era uno
melo il quale faceva le
mele d'oro, e
colsene tre
molto belle, e recolle ad
Ipomenès, e
insegnogli come fare dovesse
con esse. Furono adunque
Ipomenès e Atalanta in su il corso, e cominciarono
a correre; e dopo alquanto, veggendosi
Ipomenès avanzare,
gittò l'una di queste tre
mele, la quale come Atalanta la vide, subitamente
la
corse a ricogliere; e in questo
spazio
Ipomenès le
'ntrava
innanzi; e veggendosi ragiungere, gittò la seconda, e poi la terza;
le quali mentre che Atalanta penò a racogliere,
Ipomenès pervenne
prima di lei al
termine posto; e così l'ebbe per moglie. Ma
poco la godeo, perciò che per la grande allegreza che ebbe d'averla
vinta, gli uscì di
mente di ringraziarne Venere; laonde ella si turbò,
e andandose
ipomenès con Atalanta a casa sua, mise loro un sì fatto
fuoco adosso, che non poterono
sostenere d'andare insino a casa
loro, anzi se ne
entrarono in uno tempio di Cibele, madre degl'iddii, e
in quello si giacquero insieme; di che Cibele turbata gli convertì in
leoni. Sono adunque quivi queste tre pome a rendere testimonianza di
questa vittoria. La seconda istoria è questa: avendo quegli di Calidonia
onorati tutti gl'iddii con sacrifici, fuori che Venere, Venere, essendosene
sdegnata, mandò in calidonia un porco cinghiare grandissimo, il
quale guastava tutte le
biade. Per la qual cosa Meleagro, figliuolo
d'Oeneo, re di Calidonia,
ordinò una grandissima caccia, e
invitovvi
tutti i nobili giovani di
Grecia; ma tra gli altri vi venne d'Arcadia una
giovane bellissima la quale aveva nome Atalanta e era delle vergini di
Diana, della quale Meleagro s'inamorò. E avendo egli, secondo l'usanza
de' cacciatori, proposto che chi prima il ferisse avesse la testa, avvenne
che costei il ferì primieramente d'una saetta; laonde, essendo
poi il porco morto, Meleagro le presentò la testa; dal quale beneficio o
forse dalla belleza di Meleagro presa, costei giacque con lui e
ebbene
uno figliuolo bellissimo sopra tutti gli altri uomini, il quale ebbe nome
Partenopeo, che poi fu ucciso a Tebe, come
davanti è mostrato.
Poi che l'autore ha mostrati in parte gli ornamenti del tempio,
i quali erano in alcune cose, sì come archi e armadure, mostra che
egli ancora era ornato di dipinture, le quali dipinture ancora rendevano
testimonianza delle vittorie di Venere. E dice che istoriata
v'era Semiramìs e i suoi fatti. Questa Semiramìs fu moglie di
Nino,
re degli Assirii, e morto il
marito, veggendosi di lui uno solo figliuolo
similemente chiamato
Nino e questo essere fanciullo e per sembiante
più atto alle cose veneree che al
regimento del regno, ella in
sé ritenne la signoria e fece in fatti d'arme maravigliose cose e ampliò
molto il regno
lasciatole dal
marito. Ma come che in altro fosse
valorosa donna, fu nondimeno di tanto venereo fuoco accesa, che
vedendo
Nino, suo figliuolo, bellissimo giovane, si
condusse a giacere
seco e a tenerlo tra le sue
damigelle nascosto; e per gelosia che
alcuna d'esse non giacesse seco, fece a tututte brache, le quali infino
a quel tempo non erano state per alcuna persona né vedute né
usate.
Ultimamente scoprendosi per lungo uso di questo suo peccato,
e sentendo ella che tra la gente in vituperio di lei se ne ragionava
molto, per torre via questo vituperio, fece una legge, che in atto di
lussuria fosse a ciascuno licito ciò che gli piacesse. Questo adunque
era quivi di Semiramìs istoriato. Eravi ancora la istoria di Piramo e
di Tisbe, la quale fu in questa guisa: Piramo fu uno bello giovanetto
di
Bambillonia, il quale amava sommamente una giovane fanciulla,
sua vicina a
muro a
muro, la quale aveva nome Tisbe; e essendo
questi due giovani da' loro padri ristretti in casa per maniera che
l'uno non poteva vedere l'altro, avvenne un giorno che quegli di
casa Piramo e
similmente quegli di casa Tisbe andarono ad una gran
festa la quale si faceva fuori della città, e lasciarono soli in casa questi
due giovinetti. Di che, avendo l'uno voglia di vedere l'altro, avvenne
che Tisbe vide una
fessura nel
muro che era tra la casa sua e
quella di Piramo, per la quale essa sottilmente riguardando, e non
veggendo nulla, fece tanto che ella si fece sentire a Piramo, il quale
di presente
corse là, e per lungo
spazio si ragionarono insieme, e
poi molte volte celatamente vi ritornarono. Alla fine essendo loro
gravosa cosa lo stare in così fatta vita, ordinarono insieme un dì
d'ingannare, la notte seguente, coloro che guardavano gli usci delle
loro case, e d'
uscirne fuori e di ritrovarsi insieme; e proposero che
quale di loro prima uscisse fuori, aspettasse l'altro ad una fonte, la
quale era in uno bosco fuori di
Bambillonia, sotto ad uno grandissimo
moro gelso. E fatto questo proponimento, venuta la notte, Tisbe
uscì
nascostamente di casa prima che Piramo e andossene alla
fontana, come avevano proposto; e stando quivi ad aspettare Piramo,
lucendo la luna chiarissimamente, vide per aventura venire
una leonessa, la quale aveva divorato uno animale e veniva a bere;
di che costei subitamente spaventata, lasciato quivi un mantello che
recato aveva adosso e uno suo velo, subitamente si fuggì ivi presso
alla
sepoltura del re Nino, la quale era in quello bosco. La leonessa,
venuta alla fontana, bevé e, bevuto che ella ebbe, si cominciò a forbire
il
muso sanguinoso sopra quello mantello e sopra 'l velo che
Tisbe v'aveva lasciati, e, forbendosi tutti gl'insanguinò e stracciò, e
partissi. Né passò guari che Piramo giunse quivi, il quale, come vide
il mantello e 'l velo sanguinosi e stracciati,
riconoscendogli, pensò
che alcuna fiera avesse quivi uccisa e divorata Tisbe; di che con
gravissimo dolore e con
lagrime e con pianto una spada la quale aveva
portata, se la mise per lo petto e uccisesi. Della quale fedita il
sangue
sampillò sì forte fuori e sì alto, che gli toccò quelle
more
gelse, le quali tutte infino a quel tempo erano state bianche; laonde
elle subitamente diventarono vermiglie. Tisbe, rassicurata, dopo alquanto
spazio tornò alla fonte, e avendo gli occhi al
moro, e
vedendole
vermiglie, dubitò non quella fosse un'altra fonte e non quella
la quale andava cercando; e già volendosi partire per cercare altrove,
sentì sotto il
moro Piramo il quale ancora per lo duolo della fedita
palpitava; di che ella tutta stupefatta guardò e conobbe che quegli
era Piramo; laonde ella
veggendolo a quello partito e conoscendo la
cagione della sua
morte, dopo molti ramarichii e doloroso pianto,
trattagli
la spada dal petto e chiamatolo molte volte, e egli, già essendo
per morire, aperti gli occhi, la
riguardò, dopo il quale raguardamento
essa senza indugio si lasciò col petto cadere sopra la spada e così
s'uccise: e amenduni poi furono insieme sepelliti in uno sepolcro.
Queste così gran forze di Venere dice l'autore che erano quivi dipinte.
Dice apresso che vi vide
similemente dipinto
Ercule in grembo a Iole;
la cui
novella è così fatta.
Ercule, avendo vinto una provincia, la quale
è in
Grecia, che si chiama
etolia, e
cacciatone
Eurico re, s'innamorò
sì forte d'una giovane che aveva nome Iole, figliuola del detto
Eurico,
che, dimenticata
Deianira sua moglie, si mise a starsi con questa Iole.
La quale conoscendo l'amore che
Ercule le portava, gli fece porre giù
la
pelle del leone, la quale egli rigidissimo uomo sempre portava
adosso, e in luogo di quella il fece vestire di porpora, e fecegli pettinare
i capegli, e portare l'anella in
dito, e
ultimamente il fece
filare.
Appresso dice v'era dipinta Biblis dietro a Cauno. Biblis fu
sirocchia
carnale di Cauno, e furono figliuoli di Mileto e di Ciane.
Questa Biblis innamorò forte di Cauno suo fratello, il quale per una
lettera
mandatagli da lei conobbe questo amore; per la qual cosa
turbatosi, si partì di casa sua e cominciò a fuggire costei; ma essa il
seguio infino a
Carra: quivi vinta dal dolore, si convertì in fonte.
Alcuni dicono che ella s'impiccò per la
gola.
Queste istorie e forse molte altre
testimonianti le forze di Venere
vedute dalla orazione di Palamone, dice l'autore che l'orazione pervenne
al luogo là dove era Venere. Nella quale parte, a chi bene
ogni cosa considera, disegna assai bene la vita
voluttuosa nella quale
si possono dire tutti coloro li quali, dopo lungo amare, o con
arte
o con ingegno o con ispesa pervenuti sono alli loro piaceri e in quegli
perseverando dimorano. Dice adunque che Venere era nella più
segreta parte del tempio, alla guardia della quale parte sedeva Riccheza:
dove vuole intendere,
voluttuosa vita senza riccheza non potersi
avere né lungamente seguire. Poi dice il luogo essere
oscuro;
e questo perciò è perché coloro li quali adoperano male, odiano la
luce. Quindi disegna la belleza di Venere, la quale dice essere a
giacere, in parte nuda e in parte d'una porpora sì sottile coperta,
che appena niente
nasconde di quelle parti che cuopre. Per lo giacere
intende l'
oziosità la quale è ne'
voluttuosi, e il
vivere
molle;
per la belleza di Venere, la quale sappiamo essere cosa labile e caduca,
intende il falso giudicio de'
voluttuosi, il quale da verissime
ragioni
leggierissimamente si
convince e mostrasi vano. per la parte
ignuda di Venere intende l'apparenza delle cose, le quali attraggono
gli animi di coloro la cui
estimazione non può passare all'
essistenzia;
per quella parte di Venere che sotto la sottile copertura appare, intende
di mostrare quale sia l'occulta
estimazione di quegli che alle
cose apparenti si prendono, perciò che questi cotali, veggendo un
bel viso ad una donna, incontanente con la
stimazione
transcorrono
a credere che le parti celate da' vestimenti abbiano in sé alcuna belleza
e dolceza più che quelle d'una che abbia meno bello il viso;
e quasi le pare loro vedere, como che eglino poi, essendone la
sperienzia
testimonia, tutte, e le belle e le non belle, truovino fatte ad
uno modo. Dice appresso che dall'uno lato le sedeva Bacco, iddio
del vino, e Cerere,
dea delle
biade; per li quali due intende la
gulosità
la quale sommamente seguono i
voluttuosi. Dice ancora che
ella teneva Lascivia per mano: in che intende di dimostrare, l'opere
de'
voluttuosi non solamente in lussuria consistere, ma ancora in
lascivia; la quale lascivia intende essere il basciare, il toccare e il
cianciare e 'l
motteggiare e l'altre
sciocchezze che intorno a ciò si
fanno. Il luogo essere odorifero è di necessità a'
perseveranti così
fatte cose, con
ciò sia cosa che essendo l'atto di sé
fetido, se l'
odorato
con odori non si
riconfortasse, di leggiere s'impedirebbe lo
stomaco
e 'l cerebro, e per conseguente tutta l'altra operazione. Per lo pomo,
il quale dice Venere avere in mano, vuole dimostrare la stolta
elezione di quegli che così fatta vita ad ogni altra prepongono. Ed
è la storia di quel pomo cotale: avendo Pelleo, figliuolo d'
Eaco, tolta
per moglie Tetis,
dea del mare, invitò alle
noze Giunone e
Pallade
e Venere; la quale cosa la
dea della
discordia ebbe forte per
male, in quanto ella come quelle altre non v'era stata chiamata; e
perciò, per vendicare la 'ngiuria che di ciò le pareva ricevere, essendo
le tre
dee a tavola,
Discordia
occultamente gittò tra loro un
pomo d'oro, nel quale era scritto: «Questo sia della più degna di
voi tre». Le
dee il presero, e, veduta la scritta, ciscuna il voleva,
dicendo sé essere più degna che l'altre. Venute adunque a quistione,
vollero rimettere il giudicio in Giove; Giove
nol volle prendere, ma
disse loro che elle andassero a Paris, nella selva Ida, il quale era ottimo
giudice. Andarono dunque le tre
dee a Paris e
dissergli la loro
quistione e le loro
ragioni; e oltre a ciò, Giunone, sì come
dea delle
riccheze e de' regni, gli
promise, se egli
desse il pomo a lei, di farlo il
più ricco e il maggiore signore del
mondo. Pallas,
dea della sapienza,
gl'impromise, se a lei il
desse, di
fargli avere intera conoscenza di tutte
le cose; Venere,
dea d'amore, gli
promise, se a lei il
desse, di
fargli avere
l'amore della più bella donna del
mondo: laonde Paris il diede a
lei, e ella gli fece avere l'amore d'Elena, la quale rapì a Menelao.
Per la quale riavere, tutti i Greci vennero ad assediare Troia, tra' quali
venne Accille, figliuolo di Pelleo e di Tetis, e fuvvi ucciso, e così fu
vendicata la 'ngiuria la quale si reputava avere ricevuta da Pelleo la
dea
Discordia, perciò che come l'altre
dee non era stata invitata alle
noze.
Questo adunque è il pomo il quale l'autore dice che Venere teneva
in mano. E questo basti avere detto del luogo e del tempio di Venere,
e dell'altre cose circustanti ad esso.
L. 7, 50.5di Citerea: di Venere.
L. 7, 71.2
co' corni pien etc. Ercule combatteo con uno fiume chiamato
Acheloo, il quale, mutandosi in diverse forme per la divina potenzia
che in lui era, e in tutte essendo da
Ercule soperchiato, alla
perfine si mutò in uno toro, col quale
Ercule combattendo, gli
strappò
l'uno de'
corni dalla fronte, e
donollo alle ninfe della contrada,
le quali lo
'mpievano di fiori e d'incensi e d'altre cose da fare sacrificii,
quante volte sacrificare voleano: dalle quali tornò in usanza
appo gli antichi di portar ne'
corni l'offerte.
L. 7, 72.5
di fontano liquore: d'acqua di fontana.
L. 7, 73.2di quella dea: di Diana.
L. 7, 73.4nebula: di polvere o d'altro.
L. 7, 73.8rorando: innaffiando.
L. 7, 74.1quercia cereale: Cereale quercia è quella che fa le ghiande,
e è così chiamata da Cerere, dea delle biade, perciò che le ghiande
furono usate in luogo di biada da' primi uomini; e corononne
Emilia il tempio di Diana e sé, perciò che Diana è dea de' boschi,
ne' quali, come noi veggiamo, nascono le quercie.
L. 7, 74.4grasso: perché cola come fosse pieno d'olio.
L. 7, 74.7
due roghi etc.: che cosa
sia rogo è detto di sopra, ma non è però da intendere qui che ella
facesse due roghi come quegli sopra li quali si ponevano per
ardere i corpi morti, ma fece due piccioli monticelli di legne di pino
a guisa che si fanno i roghi.
L. 7, 75.2e quel di vino etc. Discrive qui in parte il modo che si soleva
servare dagli antichi quando volevano responso d'alcuna cosa
futura.
L. 7, 76.1bidenti: cioè con due lattaiuoli.
L. 7, 76.5battenti: ne' cuori.
L. 7, 77.2Plutone è iddio de l'inferno.
L. 7, 77.4olocausti: sacrifici.
L. 7, 79.2
lustratrice: cioè cercatrice.
L. 7, 79.4vengiatrice: vendicatrice.
L. 7, 79.5Chi fosse Atteon è detto di sopra. È vero che alcuni dicono che
egli fu saettato da Diana, allora che egli divenne cervio: e questa
oppinione mostra di tenere qui l'autore.
L. 7, 79.7dal tuo nervo: cioè dalla corda dell'arco.
L. 7, 80.3triforme etc. È questa dea in cielo chiamata luna e ha quella
forma la quale noi veggiamo; e in terra è chiamata Diana, dea della
castità, e allora si figura con l'arco e col turcasso a guisa di cacciatrice;
in inferno si chiama Proserpina, e allora si figura come reina
perciò che è moglie di Plutone, iddio e re d'inferno.
L. 7, 81.2
a la faretra: cioè al
turcasso.
L. 7, 81.4se s'aretra etc.: cioè
se alle cose state per adietro riguarda.
L. 7, 81.7nostro voler etc.: quando
in Scitia uccisono i maschi loro, come di sopra si dice.
L. 7, 82.5de' giovinetti: di Palemone e d'Arcita.
L. 7, 83.1i fati: cioè la divina disposizione.
L. 7, 83.2La legge giunonica è la matrimoniale, perciò che Giunone è dea de' matrimonii.
L. 7, 83.5ad altrui etc.: cioè a Teseo.
L. 7, 84.1
Coloro etc.: sì come Palemone e Arcita.
L. 7, 88.6
il cor etc.: le vergini di Diana.
L. 7, 88.7infaretrato: cioè co' turcassi.
L. 7, 89.6di questo coro: cioè di questo luogo.
L. 7, 90.2di Diana: cioè di quella imagine di Diana ch'è detto di
sopra, che Emilia avea posta sopra l'altare.
L. 7, 90.4di quelle: del coro di Diana.
L. 7, 90.6di quella: cioè di Diana.
L. 7, 91.4
Qui dimostra l'auctore in questi due fuochi quale dovesse
essere il fine de' due amanti, cioè di Palemone e d'Arcita; e dice
che il primo, cioè quello che in nome di Palemone era stato acceso,
dice che si spense e poi si
raccese, dove intende Palemone prima perdendo
dovere perdere la speranza d'
Emilia, e poi per lo
raccendersi
mostra lui riprendere la perduta speranza per lo caso mortale il
quale avvenne ad Arcita; per lo secondo fuoco acceso a nome d'Arcita,
dimostra il miserabile e lagrimoso accidente e la
morte d'Arcita.
L. 7, 93.6ogni stella fu fuggita: cioè fu fatto dì.
L. 7, 94.2
Febea: cioè la luna. -
palida: impalidisce la luna quando
il sole si viene levando.
L. 7, 94.5la luce: cioè il sole.
L. 7, 94.6-8vedendo accompagnato: era il Sole nel segno de' Gemini, e perciò si levava il
Tauro prima di lui, e in esso era l'Aurora, la quale precede sempre
il levare del Sole.
L. 7, 94.7del celeste bue: cioè di Tauro.
L. 7, 94.8amica: del Sole. - Titonia: cioè da l'Aurora.
L. 7, 97.3
ispumanti:
schiumosi.
L. 7, 97.4da chi etc.: cioè da ragazi.
L. 7, 99.1L'aula grande: cioè la corte reale.
L. 7, 100.6
i duecento: cioè li cento di Palemone e li cento d'Arcita.
L. 7, 101.3Libero è Bacco, iddio del vino, al quale quando i Tebani
sacrificano fanno grandissimo romore.
L. 7, 101.5la dircea: cioè la Tebana. - al chino: de' monti.
L. 7, 101.6più sottani: cioè più bassi.
L. 7, 102.1Essi: Palemone e Arcita.
L. 7, 102.4con lor: con Palemone e
con Arcita.
L. 7, 103.2alli due scudieri: a Palemone e Arcita.
L. 7, 104.5-6Cioè era già sesta o presso, perciò che in quella stagione,
cioè verso l'uscita di maggio, il dì è xviii ore o presso, il terzo
delle quali è presso a sei.
L. 7, 110.4
miri:
maravigliosi.
L. 7, 110.6Arenarii sono uomini i quali fanno
un certo giuoco molto crudele sopra l'arena. - diri: crudeli.
L. 7, 111.1Egeo: re.
L. 7, 112.1lernei: greci.
L. 7, 112.5del ponente: del teatro.
L. 7, 114.3
Decurione è il capitano di
X uomini.
L. 8, 1.2
Il sonare tireno è quello della tromba, e chiamalo tireno perciò
che in Tirenia, cioè in Toscana, fu trovato.
L. 8, 1.6con questi: d'Arcita. - con que': di Palemone.
L. 8, 2.5
di schiera equale: cioè di cento e cento.
L. 8, 3.1Qui per mostrare che il suono fosse grande nello scontrare
di queste due schiere, pone l'autore molti esempli di gran romori.
L. 8, 3.3quanto: romore.
L. 8, 4.1né saria stato: così grande.
L. 8, 4.2Lipari, Mongibello, Strongolo,
Vulcano sono isole vicine alla Cicilia, le quali tutte o feciono
o fanno per forza di solfo grandissimo fuoco con grandissimo romore.
L. 8, 4.5Chi fosse Tifeo è mostrato dinanzi.
L. 8, 6.1
Appenino è un monte, il quale va per mezza Italia infino
al faro di Messina, e credesi che già fosse una cosa con un monte
chiamato Peloro, il quale è in
Cicilia, ma poi per tremuoti essersi
così divisi come si veggiono.
L. 8, 9.1
Dicono i poeti che Mongibello è la fucina di Vulcano,
fabro
di Giove.
L. 8, 9.2sicani: cioè ciciliani.
L. 8, 10.5in danno: in quanto si davano a' compagni medesimi.
L. 8, 10.7Pegaso era il nome il quale Arcita aveva dato a' suoi, secondo che
s'usa nelle battaglie.
L. 8, 11.1Asopo era quello che aveva dato Palemone.
L. 8, 11.5vibrava: brandiva.
L. 8, 13.1
Elicona: monte.
L. 8, 13.2Ismeneo: fiume.
L. 8, 13.6il teumesio etc.: cioè di Teumesia.
L. 8, 15.3
bipenne: accetta.
L. 8, 15.4pio: pietoso.
L. 8, 15.8al frate: cioè ad Artifilo.
L. 8, 16.6amenduni: cioè Arcita e a Palemone.
L. 8, 16.7all'infernali iddii: cioè in inferno.
L. 8, 18.4e ida Peritoo: scontrò.
L. 8, 21.8
ch'elli era etc.: perciò che Polluce, dopo la sua
morte, fu
deificato per la sua vertù.
L. 8, 25.4
e fece etc.: Polluce e Castore furono fratelli d'Elena,
e andando a Troia con gli altri Greci, si perdé la
nave nella quale
erano; per la qual cosa li Greci
finsero che Giove ne gli avesse trasportati
in
cielo, e fattone uno
segno che si chiama Gemini. E per
questo non furono nell'assedio di Troia.
L. 8, 26.3insani: pazzi.
L. 8, 27.8lui: cioè Iolao.
L. 8, 51.1
Foloèn: cavallo.
L. 8, 57.2Permesso: monte.
L. 8, 63.2'l gioviale uccello: l'aquila.
L. 8, 63.3parvi:piccioli. - tene: la serpe. - nati: figliuoli.
L. 8, 63.4quella: l'aquila.
L. 8, 63.6
questi: la serpe.
L. 8, 63.8li presi: figliuoli dell'aquila.
L. 8, 67.5
solerte: sollecita.
L. 8, 67.8perito: savio.
L. 8, 69.5e' Pegasei: cioè quegli d'Arcita.
L. 8, 74.1-5
Come quegli d'
Egina si
rifacessero di seme di formiche,
e perciò chiamati
Mirmodoni, è detto di sopra, de' quali
Mirmodoni
fu questo Giapeto; e l'albero
fatale fu la quercia, veduta nel
sogno da
Eaco re.
L. 8, 74.5veloce: tosto.
L. 8, 74.6Eaco: re.
L. 8, 75.2Calidonio: fiume.
L. 8, 80.1
Anteo fu un gigante in Libia, e fu figliuolo, secondo che i
poeti scrivono, della Terra; col quale
Ercule andò a provare le sue
forze, e faccendo con lui alle braccia e vincendolo, come egli l'aveva
gittato in terra, così Anteo, stanco, subitamente dalla terra sua
madre
ripigliava le forze, le quali per
istancheza perdute avea, e
rilevavasi.
Di che avvedendosi
Ercule, avendolo forte stancato,
nol gittò
più in terra, ma se lo levò in su il petto, e tanto lo
strinse che l'uccise.
L. 8, 87.5
imbragacciato: intriso.
L. 8, 94.4
attonita: stordita.
L. 8, 94.5marzial: guerriera.
L. 8, 100.3a l'are: agli altari.
L. 8, 100.5ascoltati: i miei mali.
L. 8, 100.6dell'altro: cioè del bene. - piagnendo: ascolteranno.
L. 8, 102.5
Andromeda fu figliuola di Cefeo e di
Casiopia, e per l'opere
della madre fu giudicata da Giove Amone che ella fosse legata
ad uno scoglio in mare, acciò che quivi fosse divorata da una grande
e crudele fiera marina che ivi usava: e così fu fatto. La quale
cosa sentendo uno
valoroso giovane chiamato Perseo, figliuolo di Giove
e di
Danne, n'andò là e con l'aiuto di
Pallade,
dea della sapienza,
uccise la fiera marina, e liberò Andromeda, e
tolselasi per moglie.
L. 8, 102.8dal coro marino: da la dea Pallade.
L. 8, 103.1Borea rapio Orizia, figliuola d'Euristeo.
L. 8, 103.3Come Pluto rapisse proserpina in Cicilia, è mostrato di sopra.
L. 8, 103.5Orfeo fu di
Trazia, e fu uno de' migliori sonatori del
mondo; e avea per moglie
una bellissima giovane chiamata
Erudice. La quale, andando un dì
per uno
prato cogliendo fiori, fu morsa da una serpe nel calcagno, e
morissi. Di questo si dolfe lungamente Orfeo, e molti
prieghi ne porse
agl'iddii del
cielo per
riaverla; da' quali veggendo che ascoltato
non era, prese la
cetera sua e andossene alla porta de l'inferno, e
quivi cominciò sì dolcemente a sonare, che tutti gli uficiali d'inferno
lasciarono stare di fare gli ufici loro e cominciarono ad ascoltare
il suono d'Orfeo, sì che tutte l'anime stavano per questa cagione in
pace. Di che maravigliandosi Plutone, mandò a sapere quello che
Orfeo adimandava, e udito che egli
rivoleva la moglie, acciò che li
suoi uficiali facessero li loro ufici, comandò che gli fosse renduta,
ma con questa legge, che egli non la dovesse riguardare infino a
tanto che egli non fosse con essa sopra la terra tornato, e se la guatasse,
la perdesse da capo e più non la dovesse
radomandare. Per
che Orfeo, presala per mano e
menandola appresso di sé, essendo
già presso all'uscire fuori della terra, non potendosi più tenere, si
volse indietro e
guatolla, e subitamente la perdé
L. 8, 105.7Chi fosse Atalanta
e come Ipomene vinta e acquistata fosse, è mostrato di sopra.
L. 8, 106.6di qual: parte.
L. 8, 107.1
Pegaseo: il nome dato a' suoi da Arcita.
L. 8, 107.3Rifeo: monte di Trazia.
L. 8, 107.5Asopo: Asopo fu il nome dato a' suoi da Palemone.
L. 8, 110.2dire: crudeli.
L. 8, 111.8
attrito: stanco.
L. 8, 112.8e con parole etc.: Qui finge l'autore, Marte in forma di
Teseo dir villania ad Arcita: dove niuna altra cosa intende, se non
che ad Arcita riposantesi venisse in pensiero che da Teseo veduto
fosse starsi, e che da lui, così vedendolo, potessero essere dette cotali
parole chenti nel testo si dicono, le quali egli immaginando,
subitamente sé e poi li suoi raccese alla battaglia.
L. 8, 114.4
mira:
maravigliosa.
L. 8, 117.5
augusti più: cioè maggiori e più apparenti.
L. 8, 119.6Foloèn: cavallo. - quel di Tesaglia: Ameto.
L. 8, 119.8Asopii:
di Palemone.
L. 8, 120.4-5
solea mangiar: detto è di sopra che il cavallo di Cromis
fu di quegli di Diomede, re di Trazia, il quale gli
avevca usati
a mangiare uomini.
L. 9, 1.1
il doloroso fato: cioè la
dolorosa provedenza di Dio per
Arcita.
L. 9, 1.2a lui: ad Arcita.
L. 9, 1.3elato: levato.
L. 9, 2.1
Sovra l'alta arce etc.: cioè sopra la maestra rocca d'Atene.
L. 9, 2.2costoro: Arcita e Palemone.
L. 9, 2.3fra sé dell'ordine etc.: il quale
fu che Marte desse ad Arcita la vittoria, sì come per lo effetto appare,
e Venere desse la donna a Palemone.
L. 9, 2.8fornita etc.: cioè
avuta ha Arcita la vittoria.
L. 9, 3.7Amica: Venere.
L. 9, 4.1Ell'avea: Venere.
L. 9, 4.2Dite: è una città in inferno così
chiamata.
L. 9, 4.3al re nero: cioè a Plutone.
L. 9, 4.4di quella. città di
Dite.
L. 9, 4.5furie: infernali. - alti: cioè grandi.
L. 9, 4.6Erinis: furia.
L. 9, 4.7a questa: cioè ad Erinis.
L. 9, 5
L'autore, in questa parte, da quello che avvenne prese cagione
alla sua
fizione, cioè alla composizione fatta tra Marte e Venere,
de' quali ciascuno volle servire colui il quale
pregato l'avea; perciò
che, come di sopra si legge, Marte in forma di Teseo sollecitò Arcita
alla vittoria e spaventò quegli di Palemone, per la qual cosa Arcita
vinse: ora, a volere mostrare che Venere abbia operato a fare
che Palemone avesse
Emilia,
introduce lei ad essere cagione della
morte del vittorioso Arcita, acciò che, morto lui,
Emilia rimanga a
Palemone; e, come nel testo si legge, il cavallo d'Arcita adombrò e
ersesi e
ricaddegli in su il petto. Certissima cosa è le bestie adombrare
per alcuna spaventevole cosa la quale loro
pare vedere; ma quello
che egli si veggano, overo vedere si credono, niuno il sa. Finge
adunque l'autore essere stata
Erinis, l'una delle infernali furie, quella
che spaventò il cavallo, e
disegnala forte spaventevole a vedere,
acciò che più renda
scusata l'animosità del cavallo; e dice lei essere
stata infernale
furia, per lo doloroso effetto che
seguì dello adombrare
del cavallo, che fu la
morte d'Arcita. E come detto è di sopra,
dice costei mandata da Venere
similemente, perciò che per lo adombramento
del cavallo
seguì poi quello di che Palemone aveva
pregata
Venere, cioè che
Emilia fosse sua, come ella fu.
L. 9, 5.1costei: Erinis. - ceraste: serpenti. - crinita: capelluta.
L. 9, 5.2idre: serpenti.
L. 9, 5.3Elisso: fiume.
L. 9, 5.4le quai: serpi. - lambenti: leccanti.
L. 9, 5.6le: ad Erinis.
L. 9, 5.7la: Erinis. - Dea: Erinis.
L. 9, 5.8scuriata: ferza.
L. 9, 6.1La cui venuta: d'Erinis. - d'orrore: di spavento.
L. 9, 6.4né il perché etc.: perciò che non la vedeano.
L. 9, 6.8
cardini: cioè arpioni.
L. 9, 7.3giù nel campo: dove si combattea.
L. 9, 7.7per ispavento etc.: adombrò.
L. 9, 10.5-6
onde etc.: il cuore.
L. 9, 10.8si porta: morto.
L. 9, 12.2Bellona è dea dell'armi, sirocchia di Marte.
L. 9, 18.1
tabefatto: cioè imbrattato.
L. 9, 19.4visto: veduto.
L. 9, 25.6
che' regni neri: l'inferno.
L. 9, 29.4
il Pincerna di Giove etc.: Scrivono i poeti che Giunone, moglie
di Giove, mangiando un giorno lattughe salvatiche ingravidò,
e poi partorì una figliuola, la quale ebbe nome Ebe. Costei come fu
grande, la mise la madre a servire della coppa
davanti a Giove. Avvenne
un giorno che essendo a tavola Giove con più altri iddii, portandogli
Ebe da bere, ella sdrucciolò e cadde, in maniera che ella mostrò
ogni cosa a Giove e
agli altri, per che Giove la privò dell'oficio,
e in suo luogo
sustituì Ganimede, bellissimo giovane e figliuolo di
Laumedonte, re di Troia: del quale egli ancora fece uno
segno in
cielo il quale si chiama Aquario. Questo
segno, a questa ora che
l'autore disegna qui, montava sopra l'
orizonte orientale; per che a
chi intende astrologia si dimostra ch'egli era vicino al farsi sera. La
quale cosa ancora l'autore dimostra più chiaro nelle seguenti parole,
dove dice: «il Pesce bino di Venere» etc
., il quale Pesce bino sagliendo
sopra l'
orizzonte occidentale, recava seco in quella stagione
le stelle, cioè la notte nella quale le stelle si veggiono: e seguita questo
segno de' Pesci, sagliendo sopra l'
orizzonte orientale, il
segno d'Aquario.
Ma da vedere è perché dica il Pesce bino di Venere: ove è
da sapere che al tempo che i giganti combatterono con gl'iddii, Tifeo
gigante perseguitò molto Venere, la quale, paurosa di lui, con
Amore in braccio, il quale era piccolo fanciullo ancora, fuggendolo
pervenne ad
Eufrate fiume, e quivi tra le cannuccie nate in su la
riva si nascose. Avvenne che soffiando il vento in queste cannuccie,
elle cominciarono a suonare, di che la paura crebbe a Venere che quello
suono non fosse de' nemici che sopravenissero; per che ella pietosamente
cominciò ad invocare l'aiuto delle ninfe di quella contrada,
laonde subitamente apparvero due pesci, sopra li quali ella e 'l
figliuolo saliti
valicarono il fiume; in
merito del quale
servigio ella
gli trasportò in
cielo e
fecene quel
segno del sole che si chiama Pesce.
L. 9, 29.7polo: cioè cielo.
L. 9, 31.4
passato fu da quello etc.:
Fetonte fu figliuolo del Sole e di Climenès,
al quale essendo rimproverato che egli non era figliuolo del
Sole,
ramaricatosene alla madre, ella il menò alla casa del Sole, dove
ricevuto dal padre, domandò di grazia di potere menare il
carro
della luce, il quale il padre avendogliele
promesso e non
potendogliele
disdire vel mise suso; il quale come pervenne in quella parte
del
cielo dove è il
segno dello
Scorpione, impaurito di lui, abandonò
i
freni de'
cavalli che tiravano il
carro della luce, per la qual cosa i
cavalli, usciti del
cammino usato, salirono più alto che non dovevano
e
cossero tutto il
cielo nella fine del
segno di Libra e nel principio
di
Scorpione: e ancora si chiama quella parte del
cielo dagli astrologi
Via combusta. Poi discesero i detti
cavalli verso la terra, e quella
tutta
riarsero, e
seccaronsi li fiumi e le fonti, di che la terra porse
prieghi a Giove che di ciò la dovesse aiutare; per li quali
prieghi
Giove fulminò
Fetonte, e egli così fulminato cadde nel Po, dove poi
dalle
sirocchie fu
sepellito, e fu da loro posto l'
epitaffio, cioè il
titolo
sopra la
sepoltura.
L. 9, 34
Qui disegna l'autore l'ordine antico il quale si soleva servare
nel menare de' triunfi.
L. 9, 34.4gli avversarii: d'Arcita.
L. 9, 35.4de' suoi: d'Arcita.
L. 9, 36.7toraca: coraza. - balteo: cinto.
L. 9, 37.2l'arnese: l'armadura.
L. 9, 37.3botato: da Arcita.
L. 9, 38.5
fé: Arcita. -
quelle armi: di Palemone.
L. 9, 41.2
zita: pulcella.
L. 9, 41.3spase: aperte.
L. 9, 41.4la coppia gloriosa: d'Arcita e d'Emilia.
L. 9, 43.3lernea: greca.
L. 9, 44.3Giunone: dea.
L. 9, 44.8le piace: a Giunone.
L. 9, 46.4bruno: turbato.
L. 9, 46.5Acheronte: fiume d'Inferno.
L. 9, 47.1Ne' colli lor etc.: non erano incatenati.
L. 9, 57.5
il quale: divino intelletto.
L. 9, 71.6
là dove Anfiorao etc. Quando Adrasto con gli altri re greci
andarono in
servigio di Pollinice allo assedio di Tebe, Anfiorao, il
quale era ottimo augure, cioè
preveditore delle cose future, s'avide
che se egli v'andasse, mai non tornerebbe a casa, e per ciò si nascose
né si fidò d'altra persona che d'
Erudice, sua moglie. Onde, andandolo
Adrasto e gli altri re greci cercando e non
potendolo trovare,
avvenne che Argia, moglie di Pollinice, avendo cinta una bellissima
e ricca cintura, n'andò un giorno a domandare
Erudice, la
quale, vedendo quella cintura e
invaghitane, disse che se ella le volesse
donare quella cintura, ella lo
'nsegnerebbe. Argia gliele donò,
e ella lo 'nsegnò. Dice adunque l'autore che così bella fu la cintura
data a palemone da
Emilia come quella che Argia diede ad
Erudice.
-
latitante: cioè nascoso.
L. 9, 72.5
saette lizie: di quella contrada.
L. 9, 73.5Vulcan: dio del fuoco.
L. 9, 73.7con un gran pin etc.: cioè
una asta overo lancia di pino.
L. 9, 75.2Cupido: Amore.
L. 10, 1.1
il gran nido di Leda: cioè il
cielo
stellato. -
Leda: chi fosse
Leda è mostrato di sopra.
L. 10, 1.2luci: stelle.
L. 10, 1.3Se bene si riguarda
nelle cose precedenti, la battaglia scritta fu di maggio, e allora
sono le notti vicine alla loro maggiore piccoleza, la quale è a mezo
giugnio.
L. 10, 1.5all'altezza etc.: cioè ad essere meza.
L. 10, 2.5
pirra: pirra e rogo sono una medesima cosa, ma chiamasi
rogo anzi che sia acceso, e poi che è acceso si chiama pirra. -
ciaschedun: re.
L. 10, 2.6a' suoi: servidori.
L. 10, 3.5lici: quivi.
L. 10, 4.1l'urne: cioè i vasi.
L. 10, 4.7a ciascuno: de' morti.
L. 10, 4.8uno: de' morti.
L. 10, 5.3e' 'ntorniarle: le pire.
L. 10, 5.4ciascuna: pirra.
L. 10, 5.5d'arme etc.: secondo il costume loro.
L. 10, 5.7e dier voce etc.: cioè cominciarono il pianto.
L. 10, 6.4a Giove Stigio: cioè a Plutone re d'inferno.
L. 10, 6.5pio: pietoso.
L. 10, 6.6que': morti.
L. 10, 6.8per altrui: cioè per Palemone e per Arcita.
L. 10, 7.2i corpi lor donati: cioè di que' morti che vi furono su posti.
L. 10, 7.3li qua': fuochi.
L. 10, 7.4mortificati: spenti.
L. 10, 7.5candenti: biancheggianti.
L. 10, 7.6furon messe: le ceneri.
L. 10, 7.7pia: pietosa.
L. 10, 7.8del tempo perso: cioè della notte.
L. 10, 8.1
Mostrato è di sopra come i figliuoli e le figliuole di Niobè
per la sua superbia fossero uccisi da Apollo e da Diana, figliuoli
di Latona. Li quali furono
XIIIJ, e ciascuno fu dalla madre, cioè da
Niobè, messo per sé in una urna, e poi portati in Sifilone; e poi che
da Niobè sepeliti furono, ella si trasformò in uno sasso. E così mostra
che
XIIIJ fossero coloro che in quella battaglia morirono.-
Sifilone: città.
L. 10, 8.3della sua: cioè di Niobè. - alta: cioè superba.
L. 10, 8.4urne: vasi.
L. 10, 8.5si trasmutò: Niobè.
L. 10, 8.6di quivi: del teatro.
L. 10, 8.7quelli: uomini.
L. 10, 8.8elli: vasi.
L. 10, 9.4el tempo tenebroso: cioè la notte.
L. 10, 11.3
Itmon: medico.
L. 10, 11.4Epidauria: contrada.
L. 10, 12.5Giove: idio.
L. 10, 12.7puote: Giove.
L. 10, 13.2Esculapio: dio de la medicina.
L. 10, 13.4Appollo: dio della medicina.
L. 10, 13.5il ghiaccio: il freddo.- 'l foco: il secco.
L. 10, 13.7esso: Arcita.
L. 10, 14.5
all'etterna prigione: in inferno.
L. 10, 14.6Dite: la città d'inferno.
L. 10, 14.8di qua: nel mondo.
L. 10, 15.6attiche: ateniesi.
L. 10, 17.8
al passo etc.: cioè alla
morte.
L. 10, 18.4la giovane donna: Emilia.
L. 10, 18.6infinito: cioè non compiuto.
L. 10, 18.2-6pensando etc.: non era giaciuto con lei, il che molti stoltamente
estimano fine d'amore.
L. 10, 18.8Giove: dio.
L. 10, 19.5le pene: in inferno.
L. 10, 20.1
Creonte: re di Tebe.
L. 10, 20.3a fronte: incontro.
L. 10, 20.5non isponte: non di mia voglia.
L. 10, 20.7festi: facesti. - guardare: in prigione.
L. 10, 21.3li nostri ben: cioè le nostre possessioni.
L. 10, 21.6in pria: che ci pigliassi.
L. 10, 21.7sorte: cioè parte.
L. 10, 23.1El: Amore.
L. 10, 24.2nome stran: cioè Penteo.
L. 10, 25.1Come Febo servisse Ameto è detto di sopra.
L. 10, 26.4consunto: consumato.
L. 10, 27.3
fato: divina
disposizione.
L. 10, 29.2che tu etc.: nel boschetto, quando combattevano.
L. 10, 29.4nota: conosciuta.
L. 10, 30.1
tra l'ombre: tra l'anime.
L. 10, 30.8lui: Palemone.
L. 10, 32.2
che Lachesìs etc. Scrivono i poeti tre essere le fate nelle
mani
delle quali la generazione, la vita e la
morte sia di ciascuno che
vive; e
fingono queste tre così delle dette tre cose operare come fanno
le femine che
filano, cioè che prima pongono sopra la rocca il
lino; poi
filano quanto basta il lino, come il lino viene meno,
sconocchiano.
Così l'una di queste tre fate, la quale è nominata Cloto,
inconocchia la rocca, cioè compone la creatura nel ventre della madre;
appresso la seconda, ch'è chiamata Lachesìs,
fila, cioè mena
la vita di colui che nascie; la terza, la quale è chiamata Antropòs,
sconocchia, cioè finisce la vita di colui che è nato e vivuto. Dice adunque
qui Teseo ed Arcita, per
confortarlo, che Lachesìs ha sì poco
tirato il
filo, cioè sì poco
filato, che ancora non è verisimile che ella
debba
troncare il
filo e
sconocchiare, cioè che «ancora se' sì giovane
che così tosto non dei di ragione morire».
L. 10, 32.6Alimeto: medico.
L. 10, 32.7Itmon: medico.
L. 10, 33.2luce: vita.
L. 10, 39.7
ella: cioè Giunone.
L. 10, 40.2suoi: di Giunone.
L. 10, 40.1-2In quella entrata etc.: sì come
uomo che prendeva moglie, e ella è dea de' matrimonii.
L. 10, 40.5lasciato etc.: cioè lasciatomi pur tre dì stare con Emilia, sì come marito
con moglie dee stare.
L. 10, 41.1l'è: a Giunone.
L. 10, 41.3degli avoli: cioè de' re tebani passati.
L. 10, 41.7e facci ch'io etc.: cioè mi facci tosto sepellire. Credevano
gli antichi niuna anima potere trapassare il fiume d'Acheronte, che
è il primo fiume di ninferno, infino a tanto che il corpo non fosse
sepellito.
L. 10, 48.8
Antropòs: cioè la
morte.
L. 10, 49.2di tanto sangue: quanto è stato il tebano.
L. 10, 49.3mia: moglie.
L. 10, 49.4tua: moglie.
L. 10, 49.5ne' l'uficio etc.: cioè che io ti chiuda gli
occhi etc.
L. 10, 49.7
la tua prole etc.: cioè i tuoi figliuoli. -
gli chiuderete: gli occhi,
la bocca e 'l naso.
L. 10, 50.4per età lunga: cioè per vecchieza.
L. 10, 50.6i ben: cioè Emilia.
- guadagnati: da te.
L. 10, 50.8che' fati: cioè la divina disposizione.
L. 10, 51.2il che s'avien: ch'io muoia.
L. 10, 52.4Achivi: greci. - dircei: tebani.
L. 10, 52.6lernei: greci.
L. 10, 56.1
Gli spiriti visivi: cioè per li quali si vede.
L. 10, 56.2a lui: ad Amore.
L. 10, 57.1io: Amore.
L. 10, 57.2di quella: cioè d'Emilia.
L. 10, 58.8a lui: ad Arcita.
L. 10, 65.6
l'aure traendo: cioè spirando.
L. 10, 69.1
Acate: uno giovane
parente di Teseo, cos' chiamato.
L. 10, 69.5innata: cioè non nata.
L. 10, 69.6al nostro sangue: delle donne amazone. - Citerea: Venere.
L. 10, 70.1
Questa: Venere. -
del primo operare: d'avermi tolto Acate.
L. 10, 73.8
non credo etc.: quasi dica: - Io te l'avrei detto dinanzi -.
L. 10, 76.3Erinis: furia infernale.
L. 10, 79.2
lui:
cagion di
morte.
L. 10, 80.8
celebe: cioè senza
marito.
L. 10, 81.7felice: io.
L. 10, 82.3prenderolli: da te.
L. 10, 82.4li quai: basci.
L. 10, 86.6
allor che Febo etc. Atreo e Tieste furono fratelli carnali e
re di Mecena in
Grecia. Tieste innamorò della moglie d'Atreo e
ebbene due figliuoli; la qual cosa sentendo Atreo, non
potendolo
uccidere, il cacciò dal regno, col quale fuggirono i due figliuoli.
Dopo alquanto tempo disiderando Atreo di fare più fiera vendetta
della ingiuria fattagli da Tieste, mandò dicendo a Tieste che egli
volea
paceficarsi con lui e ritornarlo nel regno. E dopo molte
novelle,
Tieste, il quale era in
esilio e in miseria, si recò a credere alle
parole d'Atreo, e, fidato da lui, tornò in Mecena, dove Atreo amichevolmente
e con gran festa il ricevette. Poi la mattina seguente
nascosamente uccise i due figliuoli di Tieste e
feceli
cuocere, e in
sul fare del dì, secondo la costumanza loro, fece apparecchiare da mangiare
a Tieste, e fecegli porre innanzi questi suoi figliuoli
smembrati
e
cotti; e quando ebbe
mangiato, gli
manifestò che egli aveva
mangiati
i figliuoli. Mentre questo male si facea, il sole si cominciò a
levare; il quale, già venuto sopra la terra e veduto il peccato commesso
da Atreo, subitamente si tornò indietro; e dove doveva il dì
venire, venne la notte: la qual cosa fu a' Greci grandissimo
turbamento
e gran dolore e pianto
generalmente a tutti. Cotale adunque
dice l'autore che era nella presenzia d'Arcita, quando da
Emilia
prese gli
estremi basci.
L. 10, 87.1Essa: Emilia.
L. 10, 87.3lui: Arcita.
L. 10, 87.5'l Menalo colle: è
un monte in Arcadia.
L. 10, 87.6Ariete: segno del sole.
L. 10, 88.8desolati: sconsolati.
L. 10, 89.1
Nove fiate etc.: cioè nove dì erano passati.
L. 10, 89.3d'Esperia: di Spagna.
L. 10, 89.6nel tempo etc.: cioè la notte.
L. 10, 90.2litare: cioè sacrificare. Era oppinione degli antichi che
Mercurio avesse a trarre l'anime de' corpi e quelle portare dove gli
piacesse.
L. 10, 90.4amen: dilettevole.
L. 10, 90.7olocausti: sacrifici.
L. 10, 90.8decenti: convenevoli. fausti: degni.
L. 10, 91.5nuovo:fresco.
L. 10, 91.5-6di bidente gregge: cioè pecore con due
lattaiuoli.
L. 10, 91.6ara: altare. pia: pietosa.
L. 10, 91.7
così fatto iddio: come è Mercurio.
L. 10, 92.2questi: nuvoli.
L. 10, 93.1l'ara: l'altare.
L. 10, 93.5con voce trasmutata: cioè più dolente.
L. 10, 94.1iddio: cioè Mercurio.
L. 10, 94.6are: altari.
L. 10, 95.2
Eliso è uno luogo dilettevole, nel quale, secondo l'oppinione
degli antichi, stavano l'anime di coloro che erano stati valenti
e buoni uomini, senza avere
meritato d'essere iddii.
L. 10, 95.4dell'aura morta: cioè dello 'nferno.
L. 10, 96Queste istorie, che qui si toccano, sono tutte scritte di sopra,
dove Arcita combatte con Palemone nel boschetto.
L. 10, 96.2dircei: tebani.
L. 10, 96.3Cadmo: re.
L. 10, 96.4baccei: di Bacco.
L. 10, 96.6colei: cioè Agave.
L. 10, 97.3la prole: i figliuoli.
L. 10, 97.4né uccisi: come Edippo.
L. 10, 97.7
né uccisi: come
Etiocle re.
L. 10, 97.8né occupai: come Creonte.
L. 10, 98.1l'aspra crudeltate: quando non lasciava dar sepoltura a'
morti.
L. 10, 99.1tra' neri spiriti: cioè tra' dannati.
L. 10, 99.2pio: pietoso. - iddio: Mercurio.
L. 10, 101.4
Acheronte: fiume d'inferno.
L. 10, 102.6prava: malvagia.
L. 10, 103.5ella: la forza.
L. 10, 103.6guidate: l'armi.
L. 10, 106.7Egina: isola.
L. 10, 107.7
nell'etterna fornace: cioè nel fuoco infernale.
L. 10, 108.5pudici: onesti.
L. 10, 110.8e': essi.
L. 11, 1.4
ver la concavità etc.: Ogni corpo voto ha concavità e
convesso:
concavità si chiama la parte dentro,
convesso si chiama quella
di fuori.
L. 11. 1.6le stelle ratiche: cioè i pianeti. - ammirava: cioè con
ammirazione guatava.
L. 11, 1.8suoni ascoltando etc.: Certi filosofi tengono
che il cielo nel suo volgere faccia dolcissimo suono, il quale
noi qua giù non possiamo udire.
L. 11, 2.1
in giù: verso la terra.
L. 11, 2.3globo: mondo.
L. 11, 2.6al loco: cioè ad Atene.
L. 11, 2.7il suo corpo: morto.
L. 11, 3.2lernea: greca.
L. 11, 6.5
transuto: morto.
L. 11, 6.8bruno: turbato.
L. 11, 7.2la moglie: Ecuba.
L. 11, 7.3il comperato Ettore: Poi che Accille
ebbe ucciso Ettore, ricomperò Priamo da lui a peso d'oro il
corpo morto d'Ettore.
L. 11, 7.8attiche: atteniesi.
L. 11, 8.6
in desolazione: cioè in isconforto.
L. 11, 9.6bianca: canuta.
L. 11, 10.1Ma come etc.: cioè Egeo.
L. 11, 12.6
scinde: divide.
L. 11, 13.8l'uficio funerale: cioè il mortoro.
L. 11, 14.6area: aia. - da tal colto: cioè da tale oficio.
L. 11, 15.1
un feretro: una bara.
L. 11, 15.4di quello: drappo d'oro.
L. 11, 15.7incoronato etc.: sì come vittorioso.
L. 11, 16.7quando li sette etc.: Detto è di sopra come per la superbia
di Niobè fossero uccisi i suoi XIIIJ figliuoli. - Anfione: re.
L. 11, 16.8fur morti: da Apollo e da Diana.
L. 11, 18.2
l'antico suol etc.: Quando le selve si tagliano, si fa vedere
il terreno di quelle al sole.
L. 11, 18.6Ofelte fu figliuolo del re Ligurgo
e, come di sopra è detto, fu morto da uno serpente, essendo Isifile,
sua balia, andata a mostrare l'acqua alli re greci che andavano ad
assediare Tebe; al quale Ofelte, per consolazione di Ligurgo suo
padre, fecero li detti re fare uno maraviglioso e grande rogo, e fecerli
grandissimo onore appresso.
L. 11, 18.8più d'Arcita: che d'Ofelte.
L. 11, 19.1Essa: selva.
L. 11, 19.2e' bracci: i rami. - come: le foglie.
- liete: verdi.
L. 11, 19.3quelle: foglie.
L. 11, 19.5Acaia: Grecia. - telo:
scure o altro da tagliare si vuole intendere, come che telo propriamente
sia saetta.
L. 11, 19.6sete: cioè appetito.
L. 11. 19.7n'aveva avuta: d'offenderla.
L. 11, 19.8tenean: i paesani.
L. 11, 20.3ninfe: dee delle fonti.
L. 11, 20.4fauni: dii de' campi. - permutati etc.:
cioè durati meno di lei, e rinnovati.
L. 11, 20.8
e degli antichi suoi: alberi.
L. 11, 21.3covil: di bestia.
L. 11, 21.7in quel: bosco.
L. 11, 22.1faggi: alberi.
L. 11, 22.2tigli: albori. - ferrati: perché se ne
fanno lancie.
L. 11, 22.3i fier coraggi: de' cavalieri.
L. 11, 22.5né si difeser etc.:
cioè dall'esser tagliati.
L. 11, 22.6esculi: alberi. - caonii: albori.
L. 11, 22.7durante: perciò che non perde foglie.
L. 11, 22.8bruma: freddo. - cerro: albore.
L. 11, 23.1orni: albori.
L. 11, 23.2ilici: albori.
L. 11, 23.3tasso: albore.
L. 11, 23.4e' frassini che' etc.: fannosene lancie le quali alcuna volta entrano ne'
corpi umani.
L. 11, 23.6
cedro: albero. -
lontani: cioè molti.
non sentì etc.:
che non invecchia.
L. 11, 23.8unito: cioè barbicato.
L. 11, 24.1l'audace abete: albore; dice audace, perciò che la prima
nave che passò il mare fu fatta di tavole d'abete; e perciò che grandissimo
ardire fu quello di chi prima navicò, chiama audace la nave,
ponendo il contenente per colui ch'è contenuto, secondo la usanza
poetica.
L. 11, 24.2pin: albore.
L. 11, 24.4corilo: albore. - bicolore: cioè
di due colori, cioè verde e sanguigno.
L. 11, 24.5mirto: mortine - l'alno etc.:
L'alno è uno albero che non suga acqua, e perciò è ottimo
a fare navi: per che dice ch'è amico del mare, sì per le navi che se
ne fanno che continuo stanno in mare, e sì perché elli non suga l'acqua
del mare.
L. 11, 24.7palma: albore.
L. 11, 24.8e l'olmo che di viti etc.: perciò
che in su gli olmi si soleano mandare le viti. - olmo: albore.
L. 11, 25.3intanto: cioè allora.
L. 11, 25.5Pan: dio. - id.: Pan è iddio de'
pastori, e perciò è chiamato arbitro dell'ombre perché sotto l'ombre
gli pastori diffiniscono tutte le loro quistioni.
L. 11, 25.6semidio: Semidii sono quegli iddii li quali abitano in terra e non in cielo, sì
come le ninfe e' fauni.
L. 11, 26.3-5
Quando li giganti vollero torre il
cielo a Giove, sì posero
essi cinque monti l'uno sopra l'altro, li quali Giove tutti fece cadere,
sì come ancora appare dintorno a
Tesaglia, la quale è in mezzo
d'essi.
L. 11, 27.3maggio: maggiore ch'alcun degli altri che seguono.
L. 11, 27.4fu: il secondo suolo.
L. 11, 27.7pitturato: dipinto.
L. 11, 27.8e questo suolo: secondo.
L. 11, 28.1Sopra di questi: due suoli fatti.
L. 11, 29.1
la sommità: cioè il quarto suolo.
L. 11, 29.2in ostro tirio: è un
pesce del cui sangue si tingono i drappi.
L. 11, 29.3mira: maravigliosa.
L. 11, 29.8col morto corpo: d'Arcita.
L. 11, 30.4Ecco fu una ninfa nel monte Parnaso, la quale quante volte
Giove fosse con alcuna femina e Giuno sopravenisse per trovarlo,
tante lei teneva in parole infino a tanto che Giove a grande agio si
fosse potuto partire. Di che Giunone aveggendosi, la permutò in
quella voce che risuona nelle valli poi che altri ha gridato; e volle
che, sì come ella molto parlava dinanzi che domandata fosse, così
non parlasse mai se non quando altri avesse parlato: e così fa.
L. 11, 30.5lugubre: piagnevole.
L. 11, 30.7crine: capello.
L. 11, 32.1
Achivi: greci.
L. 11, 32.2a l'aula: alla corte reale.
L. 11, 32.6quell'anima dolente: d'Arcita.
L. 11, 34.2Come Atteone, mutato in cervio, fosse da' suoi cani sbranato,
è detto di sopra.
L. 11, 34.3la sua turba: de' cani.
L. 11, 35.2
per lui: per Arcita.
L. 11, 35.3delle sue armi: cioè d'Arcita.
L. 11, 35.5l'esuvie: le spoglie. - de' suoi primi nati: cioè de' suoi antichi
di Tebe.
L. 11, 35.7faretre: turcassi.
L. 11, 35.8sue veste: d'Arcita.
L. 11, 36.2di costui: d'Arcita.
L. 11, 36.3gli ornamenti da regno: la corona
e lo scettro.
L. 11, 36.4lui: Arcita
L. 11, 36.6a colui: ad Arcita.
L. 11, 36.7lo scettro: la verga reale.
L. 11, 36.8del suo rogo: cioè d'Arcita. dona: Teseo.
L. 11, 37.1Achivi: greci.
L. 11, 38.2
il feretro: la bara.
L. 11, 38.8il miserabil letto: dove era il corpo
d'Arcita.
L. 11, 39.1La qual: pirra.
L. 11, 39.6pressa: calca.
L. 11, 40.6più debole sesso: cioè donne.
L. 11, 40.7
e essa in mano: Era
usanza
anticamente che colui che più atteneva al morto, o la moglie
se egli l'avea, portava il fuoco da accendere il rogo e
mettevavelo
entro, e chiamavasi fuoco
ferale.
L. 11, 42.2le prime tede etc.: Solevano le donne entrare nelle camere
de' novelli sposi con uno legno, chiamato teda, acceso in mano, il
quale ora Emilia non nella camera d'Arcita, come sperava, ma ad
accendere il rogo il porta.
L. 11, 43.7
le voci funeral etc.: Pelopo fu re di
Grecia, il quale primieramente
diede a' Greci l'ordine del piagnere i morti e de' canti
che nel pianto si fanno.
L. 11, 44.5la spina: il pruno.
L. 11, 44.6succise: cioè di sotto tagliate: le
quali, come sentono il sole, incontanente cascano.
L. 11, 44.7semiviva: tramortita.
L. 11, 45.3le quai etc.: quando la sposò.
L. 11, 45.4gli accolse: gli ragunò.
L. 11, 45.6altri: Ipolita.
L. 11, 45.7Te': O Arcita.
L. 11, 46.2muta: mutola.
L. 11, 47.2
la barba etc.: secondo la greca usanza, che per dolore si
tagliano la barba e' capelli.
L. 11, 47.3sopra Arcita: cioè sopra il corpo.
L. 11, 47.6litati: in sacrificio dati.
L. 11, 47.7are: altari.
L. 11, 48.3militari: cavalleresche.
L. 11, 49.1istrepivan: scoppiavano.
L. 11, 49.4più ricca: cioè maggiore. -
diventava: la fiamma.
L. 11, 50.1
crepitavano: scoppiavano facendo rumore.
L. 11, 50.4sudava d'oro: perché si fondea.
L. 11, 50.7in esse: fiamme.
L. 11, 51.1le cratere: cioè i vasi.
L. 11, 51.5e' maggiori Greci: cioè li re
e' principi.
L. 11, 51.7dagli occhi torli: che non vedesse.
L. 11, 52.5sua: d'Arcita.
L. 11, 52.6bruna: dolorosa.
L. 11, 52.7delle quai:schiere.
- de' Greci maggiori: de' principi.
L. 11, 53.3
diro: crudele.
L. 11, 54.4con le palme etc.: battendosi.
L. 11, 54.8lutti: pianti.
L. 11, 55.1essi: delle sette schiere.
L. 11, 56.2balteo: cinto.
L. 11, 56.6
toraca: coraza.
L. 11, 56.8falli: ad Arcita.
L. 11, 57.2Vulcan: il fuoco.
L. 11, 57.5soporava: spegneva.
L. 11, 57.7l'ombre: della notte.
L. 11, 59.2molti giuochi etc.: secondo l'antico costume.
L. 11, 59.3i re: greci.
L. 11, 59.4-5
Il primo giuoco fu di correre a piè: in questo ebbero l'onore
questi due, Ida e Castore. -
Ida: pisano.
L. 11, 60.3per uno: a ciascuno.
L. 11, 60.4u': dove.
L. 11, 60.6di Pallade etc.:
Negli ornamenti di questi cavalli dati ad Ida e a Castore pone l'autore
che fossero o dipinti o forse tessuti in modo di storie tutti gli
onori di Pallade, e primieramente pone quello del nominare Attene,
il quale di sopra si scrive.
L. 11, 60.7i Cicropi: cioè gli Atteniesi.
L. 11, 60.8V'era il palude etc. In Asia è una palude, la quale si chiama Tritone,
dove una vergine, chiamata Minerva, primieramente abitò, e quivi
trovò l'arte del filare la lana e di tessere i panni. Questa Minerva e
Pallade sono una medesima, e fu poi questa Pallade da quello padule
dove prima abitò chiamata Tritonia.
L. 11, 61.1Vedeasi ancora etc. Dicono alcuni che questa Minerva, cioè
Pallas, dimorando allato alla soprascritta palude, delle cannuccie,
le quali nascevano nella palude, primieramente compose le sampogne.
Altri dicono che, poi che i giganti furono vinti e uccisi dagl'iddii
e li loro corpi furono consumati dalla terra, che, essendo sole
l'ossa rimase, avvenne un dì che Pallade vide per uno osso stato di
gamba entrare il vento, e sentì che uscendone sufolava; di che ella
il prese, e, agiuntovi alcune cose, ne fece una sampogna: e da questo
ebbero le sampogne il primo cominciamento. - fistule: sampogne.
L. 11, 61.2ella: Pallas.
L. 11, 61.3
poi con Aragne etc. Aragne fu una giovane di
bassa condizione, la quale fu ottima maestra di tessere, intanto che
ella osava vantarsi d'esserne migliore maestra che
Pallade; laonde
Pallade, presa forma d'una vecchiarella, andò a lei e
cominciolla
amichevolmente a riprendere,
dicendole che ella non faceva
saviamente
di volersi
aguagliare agl'iddii,non che farsi maggiore. Di che
Aragne le disse villania; onde
Pallade subitamente si trasformò nella
sua vera forma e
dissele se ella voleva tessere a pruova con lei.
Aragne, vergognandosi d'essersi
vantata e non
ritenere lo 'nvito fatto
da Pallas, disse di sì. Fece adunque ciscuna di loro la sua
tela:
quella di Pallas fu più bella; il che veggendo Aragne per dolore
s'impiccò per la
gola; ma
Pallade non sofferse ch' ella morisse, anzi
la convertì in
ragnolo, il quale, non avendo la sua
arte dimenticata,
ancora tesse, come noi veggiamo.
L. 11, 61.4e di Vulcano Vulcano, iddio
del fuoco, chiese a Giove Pallade per moglie. Quella il rifiutò per
marito; di che Giove gli concedette che egli, se potesse, prendesse
di lei ogni piacere. Di che Vulcano, volendola un dì sforzare, fu sì
da lei percosso in terra, che egli si guastò l'anca, e sempre poi andò
sciancato. - Vulcan: dio del fuoco. - l'Oebalio: cioè Castore. -
'l Pisano: cioè Ida.
L. 11, 62.1Ma poi nell'unta etc.: che giuoco sia quello de la palestra, è
mostrato di sopra.
L. 11, 62.3il feo: quel giuoco.
L. 11, 62.4Elena: moglie di
Menelao. - e ben lo seppe Elena: come Elena fosse rapita da Teseo
nel giuoco della palestra, è detto di sopra.
L. 11, 62.5lì: quivi. - Egeo: re.
L. 11, 62.7nel quale vedeasi etc. Marsia fu ottimo suonatore, intanto che
egli presunse di volere sonare a pruova con Apollo; e furono insieme
a questo acordo, che colui che vincesse facesse de l'altro ciò che gli
piacesse. Vinse Apollo, e fece scorticare Marsia, il quale, così scorticato,
fu dall'iddii convertito in uno fiume, il quale ancora si chiama
Marsia.
L. 11, 63.1
Vedeasi: Apollo. -
Fitonte: serpente. -
Vedeasi appresso etc.
Fitone fu un grandissimo serpente, il quale Apollo con le sue saette
uccise.
L. 11, 63.2l'ombre: dell'alloro.
L. 11, 63.3Parnaso: monte. - sopra Parnaso
etc. Scrivono i poeti le Muse essere nove ottime cantatrici e abitare
allato ad una fonte la quale è in sul monte Parnaso, e quivi cantare
loro versi; nel mezo delle quali dicono che Appollo siede e suona
mentre elle cantano.
L. 11, 64.1Poi al cesto Quello che cesto si sia non abbiamo oggi assai
chiaro; ma credo io sia uno bastone al quale siano appiccate palle
di piombo, con le quali l'uno percuote l'altro di coloro che vi giuocano,
e è pericoloso e mortal giuoco. In questo vinse Polluce Ameto, re di
Tesaglia.
L. 11, 64.2avanzato: vinto.
L. 11, 64.3Ameto: re di Tesaglia.
L. 11, 64.6il quale aveva: cioè Polluce.
L. 11, 64.8ammirandi: maravigliosi.
L. 11, 65.1
In essi: nappi. -
In essi con non poca etc. Eran in questi nappi
intagliate le
XII fatiche d'
Alcide, cioè d'
Ercule; delle quali qui di
due solamente fa
menzione. La prima è che essendo egli ancora picciolo
fanciullo nella culla, Giunone, sua matrigna, mandò due serpi
ad
ucciderlo, le quali due serpi
Ercule, così piccolo come era, prese e
uccise. La seconda si è del leone, il quale egli nella selva chiamata
Nemea uccise.
L. 11, 65.2Alcide: Ercule. - cuna: culla.
L. 11, 65.4mandate: da Giunone.
L. 11, 65.6bruna: ombrosa.
L. 11, 65.8sue: d'Ercule.
L. 11, 66.2con Sarpedone al desco etc. Desco era una palla ritonda, la
quale a quel tempo essi usavano di gittare e in pinta e in volta, come
oggi si gittano le pietre: in questo Evandro vinse Sarpedone.
L. 11, 66.4Egeo: re.
L. 11, 66.6Su vi sedea etc. La forma di Pan, dio d'Arcadia, era
questa: [].
L. 11, 68.1Li giuochi olimpiaci si facevano ad onore di Giove, ma qual
fosse la propia forma di questi giuochi e di quegli che seguono non
abbiamo: e chi era in questi vincitore era coronato d'ulivo.
L. 11, 68.3Li giuochi fizii si facevano ad onore di Febo, e chi era vincitore di
quegli era coronato d'alloro. - pennei: d'alloro. - mai: cioè rami.
L. 11, 68.4Li giuochi nemei si facevano ad onore d'Ercule, e chi era vincitore
di quegli era coronato d'appio.
L. 11, 68.5Li giuochi stimii [].
L. 11, 68.7Li giuochi cereali si faceano ad onore di Cerere, e chi era vincitore era
coronato di frondi di quercia.
L. 11, 69.3mira: maravigliosa.
L. 11, 69.4elevato: alto.
L. 11, 70.6da tal: maestro.
L. 11, 70.8d'esso: d'Arcita.
L. 11, 71.1
nel primo canto: del tempio.
L. 11, 71.2di Scizia: di quella contrada.
L. 11, 71.3achive: greche. - il tristo pianto:
quando si dolevano di Creonte a Teseo.
L. 11, 71.5quasi sentia etc.: sì propie parevano dipinte.
L. 11, 71.6l'operatore: il dipintore.
L. 11, 71.7ciascheduna: donna. - v'era conosciuta: sì erano appropiati li visi di
quelle.
L. 11, 72.1Ismeno: fiume di Tebe.
L. 11, 72.2Asopo: fiume di Tebe.
lito: ripa.
L. 11, 72.3corpi morti: nelle bataglie d'Etiocle e di Pollinice.
L. 11, 72.6era circuito: il sito di Tebe.
L. 11, 72.8vedea: dipinto. - Creonte: di
cui si dice di sopra.
L. 11, 73.4visi vedeano: dipinti.
L. 11, 73.7
v'era: dipinto.
L. 11, 73.8per lui: cioè per Teseo.
L. 11, 74.1-2si vedean: dipinti - fuggire: poi che Creonte fu sconfitto
e morto.
L. 11, 74.3pareanvisi: nelle dipinture.
L. 11, 74.5achive: greche.
L. 11, 74.6con diversi stuoli: quando misoro fuoco in Tebe.
L. 11, 74.8le corpor: de' loro mariti.
L. 11, 75.1quella: Tebe.
L. 11, 75.2v'era: dipinto.
L. 11, 76.3visi vedeva: dipinto.
L. 11, 76.5si vedeano: dipinti.
L. 11, 77.1
la giovinetta:
Emilia.
L. 11, 77.2in su li nuovi albori: cioè nell'aurora.
L. 11, 77.7chi li mirava: così dipinti.
L. 11, 78.1Vedeansi: dipinti.
L. 11, 78.7vedevasi: dipinto. - arrivare: Arcita.
L. 11, 79.4vi si vedeva: dipinto.
L. 11, 79.6el: Arcita.
L. 11, 79.8se n'andava boschetto: Arcita.
L. 11, 81.1v'era: dipinta.
L. 11, 81.2Alimeto: medico.
L. 11, 81.3quivi: in prigione.
L. 11, 81.6fleto: pianto.
L. 11, 81.8nel tempo oscuro: di notte.
L. 11, 82.1vedeasi: dipinto. - sceso: Palemone.
L. 11, 82.5ciascuno: Ancita e Palemone.
L. 11, 83.1
si vedea: dipinta.
L. 11, 83.4vedeavisi: dipinti.
L. 11, 83.5-6partuta l'avea: la battaglia.
L. 11, 83.6-7e come li riconobbe: vi si vedea.
L. 11, 84.1Vedeanvisi: dipinti. - Dircei: Tebani.
L. 11, 84.3lernei: greci.
L. 11, 84.5vi si vedevano: dipinti. - colei: Emilia.
L. 11, 84.6le 'nsegne: vi si vedeano dipinte.
L. 11, 85.1Eranvi: dipinti.
L. 11, 85.2milizia: cavalleria.
L. 11, 85.5vi si vedeva: dipinto.
L. 11, 85.8v'era: dipinto.
L. 11, 86.1
vi si parea: dipinta.
L. 11, 86.2Imeneo: dio delle noze.
L. 11, 86.5vi si vedea: dipinto.
L. 11, 87.1il feretro: la bara. - di sopra: portato.
L. 11, 87.2si vedea: dipinto.
L. 11, 87.3gli egregi: i nobili.
L. 11, 87.7si vedeva: dipinto.
L. 11, 87.8il corpo: d'Arcita.
L. 11, 88.1sua: d'Arcita.
L. 11, 88.2gli: a Palemone. - uscì di mente: di
fare dipignere. - segnata: dipinta.
L. 11, 86.3fati: la disposizione di Dio.
L. 11, 86.4non fosse ricordata: quella caduta sventurata.
L. 11, 86.6entrata: quella caduta.
L. 11, 86.8il giovane: Arcita.
L. 11, 89.2
el: cioè Palemone.
L. 11, 89.4le trierterie: i sacrifici mortori.
L. 11, 89.5estinto: morto.
L. 11, 90.4urna: vaso. - sita: posta.
L. 11, 91.1me: urna.
L. 11, 91.3qui: in questo tempio.
L. 11, 91.4lui: Arcita.
L. 11, 91.6può: Arcita. - Qual se': tu, amadore che qui leggi. - io fui:
cioè io Arcita.
L. 11, 91.8ti guarda: tu, amante.
L. 12, 1.2
queste cose: dette di sopra.
L. 12, 1.5essa: Emilia.
L. 12, 3.2avvenimento: d'Arcita.
L. 12, 3.3con lui: con Teseo. - adunati: ragunati.
L. 12, 4.3esso: Palemone.
L. 12, 4.5lui: Teseo.
L. 12, 4.6esso: Teseo. - con quanti: baroni.
L. 12, 5.4
erette: atente.
L. 12, 6.5di quel etc.: cioè di Dio.
L. 12, 7.7perenni: perpetui.
L. 12, 7.8nuovi: fiumi.
L. 12, 8.6
e questa: vecchieza.
L. 12, 9.3il modo: del morire.
L. 12, 9.8né l'alma etc.: per morire più
in un luogo che in un altro.
L. 12, 10.1Del modo: del morire.
L. 12, 10.4alcuno etc.: sia ucciso.
L. 12, 10.5in qual : modo.
L. 12, 10.7Acheronte: fiume d'inferno. - a ciaschedun: omo.
L. 12, 11.4in quel: uomo.
L. 12, 11.5'n quel: uomo.
L. 12, 11.8
contingenti: cioè per
morte d'uomo.
L. 12, 13.4conceder: di piagnere.
L. 12, 13.5dopo quel: pianto.
L. 12, 14.4copioso: cioè grande.
L. 12, 15.3
gramo: dolente.
L. 12, 17.5mo': ora.
L. 12, 18.1esso: Arcita. - ultimamente: quando venne a morte.
L. 12, 18.3Foroneo: re di Lacedemona.
L. 12, 18.4ne donò: a noi Greci.
L. 12, 18.7
el: cioè Arcita.
L. 12, 19.5de' due già detti: cioè di Palemone e d'Emilia.
L. 12, 21.8che n'ha balia: di farlo essere.
L. 12, 22.4
postergato: cioè lasciato adietro.
L. 12, 22.5il dover: cioè il
piagnere.
L. 12, 23.4tra lor: cioè tra la volntà e la ragione.
L. 12, 23.6il che s'avien: che 'l dolor vinca.
L. 12, 23.7il guarderò: il dovere.
L. 12, 24.1tante infamie: perciò che, come in molti luoghi di sopra si
può leggere, li Tebani in diversi atti fecero molte soze cose.
L. 12, 24.6nel reame molosso: è in quelle contrade ove è Durazo.
L. 12, 26.5
quella: cioè Giunone.
L. 12, 27.2questo: che io amassi Arcita.
L. 12, 27.4sua: d'Arcita.
L. 12, 28.3prescrisse: impose.
L. 12, 28.4fosse mia: Emilia.
L. 12, 28.8
di lui: d'Arcita.
L. 12, 29.4già molto etc.: quando gli dicea che non piagnesse, riconfortandolo.
L. 12, 28.6Penteo: cioè Arcita.
L. 12, 30.1ciò che dicevamo: cioè di prendere Emilia per moglie.
L. 12, 30.7quel: che l'avea primo tolta. - el: cioè il fratello rimaso vivo.
L. 12, 34.7
signor: Teseo.
L. 12, 35.1
Citerea: Venere.
L. 12, 35.2delli cui cori: di Diana. - il numero
minore: scemandone Emilia.
L. 12, 35.4dell'altra: cioè di Venere. - maggiore: agiugnendovi Emilia.
L. 12, 36.1ombra: anima.
L. 12, 36.8spento: morto.
L. 12, 37.3signore: Teseo.
L. 12, 38.6
l'ansiava: la faticava.
L. 12, 38.7el: Teseo.
L. 12, 39.6ombra: anima.
L. 12, 40.3allor che etc.: quando uccisero i maschi loro, come è detto
di sopra.
L. 12, 40.5contravenire: a' boti fatti a Diana.
L. 12, 40.6sua: di Diana.
L. 12, 41.1
di quelle: botate.
L. 12, 41.4Acate: che morì.
L. 12, 41.5l'altro: male.
L. 12, 42.2lo farei: d'esser sua moglie, acciò che egli morisse e tu rimanessi
senza nemico.
L. 12, 52.1
sante donne:
Muse.
L. 12, 52.1-2Mostrato è di sopra come Anfione
con la dolcezza della sua cetara mosse i monti a chiudere Tebe di
mura. Ove è da intendere che la dolcezza della sua cetara fu la forza
della sua eloquenzia, la quale mediante le Muse sì ordinò, che elli,
parlando ornatissimamente, indusse gli uomini della contrada a fare
le mura di Tebe. E queste Muse invoca qui l'autore, dovendo disegnare
la bellezza di Emilia.
L. 12, 57.5
eminente:
elevato.
L. 12, 58.1tumorose: cioè grasse o enfiate.
L. 12, 58.6e questa: mistura colorita.
- dipinta: cioè lisciata.
L. 12, 61.5
eminente:
rilevato.
L. 12, 61.6de' pomi: delle poppe.
L. 12, 61.7avean: le poppine.
L. 12, 63.3celata: cioè ch'è sotto i panni.
L. 12, 63.4colui: Palemone.
L. 12, 64.2
tre volte cinque: quindici. -
Appollo: il sole.
L. 12, 64.1-3Né era partimento: aveva XV anni.
L. 12, 64.3donde etc.: quando nacque.
L. 12, 65.4suppremo: grandissimo.
L. 12, 65.6al postremo: a l'ultimo.
L. 12, 67.8
Elena: sua moglie.
L. 12, 68.4li: quivi.
L. 12, 68.6Imeneo: dio delle noze.
L. 12, 68.8Giunone: dea de' matrimonii.
L. 12, 69.1ara: altare.
L. 12, 69.5gnara: sciocca.
L. 12, 71.6
mire:
maravigliose.
L. 12, 72.2Orfeo: fu ottimo sonatore.
L. 12, 72.4Museo: fu ottimo sonatore.
L. 12, 72.6Lino: gran maestro di musica. - Anfion: re.
L. 12, 72.8Caliopè: Musa.
L. 12, 77.4
sette volte etc.: giacque Palemone
VII volte, la notte, con
Emilia.
L. 12, 77.5promesso avea: quando pregò Venere, dovendo il dì seguente
combattere con Arcita, come di sopra appare.
L. 12, 77.4Citerea: Venere.
L. 12, 79.5impetto: incontro.
L. 12, 81.1-3
già due fiate etc.: erano passati due mesi.
L. 12, 81.2la sorella etc.: la luna.
L. 12, 81.6amena: dilettevole.
L. 12, 82.6Penteo: per Arcita.
L. 12, 83.7
quel etc.: cioè
Emilia.
L. 12, 84.1Poi che le Muse etc.: cioè poi che si cominciò per volgare
a dire in rima.
L. 12, 84.4in onesto parlare: come in canzoni morali.
L. 12, 84.5in amoroso: in canzoni e sonetti d'amore.
L. 12, 84.7di Marte: cioè di battaglie.
L. 12, 84.8lazio: latino. - id.: lazio s'intende qui largamente per
tutta Italia.
L. 12, 85.2non solcate mai etc.: cioè, che mai in rima non è stata messa,
prima che questa, alcuna istoria di guerre.
L. 12, 85.4infimo: basso.
L. 12, 85.5tra gli altri: libri.
L. 12, 85.8
materia dando etc.: d'onorare, quando che sia, te.
L. 12, 86.1E però etc.: cioè se' pervenuto al fine di quello che cominciasti.
L. 12, 86.3in essi: porti.
L. 12, 86.4le vaghe etc.: non diciam più.
L. 12, 86.5e le ghirlande etc.: cioè gli onori.
L. 12, 86.7lodando l'Orsa etc.: I marinari
navicano al segno della tramontana, la quale, come di sopra ho mostrato,
è nella coda della minore Orsa; così l'autore in questo suo
navicare, cioè nel comporre di questo libro, ebbe per Orsa, cioè per
fermo segno, una sua donna, ad onore e piacere della quale egli il
compose; e perciò che ella, sì come vero segno, l'ha condotto a buono
porto, dice al libro suo e a sé queste ultime parole: «lodando l'Orsa»
etc..