Signuri, perdonateme, pregovi ad laude Dio,
Se io fallo nello scrivere de quisto libro mio
Del nostro stato d'Aquila per chy male ne sequìo;
Se avesse alcuno mottato, che no lli saccia rio!
Ma bono stato pillieno li altri che regerando,
Opprimendo li captivi, li boni sollevando,
Né nullo preminente volere né tirando
Che guastano la terra et strugere la fando.
Lo cunto serrà d'Aquila, magnifica citade,
Et de quilli che la ficero con grande sagacitade:
Per non essere vassalli cercaro la libertade
Et non volere signore set non la magestade.
Per le multe graviczi che li tirandi li puneano,
Sempre a lloro facende vacavano et attendevano,
Et de tucte loro cose lo mellio ne volevano.
«Mellio forrìa la morte!» ad omne hora dicevano.
Tanto foro magnanimi et d'alto grande core,
Contra tucti signuri non temenno furore!
«O li metteremo sotto o moreremo a dolore!»
Ma de sì alta impresa poi vindero ad honore.
Da grande animo vendeli quando lo immaginaro,
Che tante castella insemmora per la cità radunaro,
Et tante libertaty quante da re accattaro!
Alcuni che trovarosenci ben lo accattaro caro!
Più volte coselliandose sopre tale latino,
De notte, ad Grotta Popoli, fo ad Santo Vettorino,
Et quando ad Santa Justa, pur sotto lo terrino;
Ma uno ne fo Juda, traditore e ascisino,
Che gio alli signuri el facto li contava,
Che la strussione loro et la morte se tractava,
Et como ad ciascuno li panni li talliava
Ché se recongnoscesse con qualunca se trovava.
Essendo li signuri coscì bene informati,
Uno dì mandaro per loro colli altri mestecati;
Multi ci nne gero che foro imprescionati,
Chi foro congnosciuti per li panni taccati.
Qualunca homo trovasse in alecuno rio tractato,
Che lo bono collo reo sia morto et derrobato,
Le donde et li fanciully che so senza peccato,
Se ttorne sopra isso, ben se llo à guadagnato!
Li presciuni foro fatty tucti martoriare,
Per essere informati, et ad peczi li talliare,
Et poy dalle fenestre nelle strade gettare,
Acciò che tucti li altri facesse impagurare.
Ma fo ben lo contrario; ché gran remore ne uscìo
De chi strillava «patre!», chi «frate!», chi «lo tio!»
Lo popolo ad armare in gran furia ne gio
Et talliaro tucti ad peczi chi non se nne fugio.
Né conte né barone né tirando ce lassaro:
Quale morto, quale prescione, che pochi ne camparo;
Parichi fortelliczi per terra ruynaro;
Coscì le soprechianze care le accattaro!
Remasi coscì sciolti, repusato omne remore,
Ad Roma ne mandaro alcuno admasciadore
Ad missere Jacobo de Senizo che era protectore,
Cancelliero era de papa, tenuto in granne honore.
Junti li amasciaduri nanti la soa presentia
Et da parte dello popolo desposta la credenzia,
Da presso li narraro tucta la continenzia:
Desfatti li tirandi et loro preminenzia.
«Unde tucti pregamovi che vui vi operete
Collo papa et collo re, che gratia ne impetrete
De fare una citade, così per nui se pete,
Che a lloro ne sia gloria, ad nui pace et quiete».
Missere Jacobo allora con multa alegra faccia,
Odendo tale novella, nulla è che più li piaccia;
Per fareli quello honore c'a lloro se confaccia,
Condusseli alla casa cortese infra le braccia.
Così juncti alla casa, poi che abero magnato,
Messere Jacobo et loro allo papa ne fo annato;
Factali reverentia, lo facto reaccontato,
Foli facta la gratia per loro demandato.
La lettera fo facta con plena informatione
Contra delli tiranni et loro offensione,
Et scusandose li nostri per fare loro defensione;
Ad chi avesse peccato se dia la punitione!
Adpresso, per la gratia che se lli demandava
Per parte dello popolo che mo desperso stava,
Concedesse la terra: omneuno se accomodava
Et a llui stato et gloria sempre ne sequitava.
Re Corrado della Magna allora era signore;
Ad stanzia dello papa accettò fareli honore;
Concedette lo assenzo, le carti et lo favore;
Perché durò sì poco, fo in tristi punti et hore.
Tornata l'amasciata con sì bona novella
Et referito allo popolo omne partecella,
Gridaro tucti inseme: «La cità fecciamo bella,
Che nulla nello regame non se apparechie ad ella!»
Fecero la citade solliciti et uniti:
Anni mille ducento cinquanta quatro giti,
Benché non ci stettero più che cinque anni forniti:
Alli cinquanta nove fo sconcia et fore usciti.
Perché lo re Manfredo poi venne in signorìa
Et contra della Eclesia con forza et tirannìa
Colli mali regnicoly, che gran copia ne avìa:
Quale era per offitio et quale per leccarìa.
Tanto co re Manfreda tucti se adoporaro
Con tuctiquanti li altri che d'Abruczo camparo,
Perché sconciasse l'Aquila jamay non refinaro,
Fi che, a lloro petetione, tucta la deruparo.
Sey anni stette sconcia, sì como trovo scripto,
Né casa vi remase, né pesele, né ticto;
Credo che fo judiczio como de male tollitto
Che Dio ce concedette ad tanto maledicto.
Li judicii de Dio ad nui sonno multi occulti,
Perciò guardare devemone de fare tale consulti;
Set non sonno rascionivili, non ce sciano sculti,
Perché n'agio veduto fare vendetta de multi!
Ancor porrìa essere fortuna overo destino
Che così dovesse andare per nui, né più né mino,
O per li gran peccati fatti nel terrino,
O lo addusse influentia da lo alto Dio divino!
Tornamo ad re Manfreda; colla soa pertinacia
Non temendo la Ecclesia, standoli in contumacia,
Et similemente al celo standoli in desgratia,
Né che vennetta facciase della soa stulta audacia;
Re Carlo primo di Francia, dalla Ecclesia chiamato,
Venne con multa gente d'arme adcompagnato
Contra de re Manfreda per averelo cacciato
Et per la santa Ecclesia repunere in estato.
Junto che fo ad Hostia, ad Roma se nne vende;
D'onne roba fo fornito sì como se adconvende,
Et dé uno gran convito splendito et sollende;
La gratia de refare Aquila missere Jacobo obtende.
Lo papa, depò questo, li dé lo confalone
Contra de re Manfreda ad morte et destructione,
Et contra qualunca altro a llui foxe in defensione,
Et, facto lo sacramento, da lui se licentione.
Gisene per Campagna et per Pullia ad Benevento
Et là con tucta gente prese allogiamento
Con alegreza et festa, sonanno omne stromento;
Coscì de fare battallia ciascuno avea talento.
Sentendo re Manfreda re Carlo venire,
Prima deliberò de in campo non uscire
Né mettere ad partito potere tucto perdire,
Ma tucta la soa gente per lochi departire.
De poi mutò preposito, altro consillo prese,
Ch'era mancamento ad re stare ad defese,
Sofferenno la strussione de tucto lo pagese,
Ma pure de uscirely ad campo et essere alle imprese.
Et radunare fece tucta la soa gente
Da cavallio et da pedi, danunca ne aveva niente,
Et forniti de robba che li era spediente;
Con ipsi ne uscìo fore; non fece saviamente!
Et così junti ad campo con tucta la brigata,
Puserose adpresso a lloro ad una balestrata
Et con festa et con soni si fo bene allogiata;
Da tuct' e dui le parti la guerra è desfidata.
Poi fecero le schiere ciascuno da parte in parte;
Chi se adcommanda a Dio, chi se accomanda ad Marte
Che li dega la victoria como rechiede l'arte;
El re Manfreda attese a ffare altro in esparte.
Ché dece cavaleri della soa gente elesse
Delli soy più scorti che fidare se podesse,
Et a lloro conmise che ad altro non attendesse
Sì che lo re Carlo là morto remanesse.
Messere Berardo Stiajecce fo capo delli dece;
Per dare morte ad re Carlo una gran ponta fece;
Illo re Carlo animuso no llo curava un cece;
Per la soa gran vigorìa gran parte ne desfece.
Poy verso dello campo voltòse alle soi genti;
Vedeale nella battallia per essere vencenti,
Cacciando li innimici for delli allogiamenti,
Sì che ad re Manfreda faceva battere li denti.
Uscì contra re Carlo, con impeto se mosse,
Con una lancia in mano adosso li percosse;
Del quale culpo re Carlo de sella non mutosse,
Ansi la soa lancia in su lo petto li posse.
Et firìo re Manfreda de tale forza et potere
Che arme che lui avesse no llo potìo retenere
Chel ferro no lli trasse ad male sou volere,
Sì che morto convendeli giù in terra cadere.
Unde per la soa morte la gente sbagotthìo;
Chi non era fugito allora se fugìo;
Et la gente de re Carlo contanto l'asegìo
Che pochi ne camparo de chi ce resistìo.
De quilli che camparo, chi là chi qua andaro,
Et quilli de re Carlo più no lli sequitaro;
Al campo per la roba tucti se retornaro
Et tucti foro ricchi: tanta vi nde trovaro.
Ottenuta la victoria, re Carlo adsay contento
Ch'aveva vinto lo regame per sou gran ardimento,
Per festa et alegrecza sonava omne stromento;
Poy tucti li racolse per fare departemento.
Et annò verso Napoli sensa fare altra resta
Con tucta la brigata della soa gran conquesta;
El popolo uscìo fore senza alcuna rechiesta,
Et miserolo dentro con multo honore et festa.
Così abe re Carlo lo regame adsequito,
Da tucte le provincie assay bene obedito
Et da tucti li popoli honorato et reverito;
Chi ben volse ad re Manfreda non abe bon partito!
Reposata omne festa, omne sollaczo et joco,
Lo banno fece dare, ad pena dello foco,
Che omneuno puse l'arme et torne allo suo loco,
Lo grande et lo mezano per finente allo poco.
Poi mise li offitiali per citadi et castelle
Con multa gente de arme, ché nisciuno se rebelle,
Et, se nisciuno movessese, per levareli la pelle;
Null'altra gente de arme se tenca per chivelle!
Così, misso lo reame in bono filo dericto,
In questa pace stava con tucto lo suo districto,
Et da longa et da presso omneuno stava ficto;
Duno et gratia facea ad chi li geva dritto.
Lo re Carlo fo prencepe de multe gratie plino
Alla soa Ecclesia sempre collo culto divino,
Et della soa persona fo quasi uno paladino.
Fece refare l'Aquila che jacea in casalino;
L'Aquila, per inducta et summa petetione
De ser Jacobo de Senizo che n'abe promissione;
Sì che per ipso l'Aquila dui volte facta fone;
Ben parìa cosa degna de lui farene mensione.
El fo scrittor del papa con bello stile fatto;
Non havìa paro in corte, tanto quello era atto,
Chel papa et lu re l'amava; tanto obediente era fatto
Che mai di nulla gente non fu coatto.
Per ben servire è stata la gratia che ha hauta;
Dal papa et dallu re Carlo isso l'à receputa;
Nullo contrario ci hebbe in questa lor venuta;
Dio li faccia gratia alla loro transuta!
Però che lu segnore il suo servo deve ajutare
Et non li esser ingrato per nulla cosa ad fare;
Quanto più grande è il signore più lo deve fare,
Ché sempre ne sia lodato senza nulla pagare.
Questo a messer Jacovo fu fatto de gratia,
Però che in corte havìa grande et bella audatia,
Et anco a nullo non fece mai fallatia,
Et in corte non stette mai a contumatia.
Signuri, perdonateme, pregovi ad laude Deo,
Se in qualche cosa fallo nello dicere meo,
In quisto mio dittato lo quale vi conto eo,
Gettando qualche mutto, ca ad nullo serrà reo!
Lo cunto serrà d'Aquila, la nobile citade,
Como è male conducta per nostra malvascetade;
Et quilli che la fecero, dicovi in veritade,
In un modo laudareli in animo me accade.
Da grande animo vendeli quando lo imaginaro,
Che tante castella insemera ipsi radunaro,
Et tante libertati quante da re accaptaro!
Alcuni che trovarosenci ben lo accaptaro caro!
Questa terra fo in prima per re Corrado facta;
Poy venne re Manphreo, per illo fo desfatta;
Sey anni stette sconcia, como la storia tracta;
Correa li anni Domini, como correa in pacta
L'anno che edificaro, anni mille et duicento
Et poy cinquanta quatro, credate che non mento;
Alli cinquanta nove fo lo sconciamento;
Fra quisti cinque anni no vi fo accasamento.
Poy sorse lo re Carlo che la fece refare:
Dello mese de aprile la fene redeficare;
Correa li anni Domini, secundo scripto appare,
Ducento sessanta cinque; quanto è mo poy contare.
Nanti non fo refacta, fonce multo contraro;
Perché li gentili homini nanti lo re annaro;
Con grande pietate a llui se accomandaro
Che no lli destrugesse né facesse tanto amaro.
«Monsignore, pregamote, la cità non refare;
Vuy sete gentile homo et bellio vi non pare
Per la rea villanìa li gentili desfare;
Ca cescasuno de nui deverete adjutare.
Ènci dicto che illi te dao multi denari,
Se lli refay la terra alli rei mercendari;
Più denari nui damote che li nostri aversari;
Prendete nostra obliganza per judici et notari.
Anchi te promettemo duicento cavaleri
Bene armati et accunci, tucti co lloro scuderi,
Essere allo tuo comando dunca te fa mesteri;
Fi ad morte li mettemo de essere toy guerreri».
Lo re Carlo respuse: «o non vollio obliganza;
Set non avete moneta, tollietela in prestanza».
«No lla trovamamo a presteto», respusero, «a llianza
Nui la recollieremo senza nulla fallanza».
Uno delli signuri li stava canto lato
Che per li menuri homini facea lo tractato;
Et agi per certanza cha era ben pagato;
Voltòse verso lo re et abbe a llui parlato:
«Segnore, Deo vi dea vita, mettatevi ad pensare:
Se la cità de Aquila vui non fate refare,
Lo popolo menore tucto farrai desfare:
Quale ne farrai impennere et quale farrai cecare.
Quisti non ago denari, ma se lli credo avere;
Scortecarao li vassalli quanto è loro potere;
Per omne denaro vinti se farrao provedere
Et, sopre tucto questo, li averao male volere.
Singnore, Deo vi dea vita, mettetevi ad pensare:
Chi lassa le loro case dove sole avetare
Et le loro possessiuni da presso fa allongare,
Per gran dolo ne è stritto, che non po altro fare!
Credo che quisto popolo, se foxe bene tractato
Et li loro signuri lo avessero conservato,
Se tanto no llo avessero allo vivo scortecato,
May non vorrìa in Aquila essere rencasato».
Re Carlo, odendo questo, mossese ad pietate;
Disse: «Refayte l'Aquila, ché io vollio in veritate!
La moneta promessa per termene portate;
Fecciatevi le carti che siano ben cauterate».
Li tractaturi de questo foro multi alegrati;
Parterose da re Carlo, lassaro li scendecati
De tucte le castella, como erano obligati;
In Santo Vettorino erano reserrati.
Ca loco congregandose multo celatamente
Acciò che li signuri non sentessero niente,
Ciaschesuno recava soe carti cautamente
Et loco le repusero tucta questa bona gente.
Lo pacto quale fecero con re Carlo intanno:
Che la terra concedali, como petuto li ànno,
Che prendano casalina quantunca ne li vando,
Et uno casalino a foco si vadano assenando.
Lo casalino degia essere quatro canne per lato
E sette canne et menza per longo mesurato,
E de omne casalino allo re sia dato
Dudici bon carlini per uno fiorino contato.
Quindici milia focora foro quilli che dero;
Plu che mo non è l'Aquila de terrino prendero;
Lo colle de Collemagio daventro lo mettero;
Como abe nome Aquila dirròvilo de vero.
Assay gero cercando Amiterno et Forcone;
Plu acto loco che quisto null'omo devisone;
Piacque a Deo che in questo ciascuno se accordone
Che Acquille demandaro, che villa de Pile fone.
Dixero: «Como à nome questa villa ecco posta?»
«Acquille questa chiamase, che sede in questa costa».
Et uno parlò fra li altri et fece questa proposta:
«Nome Aquila ponamoli!» et ognuno se nci accosta.
Quando vindero allo punto della terra pilliare,
Perché fo sconcia in prima miserose ad pensare;
Criserose che li primi non sapessero fare;
Dixero: «Mo accuremoly de mellio retrovare».
Abero multi astrologi per colliere l'ora et lo punto
Che regne la citade multi anni senza cuncto,
Et chi male vole fareli che sia morto et defunto!
Lo dì quando preserola miserolo no punto.
Uno de quilli savii intendo che parlao:
«Questa terra che prendemo, credo che durarao;
Et guastare non dévesse, cha plu permanerao;
Ma multe tribulatiuni credo che averao!»
Dapò che foro fornite le loro voluntati,
Tornaro alle castella et contaro li tractati
Et posero lo giorno de essere congregati;
Represero la terra con fussi et con sticcati.
Sconciaro le castella, la roba ne adrecaro;
Le grande fortelliczi tuttequante guastaro;
Né tanto alli signuri sapesse reo et amaro,
Contra la loro voglia in Aquila li menaro.
Ficero li abitatii de tabole et de mura;
Parichi miscy stettero, ché abero pagura;
Perché li gentili homini diceano ca non dura;
Che non se resconce Aquila; hor ponatelo a ccura!
Et non però che io credo, como agio ymaginato,
Che may non fora facto quello che facto è stato:
Liberare li villani per loro merito et grato,
Quanto, per li signuri, purgare lo loro peccato.
Chi foxe bene savio, metteriase ad pensare
Che gran peccato feceno per questa terra fare,
Et in quello che è facto volesse ymaginare,
Pagura abera d'Aquila che non degia durare!
Como aio odito dire, così vi conto et parlo:
Quilli che Aquila fecero promisero a re Carlo
Lo terrino per Aquila tucto quanto pagarelo;
Como toccava all'omo, così satisfarelo.
De Pile e della Torre fo tucto lo terrino,
Cha Acquille non hebe più proximo vicino;
Fra quisti tucti non abero uno vile provesino:
De ciò che li promisero venderonelli mino.
Odito agio da savio: chi mura in terra aliena
Che dice la loro lege ad gran rascione plena,
Fatiga deve perdere et calce et prete et rena;
Ad chi fo lo terrino la lege lo rassena!
Or, data questa sententia, se nui avemo murato
Nello terrino altrugio che non fo comparato,
Or non avesse ad dire de majure peccato
Che quisto communo ha fatto da poi che fo adunato!
Alla nostra materia me vollio retornare
De Aquila male guidata che in pace non po stare;
Quello che agio in core vollio palificare:
Quasi per dollia et ira serrà lo mio parlare!
Como lauday colloro che Aquila edificaro,
Questa bella terra così bene la allocaro,
Et tante libertati quante da re acquistaro,
Così li despregio: tali homini vi menaro!
So facte le proverbia per li homini saputi,
Non per direle alle bestie né alli homini muti,
Ma per direle ad quilli ch'è scorti et adveduti,
Che bono exemplo prendano de alcuni jorni juti.
Fra li altri che vi saccio uno me è plu ad mente:
Chi place allo villano desplace a Deo vivente,
Ca no llo sa cognoscere né poco né niente,
Ma sempre è ingnorante dello suo cognoscente.
Adunca a Deo desplacque: quilli che ordenaro
De fare questa terra sì bene l'allocaro
Et tante libertati quante da re acquistaro;
Così li despregio: tali homini vi menaro!
Ramotto con altri homini trasse de servituty
Tucti li menuri homini che quisto pagese à havuti;
Quillo ne fo appiccato et altri morti et feruti;
Unni sapete que meriti da nui ago receputi!
Odito avete dicere delle volte plu de otto
Ad quilli che maldico l'anima de Rambotto
Che ecco tanti misene, gettando qualche motto;
Però fa gran peccato chi trane villano de sotto!
Da poy che fo unita la multa villanallia,
Sallero in gran superbia per fare briga et travallia;
Omne castello strussero che era alla frontallia;
Se fecero peccato, non cederono una pallia.
Multe castella strussero, non se porrìa cuntare:
Ocra et Castelluni fecero derupare;
Nulla grande fortelleza ce volsero lassare;
La roba che arrecarone anco se tè ad redare.
Da poy che Aquila posero in quisto casalino,
Ad quattro anni poy questo venne re Corradino
Che fo sconfitto in Marscy, lo misero meschino;
Re Carlo abe victoria et vicque lo terrino.
Or quisto Corradino si venne dalla Mangna;
Lo floro de quella gente menò in soa compagna;
Ovunque se pusava, tenea plano et montagna;
De Carlo non curava lo valore d'una castagna.
Volliove recontare como fo la battallia.
Re Carlo, primo re, si gette alla frontallia;
Illo era paladino et avea gente da vallia
De boni cavaleri et de bona pedonallia.
Ma quando se adboltavano fra loro li Todischi
Con quelle spade longhe de sopra alli Francischi,
Fenneano ad un culpo l'omo, et sempre erano flischi;
Resistere non poteano ad quilli Allemandischi.
Or vi dirrò lo modo che tenne lo re Carlo:
Quattro battallie fece, como vi conto et parlo;
Ad ciascuna battallia un omo fe armarlo,
Ad modo de uno re si fece coronarlo.
Como vi conto et parlo, tre battalle perdeo
Lo nostro re Carlone dello exerceto seo;
Erace uno Todischo che, danunca fereo,
L'omo da capo ad pedi ad uno culpo fendeo.
Quillo chiamare facevase Cavalero de Polsella;
Ad un culpo gettava cescasuno de sella;
De poy che soa prodeza fo spasa per novella,
Omne homo li fugeva per non avere morte fella.
Colla quarta battaglia re Carlo se stageva;
Settecento barbute de bono arnese aveva;
Pensando in tre battallie, perduto aver parea,
Era tucto smagato et fugire voleva.
Uno bon suo cavaliero dixe: «Carlo, Carlone,
Longa fuga è fine in Francia: guarda que pensi mone!
Se tte mitti per fuga, serray morto o prescione,
O quilli che son toy te talliarando ad boccone!»
Questo fo presso ad sera; le genti era stancate
Per la granne fatiga delle colpora date;
Tornarosenne ad magnare dove erano posate:
Né magnato né bìboto avevano in veritate.
In quillo dì non fecero battallia più niente;
Poy che fo sera ad tardo lo re Carlo prudente
Pensao infra sou core: «Gran male me è comenente!
Dove recuperare porraio io dolente?»
Jà era borbottato che Aquila se tenea,
Dico, per Corradino et per la gente sea,
Sì che alcuno dubio re Carlo ne aveva,
Ma non che certo fossene et adpena lo credeva.
Con quisto pensaminto la sera calvacao
Con quattro homini soli, ché più non ne menao;
Vennesenne all'Aquila; quando se appressemao:
«Per chi se tè la terra?» le guardie ademandao.
Respusero le guardie: «Per re Carlo se tene,
Che Deo li dea victoria quanto in piacer li ène!
Or me dì, chi si tune et chi con teco vene?»
«Amici semo vostri; fa che guardete bene!»
Vennesenne lo re alla porta de Bazano;
Li portanari gridano: «Chi vè giò per lo plano?»
«Missi semo dello re», respusero chiano chiano,
«Facciatelo sapere tosto allo capetano;
Ca parlare volemoli de quello che ncy è imposto».
«Ora aspettate un pocho», per loro fo resposto.
Annaro al capitano et feli sapire tosto:
Ciò che lo re l'impuse a mente li fo posto.
Lo capitano tosto comandao che venesse;
Mannò per dudece homini, che ciascuno a llui gesse,
Ca c'era novella nova; nullo se ne fugesse,
A ppena della testa, et scusa non valesse!
Avenga che lo re annasse sfigurato,
Lo capitano conobelo, a llui se fo chinato;
Et lui li comandò che lo tenga celato.
Co llui et colli dudicy lo re ebbe parlato.
Disse: «Figlioli mei, vui sapete che io
Agio facta questa terra per voluntate de Dio,
Et intendo d'esaltarela quanto è lo potere mio.
Allo bisogno parese lo bon servo e llo rio.
Se in quisto mio bisogno domane me soccorrete
Con arme et con cavalli et fodero che rechete,
Per vuy ragio lo regno; et vui far lo devete;
Et poy io farragio quantunche vui vorrete!»
Con bella cera alegra fo resposto de fare
Omne adjuto et soccurso che sappia adomandare.
Vede la bona vollia, presese ad alegrare:
«Or fatevi con Dio, faite como vi pare!»
De notte venne in Aquila et de notte tornao;
Nanti che foxe jorno nell'oste se trovao;
Tanto privatamente così in campo intrao
Che nullo questo sappe, sì cauto calvacavo.
Lo capitano dell'Aquila que fece vollio dire;
De notte lo consillio subito fece bannire;
Adunase per tempo, et lui fece sentire
Che lo re volea succurso, che Aquila dovesse ire.
Se may se odette popolo ad una voce gridare,
Quillo fo lo majure: «Giamolo ad ajutare!
Ecco homo non rimanga che non ce debbia annare!
Quanto fodero havemo omne homo degia portare!»
Lo capitaneo per tempo cacciò lo confalone;
Fa mettere lo banno, a ppena de traditione,
Che omne homo lo sequite; in questo se abione;
Subitamente l'osta d'Aquila uscita fone.
Non aspettava l'uno l'altro, ma, chi mellio potìa,
Per coste se gettavano, non curavano de via;
Ciaschesuna persona con la bestia che avìa,
Con tucto quello fodere che in casa se tenìa.
Non tanto, dico, li homini, ma le femene gero
Dereto alli loro homini che gevano volentero,
Portanno carca in capo chi non havìa somero;
Sì che abero fodero quanto li era mistero.
Nell'ora della nona foro nell'osta junti;
Tanta gente parìa calanno per li monti,
Tucti maravelliavanose li baroni et li cunti,
Dicendo: «Chi so quisti che vengo così prunti?»
Alcuni dubitarono, fin che li conubbessero,
Non foxero inimici che contra illi gessero;
Quando odero le laude che «Viva Carlo!» dissero,
Represero valore tanto che li sconfissero.
A mal partito stava re Carlo con soa gente:
Scurto l'era lo fodere che non ne aveva più niente;
Lo fodere de l'Aquila scarcaro incontinente
Et satiaro l'oste multo plenariamente.
Lo re non era uscito alla battallia ancora,
Ché non aveva fodero né aveva mangnato allora,
Et pure aspettava l'Aquila che jonga in hora in hora;
Se nanti giti foxero, suo pegio stato fora!
Illo stava inbuschato et non con troppo gente;
No sapea li inimici dove stagesse niente;
Stava alle Cappelle, sacciate veramente;
Sentendose lo adjuto, uscìo ardentemente.
Corradino et Todischi vinto avere credeano,
Ché re Carlo et soa gente per campo non vedevano;
Cercando per li morti et per re Carlo geano:
Quilli tre coronati tucti morti li avevano.
Criseno che re Carlo foxe uno de colloro:
Anco tenevano in capo le corone dell'oro
La gente tucta mossese senza fare demoro;
Spasese per lo campo per avere le robe loro.
Re Carlo uscìo in campo et ferìo allo pavallione
Ch'era de Corradino; loco era lo confalone;
Gettatolo per terra, allo campo se tornone;
Fo lo communo de Aquila che bene lo sequitone!
Vedendo Corradino lo confalone perduto,
La gente sua spaliata, non à adpresso l'agiuto,
Misese per la fuga; pensava essere traduto;
Annòsene verso Roma et loco fo raputo.
Quilli de Frangipane Corradino pilliaro;
A ppochi dì po questo allo re lo menaro;
Poy che lo hebeno in Napoly, la testa li talliaro;
Ad Sancta Marìa dello Carmino loco lo sotterraro.
Retorno alla sconficta. Depò che Corradino
Se mise per la fuga, omne omo li vè mino;
Tucti foro sconficti et perdero lo terrino,
Sì che lo sou exercito venne ad male fino.
Tanta la multa gente che vi fo morta intanno
No lla porrìa contare quilli che abeco sanno;
Multa roba ne abe Aquila che may la renderando;
Dallo re se licentiaro, tornarono cantanno.
Quilli de Alve dicovi per che modo annaro:
Quando quilli Todischi per campo se spaliaro,
Lo re, non essendo in campo, sconficto se pensaro;
Le laude de Corradino tuttiquanti gridaro.
Re Carlo, quando sappelo, Alve fece guastare,
Ca troppo foro presti, fecelo ben pariare;
La ecclesia della Victoria in Marsi fece fare
De llà dalle Cappelle; Francisci ce fece stare.
Alla nostra materia me vollio ritornare;
Chi bene à facto all'Aquila lo vollio commendare;
La fonte della Rivera quillo la fece fare
Et anco le quatro porte, volliovi raccontare.
Quisto che questo fece fo miser Lochesino;
Fo capitano d'Aquila, cavaliero pellegrino;
Correa li anni Domini, dicovi in mio latino,
Ducento settanta cinque; non fo né più né mino.
In quillo tempo uno homo fo multo nominato;
Misser Nicola dell'Isola in Aquila fo chiamato;
Nanti che quillo foxe cavalero nominato
Multo era amato in Aquila, cha era appopolato.
Era capo del popolo, et non lassava fare
May torto allo communo, ché sapea contrariare;
Altro che lo dovero non lassava pagare;
Quisto fo homo sempre da deverese laudare!
Se alcuno capitano torto fare voleva
Ad homo o ad castello, quillo lo reprendeva;
Pagare non lassavali set non quello che doveva;
Nullo homo più che lui in corte non faceva.
Vedendo el capitano che era tanto amato
Et era dallo popolo a ttutt' ore accompagnato,
Convenea che facesse quello che li era ad grato;
Li granni no poteanonci; sì che era invidiato.
Un jorno fece fare un granne adunamento;
Lui se levò in popolo et fé quisto parlamento;
Dixe: «Signuri, dicovi dello meo intendimento:
Queste rocche de intorno fao grande impedimento.
Levete le coragera et giamole a derrupare,
Et quello che è facto non averemo ad fare!
Nullio signore saccio che possa contrariare;
Se facto è, collo re ben l'haverremo accordare!»
Ad una voce respusero: «Sia incontanente facto!
Rocca non ce rimanga intorno per nullo acto!
Fa che te mitti innanti, nui te sequemo ratto!
Chi lo contrario dice da nui serrà desfacto!»
Verso Ocre se nne gero et si llo desertaro;
Poy gero a Lleporanica et si lla deguastaro;
Lo castello de Pizolo ad terra lo mandaro;
Preturo et la Varete per terra lo gettaro.
Non posso ricontare tucte le altre castella
Che gero a derrupare coll'oste grossa et bella,
Ca solo a ccontar questo fora longa novella;
Poy retornaro in Aquila coll'armadura ad sella.
Poi che l'oste revenne et foro no Mercato,
«Viva lo re!» Nicola, «viva!» abe gridato;
Tucti li altri gridaro con gran stolo adunato:
«Viva lo re!» gridando«et Nicola prejato!»
Una logia fo facta in pianza immantenente;
Cavalero de popolo fo facto alegramente;
Fovi facta gran festa et fovi multa gente,
Et multi alegri forone et altr'è ben dolente.
Quilli che male li volsero allo re lo accosaro;
Dixero che lo re non ce è tenuto caro
Quanto miser Nicola; et così lo provaro:
Sensa miser Nicola non potea aver denaro.
Per lo male che fece Aquila, che guastò le castella
Sensa commandamento, allo re annò novella
Chi per miser Nicola l'Aquila se rebella;
Lo re, odendo questo, per traditore lo appella.
Lo re mandò lo figlio, cioè Carlo Martello;
Era re d'Ongarìa et virtuoso et bello;
Vicario era dello re quisto nobil jovencello;
Et venne in questa terra collo core multo fello.
Re Carlo comandòli che occidere facesse
Misser Nicolò dell'Isola per quale via potesse;
Poi che se sappe in Aquila che questo re venesse,
Fo dicto ad miser Nicola che no vi sse figesse.
Misser Nicola disse: «Se dovesse morire,
Jamay al mio signore intendo de fugire».
Fece una gran brigata ad cavallio vescire
Colle bannere in mani, et volse per lui gire.
Poy abe de pedoni multe et multe milliara
De quilli che tenìano la soa persona cara;
Stavano appresso a llui, nullo se lli accostava,
Trecento cavaleri, per fareli una bara.
Quando venne lo re in Aquila, lui li uscì innanti
Con quisti cavaleri et con seymilia fanti;
Plu volte appressemòseli, facendo festa et canti:
«Viva re d'Ongarìa!» gridando tuctiquanti.
Dixe lo re d'Ongarìa: «Mal n'agia lo male dire!
Quisto non è traditore, secondo lo mio parire;
Anco me par liale homo da nui servire;
Sì che quisto non pareme de farelo morire».
Lo re ad San Dominico allora se pusao,
Et abbe bono cossillio de quello che se fao:
«Però che lo mio signore a me me comandao
Che lla persona tollali per quello che fatt' ao».
Fo dato per consillio che lo mande chiedendo,
Che venga con quatro homini, et più con lui non iendo:
«Et farray lo comando de tuo padre, obedendo».
Lo re mandò per lui in quisto modo, intendo.
Quando odìo lo comando che lo re li mandò,
Misser Nicola subito verso lui se abiò;
Più che tremilia fanti co illo se menò;
Quando foro veduti undeuno se senò.
Dixe lo re ad quilli che li stavano da lato:
«Che è quello che ogio? che remore è levato?
Sacciate quel che è». Quilli l'ànno spigiato;
Dixero che gran gente Nicola à accompagnato.
«Dicono che non se parto senza misser Nicola,
Et quilli che l'accusano mentono per la gola;
Ché lui è più legale che fin' oro de cola,
Et de omne gran lianza porrìa tenere scola».
Non vede lo partuto lo re de fare vendetta,
Ch'era sì gran remore dello popolo che aspetta;
Alcuni coselliarely: «Non credere ad parletta!
Ché multi ne son captivi per invidia che ànno strecta».
Lo re lo chiamò et dixe: «Misser Nicola mio,
Tu ei multo accusato da alcuno homo rio;
Ma non serrìi sì amato dallo popolo tio
Set non fuscy liale allo re Carlo pio.
Io non vorragio credere alla accusa che avete;
Or vi portate bene in qualunca parte sete».
«Et vui, con reverentia, signore, non credete
Alli mali diceturi, ma fate che volete».
Mille anni se lli fece lo avesse licentiato,
Però che allo re era multo accusato;
Uscìo fore alle genti che lo aviva aspettato,
Et subito un presente allo re abe mandato.
Vedendo poi lo re che non poteva fare
La cosa per que venne, se ci mise ad pensare:
«Se de questo me scopro et no llo posso fare,
Con altro che vitupero non posso retornare».
Pure ad miser Nicola bona vollia monstrao;
Fece sapere la partenza, lo dì che senne annao;
Lo bon misser Nicola allora lo presentao
Da parte dello commune, et ipso lo pillao.
Fi a Bazano lo scorse con grande compagnìa
Che era adsay majure che quella che re avìa;
Poy li fé reverentia et da lui se partìa;
Lui se tornò in Aquila, et re pilliò soa via.
Da poy che fo ad Napoli, recontò soa novella;
Lo re lo mottiò, ché no lli parse bella,
Et dixeli che aveva core de femmenella;
Et lui lo sofferìo como una donzella.
Missere Gentile de Sanguero fo gran barone nomato
Poi capitano fo facto; in Aquila fo mandato
A ppetetione de Rojani, et foli commandato
Che prenda miser Nicola et allo re sia menato.
Misser Nicola sappelo; quando venne, figìo:
Ad una villa de Vagno privatamente gio;
La gente dereto corseli de poi che lo sentìo;
In Aquila remenarolo como se foxe Dio.
Remiserolo in la terra ché non se inserra porte,
Et stava nella Torre all'onta della corte
Che no lli potea offendere: cotanto stava forte
De Vagno et de Paganica et d'altre gente adorte!
Abitava nella Torre, como vi agio contato;
Tucto dì aveva la corte como re foxe stato;
Dallo generale d'Aquila plu che re era amato:
Pagare uno denaro non averìa lassato.
No lli potendo offendere, li inimici pensaro
De farelo attossecare; et questo operaro;
Tre jorny morto tennerolo, che no llo sotteraro;
Non fo facto mai in Aquila un corrutto sì amaro!
Femene più de mille vi forono scappillate,
Gevanose pelanno, colle guancie raschiate;
Tucti li homini gevano con teste scappucciate,
Pelannose tucti como chi perde figlio o patre!
A mille ducento anni novantatre passati
Paganeca et Bazano se foro correcciati;
Con Bazano Rogiani se forono adunati
Et anchi Piczolany se forono legati.
Con Paganisci era tutto lo quarto loro;
Baretani adjutaroli tucti, quantunca foro;
Ciascuna de queste parti era in grane storo;
Parichi dì guerraro queste parti amedoro.
In fine della briga Paganisci perdero
Et forone feruti; un anno fore gero;
Le femine vi stavano, ché case non abbattero,
Ma della robba che abero poca camparo de vero.
Uno anno depoi questo ecco santo Petro venne;
Dello mese de augusto, come scrivo advenne,
La corona ecco prese, como se lli adconvenne;
Venne ecco lo re Carlo et alegrezza dénne.
Li boni homini de Aquila ad santo Petro gero,
Aquila accomendaroli, ché li era gran mistero;
Ca lo avevano aspettato con grande desidero;
Che faccia pace et remetta quilli che fore gero.
Lo re recomandòli che n'era multo irato,
Cha lo comuno de Aquila li era assay accusato:
Dui milia oncie de pena lo aveva condempnato!
Santo Petro, sapendolo, ce abe reparato.
Parlò con lo re Carlo et disse: «Figliolo mio,
Fra tucte l'altre terre Aquila più amo io;
Et volliote pregare dalla parte de Dio
Che perdonare digi allo popolo tio».
Lo re Carlo respuse: «Patre santo beato,
Ad me me conven fare ciò che ày commandato;
Io me crisci ponereli dello loro peccato,
Che mai se remmezzassero; ma siali perdonato!»
San Petro beneditto in Aquila li remise
Et fecero la pace como li commise;
Et lui de bona vollia fare ben lo promise;
Re Carlo, ad soa preghera, la pena li dimise.
Poy che ebe la corona et lo papale manto,
Entrò ad cavallio in Aquila in 'n asenello blanco,
Lo re Carlo adestrandolo, lo filio dall'altro canto
Ch'era re d'Ongarìa, como dice quisto canto.
San Petro benedicto quando se incoronò,
Allora in Collemagio la indulgentia lassò;
Dui cardenali de Aquila si fece et consecrò;
Benedicto sia et laudato, ché l'Aquila exaltò!
Vedendo li Aquilani l'amore che li avìa,
Parìa che fare devesse ciò che se lli petìa,
Annarosenne a llui in questa dicerìa:
«Patre santo, pregamote, fanne più cortesìa.
Tanto bene ne ày facto; anco più te pregamo
De queste nostre ecclesie, che perduno vi agiamo,
Ché so novelle facte et alle vechie non iamo;
Con queste che so in Aquila conven che li tengnamo.
Tutte le nostre ecclesie che ad le castella havemo
Quilli proprii vocabuli e nomi li punemo,
Ma perdunanza dareli ad queste non potemo;
Tanto altro havemo ad fare che dire non lo potemo.
Si che alle ecclesie vechie perdonanza avevamo,
Et nui per guadagnare ad quelle ne annavamo;
Hora l'avemo lassate ca in Aquila ne stamo;
Santo patre, pregamote che questa gratia agiamo!»
Lo glorioso santo respuse: «Facto sia:
Tucte le ecclesie de fore che foro fatte pria,
Le perdonanze che abe confermole per cortesìa,
Et ducento cotante ne do da parte mia».
Tornaro multi alegri li nostri che vi gero,
Ché lo papa li exaudìo de ciò che li petero;
Ecco stette più misci, ciò dico de vero,
Et po tornò ad Napoli, non so per que mistero.
Quando lo glorioso ecco fu coronato,
Correa li anni Domini como vi fia contato:
Anni mille ducento novanta quatro è stato;
Lui inalzò assai l'Aquila; benedecto sia e laudato!
Ad cinque anni po questo gran novitate fone,
Che lo communo d'Aquila gio in hoste ad Machilone;
Nove semmane a pedi l'oste loco durone
Per fi che, priso et guasto, may non se nne levone.
In dì de santa Justa, la festa de Bazano,
Fo tolto Machilone dallo communo Aquilano;
Quanto sedero ad alto tanto calaro in plano;
Quello che vi remase non valse uno anchontano.
Como ymageno et penso, per quisto gran peccato
Non è maravellia se Aquila non à stato;
Preserolo per patto, et no lli fo observato,
Menaronde le donde, et niente li fo dato.
Vennero in povertate: non sapevano guadagnare;
Folli tolto lo loro, anco se tè ad redare;
Fo fatto uno monastero; promiserelo de dotare
Et metterevi de quelle che non avevano che magnare.
Forovi messe moneche, dico, de Machilone;
Foro gentile femmine, secundo se contone;
Lo monte li promisero, retolto a lloro fone;
Vivendo poi in blasmo, lo viscovo le caccione.
Ad mille trecento sette in Aquila refò guerra;
Rogiani et Camponischi misero in bussa la terra;
Missere Guelfo de Lucca volsero dare in terra;
Lui da fore cacciòli; fugerno per la Serra.
Capitano fo d'Aquila misser Guelfo de Lucca;
Missere Verardo de Rogi ce volse fare ad tucca;
Loco la soa potentia no lli valse una cucca;
Le case li abbattero, de roba le spelucca.
Pocho se fixe ad Rogi quando ad Rogi fugìo;
Per pagura de Guelfo da Rogi se partìo;
Perché Piczulani amavalono, ad Piczolo se nne gio;
Depò missere Guelfo ad Pizolo lo sentìo.
Là et in omne loco lo voleva sequitare;
Missere Verardo sappelo, non lo volse aspettare;
Levòseli denanti et gisenne ad stare
Allo Corvaro in Marsci, per plu securo morare.
No llo potenno colliere, lui fece commandare
La gente tuctaquanta che gesse a deroppare
Le case de Rogiani; féle sfondamentare;
Quilli che male volseli fece rafrigerare!
Defendere le case volevano Piczulani,
Et lui ce fece l'osta con multi altri Aquilani;
Vittisette presciuni menò legati ad mani;
Sette semane tenneli tucti con guardiani.
Pagura n'abbe Piczolo che quilli non guastasse;
Multi denari pagaro ché fore no lli cacciasse;
Multe preghere forovi nanti che li lassasse;
Poi l'opera dell'acqua pare che comensasse.
Ad mille trecento otto era pur capetano
Missere Guelfo de Lucca, lo cavalero sobrano;
Dui anni signoriò et tene la verga in mano,
Et era plu temuto che imperatore romano.
Quando fo capitano misere Luchesino
Che facta aveva la fonte mintri abe lo domino,
Quella della Rivera che getta l'acqua ad plino,
Misser Guelfo era stato suo judice fino.
Imaginavo missere Guelfo de avere granne honore
Et fare cosa notabile per avere dalla gente amore,
Como fé Luchesino, che della fonte abe sentore;
Perché era crema d'acqua, la fé menare da fore.
De intorno alla citade multo gio provedendo
Que acqua ce menasse plu legera essendo;
Dell'acqua de Santantia assai mellio parendo,
Fecene lo consillio et questo proponendo.
Tucti dello consillio così vi conselliaro:
Che séquite questa cosa tucti lo pregaro;
Frate Janni dell'acqua capomastro chiamaro;
Gerosenne ad Santantia, la forma devisaro.
Santantiani questa acqua dareli non volevano;
Dicevano che eran structi se quest'acqua perdevano;
Fo dicto ad Santantiani che per l'acqua li deano
Quattrocento florini; però li convenevano.
Non potenno Santantia ad Aquila contrastare,
Deliberò che l'acqua potesserola menare,
A ppatto che de forma non degiano pagare
Né de nulla altra spesa che vi sse degia fare.
De menare tucta l'acqua habero intendemento;
Et l'acqua che remase jacea più in fondamento,
Ché per menarla in Aquila non haveano sallemento:
Se sse mettea in la forma, veneva ad fallemento.
Poy quella de sopra visaro de menare,
Ma era tanto pocha che non poteva bastare;
Fé cercare la forma per plu acqua trovare;
Li mastri che trovarola, feceli ben pagare.
Gisene missere Guelfo con frate Janni a llato,
Anchi co omne mastro che vi era deputato;
Mesuraro la forma per longno et per lato;
Ad ciascuno castello la parte fo assenato.
Et da poi fé bannire che nullo laborasse
Ad altro che alla forma, mintrunca se cavasse;
Et poy che è cavata, subito se murasse,
Fin che l'acqua missessese e in piazza si menasse.
Poy che fo comensato, ficero lo pavallione
Sopra in nelli Colli; loco tenea rascione;
De ciò che commandava tanto temuto fone:
Colli pedi dello grano parichi ne legone!
Ipso colle soe mani l'omini si legava
O con grano o con secena, como se lli accunciava:
«Va, mittite in prescione!» all'omo commandava,
«Et guarda non te sciolli!» et tucto se observava.
Tanta la multa gente che ne li Colli stava,
De mascoli et de femene che roba vi portava,
De prete, calce et rena; et quilli che cavava,
Et quilli amandevano, et altri si murava;
Non se porrìa contare per nulla alma vivente;
Non se vendeva in Aquila null'altra cosa niente;
Tucti geano in li Colli ad vendere alla gente;
Stavano come l'oste che sta ascisamente.
Loco erano panicocole, loco erano tabernari,
Loco piczecarole et loco macellari,
Et loco multe tromme, loco multi giollari,
Loco ciò che volivi trovavi per denari.
Tanto ficero et dixero che l'acqua ecco menaro
Con candoli de lino, da pedi li ferraro;
Con funti inprimamente questo incomensaro
Facti como la tina, et multi anni duraro.
Bello serrìa ad dire, chi recitare potesse,
Tucto lo facto ad puncto fi che l'acqua venesse!
Io non posso più spremere; conven c'altro dicesse;
De quilli cotali homini l'Aquila mo ne avesse!
Quanto deve sforzarese l'omo de fare bene,
Spetialemente ad comuno, ché se lli faccia devere;
Non tanto mintre vive, che questo pò vedere,
Ma poy che è morto che altri possa godere!
Missere Guelfo, che menò l'acqua ne lo Mercato,
Prego Dio li perdone omne colpa et peccato,
Ca lo communo de Aquila, vedete, n'è honorato;
L'alma soa benedicase danunca è nominato!
Ora allo mio reconto me vollio retornare:
Missere Verardo et soa parte presono ad impetrare
Collo re che missere Guelfo facessero cassare;
Fi ad decedotto misci non pottero rentrare.
Poy misser Guelfo, venne un cavaliero pregiato;
Fo capitano d'Aquila, lo quale era chiamato
Missere Johanni Coppola, quale fo multo amato,
Ca lui fece salciare la piacza et lo Mercato.
Ad mille trecento et nove, secundo odì accontarelo,
De Provenza revenne lo secundo re Carlo;
Correa li anni Domini, secunto conto et parlo,
Mille trecento nove; quanto è mo poi contarlo.
Lui ad Sancto Dominico allora se pusao;
Granne honore li fo facto quando lo re tornao;
Dello corpo della beata Magdalena troao
Multe reliquie sante, et ecco ne lassavo.
De soy santi capilli ad quisto loco lassone,
In quisto commento et Aquila multo alegro fone;
Et per la Magdalena quisto loco comensone
Et tutto lo desinno da llasù ci recone.
Era multo devoto delli predicaturi;
Quando funnò la ecclesia foronci multi signori,
Quatro viscovi et tucti li Ordini ancori;
Nanti lo re non pusenci preta muraturi.
Promisenne de dare cinquanta once per anno
Per fi ad dece anni; così promise intanno;
Abeli alcuno anno; poi li venne altro affanno;
Fra uno affanno et l'altro avuto non l'ànno.
Poy se nne gio ad Napoli; in quillo anno morìo;
Remase re Roberto; ad Avingnone gio
Et prese la corona, como vi conto io.
Mille trecento dece correa l'anni de Dio,
Quando venne in Aquila lo nostro re Roberto;
Multo honore facemboli, ché ne fo digno et merto;
Foli tolta la soma ad Cascia, per lo certo;
Fece fare l'oste; alecuno ne fo deserto.
La soma li rendero et illi lo pariaro,
Et alcuno ne fo structo, le case li derobaro;
Cert'è ca fo rascione, sì caro l'accaptaro;
Ultra dello perduto, multi denari pagaro.
Nui facemmo gran festa a pedi et ad cavallio;
Multa gente vestìose per fare festa et ballio;
Fa quatro cavalieri intanno senza fallio,
Como è scripto et dicto per Buccio de Ranallio.
Quatro petetiuni allo re foro date;
Delle quatro le dui forono decretate;
Non è colpa dello re se non so observate,
Cha omne male stato da nui vè in veritate.
Una delle acceptate fo, che bona me pare:
Cioè che li mercanti potessero menare
Tucte mercanzìe, senza grascia pagare,
Franche et secure in Aquila, senza contrariare.
Per li gran peccati facti in li jorni giuti,
Deo ce mannò una gran plaga de terremuti;
Fovi una gran pagura; fecero multi buti;
Non che li percomplissero, ca foro penetuti.
Promise lo communo Santo Tomasso fare,
Dico, una ecclesia in Aquila, ché degia Deo pregare
Che per suo amore dévali de quilli liberare;
Poyché foro liberati, non fo chi se sciottare.
Foro le terremuta, le quali v'ò contati,
Dello mese de decembero ad li tre giorni intrati;
Et de mercordì furono, sacciate, cari frati,
Et era le Quatro tempora, jorni santificati!
Li terremuti foro più che quatro semmane;
In loge jacevamo et gran pagura avevane;
Fecevamo penitentia la sera et la demane;
Tucti frustando gìannose con li scuriati in mane.
Foro facte multe paci de innimistati granni
Ché guerra avevamo avuta et stati con multi affandi;
Quando fo questa cosa se tu me ne domanni,
Correa mille trecento quindici o sidici anni.
Correa nanti Natale quindici anni compliti,
La Natale intrao li sidici et li quindici forniti.
Le femene et li mascoli tucti erano scoloriti,
Lialy l'uno ad l'altro plu che li romiti.
Uno frate de Collemagio venne qua ad predicare
Lo quale frà Roberto si se facea chiamare;
Compagno fo ad sancto Petro, como odì rascionare,
Tre dì in pane et acqua ne fece dejunare.
Anco ne comandò et fececi fare buto
De non magnare carne per nisciuno partuto
Lo giorno dello sabato, ché a Deo era incresciuto
Cha la magnavamo lo tempo nanti giuto.
Uno anno depò questo, le mura facte foro;
Plu d'una canna larghe no vi mento ca foro;
Fecerose in uno mese, sì granne fo lo storo,
E le turri custarono cinquecento once d'oro.
Tanty denari forovi per quelle turri missi
Che per turri quatordici ne foro appombissi;
Debere essere cento deliberaro ipsi;
De quisti sì facti homini avemmone avuti spissi!
L'altro anno po quisto, plu peccato facembo:
Per una coda de bacca alla Matrice gemmo;
Tucto lo loro contado abrusciambo et ardembo;
La roba che recambone giamay no lla rendembo.
Et l'osta fo sì bella da pedi et da cavallio
Che fora stata bella ad Roma senza fallio;
Cavaleri mille foronci como fiorino giallio,
Sessanta milia peduni più chiari che crestallo.
Et no vi para forte che foxe tanta gente,
Ca Montriale vendeci tucto comunamente,
Tucti baruni de intorno vennero immantenente,
Ciascuno con soa gente multo sforzatamente.
Ad nui mandò Lanciano et Civita de Penne,
Et Civita de Chiete con Aquilani venne,
Et Carapelle vennenci como se lli convenne,
Et la valle de Trito la soa parte ne prenne.
Era missere Corrado dell'osta capetano;
Venne sforzatamente con cavaleri ad mano;
Vinticinque barbute mandò lo Cassiano;
Lo adjuto de Spoliti non fo mica villano.
Cinquecento barbute ad sollo tolte foro,
Et vindero de Spoliti et fo uno bello storo;
Cinquanta ipsi pagaronone delli denari loro;
De tucti cavaleri quilli parea lo floro.
L'oste che Aquila fece sì sforzatamente
Solo per la Matrice non lo fece niente;
Ma se dicea in Aquila, sacciate veramente,
Che li Asculani adjutali con granne sforzo de gente.
Questa è la veritate, che li promisero adjuto,
Ma no lli soccorrero, ca non videro partuto,
Ca uscire in campo ad Aquila non averìa potuto;
Et nui non curavamo se ben foxe venuto.
Era vivo lo duca quando facembo l'oste,
Et lui era vicario; ben ci dé per le coste:
Sei milia once de pena all'Aquila habe imposte;
Lo re stava ad Genova, nui ci mandammo toste.
Missere Corrado et li altri che in nostro agiuto abembo,
Foro citati ad Napoli per l'oste che facembo;
Lassarose sbannire, como che nuy medesmo;
Durò la sbandiscione fine che componembo.
Mandambonci dui scindici denanti ad re Roberto;
Uno fo missere Bonohomo che era multo sperto,
L'altro fo lo preposto, questo agiate per certo;
Dui milia once assemarono; abembolo per merto.
Niente de mino compusero per Aquila et tuctiquanti
Quilli che a questa terra ecco foro adjutanti,
Che erano sbanditi et condennati innanti,
Che niente ne pagaro; fo avuto multo a grante.
Ad mille trecento vinti facemmo un'altra armata,
Ché gemmo sopra Riete con gran gente adunata;
Per commando dello duca gemmo questa fiata;
Abembo la victoria, et Riete fo pilliata.
Ad nove dì de jugno avembo questa novella,
Quando presemmo Riete et tollemmo Ratinella,
Che loro la chiamavano in Riete l'Aquilella;
In Aquila recambola con grande festa et bella.
Dico che gran festa per quella ecco fo facta;
Recambola in lo carro coperta de scarlatta;
Li bovi et li carreri et mannatari ad matta
Vestiti foro de ruscio, como la storia tracta.
Et sopra li panni ruscy sedeano l'aquile bianche,
Intorno allo carro saltavano quelle briate franche;
Sì bella festa pareme che io non vedesse anche,
Et nui non venevamo como persone stanche.
Missere Nicola de Rogi nello carro sedeva
Cotanto triumphale che imperadore parea;
Nulla persona in Aquila dentro vi remaneva
Che no lli uscesse innanti, ca vedere lo voleva.
Or vi vollio contare che ne fo comenente.
Poy che fo la sconfitta et recolta la gente,
«Alla terra!» gridaro li nostri immantinente;
Comensaro ad sallire le mura arditamente.
Quilli che dentro stavano mandaro la masciata;
Pregaro li Aquilani che Riete non sia guastata
Et non entre la gente, ca serrà desertata,
Ca miserano foco, serrìa arsa et abrusciata.
Respusero li nostri che l'osta aveva a guidare:
«Se volete la terra et le persone salvare,
Quello che comanda l'Aquila ad vui conven de fare!»
Respusero: «Faimo tucto; agiate ad commandare».
Li nostri li resposero: «Volemo che vi dete
Allo nostro re Roberto et allo sou commando stete;
Et la nostra campana all'Aquila rendete,
Ché la furaste ad nui; plu no lla tenerete».
Como chi è constricto che non pò altro fare,
Ad omne cosa adolcase et lassase menare
Et pillia lo partito che mino male li pare,
Così respusero quilli: «Agiate ad comandare».
Alcuni delli nostri, como bon cavaleri,
Geroci de baruni et de multi scuderi,
Et cursero la terra, non como battalieri,
Ca danno no vi fecero che vallia dui deneri.
«Viva lo Re!», gridavano, «et l'Aquila sobrana,
Che è la melliore terra che sia fine in Toscana!
Chi ad ipsa se rebella, se lli leva la lana!»
Tucti li altri gridavano: «Ragiamo la campana!»
Su dello campanile la campana pusaro;
Baruni et cavaleri per collo la portaro;
Et, mintri fo pusata, lo lione speczaro
Che era furato d'Aquila et tenealo multo caro.
Le bannera delli quarti sedevano su la porta,
Collo confalone dello re che sempre l'Aquila porta;
Selmontini la loro bannera avevano adorta
Per sallirela ad alto; ma male li fo porta!
Li nostri si lla tolzero et tucta la stracciaro,
Et foro battuti et tristi quilli che la portaro;
Miserose per la fuga, et quilli li incalsaro,
Et forone feruti, et bè llo guadangnaro.
Selmontini, como homini che so vitoperati,
Revinnerosene nascuscy, nanti et scorrecciati;
Rechiamarosenne allo re multo adolorati;
Dicono che Aquilani dell'oste li à cacciati.
'Per che modo fo questo?', lo re li domandò,
'Como vi correcciaste? et chi principio ne fo?
Lo capitano che aveste como se llo durò?
Rediceteme ad punto como lo fatto fo'.
Selmontini respusero: 'Quando Riete presemmo,
Ponere la bannera su la porta volemmo;
Como le loro pusero, et così nui medesmo;
No lla lassaro ponere; ad male ne vennemmo.
La bannera stracciaro et li nostri battero
Con fusti et con pugilli, parichi ne lli dero;
Et anco ce fo pegio: alcuni ne ferero;
Cacciaronne dell'oste ad onta et vitupero'.
Lo re li respuse: 'Como lo soffereste,
Che onta et vitupero a lloro non faceste?
Allo prendere della terra quanti de vui ce geste?
Se foste quanti che ipsi, poca virtute abeste!'
'Signore', li respusero, 'nui fommo sei centonara
Et ipsi forono per cunto ben trenta milliara;
Tucta l'altra hoste ad ella se non ci parara
Che non se lla perdesse, se sse misesse in gara'.
Lo re, Deo li perdune, respuse ad Selmontini:
'Como non ve addavate, o miseri meschini,
Che deve avere lo honore ipsi de Reatini?
Feceste vui la sconficta, che foste dece pucini?
Sì che do questa sententia, et volliovi commannare
Che, a ppena de mille once, vollio che giate ad fare
L'oste sopre dell'Aquila, et degiatela assediare;
Per fi ad uno mese do per vui devendecare!'
Li conti et li baruni che ad re stavano a llato
Cescasuno respuse: 'Lo re à ben parlato!
Lo comando scia scripto como lo re à dato,
Et se ad pena cagiono, no lli sia perdonato!'
Odendo queste parole, li homini de Selmone,
Quando abero de gratia che allora scripto non fone,
Dio abero regratiato, ca bene lli custone.
Revinnero scornati; che bella cosa fone!
Un'altra volta gemmo alla Matrice poi,
Per comando dello duca, vo che sacciate voy;
Lo contado che aveva, tucto abrusciammo noi;
Chi casa abe da fora potea chiamare l'oy!
Un altro tempo recordome, mo l'avessemo tale!
Ch'era pace in Aquila tucta in generale;
L'uno coll'altro amavase como frate carnale;
Bona novella abe Aquila un mese po Natale.
Lo corpo de santo Petro, lo quale era giacuto
Trentatré anni altrove, como avete saputo,
Florentini de Campagna lo avevano tenuto,
Allora revenne in Aquila, et caro fo tenuto.
Pongamo che festa facciase lo mese de frebaro,
Ipso revenne innanti che non uscì jennaro;
Da quello tempo in Aquila li homini se acconciaro
De ciò che fo mistero per gran honore li fare.
Gran festa ne fo facta, sacciate veramente:
Tucte le Arti annarovi, ciaschuna con gran gente,
Ciaschesuna Arte fé ad san Petro presente;
L'altre spese facembo nui generalemente.
Multe genti jocaronci da pedi et da cavallio;
Tucte le terre de intorno vennero senza fallio
Con compagnìa ad jocarenci et fare festa et ballio,
Como reconta et dice Buccio de Ranallio.
Per che modo revenne san Petro beato
De Campagna dove sedé, et quando fo trovato,
Et como piacque a llui ecco essere reportato,
Redirevillo non posso, per abreviare lo dictato.
Anni mille trecento vinti sette correa
Quando fo questa festa; così Dio ben ce dea!
Aquila stava bene et multo honore aveva;
Omne terra de intorno lo dotava et temeva.
Et lo re tanto amavali che ciò che li petevamo
Con poca de amasciata, dallo re avevamo;
Ché li servizj granni si li recordavamo,
Et illo cognoscevalo che vero dicevamo.
Anni mille trecento vintotto correa
Quando revenne lo duca con granne cavallarìa,
Che stato era in Florenza dui anni, in fede mia;
Capitaneo de guerra con honore revenìa.
Avevali commandato lo re che revenesse,
Ca veneva lo Bavaro, et lo riparo facesse;
Et anco se guardasse che in via no comattesse,
Ma se nne venga in Aquila et loco se figesse.
Lo duca venne in Aquila, dico, quella vernata,
Et lo re fece venire ecco tucta l'armata;
Tucta la signorìa del regno fo adunata;
Tanta la gente fo che gea plena la strada.
Quando venne lo duca, multo honore li facembo;
Ad castello ad castello multi ne revestembo;
Homini quaranta otto a ccavallio vi abembo,
Et cavalli coperti et bannere li dembo.
Poy che venne lo Bavaro, ad Roma fo coronato
Dallo papa che fece et contra lo papato;
Frate Petri della Corvara quillo papa era chiamato,
Et fece li cardenali, et poco foro in stato.
Lu duca stava in Aquila con gran cavallarìa;
Li soldati mandati ad l'infrontere havìa;
Disse che questa terra volentero vederrìa,
Se era così bella como ad lui se dicìa.
In campo Sancti Spiritus fo devisato a ffare,
Ciascuno quarto a ssimiti, como se sole fare;
Alcuno per invidia si li abe ad recordare
Et dixe: «Monsignore, non te lassare gabare!
Tuct' e quatro le quartora insemora vegiate,
Ca, se lle mandate ad simiti, povisse fare falsitate;
Ca, se sse ramestecasse, dui volte le vederate,
Et non forano tanti quanti vui crederate».
Lo duca dixe: «Placeme che insemmora se faccia,
Ché credo che sia bella et ad me et ad altri piaccia;
Forcia che non placera ad quilli che menaccia;
Et io vedere li vollio tucti con lieta faccia».
Ly nostri erano adcunci sì bene; or mo foxemo
Che tanta bona gente in campo mettessemo,
Et sì bene guidati da quello in qua fossemo!
Li guay che avemo avuti, avuti non averemo!
Sì bella mostra fecese et de sì bella gente
Che llo duca colli altri, quando vi pose mente,
Tucti maravelliandose diceano: «Certamente
Plu ne è che non dicese de l'Aquila valente!»
Nello Colle della Feria, nanti ad Santa Marìa,
Loco stava lo duca colla soa baronìa;
Como homo venea passando, vedere ne voliva;
Dicea: «Bene agia Aquila; sì bella è, in fede mia!»
Poy dixe ad quilli cunti: «In bona fe de Dio,
Danunca questa gente avesse lo corpo mio,
De Roma non curara che me appolesse rio!
May non amay tanto l'Aquila quanto mo l'amo io».
«Viva lo duca!», dicese, «et ad Roma iamo!
Et lo Bavaro mora! et sconfitto lo vegiamo!
Signore, se tu ce mini, tale assalto li damo
Colla gente che avete, ca pagura li facciamo!»
Hor vennese lo duca così domestecanno
Colli nostri Aquilani et tanto innamorando,
Che ad tucti soy affari li nostri mandò cercando
Che gessero ad consillio, de loro se fidando.
Et dixe plu fiate: «Se Deo vita me presta,
Como agio ymaginato, mea vita serrà questa:
Lo verno stare ad Napoli, la state ecco fare festa;
Omne anno questa terra da nui serrà rechiesta».
Ad pochi dì po questo, lo duca se partìo;
Colla soa baronìa ad Alve se ne gio;
Et nui gemmo ad Anticuli per lo commando sio;
Lo Bavaro partìose da poi che lo sentìo.
Gran pagura habe Tiboli che loco non gessémo;
Mandaroce dicenno, se lli assecurassémo,
Fodere ne mandavano quanto ne volessémo;
Fo dicto: «Che ne recheno, et nui lo pagaremo».
Tanto fodere venne de bon pane et bon vino,
D'orgio et de carne sempre lo magazino è plino.
A Samuci nne annaro delli nostri uno matino;
Miserovi lo foco et fecerelo taupino.
Sallemmo fi ad Anticoli et la terra assallemmo;
No lla potemmo tollere, lo guasto li facemmo.
Lo Bavaro regisenne; poi che nui lo sapemmo,
Abemmo la licentia et nui ne revenembo.
Rejonsemmo in Aquila, lo dì dello Perduno,
Alegri con gran festa, cantando cescasuno;
Appresso allo vespero rejonse quisto comuno;
Jemmone ad Collemagio, anco mancare alcuno.
Lo duca regìo ad Napoli; per questa via non tornone;
Sì non vi foxe gito, ché poco tempo durone!
Ca non passò uno mese che illo morto fone;
Gran corrutto facembone; havemmone rascione!
Anni mille trecento vinti nove correa
Quando morìo lo duca, così Deo bene me dea!
Maxime per lo regno fo la novella rea,
Ca, mintri visse lui, poco male se facea.
Mintri lo duca visse et lui signoriao,
Cotanto fo temuto che omne homo lo dotao;
Atri che non temettelu, pur male lu pilliao:
Delli majuri loro a Sselmona appichao.
Mintri lo duca visse, omne homo sta in conforto:
No sse occideano li homini, né sse feceva torto;
Or piacque a Jhesu Christo che abe tempo corto;
Poy che ipso fo morto, omne bene fo scorto!
Quando morìo lo duca, fo morta la justitia;
Remase re Roberto: non ponea la malizia,
Componea per denari tucte le malefitia;
Chi aspettava vendetta, partìase con tristitia.
Anni mille trecento vintinove corrìa;
Sacciate cha fo in Aquila una granne carestìa;
Vinti solli la coppa dello grano valìa,
Et l'omo non trovavane quanto ne volìa.
La gente stava male, ché grano non trovavano;
Dicevano che li ricchi lo grano non cacciavano;
Li nostri consellieri tucto dì conselliavano;
Ficero certi homini che le case cercavano.
Et anco uno notaro de grasscia sci fo facto
Che scripto aveva lo grano de Aquila tucto affacto:
Quello che li soprava facevaylo vennere racto.
Parichi dì passamo con quisto cotale acto.
Certe missere Bonomo vi fece bono adjutoro:
Ducento some de grano fece venire da Spoltoro;
Trasselo in placza ad vennere; parse un gran tesoro,
Ca nce recuveravamo como l'apo allo floro.
Como lo male despregio, coscì pregio lo bene:
Cinque carlini valea, et lui per tre lo déne;
Et multi denari non abe che lui li sostene.
Con tucto ciò, la gente passò con granne pene.
Non ce bastava questo; fo in Consillio ordenato
Che sse mandasse in Pullia et là foxe accattato;
Fonne scripto ad Gallioffo, et lui l'abe mandato;
Sì che oderete oramai como ne fo pagato.
Lo notaro della grasscia, che lo grano scripto avea,
Fo facta la casa in placza, et loco lo vendea;
Ma non potea averene quanto omo ne volea;
Sì che gire per ordene la cosa non potea.
Poy che lo grano de Pullia venne, che era mandato,
Però che alle genti subito non fo dato,
Anchi sedea in Paganica in una casa serrato,
Non è majure resecho che popolo affamato!
La casa facta in placza ad remore sconciose.
In quella hora medesima un gran remore levose
De multe genti povre che inseme radunose:
La pontica de placza a Gallioffo robose.
Facto questo, in quell'hora vidi una correrìa
Verso casa de Gallioffo, perché lo grano avìa;
Foro spontati d'èlloti, ca loco non sedìa;
Ad casa de misser Corrado multa gente ne gia.
Fo rocta quella casa et toltone lo grano;
Plu che trecento some ne foro trate ad mano;
Credete, non valea la coppa uno ancotano;
Non se lassò per re né anco per capetano.
Tucto lo grano tolto de Gallioffo era stato;
Rechiamosenne allo re, ché era derobato;
Quisto communo ad Napoli per ipso fo chiamato;
Pagammo duicento once; non fo bono mercato!
Et, sopre tucto questo, fo facta inquisitione
De tuctiquanti quilli che la casa furone;
Fonne facto gran carmino ben de multe persone:
Chi l'accatò ben caro, et chi se nne campone.
Alcune genti, dicovi, de un quarto che tolléro,
Dece florini d'oro pagarone, de vero;
Alcuni, de una coppa, uno florino vi dero;
Et tali persone n'abero che non se nne sentero.
Coscì foxe punita tutta l'altra follìa
Che è stata facta in Aquila, malvascia, bructa et ria,
Como fo quella córseta ad quella carestìa!
Forcia non fora l'Aquila in tanta malvasìa!
Anco vi vollio dire d'una briga passata,
La quale vidi in placza quando fo comensata;
La follìa delli homini l'à male pariata;
Odete questa cosa como fo sciavorata!
Comensaro la briga in placza Paganisci;
Corsero sopre Bagno illi con Baczanisci;
Miserovi lo foco; foro fore Bangnisci,
Et forocinne feruti, et anco morti et prisci.
Bangnisci rechiamarose denanti ad re Roberto;
Mannòncy un capetano che era multo experto;
Lippo de Sangueneto chiamavase per certo;
De fare la justitia in Aquila fo perferto.
Comensòlo ad inquirere; tuctiquanti tremavano;
Se erano citati, sbannire se lassavano,
Et stavano sbanniti, et uscir non scottiavano;
Stavanose nelli Ordini, et là se manecavano.
Vollio che ne ridate de uno bono vetrano
Lo quale se chiamava Boetio de Baczano:
Fólli data la inquisitione denanti allo capetano;
Monstrava dello odire non essere ben sano.
Ad quello indomandavase, lui niente respondeva;
«Missere, Deo vi dea vita», ad capitaneo diceva,
«Multo avemo aspettata questa venuta tea,
Che pace mitti in Aquila; Deo gratia te nnde dea!»
Lo capetaneo dicea: «Quisto facto vidisti?»
Boetio respondeali: «Per bene ce venisti;
Jammay majure merito che quisto non facisti;
Se vui non venevate, tutti stavamo tristi».
Delle dece parole che era indomandato,
Ad una non respondeva, né tanto era tentato;
nfegnavase non odire quello li era parlato;
Poy dixe: «Non ogio bene, agiateme per scusato».
Missere Felippo disseli: «Vatte con Deo, vetrano,
Cha pare che non ogy né a fforza né a plano».
Quillo non se partìa, fi che fo priso ad mano.
Non fo veduto may più bello paczagnano!
Fo cacciato de fore et poy fo rechiamato
Per vedere se odesse, et quillo se ne è andato;
Non respondea niente, ma se nne gia sbriato;
Per fi che fo alla casa non se fo revoltato.
Como agio dicto innanti, lo bono offitiale
Non finava de inquirere sopra lo dicto male;
Et volse sapire le vollie de Aquila in generale;
Trovò che omne gente allo re era liale.
Paganeca et Bazano aveano multi adbocati,
Ma loco non gridavano, ca erano rabboccati,
Ca loco erano troppo et majuri licterati;
Pianamente parlavano, quando erano chiamati.
Delli grossi de loro teneano in prescione;
Assai volte provaro de far compositione;
Resposta mai non hebeno altro che de none;
Assai paura hebeno de dui che martorione!
Vedenno veramente Paganeca et Baczano
Che non poteano rompere lo forte capetano,
Mandareno ad re Roberto et onserli la mano;
Per denari compuseno; loro facto venne in plano.
Per l'ongere che ficero, la lettera impetraro,
Ché ad messere Felippo lo re li comandao
Che plu non procedesse, perché composti li ao;
Anchi tornasse l'Aquila in pace como stavo.
Quando vide questa lictera, missere Filippo sagio
Tuctoquanto turbose nello suo coragio;
Diceva alli soy judici: «Or como io farragio,
Se quisto male facto punire non porragio?
Lo re me commandò che facesse rascione,
Et che non lo lassasse per nulla accascione;
Et per tanty denari illi composti sone
Che più dare faceanneli solo d'uno prescione!
Ma poy che li è placuto allo re perdonare,
Lui li à perdonato quanto a llui pò toccare;
La rascione alla parte già non posso lassare;
Se illi rascione vollono, no lli posso schifare».
La parte plu sollicita che rascione li faccia;
L'altra parte diceva: «Fa cosa ch'a re placcia!
Ca vole pace in Aquila, non vole briga né caccia;
Chi vole lo contrario, la morte soa procaccia!»
Non poczo recontare tuctoquanto vi fone;
Missenosenci ad questo parichi bon persone;
Le femmene accusavano; fecero compositione;
Et dero li denari, lassaro la questione.
Et poi misero in ordene che se facesse pace
Fra Bagno et le castella, de poy che ad re piace;
Ad chi plu li desplaque, sì se llo durò in pace;
Dove la forza supra, la rascione sogiace!
Un'altra briga recordome che fé Collebrenciani;
Con Paganisci corsero sopra Santantiani;
Sconfixero Santantia con multi Piczulani,
Et forovi morti homini, ca miserosse alle mani.
Como agio dicto innanti, li tristi capitani
Destructa ago questa terra collo non premere mani
De fare la giustitia sopra alli Aquilani.
Dirrò como composero allora Colebrenciani.
Fra ipsi et Paganisci dece once ne pagaro,
Et dece oncie ad Santantia per collo li gettaro;
Lo meso li sconficti et lo meso chi incalsaro!
Chi abe conscientia, ben li parse amaro.
La briga se comensa per li paczi et per li sciuni;
Questa fo comensata, como dice alecuni,
Che tucti quisti Colli so de Collebrenciuni;
Santantiani dicevano che erano communi.
Facta fo questa briga fra loro per li confini
Da l'una parte ad l'altra, ché erano vicini;
Et non era lo errore per cinque provisini,
Ma per pagare la colta, che montava firini.
Nanti era usansa in Aquila de pagare la colta:
Omne homo in suo castello pagava ad una volta;
Da nullo altro castello li era chiesta né tolta,
Ponamo che terra avessemo né poca né multa.
Questo fecero Baczanisci, che erano troppo gravati,
Secundo loro possessiuni, como c'erano tassati,
Ché fra loro vedevano che multi erano intrati:
Fecero lo consillio per essere allegerati.
Lo consillio fo quisto: de far colta pagare
Ad chi tenea fra loro, che era rascione ad fare;
Fecero dallo re la lictera impetrare;
Ad gran pena lo ottinnero, per l'uso non guastare.
Gettose questa tingna, che omne homo lo faceva,
Sì che ciascun castello suo confino voleva;
Sorsene gran questione et opera bructa et rea,
Che dire no llo posso tucto per lengua mea.
De questo qualche cosa vollio pur recontare,
Et non multo expremere, ché non scia remorciare;
Ma vorrìa ben che ancora se havesse a comensare,
Che briga stata non foxe, né sse dovesse fare.
Però che multe granne brighe vi sonno state
Et per la carfagnina, che vi so state nate;
La briga de Rogiani io credo che sacciate,
Che fo con Luculani, per le montangne erbate.
De Tornaparte dicovi che, pur per questa cosa,
De fare loro sindico may non habero posa;
Paganica et Asserce, fo cosa abominosa;
Perduro et la Forcella prese de questa rosa!
Lo male de Carapelle et anchi de Varsciano
Contarese non porrìa, se Deo me faccia sano:
Non tanto li homini morti, ma pur lo capitano
Tanti denari ne à abuti, che ad tucti pare strano!
Multe castella saccio che però male à 'vuto;
Quale è stato sforzato, et quale l'à perduto.
Così è gito quisto facto: ad chi à plu potuto.
Vigio da Piczulani non abe bon partuto!
La bella partitione ficero Baczaniscy,
Quando partiro li monty loro con Gingnaniscy;
Era bivo Boetio che sapea li pagiscy;
Tali confini miseli, del monte foro forisy.
Fovi facto Boetio massaro ad terminare;
Monstravasenne duro de no llo volere fare;
Diceva ad Gingnanisci: «No mme fayte chiamare,
Cha colli mey corrocciome, vui non vollio ingannare!»
Odenno Gingnagniscy Boetio non volere,
Allora se carcaro per poterelo avere;
Juraro terminarelo secundo sou parere,
Et quilli de acceptarelo; foro facte le cautere.
Avendo potestate, Boetio se nne gio
Adpresso all'Acqua Santa collo popolo sio;
Guardao là et qua, et dixe che audìo
Che quillo capocroce li confini partìo.
Vedendo Gingnaniscy che avevano male jocato,
Che chiamaro Boetio, che lo popolo à sy ingannato,
Per reavere le vigne, como avìa devisato,
Quando lassaro lo monte, Deo abero regratiato!
No vi dico per ordine tucto lo male facto,
Non vollio troppo spremere, non sia tenuto matto;
Retorno alla materia et altro dico et tratto;
Multe castella lassonci che so state ad quest'atto.
Anni mille trecento trentatrì vi conto io,
Quando lo re d'Ongarìa menò lo fillio sio;
Sì menato no llo avesse! tanto male ne uscìo!
In quillo anno, de magio, lo sole intremorìo.
Delle plu lorde cose che in Aquila facte sone,
Fo quando Piczulani quella casa pillione,
Et venne con multe genti armate a ppennone;
All'onta dello re scarciaro lo confalone.
La casa era guardata, et gente dentro stava
Ad spene della corte, et loro più aspettava;
Fra questo mezo gran battallia vi sse dava:
Alcuni delli grossi venirela non lassava.
Vedendo Popletani la corte non venire,
Defenderose mintri pottero, poi la lassaro gire;
Escero della casa, lassarola perdire;
Et illi entraro dentro con superbia et ardire.
Per omne modo, dicovi che ha ben comparato,
Ché plu che dudici oncie per gillo à accattato:
Trecento once pagarono de quillo peccato;
Or vui lo judichete se fo bono mercato.
Et, sopra tucto questo, la casa compararo:
Trecento cinquanta once ad Ventura donaro,
Et multi altri presenti che però presentaro;
Per forza et per denari vicquero et soperaro.
Quanto godire degiano de questa loro casa,
Che per forza accattarola, et questa cosa è spasa?
Questo ben vede Christo, ca vi à la barba rasa,
Ché lui non vole bolte, et omne ancino à l'asa!
Et quilli che de questo Piczulani atticzaro,
Cristo ne lli à pagati, ché l'acaptaro caro,
Ca nelle case loro se vede lume chiaro,
Ca, poco depò questo, ad terra se gettaro.
Un altro mutto getto, ché ad mente lo tengate:
Quilli che male ao facto, loro meriti so purgate;
Vedute avete, credo, gran superbie abbassate,
Et quello che non è facto, dereto l'aspettate!
Quanno ne more alcuni de quisti che male fanno,
La gente se nne alegra ca è morto lo tiranno;
Non se nne adao li tristi, ca altri se va allevando
Che serrao plu pejuri et farranno plu dando!
De ciò che agio dicto non me pare niente
Adpo l'altro male che fo poy commenente;
Miserose le parti sì generalemente,
Destructa à questa terra più che altri non sente!
L'altre brighe denanti, non era questo usato
Che nostri majurini in Aquila ago cazato:
Ché illi ago facta la briga et ad nui l'ago gettato;
Lo carco allo communo tucto ago accumulato.
Lo tempo nanti gito, chi briga si facea,
Illo se lla pagava pur colla borsa sea,
Et quando inter lla parte li denari collea,
De questo lo communo nullo incarco sentea.
Or poy non fo coscì; male agia chi lo trasse
Che briga in spetiale lo communo pagasse,
Né sollati né frosteri volse che ecco intrasse
C'à guasta questa terra! Beato chi lo mendasse!
Se alcuni à la briga, che colpa à Caporsciani
Né Corno né Chiarino né tucti altri Aquilani,
A ffareli pagare li soldati et li guardiani?
Non possa bene avere, et sempre stare in guani!
Una delle radici dello male de quisti pagiscy
Si fo de Baretani et de Cangnaniscy,
Ca illi comensaro ad menare li foriscy;
Se chi foro ademannime, dico: foro Abrucziscy.
Pretati et Camponischi in queste parti entraro;
Camponischi et Rogiani ser Tomasso ajutaro
Et Pagolo da Fano con soi genti menaro;
Ad Cangnano de fore gran briga comensaro.
L'arciprete de Santo Paulo l'altra parte tenea;
Pretati l'ajutaro, cescasuno quanto potea,
Et Matteo de Guillelmo con la compagnia sea;
Marrocco et Bonajonta ad questo soccorrea.
Anco da Camponischi tenea Mattarone,
Et da Pretati Petruccio de Cola de Petrone;
Missere Matthìa con Cicco allora apparentone;
Mattarone, como lo sappe, lui se revoltone.
Le vollie se ingrossaro et gevano multo inflati;
Da corte Camponischi allora non erano amati
Per Carlo, ad chi Pretati allora s'erano dati;
Se non foxe per questo, forano plu sboccati.
Questa fo sì gran mena! se lla volesse dire
Como gio e como venne, secundo el mio parire,
Serrìa forte ad dire et credo a bui de odire;
Sì che ad altro dire me convene de gire.
L'altra male radice ce venne da Selmone,
Quando la briga loro et de Restayno fone;
Ché fo priso Masscitto et misso in prescione;
Fo ructo lo palaczo, et ser Lalle lo campone.
Multi homini vi foro che non foro nominati,
Et multi vi non foro che vi foro accusati,
Et forone sbannuti, et poi foro judicati;
Li testimonii falsi fecero gran peccati!
La vollia et lo male odio allora fo scoperto;
Fo accusato ser Lalle denanti ad re Roberto,
Che roppe lo palaczo et per forza fo operto;
Carlo de Artusse anco vi spense adsay per certo.
Foro citati ad Napoli per ciò multe persone
Che foro con ser Lalle ad rompere la prescione,
Che forono sbanniti et judicati fone;
Sopra questa materia assay dicere se pone!
Non tanto citato foxe chi fo alla correria,
Fo citato Adoardo et anco miser Matthìa,
Anco Nanni de Rogi et altra compagnìa.
Venne lo executore et fece la terzarìa.
Però che fo sbannita la parte de ser Lalle,
L'altra parte colliendola sotto et caponaballe,
Però che dalla corte sempre aveva le spalle;
Sempre loro novelle da corte erano calle.
Da poy questo, in Paganica fo briga comensata.
Fo, una sera ad tardo, una mala scontrata;
Tre persone morerovi; fo mala comenzata,
Ché ne uscì multo male in tutta questa contrata.
La parte delli morti se gio ad rechiamare
Denanti ad re Roberto, per la vendetta fare;
Nullo offitiale allora non potea judicare
Set non ad voglia de Carlo, como ad lui piace et pare.
Assay gero per Napoli; non trovaro rascione
Per misser Bonajonta, anchi per Mattarone;
Foli dicto: «Partetevi, ca non è tempo mone!»
Anco tornaro in Aquila; gran dubito ce fone.
Poiché tornaro in Aquila como li adolorati,
magenarono de fare como li desperati
Che a rreseco se mettono per essere desertati,
Se delli loro inimici pou essere vennicati.
Puseno con ser Lalle che revenire dovesse
Con tucto quillo sforzo che avere potesse,
Et venesse de nocte, ché se non sapesse,
Ad tucte loro spese, costasse que volesse!
Ser Lalle poi revenne dui dì po santo Antoni.
Sua parte stava acconcia, ché senthìa questi soni;
Tucti scoccaro insemi, cavaleri et pedoni;
Ad casa de Mattarone gerono como leoni.
Vero è che Mattarone questa cosa sentìo,
Et stava ben fornito collo parentato sio;
Per la spene della corte lui non impagorìo,
Et abbe spene in altri, la quale li fallìo.
Como fo questa briga non posso recontare:
La gente li fo adosso, no potea contrastare;
Intorno alla casa fo la gente ad guerriare;
Miserovi lo foco per fareli consumare.
In fine de questa briga in casa de Mattarone,
Con ipso foro morti quattordici persone;
Ser Lalle tornò in Rogi et loco se pusone,
Et prese lo viscovato quasi per tradiscione.
Questa è la veritate: che missere Bonajonta,
Per adjutare Mattarone, in piacza fece ponta;
Pararoselli Bagnisci, como se dice et conta:
«Fra nui may non revey, se nci vay ad nostra onta!»
Ser Lalle allo vescovato fé lo consillio fare
Con tucta la soa parte, et abe ad rascionare:
«Se questo male villano non faymo consumare,
Tanto pò colla corte, che ne farrà desfare».
Voltaroselli adosso con tucta la loro parte;
Chi l'assallea denanti, chi l'assallea da parte:
Et illo se nne uscìo con granne ingengno et arte;
Non finava mannare ad Napoli le carte.
Assay assalti derono per la casa pilliare;
Era sì ben guardata che non se potte fare,
Ché tante bon balestra vi era ad sagettare
Che nullo non potea ad essa approssimare.
Et, depò questo, foro facte le manganelle
Che getta nello ticto la preta granne et bella,
Che rompea delli pinci danunca collea ella;
De coltre et mataracza fecerovi medella.
Et anco omne dì davano qualeche badalucho,
Et omne volta avevano da loro lo remucho;
Non ci bastava questo: fecero lo trabucho,
Che stava in Santo Maximo, ma may non fece strucco.
Ad dire la verità, io, quando lo vedeva
De gire quella brigata ad quella opera rea,
De llà quanto de qua assay me recrescea;
Con parole reprendealo, con fatti non possea.
[1338] son. 1
O gente sciocca, sciate penetuti
De gire dereto più ad quissi grossi!
Or non vedete quisti che se so mossi,
Che illi ago recolti li verruti?
Patuti ànno de mali jorni avuti
Et alcuno dalla corte sì percossi
Che nci ago lassate sangue, polpa et ossi,
Et per la briga multi ne so gagiuti!
Quanti più mali exempli ne vedete,
Tanto plu lo peccato vi à accecati,
Che sinno may parare non potete!
Or como non pensate, sciavorati,
Che a lloro bene chiamati non sete,
Set non alla briga per essere atticzati?
Omne dì mòresse uno per uso;
Non lassarete gire allo male uso!
Era la briga granne omne dì nello Mercato;
Da fare pace facease continuo tractato;
Vidi frate Dionisio che lo re abe mandato:
Per fare questa pace li ebbe commandato.
Anco ce venne un vescovo per questa pace fare,
Et alcuni boni homini che vi fecea chiamare;
Et alcuno diceva che nci era da fare,
Et, mintri se tractava, stava a balestrare.
Ma io pur cognoscea che non ce era avantagio,
Ca troppo gea da longa l'uno all'altro coragio,
Ca no vedeva tenerenci nullo bon viagio:
Uno dì fici uno sonitto lo quale vi dirragio.
[1338] son. 2
Io ò le rechie mee tanto amarrate
De odire stare a bon punto la pace,
Et: «Tosto se deve fare, se a Deo place»;
Ma non ne credo niente, in veritate;
Ca non vegio le vollie adericzate,
Anchi ce vegio lo foco pennace;
Ca allo palese dicono: «Ca me piace»;
Et sottomani dànno male ortate.
Ma dicese da alcuni che ancora non ène
Venuto né giunto lo nostro curso,
Che reposemo né agiamo bene.
O nui devemo traboccare ad sturso,
Ché lo peccato legati ne tene;
Sporamo pure qualora dar de murso.
Or forcia che non foro ben purgati
Per penitentia li nostri peccati!
Nove semmane tenese briga, né plu né mino;
In capo de quisti dì revenne miser Todino,
Che era potestate allora de Camerino;
Non potette reintrare per dericto camino.
Dalla porta de Vagno convenne che rentrasse:
Non poteo fare Bagniscy che lui scalvacasse,
Che non gesse alla sbarra nanti che mancasse;
Volse la sua ventura che la sbarra speczasse.
Et gero in Paganeca et là misero foco,
Et forovi morti homini, che fo pur male joco;
La corte accompagnavali per la terra in omne loco;
La parte de ser Lalle se restrenze in un loco.
La sera po che venne, ser Lalle se partìo,
Ca contra se scoperse la corte e foli rio,
Et missere Todino che contra ipso gio;
La quarta de soa parte sua fuga non sentìo.
La primera domeneca de marzo se partero,
Et quasi tuctiquanti a Rriete se ne gero;
Et illi lo recolsero tra loro volentero,
Et feceroli honore, parlando dello vero.
La parte che havìa vinto fecero multo male,
Ca misero lo foco per cammore et per sale;
Per fare foco la sera ardeano lo massale,
Et fecero multo male a lloro aversale.
Cinquanta once eran messe per fare lo vescovato,
Cinquanta per Collemagio, per santo Petro beato,
Et trenta per lo ponte de Pile, ch'era gettato;
Déroli alli sollati; ficero gran peccato!
Tanty avevamo guay nui che dentro stavamo,
Che ad me stisso pare forte che lo sostenevamo;
De omne tre sere una per la guardia gevamo;
Se ploveva o negueva, la terra torniavamo.
Fidanza non gio ad Riete colli altri, quando uscìo;
Gisenne a Collefecato, che era castello sio;
Stavase planamente, non facea nullo reo;
Ad cavallio qualeche volta ad spasso se nne geo.
Seycento once misero per spese et per sollati;
Foroce multi guay nanty non foro pagati;
Non guadagnavano li homini, ché s'erano desbiati;
Godevano li captivi, li boni geano adolorati.
Lo primo lonedì santo revinnero alle mura;
Ad dire la veritate, fonce una gran pagura,
Ca fo una grossa gente et bella oltramesura,
Et la loro parte dentro non era cosa oscura.
Denanti ad Santo Antono loco se schiedaro;
Al Colle della Porta alcuni speronaro;
La porta li fo aperta, ma nullo vi nne intraro,
Perché chi intrato foxe, l'averìa accaptato caro!
Gero un poco torniando et poy se nne partero;
Ad Santo Vettorino la sera se nne gero;
Lo martedì sequente ad nui non reapparero;
Nui guardavamo bene, et non sensa pensero.
Lo mercordì ad notte questa terra adsaltaro,
Et su per Intempere per intrare provaro;
Ma no lli venne facto, tale vi fo reparo.
Non potendo, parterose poi che fo jorno chiaro.
Con gran malanconìa fecero la raccolta;
Verso Santo Vettorino fecero la revolta;
La sera loco posarose certe con pena molta;
La spene che dentro abero li era levata et tolta!
Lo traditio aveva accuncio allora misere Todino,
Che facea a ssere Lalle la sera et lo matino;
Dalli soi conestaveli questo facto se sentìo;
Ser Lalle se nne avvede; fugì per suo camino.
Multo privatamente ser Lalle se partìo,
Et tenne dalla Posta, ad Antredoco gio;
Poca della soa gente soa partenza sentìo;
La demane Bonajonta a llui dereto gio.
Forono ad Antredoco la sera con gran fretta;
Subito che loco jonsero, sonaro la trometta;
Ser Lalle stava loco, non fece nulla aspetta;
Scalso se nne fugìo con una gonnelletta.
Fo circato Andredoco, ser Lalle non trovaro;
De l'arme soa et d'altri in Aquila ricaro,
Et cavalli et presciuni parichi ne menaro,
Et con grande triumpho in Aquila rentraro.
Alcuni delli presciuni non era incolpato
Ca contra della parte avissero sparlato;
Ma non guardaro ad questo: abero sententiato
Che denanti alla ponta foxero appiccato.
Fidanza colla parte ad Riete non gio;
Gesenne ad Collefecato, ch'era castello sio;
Stavase colli soy, non facea nullo rio,
Né revenne alle mura, che lo sapesse io.
Fidanza aveva facto allo Pogio un castello;
Non è conte né barone che no llo avesse per bello;
Però che alcuno uscito loco aveva rappello,
Quisto lo avevano misso colli usciti a rebello.
Ad pochi dì po questo, fecero l'osta fare;
Tucto quisto castello fecero guastare,
Et poy a Ccollefecato fecero l'oste menare;
Menaro lo capetano per Fidanza pilliare.
Assediarolo intorno et poi lo comattero;
Fidanza era ben fornito et ben se defendero,
Et de quilli che appressàvanose parichi ne ferero;
Et quando questo videro, all'altro provedero.
Non parìa che per forza avere se potesse;
Fecero dui trabuchi che ambendora feresse,
Che tucta quella rocca colli culpi abbattesse,
Sì che per forza Fidanza se arrendesse.
Parichi Poppletani che li erano parenti,
Stavano con Fidanza multo tristi et dolenti;
Li Poppletani dentro, como homini valenti,
Comensarono li tractati per non perdere loro genti.
Fecero Fidanza rennere ad Bonajonta
Et ipso assecurarelo, come se dice et conta;
Li figli de miser Todino aberolo ad gran onta,
Perché de consumarelo levaro granne ponta.
Rennéose Collefecato, Popletani lo pilliaro;
Fidanza colli soy menarono allo Corbaro,
Et non como prescione, ma como amico caro;
Lo capetano et l'oste ad l'Aquila tornaro.
Li figli de misser Todino pensaro una heresìa:
Occidere Fidanza quando venea per via;
Sintìlo Bonajonta, féli tale compagnìa,
No lli pottero liedere, ca pur con lui ne gia.
Con granne compagnìa in Aquila rentraro;
Quasi per una prova per placza lo menaro;
Connusserolo ad lo Palaczo et loco lo pusaro,
Et una bella cambora ad ipso assennaro.
Et honoratamente in Palaczo stageva;
Et omne dì Fidanza gran gente rechiedeva,
Bonajonta medesmo visitare lo faceva
Quasi privatamente, perché non se scoprea.
Ma pur che lo ajutasse la gente se pensava;
Ad quisti de Pretati in tucto li pesava;
Nacquevi mala vollia, ognuno ne parlava,
Et chi n'era dolente et chi se nne alegrava.
Stava in corte Fidanza; misser Todino non c'era,
Ca ad Napoli era gito in quella primavera;
Li figlioli li scripsero tucta questa manera,
Inpetrò una lictera che in quisto modo era:
Commandò allo capetano che Fidanza menasse,
Et acconciòse colla corte che non se indutiasse,
Set non, como jongesse, la testa li talliasse;
Questo era misso in ordine, non so como costasse.
Sappelo Bonajonta, fónne multo dolente,
Promiseli adjutarelo multo fidelemente;
Gisenne con Fidanza, no llo lassò niente;
Ad madamma Cantelma gisenne primamente.
Factali reverentia, abeli ad rascionare:
«All'opera de Fidanza como se pò adjutare?»
Et ella li respuse: «Forte me pare ad fare,
Ché lo re è troppo irato et altri lo sta ad accusare.
Tuctotamen facciamoce quello che potemo:
Nui farremo una lectera che ad re la mandaremo,
Pregandolo, ché Fidanza campare lo volemo,
Che ad compositione mittalo, dello suo pilliaremo.
Et anco ne mandemo una ad Petri de Catenetta,
Che per l'amore meo ad compositione lo metta;
Et un'altra ad mio figlio fayte che vada in fretta,
Ché illo li dà fede più che alla parletta».
Carlo non era in Napoli; un misso li mandao;
Da parte della matre lo misso li parlao:
Che adjute Fidanza lo plu che pote et sao;
Assai pesò ad Carlo, ma no llo renunsao.
Una lictra scripse allo re, pregando
Che perdone ad Fidanza, soa vita adelienzando:
Ad compositione mettalo, dello sou se pagando.
Ad preghera de Carlo lo re lo fece intando.
Bonajonta retenne tanto Fidanza in via
Che no llo menò in Napoli, per pagura che avìa,
Fi che sappe la cedola che lo re dixe: fia!
Ché, se giongea innanti, la testa se perdìa.
Vero è che missere Luca stava con re allora
Tanto stricto et conjuncto che ad credere forte fora;
Plu volte et plu fiate stavano soli amendora;
Et de accusare Fidanza facea ad omne hora.
Et dixe che Bonajonta Fidanza defendea
Et colli usciti de Aquila la parte presa avea:
«Se illo revà in Aquila, et si llo remettea,
May non è vostra l'Aquila, dicovi in fede mea!»
Tanto fé collo re, che li fece comandare
Che, a ppena de dui milia once, non devesse tornare
Né esca fora de Napoli per nullo sou affare.
Carlo stava in Sicilia, no llo potea adjutare.
Poi che Fidanza jonze, fo misso in la prescione;
In Castello Capuano multo tempo durone;
Ma perché abe la cedola, fo misso ad compositione:
Mille once et lo castello lo re li commandone.
In uno anno fo questo che mo reconto io,
Quando ser Lalle et l'altri de Aquila se uscìo;
Lo tempo vi recordo: correa l'anni de Dio
Mille trecento trentotto, como sta al libro mio.
Bonajonta se stette tucta quella vernata
Et tucta la primavera fi ad Pasqua rosata,
Ché in Aquila non tornò pure una jornata;
Poy che revenne Carlo, licentia li fo data.
Et a llui et missere Luca fece la pace fare,
Et lo re commandòli che degiano in pace stare
Et retorneno in Aquila alla terra guardare,
Et déoli granne gente, cioè ad nostro pagare.
Repassammo l'altro anno con guay et multe spese
De guardie et de porteri et de multe angariese;
Anco delli torreri una colta per mese
Per furno et per molino uno florino se mese.
L'opera delli capituli non se porrìa contare,
Ché may non fo veduto sì facto scortecare;
Stava plena la cambora et genti ad stridare;
Ma no lli valea niente, bisognavali pagare.
Non ce bastava la briga che allora avevamo;
Venne la carestìa, che tucti strillavamo;
Uno florino la coppa dello grano comparavamo
Et sei carlini l'orgio la coppa accattavamo.
Quindici solli viddi che se vennea la brenna,
Et li homini non davano alle bestie probenna;
Et non era chi ad spesa nullo operaro prenna,
Tanto geano flivili, non poteano fare facenna.
Fo comensato lo veto dello grano che se accaptava:
Plu che de sey coppe licentia non se dava,
Et chi grano non avesse ad corte lo jurava;
Contra delli richi li poveri gridava.
Omne dì conselliavase quanto Aquila potesse
Mantenere la gente, che dello grano avesse;
Ché gevano gridando lo grano se traesse
Per quilli che ne avesse, et in placza se vennesse.
Fo facto lo consillio et forovi ordinati
Quattro homini per quarto, descreti et insegnati,
Che cercheno lo grano per tucti vicinati,
Et che jure ad chi non trovano, non siano ingannati.
Tucto lo grano de Aquila, quello dentro et da fora,
Tucto fo scricto, dallo gentile allo menore,
Et tucta la famellia et quanto ne gea allora,
Perché quello che sopera lo venna ad certa hora.
Fo facta la rascione dello grano che fo trovato,
Quanto ne potea gire per semana no mercato;
Così l'omo portavalo como era commandato;
Questo fo dicto et facto como fo devisato.
Lo granne carmino era de chi lo grano accaptava,
Ché homo no lli dava se cedola non portava,
Et cescasuno vennetore la cedola pilliava
Et, po che era vennuto, ad corte se portava.
Li notari della grascia cetola daea;
Tamanta era la presscia che a lloro se facea,
Et chi volea la cedola, jurare li convenea
Che grano né farina in casa non avea.
Alcune persone erano che non aveano grano,
Avevano delle cose et delli denari in mano;
Erali commandato da parte del capetano
Che nne reche de fore, né tanto sia lontano:
Chi uno quartaro et chi dui et chi trine,
Como avea lo potere, così lo reche quine.
Parichi l'arrecarono che ne perdero in fine,
Ché non fo una volta, ma fo parichi dine.
Parea che questo grano bastare non devesse;
Fo facto lo consillio che allo re se petesse:
Una tracta de Pullia all'Aquila venesse
Almino de mille some, et lui lo concedesse.
Fo facta l'ammasciata, lo re le consentìo,
Et non ne abe denari, como odì io:
Ad quilli che arecarolo, Aquila convenìo
Mille firini de prode, como allora intisi io.
Et mille once per stima per lo grano misemmo,
Et alli mercatanti lo loro prode demmo;
Et lo grano ad Pescara venire ne facemmo;
Nanti non fo ad Pescara gran pena sostenemmo!
Dapò che fo ad Pescara, et ecco lo recambo,
In quatro case de Aquila quello grano posammo;
Tucte le bestie de Aquila adrecare commandammo;
Soa parte ad omne quarto dembo et assenammo.
Fo dicto che questo grano alli poveri se desse,
Sette carlini per coppa, et plu non se vennesse,
Et lo communo paghasse quello se nne perdesse
De queste mille oncie che però foro messe.
Lo grano era captivo et puteva como l'ollo,
Ma quanno lo grano è caro, non ha veccia né giollo;
Quilli che lo davano faceano como vollo,
Ché davano et venneano ad chi li era in vollio.
Multe persone forovi, che lo loro valeva
Plu de cento once, et dello grano non aveva;
Se altro capetale co llui se senteva,
Se avea gran famellia, in grano se nne geva.
Spetialemente li poveri malamente passavano:
Venneanose le terre et li richi l'accattavano;
Per una coppa de grano una de terra davano;
Lo sangue delle bestie coceano et magnavano.
Era bon mercato della carne et dello vino:
De carne de crastato tre rotoli ad carlino,
Et de carne de bacca a dudici et ad mino;
Lo vino ad quatro denari et sey lo plu fino.
Quilli delli casali insemmora si andavano,
Et occideano la bestia, cocevano et magnavano,
Ogi l'uno et cray l'altro; così se arremegiavano;
Ad chi non aveva bestia venneano et donavano.
Omne gerva de campo la gente gea collendo,
Cocevano et mangnavano senza pane avendo;
Poy che vinnero le favi, la gente ne gea collendo
Et quilli de chi erano non gevano defendendo.
Quando alcuno parente o amico invitava,
Non ce geva volentero, perché se vergognava.
Era lo pane caro, ciaschasuno se sparagnava;
De invitarelo ad bevere, questo plu se usava.
Lo magnare delli poveri era como io dirragio:
Follia et carne pro pane et pane per companagio;
Lo legume era caro, como contato vi agio;
Chi non aveva piatà, dico, non era sagio!
Poche genti erano quelle che lo pane faceano,
Set non che gevano in placza, lo pane se tolleano;
Dui carlini de pane sottotillo se mettevano;
Quantunca guadagnavano in pane se daeano.
Lo giugno stavamo como chi sta in purgatorio;
Bonajonta subvenea con un grande adjutorio:
Ducento quartara de grano fece venire da Spoltorio;
Ad sette carlini remiselo, et questo fo notorio.
Sacciate che alli mille trecento anni quaranta
Fo questa carestìa, dico io, fo tamanta;
Et prego Yhesu Christo colla soa matre santa
Che may ce non revengna, et chi la vole lo spianta!
[c. 1340] son. 3
Singnuri, l'anno della carestìa
Deve mettere sinno ad multa gente
Per tre rasciuni prencepalemente;
Chi questo non considera, è paczìa.
Prima, non dea lo sou per cortesìa,
Ché non se lasse quesse ferramenta,
Non abannone sé per omne vivente,
Ca gire peczendo è vellanìa.
Et la secunda è vivere ordenato,
Mettere rascione de ciò che li va l'ando,
Et dello formento sempre stei parato.
Ma multi son colloro che no llo fanno,
Ché vendo ad culmo et accatano raso,
Et infine quisti ne ao plu danno.
La terza cosa, et la melliore, stantia:
De regratiare Dio quando è habundantia.
[c. 1340] son. 4Quando me resobè la pietate
De questa caristìa che fo tamanta,
Alli anni mille trecento quaranta,
L'alma me sse scarcia, in veritate.
Non se recorda may in queste contrade
La coppa dello grano solli quaranta!
Li poveri dicea: «Questa cosa è santa!»
De dui molliche che li erano date!
Et l'orgio se vennea sey carlini,
Quindici solli se vennea la brenna!
Que bene avevano li poveri meschini?
A lloro bestie non davano probenna,
De fleveleze cadevano ni camini,
Et li operali non poteano fare facenna,
Et gevanose tranugando le derrate:
Per manco dello meso erano date!
Anco me manca ad dire de una opera malefacta
De questa nostra Cammora dove omne male se tracta;
Da capo de trenta anni foxe stata desfatta!
Forcia non averemo la vita sì rea tracta!
Li granni rodeturi sempre so loco stati:
Facti ao loro capituli et altri li à pagati;
Contare non se porrìano li denari fraudati:
Structi ao li poveri homini, et ipsi l'ao locrati!
Ma infine agio veduto che, chi n'à tirannato
Et fa male ad communo, Cristo ne ll'à pagato:
Non tanto lo altrugio, lo sou non à locrato:
Non nomino chivelle: intenna, se nn'è addato!
Soma non allegeravase per quella carestìa:
De colte per soldati pagavamo como pria;
Et de fare la guardia, la nocte et la dia.
Dello altro anno de reto refarraio dicerìa.
Fidanza stava ad Napoli, non era anco accordato
Né se potea accordare per nisciuno tractato,
Ché omne dì dalla parte allo re era accusato;
Poi appresso se sappe che devea essere scapilato.
Missere Todino sappelo; calvacao immantinente
Et giosenne allo re certe multo dolente,
Et allo re dixe: «Sacciate veramente,
Se remanni Fidanza, ca rentra l'altra gente».
Bonajonta sentìlo, poi lui calvacao;
Dudici soi compagni co llui se menao;
Como fo junto in Napoli, missere Todino accusao
C'avea structa Aquila colla famellia ch'ao.
Per quisti poi provòli c'avea messe le colte,
Non una, dui, né tre, ma erano state molte:
Donda le genti de Aquila s'erano multo dolte,
Et poy de l'altre cose aveano robate et tolte.
Quando misser Todino denanti ad re odìo
Queste sì facte accuse, tucto se sbagottìo;
Mintri potte, scusòse, all'osterio regìo,
Et de dollia amalò, et de quello se morìo.
Poppletani revennero, remase Bonajonta,
Et questa tale novella in Aquila fo conta;
Li figli de misser Todino pilliaro ad gran onta
Et ficero ad Poppletani grande despetto et ponta.
Li figli de misser Todino l'Aquila signorava;
Illi con altri dudici questa terra guidava;
La parte de Bonajonta poco vi reflatava:
Quanta nogia facevali, tucta se lla durava.
Stettese Bonajonta tucta quella vernata,
Anchi la primavera, per fi ad Pasqua rosata,
Che in Aquila non potte revenire una jornata,
Per non cadere a ppena che li era commandata.
Poy che revenne Carlo, fece la pace fare
Da Bonajonta a ser Luca, et feceli commandare,
Ad pena de mille oncie, che degiano in pace stare;
Et retornaro inseme all'Aquila guardare.
Inseme retornaro, como io vi dirragio:
Non credo che venìano con perfecto coragio,
Però che l'uno et l'altro avea receputo oltragio;
Quello che sequitone io vi reconteragio.
A ppochi dì po questo, fo in Vagno uno convito:
Ad quillo Bonajonta devea essere tradito,
Che non potea campare, se lui vi foxe gito;
No vi anò, ché sentìlo, regisenne in Poplito.
Subitamente fece lo legname talliare;
Popplito intorno intorno lo fece sticconiare;
Et ad ser Lalle scripse che lo degia adjutare,
Che lo volea remettere et collo re accordare.
Ser Lalle li respuse: «Facciolo volentero;
Gente te menaragio quanta te fa mistero;
Ponime lo dì et l'ora, et non te dare pensero;
De toi inimici facciote vedere tou desidero!»
Quando la parte adversa senté lo sticconare,
Iratamente gerosenne ad corte ad lamentare:
Che voleva Bonajonta la briga comensare,
Remettere li sciti et Aquila guastare.
Fo dicto al capetano che modo vi tennesse,
Et l'una parte et l'altra in corte retenesse
Per fine che fra loro la pace se facesse;
Set non, manneli ad Napoli per cunca remanesse.
Lo capetano fecelo; le doi parti retenne:
Retenne Bonajonta dove lo consillio tenne,
Missere Luca et li frati dove la campana penne;
La gente de ser Lalle fra questo mezo venne.
Misser Luca et li frati aveano gran gelosìa
Per ser Lalle et li soy; na torre avea la spia;
Uno dì la spia disseli che tanta gente venìa
Da pedi et da cavalli che non capea in via.
Subito allo capetano questo mandaro ad dire:
Che li denghe licentia ca se vole partire,
Et dica ad Bonajonta ca se nne vole uscire,
Che li denga securtate che posan salvi gire.
Lo capetaneo subito ad Bonajonta parlone
Che li dega securtate, et lui lo renunzone,
Ché per ipso assecuravali, ma per li sciti none.
Alcuni Poppletani de questo lo repillione.
Tanto fecero et disserono pur che li assecuraro;
Venneroli li cavalli et illi calvacaro;
Parichi Poppletani con loro accompagnaro
Per fi allo ponte de Vagno, et poi se retornaro.
La gente de sere Lalle in Aquila era intrata;
Tucta stava in Poppleto dentro della sticcata;
Nullo usceva de Poplito, anzi stava inserrata,
Ché danno non facessero per nisciuna contrata.
Denanti ad Santo Petro lo macello se facea;
Omne dì quatro bache continuo se occidea,
Et de crastati et porci granne divitia avea;
Ad omne conestavele dava la parte sea.
Le forna de Poplito continuo cocea;
Tucto era commandato lo pane che se facea;
Chi dui forna, chi uno, et chi mezo daea;
Così era tassato como homo potea.
Così similemente tassaro dello vino:
Chi dui some, chi una, chi un barile allo mino;
Chi lo dava la sera, chi lo dava lo matino,
Et de vollia lo davano; omne cosa gia ad plino.
Tenneli alquanti dine, poi li remandone;
Ad ser Lalle et ad li altri a dicere mandone:
«Che non agiano penso, ché ad Napoli me nne vone,
Et may non torno in Aquila, se ipsi accuncy non sone».
Coscì promise ad quilli quando fo lo parlamento:
Che remettea li sciti, se non avea impedimento;
Popletani multo davali questo intennimento;
Quilli che male li volsero lo menaro ad complemento.
Questo fo la vernata, et era gran fredura.
Lo marso poy che venne, habbemmo gran pagura:
Li figli de misser Todino, in una notte scura,
Rientrò nella terra et ruppero le mura.
Alcuno intennimento a Bonajonta fo dato,
Et illo con multi altri la nocte aveva guardato;
Ma che non se nne adessero, tanto intraro celato,
Fi ad tanto che la briga comensaro in Mercato.
La notte che rentrarono, lo dì fo la Nunziata;
Nanti che jorno foxe la briga fo impicciata;
Chi bene volse ad ser Lalle non se fixe cicata:
Per adjutare Bonajonta corsero ad omne strata.
In fine foro rotti et la ponta perdero;
Et quilli della terra camparo, ca fugero;
Ma li tristi forisci, che de ciò non se adero,
Non sapeano dove gire, multi ce ne morero.
Anni mille trecento et plu quarantadui
Correa quando fo questo, vi llo sacciate vui.
Po che scortò la briga, vi' quando vi fui!
Che se nne scero Bagnisci per paura de altrui.
La mollie de Bonajonta a Bangno se ne gio
Et remenò Bagnisci, così la tenga Dio!
Et féli perdonare allo marito sio.
Po Pasqua, Bonajonta ad Napoli se nne gio.
Adsay vi mise studio per li sciti acconciare,
Et re li odeva tanto che no llo potea fare;
Carlo de Artuxe ancora no ne volea parlare;
Plu volte ad Bonajonta ne prese ad rampognare.
Secundo che dicease, assay vi sse studiava;
Omne dì Bonajonta Carlo losengava;
Lo re stava plu duro con intentione prava;
Quanto plu li era dicto, tanto plu recusava.
Fece gire la masciata allo re, con pregare
Che pace generale in Aquila faccia fare;
Alcuni delli usciti fecea loco stare;
Nulla parola ferma dallo re potea trare.
Lo plu che ne trassessero fo questa promessa sola:
Che lo re volea per stagi li caporali ad Nola;
«Se questo non vollio fare, non se faccia parola».
Dixe missere Mattigola: «Per mi non è questa scola!
Nulla persona creda che io faccia questa prova,
Ché may la volpe vecchia non entra in tana nova!
Se nne vole per stagi, faccia che giamo altrova,
Ca, se gemo in marina, sarremo missi in cova!»
La masciata stava loco pure ad sollicitare;
Sempre pregavano Carlo che li degia adjutare;
Diceano che li sciti a llui se vollio dare
In anima et in corpo, quanto pò dire et fare.
[1342] son. 5
Plu stamo attenti che alli riti l'innici,
Adomannamo tuctojorno se venissero
Persone che novelle ci dicissero
Della amasciata delli nostri sinnici.
Ja so passati delli jorni quindici
Che crisci che illi spacciato avissero
Et tucto lo nostro facto percomplissero,
Dicenno sempre a Carlo: «Studio prindici».
Se llo re sapesse la vollia ch'avemone
Che questa pace generale facciase,
Illo farìala, et noy contentaremone.
Io so che tuctojorno ella procacciase,
Et, se costasse dello nostro, démone,
Purché se faccia sì che non desfacciase.
Et chi vi è contro, ch'ela non compliscase,
Da Christo et dalli santi sempre orriscase!
Fra questo Bonajonta se fece cavalero
Et tre altri co lluy, foro d'Aquila de vero;
Che sse fecea la pace a ssentire ne dero;
Aspettavamo che venissero, ciò che era mistero.
Li cavaleri revinnero; facemboli molto honore,
Festanno nanti gennoli plu che ad santo vittore;
Adsay gente vestìse de panni de colore;
Per vollia della pace facembolo de core.
De fare un gran convito quisti deliberaro;
Farelo ad Santo Dominico per mellio lo devisaro,
Et tuttiquanti inseme li quarti pagaro;
Plu carne fo perduta che non ne manecaro.
Fecero quisto convito et non multo honorato;
Non che dello apparichio non foxe superato,
Ma non andò per ordene: tanto ne fo furato
Che ad altratanta gente sarebbe ben bastato.
Po che scortò la festa, prese la signorìa,
Ca l'una parte et l'altra avea cacciata via;
Facea lo capetano ciò che lui volìa:
Assay plu che lo re Aquila avea in balìa.
Fece venire la gente per farese guardare:
Denari non era in camera per poterela pagare;
Colta non volea mettere, non sapìa che se fare;
Lo viscovo de Riete lo abe ad conselliare.
Disse: «Colta non mettere, se voy essere amato;
Perché, se la misissci, allo re fori accusato;
Fa essequire li statuti in Aquila et in contato:
Denari assai trarranne, come agio ymaginato».
Missere Bonajonta quillo consillio prese;
Plu de vinti once d'oro ne cacciava lo mese;
Ad essequire li capituli quanto vi sse stese,
De questo et d'altri denari fece tucte le spese.
Poy fece un capitulo, dico, sopra le donde:
Che getteno le code et vadano retonde;
Mise pena de una oncia ad chi trovate sonne.
Et chi ne fo dolente et chi contento fonne.
Anchi fece un capitolo che piacque ad omne gente:
Che ad homo che moresse, o amico o parente,
Non se spleche capuccio né poco né niente.
Et questo è observato per fine allo presente.
De quelle essecutiuni era granne lamentare,
Cha uno firino per furno io vidi pagare,
Et uno per molino, chi volea macenare,
Et delli panicocoli era granne carmenare.
Era uno granne carmino, dico, de macellari,
Et de piczecaroli, et delli tabernari,
Et de ferrari ancora, et delli causulari;
Contarese non porrìa quanti pagaro denari.
[1342] son. 6
Da si fo facta questa maldecta cammora
De quisto communo et de quisti capituli,
Pegio facemmo che non fao li citoli
De loro pazìe: non avemmo se non dannora.
Ché tuctojorno pagammo pene et bannora;
Entrace plu denari che in placza britoli;
Vero è che ad alcuni ingrassa li molliculi,
Ma tucta l'altra gente strugia e appannora.
Così me ajute Deo, nullo lo cresera
Li carmini che tuctojorno facese,
Che l'anima che vi à ffare ben è misera.
Sensa libello, tale sententia dacese:
Che multi nanti la frebe se presera,
Che stare là; tuctotamen stacese.
Bono è da fare: vivere ad justitia;
Ma non che vi sse mestiche malitia!
Questa è la veritate: che multo ne incresceva
Ad tucti Poppletani dello modo che teneva,
Dell'opera delli capituli ch'era bructa et rea;
Et dalli Popletani spisso se reprendea.
Plu fiate loro dissero: «Missere, danci pace;
Remitti quissi sciti ca a Dio et santi piace,
Et nui promisso avemoli; scrivemo ca se face;
La spene loro et nostra fa che non sia fallace!
Se pace non avemo, no llo potemo durare;
Poco se fa lo jorno, la notte li fay guardare;
La gente è sì satolla quisti carchi portare,
Se uno dì se arriunisco, farranne desertare».
Quantunca li dicevamo, et lui ce respondeva:
«Io vi darragio pace, così Deo me lla dea!
Ma senza re non poczo, né contro vollia sea;
Ma lui se amollarà, questa è la spene mea».
Et aveva altri consilli che diceano: «Missore,
Tu ben congnussci et senti quanto import' a signore;
Se remitti li sciti, serray troppo menore,
Et re te averà in odio, dirratte traditore».
Una, per male dire, l'altra ché ben sapìa,
Se remettea li sciti, perdea la signorìa;
Sì che male volontero se lassa tirannìa;
Venìa passanno tempo, de parole servìa.
[1342] son. 7
Chi vole sapire bene innivinare
Dello futuro, guarde allo tempo gito,
Ca illo li insegna, per omne partito,
Li modi como degiase guardare.
Et quillo che vole dello sou regnare,
Che per altrui non sia diminuito,
Non faccia como quillo c'à inglottito
Quisto communo, per lui arriccare.
Da si fo facta questa terra, intendo,
May non fo homo che qui tirannasse,
Che Dio no llo agia venuto punendo.
Qualunca ad questa terra à facto male,
In fine à facto male capitale.
Como agio dicto innanti, per quisti jorni giti,
Restrinserose inseme ser Lalle colli sciti,
Perché cagnati li erano omne mese partiti;
Non parea che loro facti venissero mai forniti.
Abero loro consillio; fra loro conselliaro:
Per avere majure parte in Aquila, devisaro
Con quilli de misser Todino, che foro loro contraro,
De farenci la pace; a dire li mandaro.
Et illi respusero lo semelliantemente:
«Pace da vui volemo multo perfectamente».
Lo agusto pace fecero, como odì dalla gente;
Non posso recontare tucto partitamente.
Eravi un capetano, misser Nicola chiamato,
Che fece alli sciti quisto pacto fermato:
Che illi non offendessero Aquila né contato,
Che illo assecuravali de gire in omne lato.
Ma illi lo patto roppero, et a Preturo gero,
Et uno bono clerico occisero et ferero,
Parente ad Bonajonta; multo li destruero;
Lo capitano ancora l'abe ad gran vitupero.
Bonajonta et la parte fare vendetta pensaro;
La sera ad tucto tardo lo capitano mandaro
Con multi partesciani che lui aconpagnaro;
Alla Varete giacquero per fi ad jorno chiaro.
La demane per tempo calvacaro alla Posta.
Na valle de Borbona gente stava nascosta;
Corseroli allo stricto, déroli per la costa,
Et quale vi fo morto, et chi fugì dall'oste.
Ferero lo capetano et aberolo prescione,
Et altri presciuni abeno che co llui menone;
Deo hebe ad regratiare alcun che ne campone.
Lo dì de Omnesanto questa sconficta fone.
La matina per tempo misser calvacone,
Et lo communo d'Aquila de fore caccione;
Fé mettere lo banno, a ppena de traditione:
Cescasuno homo sequite lo regale confalone.
Tiraro alla Forcella, non gio la man dericta;
Gisenne ad Cascina, et loco fece ficta;
Giacque loco la sera con multa gente afflicta;
Non ne sappe niente quando fo la sconfitta.
Li usciti, po che vicquero, in Aquila retornaro
Et alecuni de notte in Aquila rentraro;
Li caporali vennero po che fo jorno chiaro;
La pace generale tuctiquanti gridaro.
Li usciti prisero l'Aquila; Bonajonta ad Casscina,
Quando odì la novella, abe la rea matina;
Revenne verso l'Aquila con una gran ruina;
In multi se fidava che li voltaro la schina.
Pur coll'oste revenne, in coppola scappucciato;
Mandò a dire per li frati che lui aveva peccato:
Volea rentrare con pace et darene bono stato,
Et collo re acconciare tucto lo male passato.
Non se fidò la parte, no llo lassò rentrare;
Quillo fore delle mura se prese ad calvacare;
Alla porta de Vagno pensava reintrare:
Como missere Todino pensava recuperare.
La gente se lli parò, et li soy lo lassaro;
Lui se mise ad fuga, et loro li incausaro;
Mintri habero lo partito, illi lo sequitaro.
Po che fo sperlongato, illi se tornaro.
Illo se nne gio a Buscy, et allo re mandao,
Et anco ad Carlo de Artusse questo significao.
Per la soa semplecità Carlo li rampognao:
Dixe che era rascione, perché Aquila lassao.
Corea mille tricento et più quarantadui
Quando rentrò ser Lalle, vollio sacciate vui,
In dì de sancto Amico; così vedemmo nui;
Non fo contento lui quanto dolente altrui.
Quando quisti rentraro, la pace gìano gridando;
La generale gente tucta fo alegra intanno,
Ponamo che alcuni homini avevano hauto danno,
Che amavano de fare quello che patuto ànno.
Ser Lalle prima, et li altri, dico, li caporali,
Non lassava li captivi gire facendo mali,
Non tanto per la terra, ma fore per li casali;
Anchi li gea accollendo como amici carnali.
Fecero multa gente a Ppalaczo adonare,
Ca loco parlamento illi voleano fare;
Lo parlare fo questo: che voleano perdonare,
Et nullo male merito non voleano recordare.
La generale gente contenta se partìo;
Dove stava Bonajonta ser Lalle se nne gio;
La roba che sedeanci chi l'abe non dico io,
Et tucti li altri appresso ciascun per questo gio.
[1342] son. 8
Quale homo dice che lo destinato
Non sia cobelli, gio dico veramente;
Provolo per rascione, allo commenente
De quisty usciti che in Aquila è stato.
Quanto se pò, loro stato è predicato
Dentro et de fore; tucto è stato niente:
Che may rentrasse nullo de loro gente,
Per fi allo puncto che da Dio fo dato.
Quello che Bonajonta crese fare
I lloro contrario, a lloro venne bene,
Ché altramente non se potea fare.
Però vi dico: quando lo curso vene
Che l'omo che dé sallir o abassare,
In quisto mundo, contrario vi non ène.
Ad tucti lo re dicea: «Ca vollio»;
Ma non se accordava, insumma, la vollia.
[1342] son. 9Ser Lalle, et Cola, et Nanni, et Ameruso,
Petruccio, et l'arciprete de Cascina,
Et cescasuno nostro vicino et vicina,
Se ben volete avere lo core in puso,
Sempre regratiate Quillo de suso
Che ad tale male mandé tale medicina;
Poi recordeteve de quella matina
Del dì de santo Amico gloriuso!
Poy recordeteve ciò che prometteste,
De perdonare ad cescun homo in tucto,
Al primo parlamento che faceste.
Guardate che lo pacto non scia ructo,
Che lo attendate, po che lo prometteste,
Ché Deo non sia gabato allo postutto.
Poi vi fate amare ad omne gente,
Et collo re passarete pienamente.
[1342] son. 10
Signuri, io vegio quello che may non crisci:
Vedervi dentro; ad modo era l'impresa:
De nostri sciti fare tal defesa,
De non potere rentrare ad anni et misci!
Né tanti sollati, né tanti forisi
Havissero facti, né tamanta spesa,
Né tanta gente avesserovi rechiesa
Delli amici che avessero in quisti paisci!
Tucte l'avevano per parole vacanti:
Tamanto frino è quillo della corte,
Che tucte genti fa stare tremanti!
Omne homo trema che co llui non s'aorte:
Ponamo che nui foxemo soy cotanti,
Che llo amamo dentro delle porte.
Et ja vi fo signore Bonajonta,
Che nullo poi scottiavase a far ponta.
Ponamo che dentro stavano, non stavano securi,
Non tanto li piccoli, li mezzani et li majuri,
Ché contra dello re stavano li rancuri:
Ja non se trova homini per gire amasciaduri.
Posto se aveva in core questa terra guardare
Da re et da omne homo che la volesse pilliare:
Lassarese tuctiquanti occidere et talliare,
Ché giamay questa terra volessero lassare.
Sì che habero advisato tenere assay sollati;
De colte et de prestanza quilli foxero pagati;
Parichi ne prestaro che may foro redati;
Et Buccio ne fo uno che prestò sei ducati.
[1342] son. 11 Inter fare casa et fillia ad maritare
Illi me à sì pettenata la danza,
Che me fa gire como poco avanza,
Che non ò carlino in borza da portare.
Or non avesse debeto ad pagare,
Che potesse respondere a llianza!
Et poy èmme gettata la prestanza
De sey florini che agio ad pagare!
Dónne ne prego Christo et omne santo
Colla soa santa matre benedecta,
De quilli che n'ao tassato tanto tanto,
Et fao all'omo como li delecta;
Et Deo me lasse de vivere tanto
Che vegia che altri ne faccia vendetta!
Quilli che me ne fao la terra vennere,
Tucti la mala via possano prendere!
Ad volere contare li guay che avevamo,
Non fora per me solo, ca dece non porramo:
De pagare le colte may non finavamo,
Lo dì facevamo pocho, la nocte guardavamo.
Lo gennare che venne, re Roberto morìo;
Et chi ne fo contento et chi dolente, credo io:
Contento chi stava dentro, dolente chi ne uscìo;
Quando morì lo re, correa li anni de Dio
Anni mille trecento et plu quaranta trine;
Regnò trenta quatro anni, como odite da mine,
Et morìo de gennaro, non saccio ad quanti dine,
Et fece testamento, et fece bona fine.
Con granne pena Aquilani quillo verno passarono:
Quilli che dentro stavano fra loro se corrociarono;
La state poy che venne, la briga comensarono,
Et forone morti homini, et Pretati ne cacciarono.
La casa dove sedeano fo arza et derobata,
Et multa roba allora ne fo tolta et portata,
Et poco o niente credo che ne fusse redata,
Et altri ne abbe danno della parte cacciata.
Fugero ad Castelluni; Restageno li recolse,
Che lui fo amico loro, della briga se dolze;
Et Bonajonta jonzeli et fare pace vi volse;
Acciò che foxe ferma, li stagi lui ne volse.
Poyché foro stricti inseme, ad Napoli mandaro;
Spetialemente ad Carlo multo se accomandaro:
Che preghe la regina che vi faccia reparo
Alli rebelli d'Aquila, ca so fedeli et cari.
Che promissioni avessero io non potti sapire,
Ma che gente facevano fonne dato ad sentire;
Per fare l'oste ad Aquila faceva granne admannire;
Per fi ad Santo Antonio io li vidi venire.
Ad dire la verità, nui pur pagura abembo,
Et non tanto per loro, ma la corte temembo,
Che de qua non venissero e pur dentro medesmo;
Guardammo ben la terra, et in campo no lli escembo.
Una nocte vi giacquero; la matina se partero,
Et salliero da Rogi, ad Vangno se ne gero;
Ad Solagno se fixero parichi dì de vero;
Aspettaro lo adjuto; poi non venne, fugero.
Poi quilli de Solangno bene lo pariaro,
Perché Bonajonta et li altri accompagnaro:
Li partesciani corsero et multi ne robaro;
Se non foxero alcuni che vi sse repararo,
Lo foco ce mettevano; ma alcuni provedero,
Ché non vi abero colpa tuctiquanti, de vero,
Et non potea fare altro ca lu staczo li dero;
Et pure dall'hoste istessa gran danno recepero.
Quanno revenne in Aquila messer Bonajonta,
Correa li anni Domini; se voi sapire conta;
Mille trecento quaranta quattro monta,
Con l'oste che menò, ma poco fece ponta.
Lo male ch'è facto in Aquila chi lo porrìa contare?
Io no llo posso dire che no sia reimpropriare;
In questo non è parte che se possa scusare,
Che male non abbia facto, mintri hebe a signoriare.
Tre parti sono state; ognuna è gita fore,
Et cescasuna à probato che è rentrare ad furore;
Rentrare non l'à lassati lo summo Creatore,
Ché non scia structo a tucto lo popolo menore.
Benedicto Yesu Christo, omne parte ha probato
Che è gire de fore, da poy che è cacciato!
Et tucti a Deo promisero, se erano in estato,
Perdonare alli inimici de quanto li ha incolpato!
Tucti rentraro humili et ad bocca perdonaro;
Poyché racorsero forza, pure male pensaro;
De quello che promisero poco ne observaro,
Dello male passato poco se recordaro.
No llo dico per tucti; alcuni so boni stati
Che colli loro inimici sonnose rafratati,
Et quando so stati in pace, sóssene contentati,
Et quando era remore, se sonno reparati.
Perché so stati in Aquila multi peccati granni,
Jesu Christo à revolti sopre nui li tyranni,
Che ne à menati ad pomece con vituperj et danni;
Con guay et catalai semo stati mult' anni!
Inter homini morti de spada et de coltello,
Et le case abattute ad piccone et martello,
Et la roba perduta, farrìasene uno bono castello;
Bone à de questo dolerese lo comune tapinello!
Plu de dece milia oncie avemone pagate,
Et, sopre questo, le guardie che so sci spesse state!
Chi porrìa recontare l'altre genti accusate
Che pagaro per parti de denari et derrate?
[1342/1348] son. 12
Se Quillo che regna nello regno superno
Non alsa li occhi et vede lo deritto
Al popolo Aquilano, che è sì afflicto,
Non credo may soa fede in sempiterno.
O bona Judith, al tempo de Oloferno,
Se tte resuscitasse Dio benedicto,
Collo coltello et collo culpo afflicto
Alli nostri tirandi de Amiterno!
Non che non scia rascione ciò che se pate,
Considerando alla malitia nostra,
Ad sofferire le cose tante ingrate,
Che tuctodì per li occhi se demonstra
De quisti tiranni non ao mino derrata
De loro persone in battallia o in jostra;
Set non li loro miseri sequaci,
Che moro per loro como lupi rapaci.
[1342/1348] son. 13O Aquilani tristi et sciavorati,
O amaturi della strussione
De quilli che vicini vostri sone,
Perché annate tanto scelebrati?
O ccomo non pensate li peccati
Et li delicti facti in su et in gnone,
Con altri mali senza accasione?
Quando serrà che li agiate mennati?
A tti dico: chi è et guarda que fay!
Forcia non cridi de gire ad judicio
Né in quisto mundo né ne l'altro may?
Rascione te mere fare dello malefitio,
Et loco la superbia lassaray,
Et non te valerà voto né vitio!
Ponamo che qui non agi penitentia,
Nell'altro la darrà summa potentia!
Non poczo recontare ciò che io agio a mente,
Né bollio, tucto lo male che è facto, me vivente;
Se lla mità dicesse, io credo veramente,
Troppo rencrescerìa ad chy in colpa se sente.
Su nel male fare, apparse uno segnale
Che parea se struccasse tucto lo nostro male.
Fo facta la Cruciata; questo fo in generale;
L'uno coll'altro amavase como frate carnale.
Grande Cruciata fecese per gire in la Turchìa:
Multe genti la presero et tucti ad compagnìa;
Multi però se strussero, ché lo sou se vennìa;
Chi volse Deo gabare, prese la male via.
Quando illi se abiavano, parìano tucti santi;
Gevano predicanno le genti tuctiquanti;
Io ce vidi multi homini che forno rei innanti,
Pareano a Dio tornati con lacrime et con pianti.
Foro facte molte paci de inimistate granni,
Et perdonati forno granni vituperii et danni;
Et li Cruciati vesterose tucti de bianchi panni;
Andaro per lo mare, tornaro con affanni.
Alcuno che esce dell'ordine et rompe la professione,
Giamay bene non abe, et quisti multi sone;
Coscì ad multi Cruciati comenente li fone,
Che crese Deo ingannare, et sé stisso gabone.
Or vi ponate ad cura: de altri che se tornone,
Cresese Deo gabare et sé stisso gambone!
Da tanto à facto pegio che, quando se abione,
Ben pò maledicere l'hora quando lo immaginone!
Non è citolo piccolo sì legero ad gabare,
Dico, como è lo popolo, ad chi lo vole fare,
Ca omne cosa crede como ogio favellare;
Et tale cose crisero ch'è brutto ad recontare.
Credeano che nel mare foxe facta la via,
Però che una semita nello celo apparìa;
Tanta era visitata una santa Matthìa,
Beato chi li panni toccare ly potìa!
Guardarola li brianti et in collio la portaro;
Chi li dava anella et chi dava denaro,
Chi li dava gerlanda et chi panni portaro;
Non se porrìa contare la gente che gabaro.
Le genti, poy che prinno una ymaginatione,
Levare non se lassano, ma plu firmi ce sone:
Io ci vidi uno frate che in placza predicone;
Fóli messa la caccia perché lo reprendione.
Anchi vi vollio dire più nova dicerìa.
Fo dicto: «Ad Santo Antono sta santa Marìa!»
Non se porrìa contare le genti che vi gia;
Dicevano: «Èllola! Èllola!» se la cella vedìa.
Chi porrìa recontare tante simplicitati
Quante credea la gente al tempo delli Cruciati?
Multi per quello credere vi forono incappati,
Ché prisero la croce, et vinnoro scornati.
Qualeche gran rebaldo, che lo suo avea venduto
Et non gio nella Turchìa, et era revenuto,
Era dolente et tristo et multo penetuto;
Maledicea lo jorno quando fece lo voto.
Quando fo questa Cruciata, se tu me ne demanni,
Dico: ad mille trecento quaranta cinqui anni;
Chi non fornìo lo voto credo sia in affanni;
Senza papa non absolvese; provòlo misere Janni.
In quillo anno medesmo, Popletani tractaro
Pace et parenteza, et tanto se menaro
Che miser, ser Lalle et Nanni se accordaro;
Ad Santa Croce de Luculo in bocca se basciaro.
Loco la parenteza fo promessa et fermata;
Mannaro le neputi in Aquila alla Nuntiata;
Una delle neputi ser Lalle abe jurata,
Lo figlio de Nanni l'altra, ma no lli fo destinata.
Sidici boni preghi quelle doti obligaro:
Cento florini per uno, ché non fo mino denaro;
Nanti non fo pagato, li pregi lo pariaro,
Ca undici semmane la prescione guardaro.
In quillo anno medesmo che era la Cruciata,
Fo morto Bonajonta proprio in Pasqua rosata;
Li vassalli lo occisero nella ecclesia sacrata;
Ma non saccio quest'opera como fosse ordenata.
Un'altra volta revennero multo privatamente
Li figli de messer Todino con una granne gente;
Assalliero ser Lalle multo vigorosamente,
Et prisero la casa, et miserovi lo foco ardente.
Cercaro tucta la casa, ser Lalle non à trovato,
Ca poco nanti un misso ser Janni vi à mandato:
Che subito de casa escase, ca serà axaltato,
Et non porrà campare, se loco è trovato!
Poy corsero in Popplito, et geano gridando,
Li figli de misser Todino, che ser Lalle morto ànno:
«Ecco la testa soa in lancia se va portanno!»
Chi ben volse ad ser Lalle fo sbagottito intanno.
Ad quello gran remore le genti lo sentero;
Paganisci con altri homini co lloro comattero;
Illi erano spaliati; per questo modo perdero;
Deo abero da loro quando se nne fugero!
Nanni non stava in Aquila né potea revenire;
Stava a male con ser Lalle; fecealo de fore gire,
Ca la corte cacciòlo; pregò Deo de fugire;
Foli misso ad abedere che lo volea tradire.
Stava ad Sancto Lorenzo, quando fo questa cosa;
Et revenne co lloro, et abe quello che è usa,
Et criserolo alcuni che fo cosa altragiosa
Aveva patuto nante palese e non nascosa.
Non saccio se tornòse, sì como dicto fone,
Io no llo vidi né sappilo, né testimonii vi done,
Como gio e como venne non metto in sermone.
Lasso questa materia, ad altro me nne vone.
Retorno alla materia, lasso lo tempo gito.
Parea che nostro male tucto foxe fornito.
Era stato uno re como gillo florito;
Fo morto per tradiscione, lo regno fo scurito.
Anni mille trecento quaranta cinque correa
Al tempo che fo morto lo nostro re Andrea;
Et quilli che trovarose ad quella opera rea,
Quello che meritaro Cristo si ne lli dea!
Se in questo pecco mo, Christo me llo perdone:
Pareme che la Ecclesia ecco multo peccone;
Ché tanto lo tricò che lo re non coronone.
Che nanti fosse ucciso chi tanto male comensone!
Non tanto chi lo vede, ma è una pena ad odire
De uno re giovencello in tale modo morire;
Non tanto de capistro che potesse perire,
Ma sola una gotata illo non debe havire!
Remase quisto regno in granni tribulatiuni,
Et forovi gran parti infra cunti et baruni;
Li regali medesmo avevano descentiuni;
Fecero multa gente, cavalieri et peduni.
Da una parte era lo duca de Duraczo;
Missere Loysce da Taranto era dall'altro stazo;
La regina adjutavalo, davali forcia et braccio;
Carlo de Artusse medesimo legòse a quisto laccio.
Missere Loysce de Taranto tanta gente collea
Da pedi et da cavallio, quanta avere potea,
Delli denari de Carlo pagava et spennea;
La imperadrice medesma facea la parte sea.
Quando abe questa gente, missere Loysce andao
Denanti alla regina; et ella li donao
Dui milia once de fructo; et carta ne portao;
Delle terre de Abruczo la possessione pilliao.
Le terre che pigliò foro in Chieti et in Penne,
Sì che in quillo pagese missere Loyse venne;
Selmona et Civita deroselli; et plu nanti gisenne,
Et fece pilliare Atri et Civita de Penne.
Lanciano et Ortona a llui se rebellaro;
Bucchianico et lo Guasto, che quisti seguitaro,
Gran guasto sostennero; fra questo se legaro
Collo duca de Duraczo, et ser Lalle chiamaro.
Ad questa loro compagnia legòvise ser Lalle,
Contra li soy inimici per avere bone spalle;
Pensao possere colliereli sempre caponaballe;
El duca li promise che giamay no lli falle.
Lo duca de Duraczo monstrava che se dolea
Che era stato morto lo nostro re Andrea;
Prese multi sollati con frà Moriale che avea;
Ad modo de uno re lui rascione tenea.
Lo duca demonstrava volere fare vendetta
Dello nostro re Andrea, la cui anima sia benedetta;
Prese madonda Ciancia et martoriòla in fretta,
Et ardere la fece, ca fo de quella setta.
Et lo figlio de Carlo per questa opera prese,
Ch'era denuntiato che in quella opera offese;
Et fo attossecato, et fo dicto palese,
Et morìo na prescione, et nullo lo defese.
Fé fare lo processo multo ferventemente;
Monstrava de trovare tucto lo commenente;
Mellio credo lo saccia l'alto Dio omnipotente;
Così ne scia pagato, che lo vegia omne gente!
Ser Lalle de Camponischi l'Aquila se tenìa
Con multa cavallarìa che con ipso statìa;
Et stando in quisto stato, pensò una gran follìa:
De dare questa terra ad re de Ongarìa.
Ad tucta questa lega fé fare li sindacati
Et ad re de Ongarìa tucti li abe mandati
Ad proferire loro terre, como erano obligati;
Adsay cunti et baruni ad ciò foro legati.
Facto questo presente, allo re fo petuto
Che degia mandare ad sere Lalle lo adjuto
De gente et de denari, acciò che sia possuto
Resistere alla corte fi che lui sia venuto.
Acciò che lo re sia cauto, li stagi li mandao:
Jannotto suo fratello, et anco vi abiao
Antono de Ciccarello che ipso accompagnao,
Jannotto de miser Tomasso che quisti sequitao.
Lo duca de Duraczo anco vi avea mandato
Con tucti li signuri con chi era legato
A recollere lo re, se venìa in quisto lato,
All'onta de qualunca li avesse contrariato.
Lo re abe consiglio; la proferta pilliao;
Denari in quantitate ad ser Lalle mandao,
Uno delli soy cunti che avesse vi mandao,
Sollati in quantitate; et ser Lalle pagao.
Con quisto conte mandao un altro balletto
Delli majuri che avesse, et in quillo aveva plu affecto.
Ad dece dì de magio vennero, como è decto;
Sollaro multa gente per venire allo effetto.
Quando quisti vennero, fo facta gran festa:
Multe genti festavano colle gerlande in testa,
Et multe genti vesterose de devisata vesta;
Foro facti gran conviti, et multa gente rechiesta.
L'altro giorno sequente, io stava allo Mercato;
o vidi nella piacza gran popolo adunato;
Fovi dicta la missa et lo officio cantato,
Li frati colle cruci et tucto lo clericato.
Et su in questo io vidi gran cavallarìa
Che veneano gridando: «Viva re de Ongarìa!»
Quillo conte, con li altri, con ser Lalle venìa;
Allora alsò lo conte lo confalone che avìa.
Poi quillo confalone puse in mani ad ser Lalle,
Et lui allora inclinòseli collo collo et colle spalle;
L'altre bannere inclinaroselli al confalone che salle;
Vidi gettare monete innamonte et innaballe.
Poi questo, devisaro de fare l'oste ad Selmone;
Capitano dell'oste ser Lalle facto fone;
Multa gente da cavallio et da pedi menone;
Fecely fare lo guasto et la terra assedione.
Stavano Selmontini multo bene guarniti
De multi balestrei et de peduni arditi,
Et cavaleri avevano con multi loro usciti;
Tucti li impiccavano quanti ne foro giti.
Vedendo poy sere Lalle che non potea pilliare
La terra per battallia, no lla volea guastare;
Volevala destringere, féli l'acqua troncare;
Da nullo passo poco vi sse potea intrare.
Ser Lalle era nell'oste; all'ora della nona
Venne novella in Aquila che era presa Selmona;
Lo conte, de alegrecza, la gran campana sona:
In quillo punto ruppese; era stata sì bona!
Vedendo Selmontini che erano ad mal partuto,
Ché non parea che tosto venesse a lloro adjuto,
Tractaro fare pacti, et questo abero petuto:
Treva per vinty dì; et foli conceduto.
Se fino ad vinti dì lo adjuto non avevano,
Che con lli nostri in campo illi non commattevano;
Da vinti jorny in poy, illi se arrendevano.
Ser Lalle prese li patti che loro petevano.
Ser Lalle se partìo; nanti che qua tornasse,
Ad Civita de Chiete me pare che applicasse,
Et Civita donaoselli, con questo comensasse,
Et con granne honore dentro se ne intrasse.
Quando venne ad partirese, lassòvi un capetano,
Lo quale se chiamava miser Golino da Fano;
Disse li mantenesse con dolce stile et plano;
Et lui così promiseli; juròli lo offitio in mano.
Ser Lalle tornò in Aquila poi che abe questo fatto;
Et Selmontini ruppero ad ser Lalle lo patto,
Et vennero fino ad Popoli, fecerovi male tratto,
Alli nostri che vi erano fecero male varatto.
Ad pochi dì po questo, ad Napoli fo annuntiato
Che l'Aquila fecea l'osta et Selmona à adsediato;
La regina et li regali abero deliberato
De fare l'osta ad Aquila con gran stolo adonato.
Fo facto lo commando ad cunti et a baruni
Per tucto lo reame, dannunca era alcuni,
Ad pena dello avere et anco de tradescuni,
Che degiano sequitare li loro confaloni.
Capo dell'oste fecero lo duca de Duraczo;
Venne fi ad Collemagio; non li piacque lo staczo,
De venire alle mura non li parse sollaczo;
Se nne fo pentuto, non era mica paczo!
Credendose restare la sera in Collemagio,
In quillo dì facemboli tanta briga et oltragio
Che non magniaro niente pane né companagio,
Et loro bestie non abero punto de veveragio.
No lli lassammo figere; la sera se tornaro,
Et li nostri de retro ben li sequitaro;
Poy che foro allo fiume, in tale prescia tiraro,
Dui pavalliuni lassarovi; in prescia adbeveraro.
Tornarosenne ad Montichio et loco se pusaro,
Et là posero campo et intorno sticconaro;
Demintri loco jacquero, dui volte ce adsaltaro,
Ma, benedicto Christo, pocho vi guadangnaro.
Ad dire la veritate, nui avevamo soldati;
Quasi omne dì li avevamo spiczicati
De roba et de cavalli; qua erano menati;
Lo duca vi mandava che li foxero redati.
Et non perché lo dica, havemmo gran paura
Quando venne lo duca appresso delle mura;
Venne lo santo Janni, ad quella gran callura;
Nui avevamo fora tucta nostra messura.
Non avevamo grano et né potea venire,
Et in Forcona nui non potevamo gire;
Lo grano et l'orgio verde faceamo ammorrire
De qua per Amiterno dove potease uscire.
Anco avevamo dubio delli nostri sollati,
Cha no vi erano denari, non erano pagati;
Gevano menacciando et forte adirati;
Ad pena li passammo con denari prestati.
Et stando de dinari in questa tale intenza,
Dui milia fiorini d'oro vennero in questa penza;
Foro tolti ad Asserce; fonne grande increscenza,
Ma illi lo pariaro con granne penetenza.
Sette semane l'oste dellu duca durone.
Certe grande danno n'abe tucta Forcone:
Baczano ne fo arso et Vagno lo parione;
Lo grano che recolsero non implerìa saccone.
L'oste che adosso vénnenci dicovi quanti foro:
Quaranta centonara cavaleri de storo,
Foro cavaleri mille tucti a speruni d'oro,
Tra cunti et baruni, duicento et plu co lloro.
Mintri fo tutto questo, gran danno recepemmo;
Lo grano et l'orgio verde de tucti lo metembo,
Ciaschesuno in gran prescia, lo mellio che potembo;
Uno carlino per volta della vettura dembo.
Alli sidici dì de agusto se partero,
Et non con multo honore, ma con vitupero;
Correa mille trecento quaranta sette in vero.
Poi li sollati nostri le merce respandero.
Gevano recanno quello delli nemici,
Et altretanto et più de quello delli amici.
Derobaro Paganeca et no vi lassaro finici,
Onna et Montichio et Foxa et anche Intemperisci.
Tuctoquanto duravamo lo gire derobanno;
Non erano pagati, gevano menaccianno;
Con questo derobare se gevano passanno;
Grano avevano per vennere et per magnare intanno.
Tanto li sollati ficero che Bagno derobaro;
Pegio li nostri ficero, alcuni che vi annaro,
Ché scavaro le foxe, et lo grano ne ricaro
Chi in capo et chi in collo; niente vi nne lassaro.
Poy miserovi foco, et foro desertati
Como se Judei fussero o Saracini stati
O rebelli de re o Christiani rennegati;
Li arbori che recaro valsero mille ducaty.
Ponamo che colpa vi abero, ma non tucta, a dire lo vero,
Che devissero avere sì danno et vitopero,
Ca non pottero fare altro, se llo duca recepero,
Et delle loro derrate per loro denari li dero.
Lo grano che li sollati dello campo recavano,
Fecero l'ara in placza et loco lo trescavano,
Et per multe altre placze lo grano sci purgavano;
Parte se nne veneano et parte manecavano.
Po questo, menò ser Lalle l'oste ad Monteriale,
Ma stava ben fornito, no lli potte fare male;
Annaro ad Lionessa per quillo temporale,
Pilliarola per forza et strusserola ad oquale.
Dapó questo, ad Civita Ducata se ne gero,
Poseroli lo assidio et si lla commattero;
La terra era ben forte, ben se defendero,
No lla pottero tollere, l'altro contado ardero.
La robba che qui ne venne, non se porrìa contare;
Era la feria in placza, tuctodì ad comparare;
Per uno florino lo bove et l'aseno vi' dare,
Mantello bello et ricco per mesa oncia pagare.
Retornato sere Lalle, pensò de fare l'oste
Contra de Selmontini, per dareli per le coste.
Venne lo duca Guarneri con quatrocento poste;
Jacque de fore la sera, lo jorno rentrò toste.
Demintri stette in Aquila, dico, lo duca Guarneri,
Comensaro la briga quilli soi cavaleri;
Nella placza d'Aquila foro alle fronderi,
Occisero uno delli Ongari delli boni delli osteri.
Lo conte de Ongarìa volea vennetta fare;
Lo duca et soy Todischi se corsero ad armare,
Pensò lo conte occidere et l'Ongari talliare,
Et poy correre l'Aquila et strugerela et desertare.
L'Aquila a gran periculo quella sera stette;
Ser Lalle, como savio, quando questo vedette,
Fece armare la gente, alla piacza corrette,
Mitigò quella cosa con dulci parolette.
Facta questa concordia, feceli fare la monstra,
Per fare l'oste ad Selmona, inseme con gente nostra;
De mille cavalli, multi ne foro de giostra;
Annòvi lo duca Guarneri, homo de gran postra.
Capitano dell'oste fo facto missere Golino;
Con mille cavaleri gio contra lo Selmontino,
Con duimilia peduni de bono coragio fino;
Sette semmane jacqueli nanti lo casalino.
Adsay battallia déroli dentorno alle mura,
Ma poco li posserono fare né nulla lesura;
De boni valestrei avevano oltra mesura,
Chi vi sse appressemava tornava con pagura.
Vedendo misser Golino che non era avantagio
Che potesse Selmona tollere per oltragio,
Lui se tornò in Aquila, et fece como saggio,
Et disse alli sollati: «Denari manderagio».
Tornò misser Golino et lo Consillio fece fare;
Dixe che li sollati se voleano pagare
Et multi per sey misci se voleano fermare;
Set non, ca menacciavano de ardere et abrusciare.
Li nostri consellieri foro deliberati
Che denari per loro foxero straprestati;
Ca nne fo misso dubito, foro subito trovati,
Et tutti alli sollati quilli forno mandati.
Nui remasemmo in Aquila con multi altri sollati,
Ma non ce era avantagio, ca erevamo assediati;
Li passi intorno intorno si li erano pilliati;
Et de nostri sollati plu fommo dannegiati.
Non poteano uscire fore li nostri citadini
Da Popoli et da Busci, et anco da Selmontini;
Ancora Marsicani non forono bon vicini:
Lo conte de Celano tenea li malantrini.
L'altra briga remasene de qua da Monteriale;
Eravi un capetano valeroso et liale;
Et l'altra da Andredoco et Civita Ducale:
Quale de nui inciampavavi feceali male capitale.
Spisso spisso ferevano per montagna et per plano;
Correano la Varete, con Casscina et Cangnano;
Tristo era lo qualunca a lloro venea ad mano:
La tallia che facéanoli no lli lassava ancontano.
Vigio con Porcinaro foro da loro robati,
Non tanto che robati, ma arsi et abrusciati;
Avvenga che una volta ne regessero scornati,
Per tanto li loro danni non foro restorati.
Poi calvacò ser Lalle, annò sino ad Marana,
Et fece un battifollia per fine alla Fontana,
Io dico, ad Monteriale de bona gente sobrana,
Et poi li prendemmo ad sono de campana.
Poi questo, alla Varete ponemmo li sollati
Per guardare lo passo, non foxemo robati;
Pegio faceano li nostri che li altri desfidati;
Venne uno gran reghiamo, forone cacciati.
Fra li altri, Pizolani ne passaro plu nicti:
Tuctiquanti nell'auto se nne foro restricti;
Sbarraro lo pagese et stavanose ficti,
Avenga che ad Agelli ferero li maledicti.
Lo quarto de San Johanni non ne passò de bando;
Pure alcune castella foro giti robanno;
Rascino ne fo arso dui volte intanno,
Anchi Pretarotara non passò senza danno.
Non posso recontare tucto lo male che abemmo
Dalli nostri inimici et como lo sofferemmo;
Assay male ne fece quilli che nui tenemmo;
Mandamboli alla frontera, tenerevilli non potemmo.
Vollio gire plu nanti della mia dicerìa.
Retorno alla materia dello re de Ongarìa.
Borbotanno dicevano che may no nne venìa,
Et alcuno dicea che sì, et anco era in via.
Et stanno in quisto dubio, Jannotto fo tornato,
Et abe dello re d'Ongarìa recitato
Como illo venea nello regno sbrigato:
«Et vidi io lo exercito suo che era abiato».
Da multi non foro crese allhora queste parabule,
Et plu contennevano che queste erano fabule,
Ché, se llo re venesse, forrìano messe le tabule,
Et lo vino accaptato, et messevi le tuvallule.
Suso in questo contennere, in Aquila se sona
Che era venuta lectera che lo re sta ad Verona;
In quella sera in Aquila ogni campana sona,
Fóvi arsa multa cera per la novella bona.
L'ultimo dì dell'anno, in vigilia de Natale,
Io vidi intrare in Aquila la potestate regale;
Non volse sopre lo pallio, per lo frate carnale,
Né corona in la testa, né panno imperiale.
Pósese ad San Dominico; le letta foro trovate,
Io dico, per Popplito, belle et dellicate;
Et multi le prestaro, che non foro redate,
Et io fui uno de ipsi, in pura veritate.
Lo jorno che lui venne correa quaranta sette,
L'altro jorno sequente ad quarantotto gette;
Allo nostro episcopato quella Natale odette
La missa, et allo altaro quattro once li offerette.
Sette dì stette in Aquila, et fece tale cose
Che non foro regali, ma foro abominose;
Ser Lalle lo invitao ad vidanne pretiose;
Magnato lo primo misso, da tabola levose.
Et anchi fece pegio; ché a Bangno se ne gia,
Menava una puttana; quella era la compagnìa;
Questo fecea nascosci, ma poy se resapìa.
Geva lo re cercanno tucta soa baronìa.
Or vollio che ridatevi de quisti nostri Aquilani.
Po che lo re venne et aberolo nelle mani,
Che petetiuni fecero, como homini vani,
Ca non petevano pure avere trenta ancontani!
Chi pethìo la grascia, chi mastro justitiero,
Chi conte camborlingno et chi gran tesaurero,
Chi conte et chi barone, et chi essere cavalero.
Io diceva fra me stisso: cha vi inganna lo pensero!
Chi volea baronìe et chi contadi,
Chi petea castella et chi citadi,
Chi gran terrini in Pullia per erba et per biadi,
Et chi li granni offitii per gire ad alti gradi.
Dello tempo futuro nullo homo pò sapire.
Multi ne foro lieti vedendo lo re venire,
Et abero male et guay volendolo servire,
Et multi ne foro dolenti che n'abero da godire!
Passati li sette jorni, lo re se nne gio
Verso de Selmona con lo exercito sio;
Da conti et da baruni lo homagio recepìo:
In Aquila juraro nanti che se partìo.
Lo conte de Celano lo re invitao
Lui ad Castello Vechio collo tinello c'ao;
Lo re fo cortese, la soa invita pilliao;
Lo conte lo recolse et bene lo despensao.
Poi gine lo re ad Selmona et fo lassato intrare,
Et lui li promise de male no lli fare;
Uno delli usciti volse la briga comensare;
Lo re tostamente li sciti fece cacciare.
Poi se partì lo re colli soy cavaleri.
Foli multo accusato, dico, lo duca Guarneri:
Che aveva fatto robare colli soy masnaderi
Et lu pagese structo, tanti aveva forescieri.
Quando lo re l'odìo, a llui lo fece gire,
Et miselo in prescione, così odemmo dire,
Et ja fo dicto in Aquila che deveva morire;
Ma poy fo scapilato, et félo da lui partire.
Missere Loyse de Taranto aveva priso lo passo
Con multa gente in Capua guarnita per compasso;
Lo re non tenne d'èllota, fece la via da basso,
Tenne da Benevento, dallo pagese grasso.
Vedendo la regina che pure lo re gia,
Fece fare lo Consillio colla soa baronìa;
Propuse che allo re resistere volìa,
Quantunca ley potesse, per ogni modo et via.
Missere Loyse de Taranto respuse: «Ben me piace»;
Lo duca de Duraczo respuse: «Ad me despiace;
Collo re non vollio briga, ante vi vollio pace;
Gierrò denanti a llui, et non serrò contumace».
Missere Loyse dixe: «Duca, se tu voy gire,
Io so securo et certo che tu vay ad morire;
Pòrtate lo capistro et farray gran sapire,
Ca, quanto tu vorray, non te porray partire!»
Vedendo la regina quella granne herescìa,
Che avea gran parte in Napoly lo re de Ongarìa,
Adunò ciò che potte, con gran malanconìa,
Determenando infra sé che gire se nne volìa.
Nanti che se partesse, fece un gran parlaminto;
Dixe: «Signuri, partome; facciovi gran laminto;
Dalli me' son tradita, et dànnome colpaminto
Che io allo mio signore facesse fallieminto.
Donne io prego Christo et la Vergene beata,
Se io al mio signore non so liale stata
Et che della soa morte facesse mai penzata,
Che io sia arsa in foco et l'anima sia dannata!
Ma dico ad vui de Napoli, che io no vi ò tenuti
Como se tè vassalli, anchi bassalli avuti,
Ma tucti como frati vi agio mantenuti;
Non deverìa tali meriti haverne receputi!»
Facto lo parlamento, la notte se partìo;
Accolse ciò che potte, per mare se nne gio,
Et giosenne in Provenza, che era contado sio;
Recomandòse allo papa, como agio intiso io.
Allora li regali parterose ad corruccio;
Missere Loyse gisenne; fo savio, cridi ad Buccio;
Pilliò la via per mare: adése dello arcuccio;
Et li altri che remasero fori colti allo mastruccio.
Lo duca de Duraczo tenea lo tractato;
Allo re de Ungarìa plu volte avea mandato
Ad direli che ad Adversa se nne venga sbriato,
Ca lui li uscea innanti como homo obligato.
Lo re con la soa gente ad Aversa se nne annaro,
Et dentro della terra tucty se pusaro;
Lo duca et li regali a llui se presentaro;
Pejore dì non abero da che se baptizaro!
Quisto proverbio credo che agiate odito dire:
Che, quando l'omo deve scervicare o cadire,
Perde la memoria, el sinno et lo sapire,
In quello male incappa donda credea fugire!
Un altro proverbio dicovi che homo va parlanno:
Dove primamente se comenza lo 'nganno,
Là conven che torne per rascione lo dando.
Ad duca de Duraczo fo comenente intanno!
Se llo duca de Duraczo facto avea lo peccato
Et tuctavìa per collo ad altri lo à gettato,
Voleva fare punire chi non era incolpato;
Le sorte a llui voltarose, ché ne fo decollato.
Li altri quatro regali che lo duca adcompagnaro,
Tucti foro prisi et alla prescione annaro;
Ad pochi dì po questo, in Ongarìa li mandaro.
Cristo li defensò, però che non peccaro.
Remase in quisto regno lo re de Ungarìa;
Fo facta allora in Napoli una granne robarìa;
Anchi non avea lo regno in tucta soa balìa,
Cha no vi sse annava per li acti che facìa.
La casa dello Balzo et de San Severino
Gìanose scostanno intorno allo terrino,
Et erano più chiamati collo sinno latino;
Ma illi parrarono sinno dallo duca tapino.
Ma issi foro scì mastri che salvi se rendero;
Mintri che allo re alcuni comparero,
Tanta gente guardavali dentorno all'ostiero
Che, se llo re pigliavalo, avevane vetopero.
Non metto per ordene tucte le cose facte:
Fora sì longo dire non bastarìa le carte.
Lo re monstrava fare cose sì sciocche et matte,
Non voleva fare cosa che Cosillio le tracte.
A dire la veritate, non tenea la manera
Che re deveva tenere, colla lianza vera:
Quello facea la domane, rebocava la sera,
Ad chi facea la gratia, no lli valea una pera.
Sou conte camborlingo ser Lalle facto havea;
Adsay majure corte che lo re tenea;
Era signor de Napoli, facea ciò che volea,
Et lo re acceptavalo et no contradicea.
Li cunti et li baruni, per fareselli amare,
Quillo se tenea mello che lo potea presentare.
In pochi dì che tennesse, tanto fece adunare,
Se foxe bono guadagnato, molto habera a durare!
Et prese Sancta Agata, et lo contado prese
Che abe Carlo de Artusse, et tucto fo in uno mese;
Che lo re non stava firmo illo se ne adese,
Però sappe acconciarese in pochi dì de arnese.
Lasso questa materia; retorno alla regina
Che se nne gio in Provenza et fugì la ruina.
Non parea che vi foxe null'altra medecina:
Andò nanti allo papa, et nanti a llui se inclina.
Lo papa li fé honore, sì como dicto fone;
Per lo incenzo dello papa gettò pigno Avignone;
Et lo papa allo re de Ongarìa comandone
Che esca dello regno senza excomunicatione.
Et miser Loysce in Provenza ne gio;
Non già con denari, ma como homo che fugìo;
Nicola delli Acciaroli denari li prestò de sio.
Depó che fo in Provenza, gran honore recepìo.
Allo re d'Ongarìa me vollio retornare.
Ad homo de quisto regno no se volea fidare,
Set non con alecuni Ongari se volea conselliare;
Mise in dubio la gente che li debia lassare.
Comensò ad venire in odio della gente;
Multi che ben li volsero, lo odiaro veramente;
Lo re se nne advede dello sou commenente;
Calvacò verso Pullia; non fo saputo niente.
Et non gea como re, ma como homo mandato;
Alcuno jorno avvenne che abe calvacato
Plu de settanta mellia, con poca gente allato;
Non se figea niente, como homo incalsato.
Altro dicea con bocca et altro tenea in core,
Quello che in core avea no llo dicea ad signore;
Stava ad Manfredonia, non se curò de honore;
Misese in mare et gisene senza farne rumore.
Allo conte camborlingo non ne fece parola,
Ché no llo impedesse; mandòlo alla Cirignola;
Recolse un corsale che plu che cello vola.
Quillo fo plu dolente che l'aspettò con gola.
Lo conte camborlingo, quando questo sentìo,
Parse che li foxe venuto mino Dio;
Multo privatamente della Pullia se uscìo,
Con poca gente revenne allo pagese sio.
Dapó che fo saputo che lo re se partìo,
La regina Johanna, che in Provenza fugìo,
Revennesenne ad Napoli collo marito sio;
Et per mare revenne come per mare gio.
Lasso questa materia, et torno ad un'altra tema:
Convene dir de una cosa crudele et seva.
Sì granne fo mortalta non è ad chi non prema;
Credo che le dui parti della gente fo sema!
Et non fo solo in Aquila, ca fo in omne contrata;
Non tanto fra Cristiani, ma fra Sarracini è stata;
Sì generale plaga non fu may recordata
Dallo tempo dello diluvio, della gente annegata.
Et corsevi un dubio che may lo odi contare:
Che li medici non voleano li infirmi visitare,
Anchi vetavano li homini che no lli degiano toccare,
Però che la pittimia se lli porrìa gettare!
Advenga che li medici alli infirmi non gero,
Ma pure delli loro dui parti ne morero.
Li spitialy ancora lo soperchio vennero;
De questa granne plaga plu che li altri sentero.
May non forno sì care cose da infirmarìa:
Piccolo pollastrellio quatro solli valìa,
Et l'ovo a dui denari et ad tre se mettìa,
Et delle poma ancora era gran carestìa.
Cose medecinale omne cosa à passato:
Ché l'oncia dello zuccaro ad sette solli è stato,
L'oncia delli draganti sei solli è comperato,
Et delli manuscristi altretanto è pagato;
La libra della uva passa tre solli se vennea,
Et de noci de mandole ad dui solli se daeva,
Dece vaca de mori uno denaro se vendea:
Quando ne aveva dudici, bona derrata tenea.
Della cera credo che agiate intiso;
Set non foxe uno remedio lo quale vi fo priso,
Alli quarti delli morti non forrìa ciro acciso,
Se nce avesse un florino nella libra despiso.
Fo facta una ordenanza: che li homini accattasse
La cera delle ecclesie, et con quella passasse,
Et li altri poverelli cannele non portasse;
Dalla ecclesia tollésseroli, et li chirici accordasse.
L'omo che sole' avere trenta libre de cera,
Con tre libre passavase per questa loro manera,
Con meza libra facea l'omo che povero era;
Accordava li chlirici la demane o la sera.
Con tucto questo remedio, la cera fo rencarata;
Ad vinti solli l'homini l'hanno comparata,
Ad deceotto et ad sidici et dicessette è stata;
Quando revenne ad quindici, fo tenuta derrata.
Anchi ad quisto remedio, la cera non bastava,
Set non foxe quillo ordene che li clirici usava:
Ché tanto pocatello lo morto se offitiava,
Tre volte le candele alla caja appicciava.
Quando era lo homo morto che ad santi lo portavano,
Fi che erano alla ecclesia, li preti non cantavano,
Et poy che erano dentro, così poco offitiavano:
Dui versi et tre responsi, et poi lo sotterravano.
Anchi fo uno statuto: all'omo che morìa,
Che no vi sse sonasse, ché altri non impagurìa,
Et fore de castello l'omo ad morto non gia,
Acciò delli corrupti la gente non se adìa.
Or vi dirrò lo modo che era allo correttare.
De un citolo da latte plu se solea fare;
Delli granni della terra, quando potea adunare
Vinti persone inseme, pareali troppo fare.
Non se tenea lo modo che se solea tenere:
Lo dì che morìa l'omo, facéanolo jacere
Per fi all'altra demane, per plu honore avere;
Le castella invitava che gissero ad comparere.
Quando fo questa mortalta, in quell'ora che morìa,
In quell'ora medesmo alla ecclesia ne gia;
In quillo dì vigilia nulla non aviva;
Non era chi guardarelo, però se sepellìa.
Una gran pietate che era delli amalaty,
Era delli parenti che li erano admanchati;
Non era chi guardareli, et avevano necessitati;
Tre carlini le femene avevano alli dì passati.
Fecene Deo una gratia delle malanze corte,
Ché uno dì o dui o tre avevano male forte,
O quatro lo più alto, chi è disposto ad morte;
De acconciarese l'anima le genti stava adcorte.
Tamanta era pagura, che omne homo tremava;
La morte cescasuno omne dì aspettava;
Plu che dello corpo, l'omo dell'anima pensava;
Quando era sano et salvo, allora l'omo testava.
Or chi vedesse prescia ad giudici et notari
Che era, nocte et jorno, delli testamentari!
Et illi congnoscévanolo, petevano adsai denari;
Et testimonii ancora ad trovare erano cari.
Quando homo recercavali, et illi adomandavano:
«È scripto lo testamento?» set non, che non ce annavano;
Se dicevano: «Ch'è scripto», subito se abiavano;
Non che daventro intrassero, ma alla porta rogavano.
Anchi vi vollio dire che comenente è stato,
Quando fo la mortalta, se l'omo aveva testato
Con judece et notaro et testimonio rogato,
Se tosto non era in carta de coro publicato.
Se homo ad dui o ad tre dì gia per lo stromento,
De judice et notari trovava impedimento,
Ché alcuno era admalato et stava ad fallemento,
O qualeche testimonio gito era ad gran comento.
Chi volea lo rogo fare relevare,
Lo notaro un florino volea adomannare,
Altretanto petea lo judece per se volere senare;
L'omo poi accordavase, se non potea altro fare.
La granne pietate si fo delli amalati,
Ché erano appocati li homini, non erano procurati;
Chi comperava guardia, per essere adjutati,
Lo dì et la nocte, petevano tre carlini gilliati.
Li pochi che remasero cescasuno ricco era;
Per l'anima delli morti ne davano ad rivera;
Li clirici godevano la demane et la sera,
Et arriccaro li Ordini et tucte monastera.
Li laici medemmo godìano volentero,
Ché avevano delle cose per omne loro mistero;
Per tanto poco preczo multe cose vennero,
Tri tanto vale mo, credateme de vero.
Quando fo questa mortalta, anni mille correa
Trecento quarantotto, così Deo ben vi dea;
Sì granne fo pagura che omne homo temeva:
Multo altrugio rennéose, ché morire se credea.
Chi facea testamento, null'omo che testava,
Né parenti né amici già no lli adomandava
Che cobelli lassasseli, ca non se ne curava:
Le cose avìa per niente, et morire se pensava.
O quante penetute de questo ce so state,
Ché non se provedero de queste cose passate,
Ché ricchi pottero essere delle cose lassate,
Ch'invidia hebbeno ad chi de ciò son arricchate!
Finita la morìa, li homini reaccelaro:
Quilli che non aveano mollie, se la pilliaro,
Et le femene vidue si se remaritaro;
Joveni, vechie et citole per quisto modo andaro.
Non tanto le altre femene, vizoche et religiose
Multe gettaro l'abito et vidile fare spose,
Multi frati sconciarose per fare tali cose;
Homo de novanta anni la citola pilliose.
Sì granne era la presscia dello remaritare,
Che tanto lo jorno erano non se porrìa contare;
Né aspettavano domenecha multi per nocze fare,
Non se curavano de cose quantunca erano care.
Chi vedesse la carne che se facea in macello,
May in nulle citadi no llo vidi sì bello;
Tante some ne uscevano che parea un bordello!
Chi non avea denari occidea lo porcello.
Como fo gran mercato innanti delle cose,
Così reincarerono, dico, per queste spose:
Panni et argento et quello che allhora abisognose,
Erano tanto care che se venneano oltragiose.
Sette carlini vidi dare nelli pianilli,
Cinque et quattro carlini, dico, negli cercelli,
Ad quatro et cinque solli io ci vidi li anelli;
Delli panni non dicovi, ca foro cari velli.
La gente fo mancata et l'avaritia cresciuta:
Dannunca era femena che dote avesse avuta,
Da l'omo che plu potea chiesa era et petuta;
Pegio ce fo che questo: alcuna ne fo raputa.
Demintri foro usciti de quella gran pagura
Della corta amalanza et della blandullia dura,
De satisfare l'anima poco era chi se cura;
Ad crescere et arricare poneano studio et cura.
Ad pochi dì po questo, facemmo uno granne male:
Coll'oste ad Antredoco vi gemmo in generale;
Fo abrusciato et arso collo Burghitto ad oguale;
Per nui già non remase de Civita Ducale.
Arsa vi fo Penenza et Chiesura adbrusciata,
Et la roba che vy era ecco ne fo recata;
Quando revenne l'oste, gente vi fo lassata
Che statissero ad Corno, a tener la contrata.
Fecero un battifollia ad Corno et a Ccascina;
Poco tempo duròvi, ca venne, una matina,
Gente delli inimici con tamanta ruina,
Arsero lo battifoglia; li nostri voltaro la schina.
Non credete che l'oste foxe de voluntate
De tucta questa terra, perché non poco errate;
Ca la fece lo conte con alcuno, sacciate;
Chi li volea contradire, diceali: «Crucifigate!»
[1348] son. 14 O gente saggia, lo tempo abisate,
Ché mo lo sapire non vale una porcacchia,
Et convien che portete la mordacchia,
Se vedete le cose scelerate!
Io vi recordo: non le repilliate,
Ché, se me mozzo, moro, et non recacchio;
Chiamarrete più guai de la cornacchia,
Et lo vostro sapere perderrate.
Quando serrà dicto: questo se faccia,
Quamvis purché vi para male fatto,
La voglia pur mostrate che vi piaccia.
Lassate andar la gente a fare un tratto,
Finché Cristo vi stenna le braccia.
Chi dixe quello verso non fo matto,
Lo quale dixe: «Cum santo santus eris,
Et cum perverso», dico, «perverteris».
Lo male plu sequendo, credo che Dio dicesse:
«Forcia se credo li homini che plu forza non avesse?
Sòlli usciti de mente li voti et le promesse?
Io li vollio monstrare se anche plu pottesse!
Io li agio perdonato, et illi pur me offendo,
Campayli della mortalta, pigietate li abendo;
Un'altra plaga mandamboli ché se venga admonendo!»
Sì che a me par che fece, como direvi intendo.
Quando credevamo stare in lo loco più tuto,
Subitamente venne sì gran terremuto,
Dalla morte de Christo non fo mayure veduto;
Appena homo trovòsenci che non gesse storduto.
De persone ottocento d'Aquila fo stimate
Che per lo terremuto foro morte et sotterrate.
Chi se vedeva strillare et fare pietate,
Chi plangea lo fillio, chi mollie et chi lo frate.
Chi plangea la matre, chi patre et chi sorella,
Chi se grattava lo petto, et chi la mascella;
Et geano scommorando omne strada et ruella,
Per retrovare li corpi, con amara favella.
Quando le case cadero, tanta era polverina,
Non vedea l'uno l'altro in quella matina;
Multi ne abe ad occidere senza male de ruina.
Ben se lli dé ad cognoscere la potentia divina!
Or chi vedesse edefitia et case derupate!
Tuctequante le ecclesie erano atterrate,
Che fo lo majure danno che avesse la citate,
Salvo la morte delli homini, ad dire la veritate.
Le strade erano incomorate de prete et de legname;
Forrìa forte ad Abruczo scommorare lo marrame!
Assay fo granne affanno; vinneroce tuctotame
Li nostri contadini ad scomborare le strade.
Non jaceamo in casa, ma le logie fecemmo;
Più che nove semane pur de fore jacquembo;
Più frido assai che calla in quillo tempo abembo;
Et de nostri peccati poco ne penetembo!
Correa li anni Domini mille et trecento
Et plu quaranta nove, credate ca non mento,
Quando fo lo terremuto et quisto desertamento;
Et quilli che moréronci, Dio ly agia ad salvamento!
Però che era l'Aquila così male adrivata,
De ecclesie et edifitia cotanto desertata,
Et anchi delle mura non era circundata,
Multi homini credevano non foxe habitata.
Et anchi comensaro parichi ad scommorare,
Ché nne voleano gire de fore ad abitare;
Credéanose che Aquila non se degia refare.
Lo conte sappe questo, abese ad conselliare.
Vedendo poi lo conte la terra desolata
Per granni terremuti così male adobata;
Le mura erano ad terra, non era reparata;
Pensò subitamente de fare la sticconata.
Como illo comandò, foro facti li sticcati
De bono lename grosso, multo ben chiovati;
Sticcavano la terra per multi vicinati,
Et forone grandi utili, ca stevamo inserrati.
Poi venne la Natale, intrò l'anno jubileo;
Stava in penzo le gente, cescasuno dello facto seo,
Como avere potesse la remissione da Deo;
Multi diceano: «Non basta al male tollito lo meo!»
Tanto ciascheuno homo geva con soa conscientia,
Et gevano allo prete ad pilliare penitentia;
Multo ne fo renduto et promisso in presentia,
Et multi perdonaro ad chi li gero ad reverentia.
Eravi un forte puncto: dell'oste de Antredoco,
Per quilli che vi gero et miserovi foco;
Quisto fo gran facto ad fare nicto lo joco,
Ché foro arse le eclesie et arsovi lo loco.
Tuctotamen non vollio de altri l'animo judicare;
Beato chi à possuto questa gratia guadangnare!
Da quando io vi fui, volliovi recontare
Le cose che io vidi, et caro da mangiare.
Sette libre lu rugio dello grano se veneva,
Et sette once de pane per un sollo valeva,
Vino romano et nostro un carlino se daea,
Se era bono, sey solli; or ecco carestea!
Lo greco et la romeca, guarnaccia et soretino,
Schiavo et calabrese et tribiano fino,
Dece solli lo petitto et otto valea, lo mino:
Questo era ché era granne, et facease bene plino.
Non era carestìa de carne de crastato:
Dece denari la libra de quillo tosorato;
Cara era la vitella et lo porco salato,
Et lo pesce anco caro, sì como abi stimato.
Quatro denari lo arangno più volte comparay,
Et poi ne fo mercato, et per dui lo accaptai;
Poi ne vinnero tante quante non vidi may;
Ad uno denaro l'uno et ad dui ne trovay.
Lo tempo che io vi fui, sci fo le Ascentiuni.
Ad non fare mensogna, como fao li garzuni,
Forcia in tre jorni véndovi, como vedemmo nui,
Cento lingni carchi de optimi vini boni.
Anco recaro grano, et chi orgio portava,
Chi ducea arangna, et chi fructi scarcava;
Ad Ripa tucte queste cose se accattava;
Più de mille basscelli da vino vi contava.
Li ligni che vi vennero con quilli che trovambo,
Foro ducento trenta, et nui così stimambo;
Cinque galee fornite, ad Ripa li contambo,
Tanta roba ricaro che ne maravelliambo.
Per folla et per la polvere gevano li romeri,
De notte plu che jorno, colli belli dopleri;
Chi portava candela et chi li candeleri;
La cera che se ardea valea multy deneri!
Tanta la multa gente che per Roma vedembo,
Per omne parte ad spalla ne gembo;
May no vi nne fo tanta, dalli Romani audembo;
Multi morero alla folla, et nui pagura abembo.
Lo pegio che facevano quilli mali Romani,
Quando albergavano la sera, dico, li ostulani,
Che se monstravano angeli, et poi erano cani:
Letta promettevano, et davano splaczi plani.
Da sey denari ad sette tollevano per bordone,
Ad otto, nove et dece chi jaceva in saccone,
Ad dudici et ad tridici chi in matarazo fone,
Como lo dice Buccio, però che lo provone.
Promettevano lo letto ad quatro et ad tre persone;
Poy che venìa ad jacere, ad sei vi nne colcone,
Et ad sette et ad otto; più volte questo fone;
L'omo se llo durava per non fare questione.
In nell'anno jubileo fo un'altra novitate:
Multi cunti et baruni mandaro le massciate
Allo re de Ongarìa che venga in queste contrate;
Dico de quilli che erano sotto soa voluntate.
Lo conte de Trevento per amasciatore gio,
Da parte delli signuri, dello volere sio,
Dicendo: «Signor, vengate, ca lo regno è lo tio,
Ca lo popolo minore te aspetta plu che Dio!»
Lo re de Ongarìa alla parola crese;
Multo sforsatamente venne in quisto pagese;
Dece milia barbute, tucto de bono arnese;
Questo fo a dy quatro de mayo lo bel mese.
Posese ad Manfredonia et poi ne gio ad Barletta;
Loco aspettò la gente che era della soa setta;
Tucti, poi che lo sappero, comparsero con fretta;
Ortona con Lanciano per lui sonò trometta.
Poy che adunò le genti, ad Aversa nne gero;
Assediarola intorno et bene la commattero;
La terra era inforsata, ben la defendero:
Nove semmane intorno de llà non se partero.
Lo re in persona ad commattere n'è giuto;
Collo suo scudo in braccio in la scala è salluto;
De quatrella nella gamma retornò feruto.
Qualunca accompagnasselo retornonne storduto.
Uno bon capetano dentro in Aversa stava,
Missere Jacobo Pignatella per nome se chiamava;
Era prompto et galliardo, la terra ben guardava;
De re et de soa gente poco se curava.
Bene è la veritate che fodero non aveva
Che potesse durare con la gente che havea;
Mandò alla regina con tale dicerea:
Ca lui rendea la terra, se no llo soccorrea.
Missere Loyse et lei lo termine li dero:
Se per fi ad tanti jorni non soccorre de vero,
Multo sforzatamente, con adjuto plenero,
Che agia libertate, secundo suo mistero.
Lo termene fo juncto, et fodero non avìa;
Adrennìose con patto allo re de Ongarìa;
Entrosenne dentro con soa cavallarìa;
Le cose che trovaronci mandaro ad mala via.
Poy calvacò verso Napoli; credease dentro intrare;
Fecenne plu volte prova; no vi possette appojare.
Napoli stava forte da potere contrastare;
Operseno la porta per dentro lo pilliare.
Stanno così lo re, uno misso li è giunto
Da parte dello papa: che non se figa puncto,
Ca era contra alla Ecclesia, como dice lo conto,
Et lui volea congnoscere la questione ad punto.
Et anco c'era uno punto: che erano scortati
Allo re li denari per pagare li sollati.
Consillio abe con li Ongari; comensaro li tractati
De partirese per truga, per non gire scornati.
Levòse dello campo, ad Roma se nne gio;
Per scusa à de gire all'anno jubilìo;
Et dixe alli sollati: «Ca là vi pago io».
Poi cerco la Ecclesia privato se partìo.
Li cunti et li baruni, che erano scoperti,
Quando lo re partìse, tenéanose deserti;
Ad missere Loysce tucti se foro proferti,
Che gevano alla obedientia, se da lui erano certi;
Che lui li perdonasse la loro grande offenza;
Tucti li promettevano de fare la defenza
Ad qualunca li era contra, ad tucta loro spenza.
Sì che li fo perdonato senza farevi contenza.
Non vi conto per ordine lo facto como è stato
Dell'opera dello regno quanto fo tribulato.
Remasero li sollati colli Ongari allo lato;
Terra de Labori con Pullia l'à pariato!
Alla nostra materia me vollio retornare.
L'Aquila è ben passata, secundo che me pare,
Et, quanto ad l'altro regno, ne potemo laudare,
Et quilli che ne ao adjutati potemo regratiare.
Lo magio poy che venne, poi lo anno jubileo,
Vidi gran novitati, allo parire meo:
La festa de san Petro, confessore de Deo,
Cescasuna Arte a ssimiti, collo presente seo.
Soli dui dì o quattro nanti fo devisato
De fare questa festa ad san Petro biato,
Che lo communo de Aquila li sia recommandato;
Tucte le Arti adunate vidi nello Mercato.
Perché fo multo breve, dico, quella adunanza,
Dico che de giullari avembo minuanza,
De tucte le altre cose abembo ad abundanza;
Tamanta fo la offerta, dicovi per certanza:
Fra cera, denari et panni che forno presentati,
Fo facta la rascione, valse mille ducati;
Quattro bon mercatanti vi foro ordenati,
Quali pilliaro la offerta, non quilli tali frati.
Venderono questa offerta, et li denari servaro;
De fare la cappella l'Arti deliberaro;
Li quatro mercatanti sopra questo ordinaro;
Et de questo li frati tucti se contentaro.
Lo augusto poi che venne, forno facte le campane,
Dico, dello comuno, le quali so aquilane;
Custaro ducento once, questo la gente sane;
Non foro dallo popolo tenute mica care.
A pochi dì po questo, una lectera abembo
Dallo re Aluisce, la quale nui vedembo;
Fo lesta in Consillio, sì che multi l'odembo;
Intesemo lo tenore, in questa forma dicendo.
Lo tenore fo quisto lo quale vi dirragio:
«Gratia et benevolentia et bon coragio!
Et che ne fornessemo de ostieri et de forragio
Et de ciò che è bisogno, quanno io verragio».
Concessacosaché in Abruczo venea
Per cacciare li nimici che in lo pagese havea;
Et ad questa cità illo venire volea,
Et, se llo adjutavano, cha lui signore se facea.
Fo resposto alla lictera: «De vostro advenemento,
Per cacciare li inimici, cescasuno è contento,
Et nui ve forneremo de ciò che vi è in talento,
Delle persone nostre et de auro et argento».
Lo granne senescalco a pochi dì passone;
Annòsene nella Marca per genti che sollone;
Da parte dello re adjuto demandone;
Cinquecento florini l'Aquila li donone.
A pochi dì po questo, lo re venne ad Selmone;
Una lectera de soa parte in Aquila mandone;
Che lo conte con gente gesse li comandone,
O qui volea venire. Foli resposto: «None».
Foli dato ad intendere la nostra voluntate:
Che no llo volevamo, per cose trapassate;
Ca dubitavamo non facesse novetate.
Annòsene verso Chiete con le genti adunate.
Fovi misser Galiotto, ch'era gran caporale,
Con plu de mille barbute de gente naturale;
Tremilia barbute abe lo signore regale;
Annò verso Lanciano, poco li fece male.
Non abe bon consillio, ad dire la veritate,
De gire in quillo tempo; debe' gire la state;
Questo fo de novembero et d'octobro, sacciate;
Non duravano in campo, per la granne tempestate.
Gero ad Monte de Risci et là se pusaro;
Annaro poi allo Guasto, ma dentro non intraro,
Ca stava ben fornito; la battallia aspettaro.
Misser Galiotto et li soy in la Marca tornaro.
Po annò alla Guardia, ch'era de Napolione.
Missere Lucchino in Aquila per valestreri mandone;
Quatrocento peduni l'Aquila li mandone;
Foro tornati ad cento, ma Aquila pur pagone.
Et anchi quilli cento lo re non vedero,
Cha de qua alla Guardia tanto adascio gero,
Quatro jorni vi misero; or ecco vitupero!
Lo re era partuto, illi tornaro, de vero.
Quando foro tornati, foro male recolti;
Li denari che abero, tucti foro retolti;
Ponamo che se scusassero, loro erano sciolti;
Sopra loro conestavele lo gettavano molti.
Nui, per recoprire lo nostro fallemento,
Mandamovi sollati, oro et arigento
Con dui amasciaduri de bono parlamento;
Lo re lo dono prese, mostrando bon talento.
Lo conte monstrò voglia de gire a llui, sacciate;
Fónne facto Consillio, a dire la veritate;
Alcuni cosellieri dixero: «Che annate»,
Et alcuni altri dixero: «Se giate, non retornate!»
Fólli messa per alcuni una granne gelosìa,
Che, se llo conte annava, may non revenìa;
Mandòseli scusanno che gire non potìa,
Per li inimicy intorno che ad Aquila stagìa.
Poy se partì lo re, che era ad Monte d'Orisci,
Et revenne ad Selmona, appresso ad quisti pagisci;
Questo fo de decembero, de quilli fridi misci;
Dubitavamo nui Aquilani, ché avevamo offisi.
Appresso de Natale, ce venne in tentatione
De gire ad fare la festa collo re ad Selmone.
Annòvi gran brigata, lo floro de Aquila fone,
Et portaro uno presente; sexanta once custone.
La gente che vi gio, chi vole sapere quanta,
Senza li fanti ad pedi, foro plu de sexanta,
Ad tromme et ad cornamuse, como la storia canta;
Lo camborlingo pagava la spesa tuctaquanta.
Ad fare la reverentia denanti allo re gero;
Lo re li recepìo con bello biso alegro;
La sera commitaoli de jocare ad tabulero;
Poy che abero magnato, lo presente li dero.
La domane che venne, invitòli ad magnare;
De grado in grado feceli ad tabola adsettare;
Po che abero magnato, feceli calvacare
Co ello per Selmona, et bella festa fare.
La sera che venne, fecero un gran convito
Li nostri citadini, multo bello et fornito,
De multa bona gente, como io agio odito;
Et poy annaro ad corte, depoi che fo fornito.
L'altra demane che venne, annaro per lo conviato;
Voleano retornare, ma no lli fo donato;
Allora misere Roberto li abe favellato:
«Che vui no vi partate lo re à commandato.
Vole che ecco stete, ca vole fare la pace
D'Aquila in generale; così allo re place;
Manna per l'altra parte, ecco venire la face,
Ché sse faccia nanti a llui, ché non venga ad fallace».
Respusero li nostri: «Nui la pace volemo,
Ma devete sapire che farela non potemo,
Cha sta al conte et l'altri che là lassati avemo;
Più tosto, se tornamo, in ordine la mettemo».
Non valse lo contennere che non foxero prisi
Et tolti li cavalli con tucti loro arniscy;
Da cunti et da baruni ja non foro defisi.
Alcuni se appomisero, non tornaro paliscy.
La sera ad tucta nocte, da poi che fo sentuto,
Per alcuni che revennero a sperone battuto,
De quella granne dollia omne homo era storduto,
De quisto brutto caso che li era intervenuto.
Subitamente odivi la campana sonare;
Sonavano ad martello, odì remore levare;
Gridavano: «All'arme! all'arme, chi arme pò portare!»
Ad casa dello conte vidi la gente annare.
Poi cursero la terra gridando: «Viva lo conte,
Lo nobile signore che porta l'arme admonte!
Ad Selmona! ad Selmona! ponamo l'oste in fronte!»
Allo re ody dicere gran vituperii et onte.
La domane per tempo fo facto parlamento;
Una gran gente vidi ad quello adunamento;
Fo dicto et adringato lo granne fallemento
Che aveva facto lo re, per granne tradimento.
Fo dicto et affermato: «Giamo per li presciuni,
Che lo re non avesse de Aquila le soe intentiuni!
Anco facciamo tanti cavalieri et peduni
Che ponsamo resistere ad re et ad soy baruni!»
Fo questo deliberato: mandare per li soldati.
Subito foro recolti con denari prestati;
Mille once de denari però foro gettati,
In pochi jorny vidi che foro ben contaty.
Ad dire la veritate, lo re ce mannone
Più volte l'amasciata, et de ciò se scusone:
Che lui li non teneva per mala intentione,
Anchi per pace de Aquila, se essa fare se pone.
Noi ancora mantamboli più fiate li frati,
Et collo re retinnero più jorny li tractati;
Non posso recontareli, tanto forono regulati;
Alla fine oderete como fonno passati.
Ottocento once de oro pagambo ad mano ad mano;
Li presciuni foro dati al conte de Celano,
Che un mese li tenesse et foxene guardiano,
Et, se scangnare potesseli, anche li scagnavano.
Se fi ad uno mese la corona vinìa,
Ad Napoli lo conte mandare li divìa,
Et se fi ad uno mese la corona non gia,
Lo conte liberavali, et tucti li rendìa.
Lo mese se nne gio et la corona non venne;
Illi foro lassati et ognuno revenne;
Alegrecza facemmone sì como se adcommende.
L'altro mese che venne gran novitate advenne.
Dello mese de marzo la terra s'è sfondata,
Esso, de sotto ad Bagno, si fo questa lamata;
Et omne dì lamavase, et fo tanto largata,
Nanti non oscìo lo mese, che fo una bella strata.
L'altro mese fo abrile et venne la corona;
Per tucto lo regame ad granne novella sona,
Fónne grande alegrecza per la novella bona
Che se credea essere renata omne persona.
In Pasqua de resurrectione non se lla fece dare,
Anchi Pasqua rosata illo volse aspettare;
Li conti et li baruni si fece commandare
Et tucte le citadi che gessero ad jurare.
Li cunti et li baruni tucti gero ad jurare,
Le terre et li communi mandaro sensa tardare,
Et portaro denari, ciascuno como li pare.
Que fecemmo nui de Aquila no vi so recontare.
Fece invitare lo re Toschani et Marchesciani,
Et lo communo de Roma et principi romani,
De Marcha Trivisciana et anche Vennetiani,
Et de Lomardi forovi et anco Ceceliani.
Tucte le terre fecerono multe granni amasciate,
Mandarole allo re, gero multe honorate,
Et tucte presentarono denari in quantitate;
Et cavalero fecese chi n'abe voluntate.
La gente che nci annò non se porrìa contare;
Set non ad spalle strette non se potea annare;
Uno mese non se attese altro che ad festa fare,
Quando de fare giustra et quando de danzare.
Or vollio recontare che fece lo legato.
Nanti che lo re avesse coronato,
Da parte dello papa li abe commandato
Che lui perdonasse ad qualunca era incolpato.
Et, sopra tucto, ad questo fecelo jurare,
A llui e alla regina, che degiano perdonare,
Et nullo male merito non degiano redare;
Délli multi capitoli che degiano observare.
Quando allo re Aluisce la corona fo data,
Et la foxa de Vangno quando se fo sfondata,
Correa cinquanta dui, così è registrata;
La settima indictione correa in questa contrata.
Li cunti et li baruni dallo primo non gero;
Cescasuno dicea: «Non serraio io primero!»
Cha avevano multo offiso, non gevano volentero;
Ma infine tuctiquanti allo re obedero.
Lo conte nostro Lalle non gio per fi ad Natale,
Ca prima volse intendere se lo re era liale,
Se, poy che perdonava, se recordava male;
Poi fo multo honorato dalla corte regale.
Annò nanti allo re et fece reverentia.
Lo re nostro raccolselo con humile clementia;
Sappeli multo bono quando gio alla obedientia;
Menòlo ad Gajeta, et non con violentia.
Era loco la bria; lo re calvacò in fretta,
Et gio con multa gente, co lo conte ad Gajetta;
Fece la inquisitione, et poy fece vennetta;
Poy fece quella pace, ponamo che foxe asperetta.
Lo re tornò in Napoli; lo conte abe chiamato,
Che lui torne in Aquila, certe multo honorato;
Uscìli la gente innanti come re foxe stato,
Gridando: «Viva lo conte! Dio li dia grande stato!»
Omne campana sonò insemora la sera;
Ad cavallio et ad pedi jocambo ad gran lumera,
Tucti con grande troccie, ad gran turba plenera;
Plu che cento once credo che valesse la cera.
Questo fo de jennaro; lo magio po che venne,
Lo prencepe et li frati de Ongarìa revenne,
Et giosenne da Roma et de qua non venne;
Non agio misso ad libro per che cosa adivenne.
Io averìa dicto plu dello prencepe et de regali,
Ponamo che siano nostri signuri naturali;
Ad mi basta plu dicere le cose generali:
Li casi che son nati in Aquila in quisti temporali.
Anni mille trecento cinquanta quattro stava;
Venne una grande compagnia, che per tempo durava;
Contra Malatestini nella Marcha guerriava;
La settima indictione se scrivea et testava.
Et fo tanta gran gente che fora forte a contare:
Decemilia barbute odemmo rascionare,
Peduni quatromilia, gente de male adfare;
Dicevase che voleano in quisto regno intrare.
Fónne messa pagura, ad dire la veritate;
Facemmone Consillio plu volte et plu fiate;
Pensammo alzare le mura et avere gente sollate,
Et le robe da fore mettere na citate.
Et stanno in quisto penzo et in questa afflictione,
Missere Phelippo de Taranto venne allora ad Selmone;
Li cunti et li baruni d'Abruczo commandone,
Et la semana santa, credendome, questo fone.
Fece dui caporali sopra tucta la gente,
Ad fare lo reparo multo vigorosamente;
Nelle parti de Abruczo, allo plu adjacente,
Foro poste le frontere per loro immantenente.
Uno delli caporali fo lo conte de Celano,
Lo conte nostro de Aquila fo l'altro capetano;
Et co lloro chiamaro lo conte de Ariano;
Lo conte nostro annò ad Monte Salbano.
Poi li Malatestini stavano in quisto affando,
Ché vi erano durati dece misci de l'anno,
Pensaro con loro venire trattando
De dareli denari, se illi se nne vando.
Comensaro lo tractato, et tanto se tractone
Con frate Moriale, fi che complito fone;
Missere Satullio mbriaco loro vi mandone
Che recò la moneta et loro la donone.
Poy che foro pagati, verso Peroscia gero;
Et danno abe Peroscia, et alcuna casa ardero;
Finché se non accordaro, may se non partero;
Et poi se recattaro, che li fo più vitupero.
De giugno ad nove dì missere Philippo venne,
Et uno laydo caso in la venuta advenne,
Ché trovò uno homo morto nella strada dunne venne;
Et fónne assay dolente che appena lo sostenne.
Ad dire la veritate, nui ne vergognone,
Spetialemente allo conte multo ne li pesone.
Or venne ad Sancto Dominico et loco se pusone;
Li cunti et li baruni d'Abruczo ecco adunone.
Stando alquanti jorni, fece tractare la pace;
Lo generale d'Aquila dicea che allo re place;
Lo popolo menore dicea che li adjace,
Et alcuni dicevano: «Ad che modo se face?»
In fine fo resposto et dicto: «Ca volemo,
Ma ad che modo se fa, sapire lo volemo,
Ca dubitamo delli usciti che avemo».
Dice misser Phelippo: «Nui vi assecuraremo».
Or, como vui sapete, non è sì forte cosa
Come la gelosìa, né tanto dubitosa,
Spetialemente ad vollia che dentro sta nascosa,
Et l'omo che à offiso, non ne trova mai posa.
Così fo comenente allo conte et alla parte
Che ben se non fidavano, ferìano da parte;
Lo signore plu dicea: «Questo convè de farte;
Da poy che te assecuro, plu duro no mostrarte».
Poi che vede lo conte colli soy non potere
Resistere allo signore, monstròli de volere;
Dixe: «Ad che modo vengo volemolo sapere».
Missere Phelippo dixe: «Como è vostro piacere».
Per alecuno fo dicto: «Nostro signore verace,
Vengano como vollio, se vollio nostra pace,
Armati et dessarmati, meneno chi li piace;
Anchi se armati vengono, ad nui manco desplace».
Fo gito lo messagio che venissero armati.
In dì de santo Petro quilli foro plecati;
Nello Campo de Acciano vedemboli assellati;
Vennero fine ad Pile chi nanti era passati.
Allora lo conte fece de quello che sole fare:
Mandò per li casali et fé gente adunare;
La nocte nanti gita tucti li fece armare;
Quando vennero quilli, fece remore comensare,
Gridando: «Viva lo conte, et mora li tradeturi!»
Et corsero la terra, pareano fereturi,
Et multi ce gridavano che foro multo pejuri.
Sappe reo allo signore et alli altri signuri.
Corsero per fi alle porte co modo laydo et non bello,
Et ficero sonare la campana ad martello.
Quando lo odìo lo signore, o Deo, che stava fello
Quanto che chi li avesse dato de un coltello!
Parichi sottillianze foro prese da questoro:
Dero allo senescalco cento florini d'oro,
Et ipso li promise de remandare quelloro.
Calvacao et remandaoli senza alcuno demoro.
Or, su in quisto remore, el signore calvacao;
La porta della Varete serrata la trovao;
Era multo felone et multo se adirao;
Inverso la Rivera con gran ira plecao.
Quella porta medesma trovò che era serrata,
Et illo commandò che foxe speczata;
Non abero l'accepte, cercaro per la contrata;
Nanti vindero le chiavi, fo operta et spalaczata.
Quando uscìo della terra, quilli erano partuti.
Verso lo ponte de Vangno gio con sospiri acuti
Como chi è smarruto et perde soe virtuti;
Dalla porta de Vaczano rentrò como li muti.
Questo fo la domenecha; lo lunedì che venne
Collo martedì sequente, gran pena sostenne;
Et quillo martedì de lullo era calenne;
Fece carcare le some per partiresenne.
Lo mercordì a domane, a pponta dello jorno,
Stette ad odire la messa con soa famellia intorno;
Et calvacao con ira, ad mente avea lo scorno.
Et lo conte lo scorse, et gio senza retorno.
Quanno missere Phelippo se nne venne ad regire,
Calvacò tanto in presscia como chi in prescia à gire.
Lo conte nostro Lalle lo volse plu sequire,
Per fi de llà ad Baczano non se volse partire.
Quando fo inter la Forma, illo se commiatone;
Allora misere Phelippo ad illo se boltone,
Preselo per lo braccio, de poi così parlone:
«Non te porray partire, con me verray prescione!»
Lo conte li respuse: «Perché, signore meo?
Io so venuto et vengo allo commando teo».
Su in questo se trasse uno, de cotello ferìo
Su in canna allo conte, dall'altro lato uscìo.
Poi che fo facto questo, in prescia se partero;
Fi ad Civita Retenga in un momento gero;
Né mangaro né bibero per nesciuno mistero;
Per paura lassarolo; odi che vitupero!
Ad cavallio ad cavallio loco bibero un poco,
Con qualeche morsellitto, non vidanna de coco;
Et poy ne gero ad Popoli, et loco se dero loco
Per fi che se lli cocesse la vidanda al foco.
In hora dello vespero rejunsero ad Selmone.
Per multi li fo facta granne reprehensione;
Diceano che era quasi modo de traditione;
Chi dicea: «Bene à facto!»; fóve contentione.
Retorno alla materia. Quando lo conte morìo,
Missere Jannotto stavaci et loco stava Orrìo
Et altri soi parenti et amici che lo sequìo.
Quando questo videro, cescasuno fugìo.
Como gente sconficta revennero fugendo
A sperone battuto, corrottando et plangendo.
Uno gran remore levòse, la gente lo sentendo;
A dire la veritate, gran corrotto facembo.
O per ira o per poco sinno che foxe stato,
Corse gente ad Palaczo et hebelo derrobato;
Et quilli che la soma prisero et abero furato,
Et plu allo communo per collo fo gettato.
Pure de nostra materia qui vollio sequitare.
La gente era stordita, non sapea che sse fare;
No vi era signore, no vi era caporale,
Et per alecuni felli era gran menacciare.
Non avevamo capo né avevamo capetano.
Piacque a Deo che tornasse lo conte de Celano;
Multa gente gio ad illo per plu consillo sano,
Pregarolo che alcuni jorny ne foxe guardiano.
Lo conte ne respuse con cotale latino:
«Io vollio essere con vui così né plu né mino,
Non como vostro capo, ma como citadino,
Et sempre trageragio con vui ad uno fino».
Poi gemmo ad San Francisco ad fare parlamento.
Facemmo sexantotto homini ad bono complemento,
Che devessero avere Aquila ad regemento.
Promiserolo de fare per loro sacramento.
La prima cosa che abero quisti ad devisare
Fo ad missere Felippo l'amasciata mandare,
Che lo capitanio de Aquila li piaccia remandare,
«Et ciò che à perduto li volemo mendare».
Denanti ad miser Phelippo li amasciaduri gero,
Et illo recepìoli con bello viso alegro;
Dixe che lo remanna in Aquila volentero,
Et proferseli de ciò che li era mistero.
Lo sabbato sequente poy che quello era stato,
Lo confalone ad gilli de fore fo cacciato;
Li Sessantotto armarose ad guardare lo mercato;
Le laude dello re tucto dì fo gridato.
La semana sequente lo capitano tornone
Povero et scompagnato, ca derrobato fone;
Facemboli famellia, rendemboli lo pennone;
Et li Otto che avevamo denari li prestone.
Poyché refó in offitio, lo capitano dicea
Quello che li fo tolto, che lui lo revolea
Dallo comuno d'Aquila, che promisso li avea.
«Retoitello da chi l'abe», lo comuno respondea.
Collo Consillio d'Aquila assai fo contenuto
Che quilli lo rendessero che lo avea raputo;
Et alcuni nostri homini a llui facevano adjuto:
Che lo paghe lo comuno, ca frosteri lo à avuto.
Trecento florini d'oro lo capetano chiedea,
Et quello che li era tolto dicea che lo valea;
No lo potte ottenere che lo comuno li rendea;
Prese un'altra via, la quale fo plu rea.
Propusero in Consillo, lo capitano laudanno
Che li era stato bono et liale, et lui recomandanno,
Et anchi alli regali, in quisto nostro affanno;
Facciaselly adjuto, poyché à 'vuto danno.
Non foro li Sessantotto ad quisto Consillo soli,
Forovi alcuni altri, ché capitano chiamoli
Che li foxero boni ad questo, adsai allesongoli;
Ma per li Sessantotto questo resposto fóli:
«Noi non potevamo nulla cosa deliberare
Dove corre moneta che se degia pagare;
Fayte li conestaveli et li massari adunare;
Alcuno adjuto farremote, se illi lo vollio fare».
Fo refacto lo Consillio et con lo parlamento;
Et non per li Sessantotto fo quisto arringamento:
Che allo capitano facessese adjuto et valemento;
Dui foro ad proferire florini d'oro duicento.
Lo capitano monstravase volere correcciare
Con quilli che contradicea che non se debia fare,
Ma ad le cento parti monstrava de pesare;
Con quella gara facta convenneli acceptare.
Poyché fo acceptato et non fo contradicto,
Remase lo Consillo et fece uno adicto:
«Se may homo Aquilano et dello suo destricto
May profere moneta, a ttorto né a deritto,
Moneta de comuno ad homo che sia nato,
Ipso solo la paghe, né tanto sia pregato;
Et sia pinto in Palaczo ad retruso voltato».
Notare Simone de Rogi de questo fo rogato.
No vi vollio plu dire de quisto laydo facto.
Retorno alla materia et de altro dico et tracto:
De frà Moliale reconto sou baratto.
Parea che ad quisto pagese venesse racto racto.
Fónne messa pagura, che multa gente avea
Et che alcuni de Aquila venire lo facea.
Fra questo meso gionse con tucta gente sea
Ad Roma, collo Tribuno, in soa forte ora et rea.
Non saccio per che modo allo Tribuno offese,
Et lui lo fece prendere; de augusto fo lo mese;
Fecelo decollare sensa fare contese.
L'anima soa tapina non saccio che via se prese!
A ppochi dì po questo, fo morto lo Tribuno
Ad romor della gente et dello suo comuno;
Alcuni dixe ad torto, ché male non fece niuno.
De resalliere ad Roma anco fosse jejuno!
Anni mille trecento quattro plu de cinquanta,
Quando regeano li Otto, dico, colli Sexanta;
Io credo che vi entraro quilli nell'ora santa.
Dirròvi la loro opera, como la storia canta.
Pocho nanti decembero, de quilli forti misci,
Mandaro l'amasciata allo nostro re Aluisci.
Certo privato gero et non gero palisci,
Sì che non foro sentuti per tucti quisti pagisci.
Per fortunale tempo, gero in tridici jorni,
Per le granne flumate dero paricchi torni.
Lo re stava ad Barletta, nelli pagisci adurni;
Lui con la regina stava in granni sogiurni.
Genno con l'amasciata li nostri admasciaduri;
Feceroli adsai honore tucti li gran signuri;
Et illi apertamente, como homini puri,
De Aquila accomandaroli li grandi et li menuri.
Nanty lo re annaro ad fare la reverentia,
Lo re li recepìo con multa soa clementia,
La regina mostròli granne benivolentia;
Comandaro che foxeli data sempre odientia.
In quell'ora lo re li nostri domandone:
«Como sta nostra villa? como se porta mone?
Avete fra vui pace, et sete in bona unione?»
Respusero che nci era alcuna descensione.
«Sì che nui semo missi, signore, quanno ad vui piace,
Ché vi recomandemo d'Aquila la generale pace;
Per vostra santitate omne bene se face;
Se vui fare la volete, non pò venire fallace».
Lo re respuse: «La pace fare volemo;
Credo che nanti multo tempo ce lla farremo
Et che multe gratie anchi vi concederemo,
Però che ad quella villa multo bene volemo.
Io so che quella villa si fo fondamentata
Per nostri nantenati, fo facta et ordinata;
Nostro avo et trabisavo sempre la hebeno amata:
Ciò che li petìo Aquila per loro li fo data.
Così intendemo fare nui semelliantemente:
Plu che null'altra villa nostra averela ad mente».
«Et così vi dico et replico certamente»;
Così la regina dixe in quell'ora presente.
Plu volte e plu fiate allo re gero ad petire
Che li faccia spacciare, che possano regire;
Lo re dixe: «A Fogia demane vollio gire,
Et là vi spacciaremo tosto, allo vero dire».
Ciò che vi fo contato non posso recitare;
Avevano la udientia, potéanoli parlare;
Et ancora alli usceri ficero commandare
Che no lli tengano uscio quando volliono intrare.
Abero tanto studio co lloro sottili arti
Che abero impetrate più privilegii et carti;
Principalemente una ve n'era ad capu de Arti;
Quando le abero, lieti tornaro in queste parti.
La sera de anno novo in Aquila plicaro,
Et questa bona admasciata ad questa terra arrecaro;
Quando Aquilani sapperolo, multo se nne alegraro;
Lo jorno de anno novo questo spalificaro.
Li nostri amasciaduri, che questo ago impetrato,
Cescasuno in suo essere dé essere laudato!
Se foxe bono communo, forrìano ben remeritato;
Io non posso più farevi: àgiolo registrato!
Sere Nicola della Torre uno de quisti fone,
Notare Jacobo da Foce l'altro se chiamone,
Et l'altro de Paganica, Coletta de Simone,
Et l'altro de Poplito, Cola de Petri, pone.
Avendo questa lictera, li Otto che erano allora
Le Arti fecero scrivere sensa più demora,
Cescasuna Arte a ssimiti, l'una dall'altra sflora;
Le genti sì lete foro che l'uno l'altro honora.
Poi che questo fo facto, lo Consillo adunaro,
Et, lo sequente jorno po Pasqua de jennaro,
Fra li altri dece elessero, como illi conselliaro,
Lo capetano co lloro, in cinque li refrenaro.
Li Otto sedeano ad alto, ad basso reaballaro;
Li Cinque resalliero et lo offitio juraro.
Fóvi granne alegrecza et le tromme vi sonaro;
Le laude dello re tucta gente gridaro!
Uscemmo dello Palazo tucta la gente intanno,
Et collo capetano laude ad re gridanno,
Et le campane nostre dello communo sonammo,
Gemmone allo viscovato, collo capitano annammo.
Staemmo alla messa, et lo episcopo predicao,
Et multo devotamente la gente lo scoltao;
La pace generale che se faccia pregao,
Et qualunca vi sse opera, quaranta dì donao.
In quillo dì li artifici le pontiche inserraro
Sì che per quillo jorno le Arti non laboraro;
Tucte campane de Aquila la sera se sonaro,
Et tinnerole tanto che tucti ne assordaro.
Lo lonedì sequente poi Pasqua de jennaro,
Tuttequante l'Arti inseme se adunaro
Et gerono ad Palaczo et loco se assettaro;
Li Cinque collo capetano cinque homini chiamaro.
Ad ciascuno de loro uno confalone fo dato,
Dicenno: «Prindi quisto, che sia ben guardato
Ad honore dello re, anchi de bono stato
Dello communo d'Aquila, che may non sia turbato!»
Lo capetano, poi questo, si li abbe ad commandare,
Ad pena de traditione, et feceli jurare,
Che ad omne remore che foxe lo degiano cacciare,
Et tuctequanti le Arti lo degiano sequitare!
«Viva lo re!» gridava allora omne manera.
Gemmo allo viscovato con gran turba plenera,
Facemmo dire la messa con singulare lumera;
Predicavi lo viscovo della Scriptura vera.
Da poy fo misso in ordine che cescuna Arte gesse
Al nostro viscovato, all'ora delle messe,
Collo pennone innanti, et omne homo offeresse,
Omne Arte una domenecha, como se lli venesse.
Ad pochi dì po questo, la granne compagnia venne,
Et passò per Abruczo; da Santo Flaviano tenne;
Quilli lassaro la terra, tucti fugerosenne;
La roba che trovarovi chi mellio pò ne prende.
Passaro poy la Pescara, ca non era guardata,
Abrusciaro Spoltoro, la gente renegata,
Et corsero fi in Civita; era bene inforzata;
No vi possettero offendere, ma corsero alla strata.
Poi arsero Pescara et gerono a Lanciano
Et poserovi l'oste, in quello bello plano;
Lanciano era inforzato; bene se defenzano;
No vi appredaro tanto che vallia un ancontano.
Ferero nella Guardia, lo Palliaro abrusciaro,
Menàronne presciuni, li quali se recattaro;
Et po gero allo Guasto; per forza lo pilliaro,
Occisero multi homini et tucto lo robaro.
Prisero Monte d'Orisci; poi gero ad Civitate;
Missere Roberto Caraczo vi lli mise, sacciate;
Fecero granne danno, ad dire la veritate;
Poi gero ad San Sivero, alle belle contrate.
Poseroly l'oste adosso et forte l'assediaro;
Quilli de San Sivero ben se li repararo;
Quella malvascia gente plu volte li assaltaro;
Benedetto Yesu Christo, poco vi guadangnaro.
Lo duca de Duraczo allora se scopreo,
Ché lui venne nell'oste collo exerceto seo,
Et lo conte Paladino co illo allora geo;
De bestia et vittuallia assai li compareo.
Le insegne della Ecclesia lo duca fé alsare,
Ma non fo per lo papa, féla contrafare;
Con quello se credea la gente ad sé tirare,
Dicenno che lo papa facea l'oste fare;
Dicendo che lo papa l'aveva ja chiamato;
Non era comparuto, havealo condempnato,
Lo regno à interdicto, lo re scomenecato,
Et anco dello regno lo re ne à privato.
Questa è la veritate, che avemmo lo interdicto;
In santi Marci venne; omne homo ne gea afflicto;
Entrava homo in ecclesia, uscevanne sconficto,
Non potenno vedere Yhesu Christo benedicto.
Quaranta cinque jorni questa pena durammo;
Chi intanno se morìo in santi no sotterrammo;
Senza clirici, nelli renclastri, loco li atterrammo,
Et sensa cruci et ciri; o che pena portammo!
La fede dello re però non fo mancata;
Ca sapevamo bene che soa colpa non è stata,
C'à havuto multo ad fare per la granne brigata,
Et anchi per Cecilia, la Ecclesia n'à pagata.
Ad sette dì de jungno vene la benedictione,
In la festa dello Corpo de Christo questo fone,
Ad trecento cinquanta cinque, della ottava indictione;
Pensa quanto de questo la gente se alegrone!
Retorno alla materia della malvascia gente.
Venne lo gran senescalco multo pietosamente;
Annunziò in Consillo tucto questo convenente:
Che lo re volea commattere co lloro certamente.
Illo colla regina, con cuncti et con baruni,
Contesse et baronesse, cavaleri et peduni,
Deveno uscire in campo ad fare le defensiuni,
Se tucti divissero essere morti in campo o presciuni!
Sì che lo gran senescalco così abe contato:
Dixe che volea gire per gente allo legato,
Et per altri sollati recolliere, così era mandato;
Tremilia credea averenne; così fo lo tractato.
In fine abe concluso: «Lo re manna preganno
Che voi lo sovengate, in quisto granne affanno,
De genty o de denari per sollati paganno;
Et stima che lo regno li vengate fermando».
Odendo quisto bisogno, avemmo deliberaty
Quatromilia florini per ducento sollaty,
Che della parte de Aquila foxero mandati;
Foro date le cetole, foro colti et pagaty.
Retorno alla materia de quella mala gente.
Gerono ad Manfredonia multo sforzatamente;
La terra era sfossata, no lli pottero fare niente;
A Foggia et a Nocera così similemente.
Et po gero verso Napoli, tucta la loro schiera,
Gero tornanno tucta quella bella rivera;
Ma cescasuna terra sì bene sfoxata era,
Nulla non ne pigliaro la gente ferostera.
Gero multo adtornando per Terra di Labore;
Ficero grande guasto per lo contado fore;
Preda et presciuni abero; fonne multo dolore:
Chi plangea li homini, chi mollie, figli et sore.
Era tanta la gente; danunca se posavano
Scortava lo forragio; non troppo vi duravano;
Salvo erba per le bestie, dell'altro male passavano,
Ché dell'altre cose assay care accaptavano.
Et posero lo campo alla fronte de Aversa;
Correano fino ad Napoli ad vespero et ad tersa,
Et homo assaltavano a dricto et ad traversa.
Poi se ne gero in Pullia quella gente perversa.
Lo duca de Duraczo et lo conte Paladino
Erano colla compagnia legati ad uno frino;
Gero ad San Sivero con granne exercito plino;
Commatterovi forti denanti al casalino.
Defiserose bene, no llo possero avere;
Gero ad Casale Novo con grande potere,
Priserolo et derobarolo, tolseno multo avere,
Et l'omini et le femene menaro a lloro volere.
Lo re venne ad Barletta et bene adcompagnato:
De cunti et baruni avea adcanto et allato;
Non erano ben savi fra loro, como era usato,
Sì che non potea essere lo re ben conselliato.
Da poi abe consillio, se lla possea squartare,
Che non foxero tanti, per avere mellio ad fare;
Comensaro lo tractato che voleano sollare
Dumilia barbute per in Cecilia passare.
Tennese lo tractato parichi jorni et miscy.
Chiedeano tanta moneta quilli male forisci
Che non ne avea tanta lo nostro re Aluisce;
Ma poi fo devisato che paghe li pagiscy.
Lo majure caporale avea nome conte Lanno;
Con ipso questa cosa vennesenne trattando,
Et tanto ce fo fatto che fo complita intando.
Da poy che fo complita, non fecero plu danno.
L'altro gran caporale si sse fecea chiamare
In hoste Mataraczo; non se volse accordare;
Con conte Paladino se nne gio ad stare
Et contra dello re refecese sollare.
Et poi se desfidaro ipso con conte Lanno;
Mandarose lo guanto per insemora justranno,
Traditore chiamandose l'uno et l'altro parlanno.
Lo re no llo consentìo per dubito de inganno.
Bene cento trentamillia fiorini devea dare
Lo re alla compagnia per termine pagare:
La prima paga in Pullia, nanti lo abiare,
La secunda in Abruczo, quando devea passare.
L'altra paga ad Firenza deve' essere pagata,
Menandose li stagi co lloro la brigata;
Alli passi li oscéroly per tucta la contrata,
Et comannò pagare denari per derrata.
Ad dire la veritate, nui pur pagura abemmo
Non tenissero de qua; lo Consillio tenemmo
Ad fare lo reparo, sì che ne provedemmo;
Tucte le vicenanse de intorno rechiedemmo:
Da parte dello re et de tucti Aquilani,
Se venissero da Aquila li renegati cani,
Che nne mandeno adjuto et boni fanti sobrani,
Anchi de cavaleri che siano franchi et sani.
Le terre et li baruni tucti se proferero
De gente nominata allo nostro mistero,
Et che all'altre cose lo farrao volentero.
Facemo quatro persone che ad provedere gero.
Nanti che la compagnia in Abruczo venne,
Facemmo la sticcata in la Forca de Penne;
Dui milia peduny quello passo mantenne
Colla gente ad cavallo che l'Aquila retenne.
Cinquemilia florini devevamo pagare
Per tassa dello re, per alla compagnia dare.
Mandò lo re in Aquila che debiamo mandare
La moneta in Abruczo, ché là volea pagare.
Però che quella gente era sì dellegiata,
Che non se potea fidare in loro persona nata,
Intrambo in un dubio: po che foxe pagata,
Se sse revolta in Aquila, serrà male derrata!
Alcuni conteneano: «Se pagati serrando,
Chi li tollie la pena, se verso nui verrando?
Forcia che con lo nostro la bria ci darrando.
Démoli alli sollati che ncy defenderando!»
Alcuni diceano: «Mellio è che li paghemo;
Ad re non offendamo, se nui lli perdessemo;
Ché lui con la compagnia contra de nui averemo.
Paghemo la moneta, et nui ne acconcemo».
La moneta era colta et era segellata;
Dicembo allo misso: «La moneta è assettata;
Nui vi damo lo banco che in Ascoli vi sia data,
Da poy che la compagnia serrà tucta passata».
Non potemmo contennere plu che non pagassemo,
Ché dicea lo misso: «De questo certi semo,
Ca nui avemo li stagi, accertare ne potemo».
In fine nui pagammo, né tanto obstassemo.
Del mese de augusto la compagnia ne uscìo
Et fo fore dello regno, che lli maledica Dio!
Correa li anni Domini, sì como scrivo io,
Trecento cinquanta sey, quando ella se partìo.
In quisto anno medesemo revende lo interdicto;
Lo lonedì poy Pasqua abembo quisto adicto;
Non potembo vedere Yhesu Christo benedicto;
Omne homo in quillo tempo era dolente et tristo.
Lo augusto poy che benne, uno desdigno nacque
Tra Baczano et Paganeca, lo dìne me despiacque,
Et fóvi facta cosa la quale no adjacque,
Ca alli boni increbe et alli rey si piacque.
In dì de santo Michele la benedictione revenne;
Per fi ad san Vincenti in lo regno se tenne.
Poy fomo reinterdicti, et tanto se sostenne:
Passammo quadragesima et de magio calenne.
Correa mille trecento cinquanta sey passati;
Dello mese de novembero, ad nove dì consumati,
Fo una gran novella, intennete, cari frati,
Che abe lo re Aluisce con Messcina tractati.
In quisto dicto dì, lo re et la regina
Stavano in Calabria adpresso alla marina;
Vennero granni missi a lloro una matina:
Che vadano ad pilliarela, ca se lli dà Mescina.
Lo re non fo lento; tostamente mandao
Lo gran senescalco, et ben lo accompagnao.
Fo recolto in granne festa, et la terra pilliao;
Tucte le fortelliczi per lo re guardao.
Lo jorno de Natale lo re intrò in Miscina;
Fóvi facta gran festa de sera et de matina,
Gridanno: «Viva, viva lo re et la regina!»
Entrò cinquanta sette, como me sse declina.
La benedictione allora lo re fece revenire;
Ch'erevamo stati interdicti, sì como odesti dire,
Che may gratia da papa non potembo invenire.
Anni cinquanta sette, no vi credo mentire.
Venne Pasqua rosata; lo re se incoronao
Nella nobile cità che Palermo nomin' ao;
Granne festa vi fo facta, sì como se contao;
Messina con Palermo cescuna lo presentaro.
Alli otto dì de magio abemmo la benedictione;
Ad Santo Vettorino in primo anuntiata fone,
Che era santo Angelo; lo misso la portone;
Fi in calende di settembero quella gratia durone.
Ancora vi vollio dicere de alcuno sbenturato
Che nacque in male punto, che dé essere dannato,
Che sempre allo male fare sta più ostinato:
Non fina lo diabolo per fi che l'agia scirvicato!
Spetialemente dicolo per lo tristo mischino
Che era Soprericco, conte de Minervino;
Fecese cangnare lo nome et dicere Paladino;
Non fo de casa Francia, fo de messere Janni Pepino.
Uno lungo tempo prese ponta collo re Roberto,
Et plu lo avea ad niente che uno suo paro pro certo;
Lo re fo tanto savio et contra lui sì sperto
Che lo mise in prescione, che ne fo digno et merto.
Feceli lo processo et tucto per rascione;
Li judici condempnarolo ad perpetua prescione,
Però che era stato ad granne rebellione.
Mintri lo re visse, may lo non liberone.
Poy se morì lo re, remase lo re Andrea;
Era multo garzone, omne cosa credea;
Gisenne alla prescione colla persona sea,
Trassenne lo Paladino; non vide che facea!
Poy fo ucciso lo re Andrea, et fo un granne peccato,
Sorse lo re Aluisci et fo re coronato;
Et contra se lli voltò, lo tristo sbenturato,
Collo duca de Duraczo si sse fo accompagnato.
La granne compagnia misero nello regame intanno,
Capitanata et Pullia andaro desertando;
Omne pagese intorno paura n'habe et danno;
Quilli de loro setta se nne gevano alegranno.
Lo re Aluisce fo savio: la compagnia cacciao.
Poi allo Paladino la soa forza manchao,
Lo prencepe con ira sopre se lli voltao,
Féli l'oste adosso, intorno lo assediao.
Mai l'oste non partìose per fi che sia pilliato;
Et fo posto in una asena et su vy fo legato,
Scalso et in capilli, et nudo fo spolliato;
De corona de carta da poy fo coronato.
Così dessonerato per multe piacze gio;
Chi ben li volse o male allora lo sequìo;
Menarolo ad Altamura, como agio odito io;
Denanti ad quella terra lo appiccaro, et morìo.
Però fo coronato, ché dice che dicea
Che illo re de Pullia chiamare se devea.
Non potea remanire secundo l'arte sea.
Dello male che tanto à facto che farrà l'anima rea?
Anni mille trecento cinquanta sette è stato
Quando lo Paladino fo morto et appiccato,
Dello mese de decembero, sì como vi è contato;
Et chi ne fo scontento et chi ne fo alegrato.
Consellio et recordo de doctrina bona:
Che nullo, sia sì alto né granne, che se pona
Contra dello suo signore, spetialemente ad corona,
Et quilli che l'ao facto plu male se nne trova!
Ad pochi dì po questo, fo morto lo fratello,
Ché uno conestavele l'occise de coltello,
Però che apposeli che era traditore et rebello.
Lo imperadore sappelo et prese suo castello.
Anni mille trecento cinquantotto correa
Quando lo re Aluisce in Napoli stegea;
Visò de venire in Aquila, ad questa terra sea,
Però che lungo tempo gola avuta ne avea.
Or venne fi ad Selmona, poco nanti lo Perduno;
Certe granne acconcime fece nostro conmuno.
Volenno venire in Aquila, fo dicto per alecuno:
«Signore, set non annate geco, l'Aquila lo à per gran dono.
Però che multa gente, romeri et mercatanti,
So venuti allo Perduno, non porrìa dire quanti,
Sconciarete loro asci; tardete jorni alequanti;
Et poy ne giamo in Aquila con gran festa et canti».
Lo re prese consillio et non venne lo 'ntanno,
Sì che per quilli dì lo re venne infermando.
Nui facemmo la feria, et pur lo re aspettambo;
Cescasuna Arte ad simmity per fareli honore acconciambo.
Foro prese l'ostiere tante quante parìa
Che foxe bene adascio colla soa baronìa;
Facemboly lo pallio como se commenìa,
Et sempre lo aspettambo, pur quale hora venìa.
Poy fo misso sconpenczo ad tucte vittuaglia
De pane, vino et carne, et orgio, fieno et pallia,
Et fo posto l'assetto ad tucti quanto vallia,
Et foro trovati lecti senza bria et travallia.
Lo re fo più infermato; ad Napoli fo dicto
Che lo re stava in morte et stava multo afflicto;
Lo imperatore sentendolo, non stette punto ficto,
Venne verso lo frate como homo traficto.
Trovòlo melliorato, quando jonse ad Selmone.
Lo inperadore in Aquila venire devisione;
Prese combiato, et lo re li lo donone;
Mannò innanti li foderi et le some abione.
Facemmo l'altro pallio nui per lo imperadore,
Et devisò lo communo de fareli multo honore.
Lo re mutò consillio, che non venesse allora;
Félo retornare, et abelo in dessonore.
Lo inperadore, vedendo che ipso era abiato
Et fo facto tornare, sentease scornato;
Partìose da Selmona et non prese combiato,
Calvacò verso Napoli non poco correcciato.
Lo re gìli dereto per farelo tornare,
Senthìalo correcciato, volealo rapacare;
Ma no llo potea jongere; fé nanti calvacare
Alcuni delli soy per farelo voltare.
Lo inperatore pertanto già non se revoltone,
Anchi intenno che irato a lloro muctione,
Et multo fortemente lo cavallo broccone;
Non se fixe niente fi che in Napoli fone.
Lo re non era sano, et pur volea venire;
Li medici li dixero: «Signore, non gire,
Ca, se cangnate agero, como è nostro sapire,
In pericolo de morte porrete vui cadire!»
Lo re de non venire allora deliberone;
Lo gran senescalco in Aquila mandone,
Anchi missere Gorello che suo compagno fone;
Da parte dello re agiuto adomandone.
Fé fare lo Consillio, et abe petuto et dicto
Che lo terzo dello adjuto volea per lo interdicto,
Et terzo per la Provensa, dove era connestritto,
Lo altro per la compagnia, per fare reparo a fficto.
Non posso recontare lo facto como gio;
Ottomilia florini l'Aquila proferìo.
Con questo l'amassciata allo re regìo;
Obligaro la moneta como che lui petìo.
Ad pochi dì poy questo, fecela portare;
Dicea che allo papa la volea mandare;
Allo veceré ne fece mille fiorini dare,
Ché volea Marchesciani da Pescara cacciare.
Anni mille trecento et più cinquanta nove,
Dello mese de marzo, venne cose plu nove
Che may odesse in Aquila et anchi né altrove;
Sì che convene che questo per rima dica et prove.
Sorse uno granne dubio della granne compagnia.
Capo fo lo conte Lanno con gente della Mangnia,
Et fórovi Lomardi, Toscani et de Romania
Et de multe altre parti, de mala gente grifagnia.
Vennero primamente in lo contado de Firenza;
Florentini pararoselli et ficero tale defenza
Che uno caporale occisero con tanti; questa penza:
Che foro plu de trecento, che abero gran perdenza.
Et presero lo conte Lanno ferito et sticcato;
Per dui milia florini si se fo recattato;
Radunò la compagnia et tirò in altro lato.
Deo li faccia de male ad quilly che l'ao lassato!
Tante gente adunoselli ad quillo conte Lanno,
Quaranta milia persone dicease che erano intanno,
Et tucta mala gente da fare male et danno.
Omne terra de intorno per loro geva scomborando.
Or vi diragio de Aquila che lli fo commenente.
Fóvi misso gran dubio de questa mala gente;
Che qua volea venire dicease veramente,
Per lo contado nostro che era ricco et possente.
Foro facti gran Cosilli, et fo deliberato
Che sse faccia li fuxi; coscì fo comensato
Per quilli della terra, et non per lo contato;
Parichi dì per questo non fo in altro operato.
Inserrammo le porte; nullo non potea uscire;
Ad nullo altro adfare l'omo non potea gire
Set non ad fare li fuxi, per soa parte fornire;
Tanta gente vi stava che non se porrìa dire.
Anco fo misso in ordine et fo deliberato
Che sia remessa la roba de tucto lo contato;
Quisto banno odìo io mettere nello Mercato:
«Che omne homo remetta!» così fo commandato.
Fórovi facti li homini che alli casali gessero
Ad fare la inquisitione et lo grano scrivessero;
Et poi li commandasse, et venire lo facessero,
Ad pena dello foco et tucto lo perdessero!
Or chi vedesse robba per omne parte venire,
Non se porrìa contare né gio lo porrìa dire;
Chi grano et chi farina, per soa vita guarire,
Et tucta massarìa, chi mellio pò fugire.
Ad omne porta stava continuo dui scripturi
Che scrivevano le some che recava altrui
De grano et de farina et tucti altri lavuri;
Et venìali ad fatiga de scrivere amedui.
Innanti fo visato le turri coperire;
Foro date alli mastri che le degiano fornire;
Chi stava ad laborare, chi stava ad mandire,
Et chi colli trayny facea legni venire.
Mille florini d'oro lo coprire custone
Colli plancati facti che mistero ne fone,
E collo resarcire delle mura che besognone,
Et anchi collo ferro che le legna chiovone.
Erano nanti dati li centimini ad fare,
Ché le nostra molina se non poteano guardare,
Ché ad quisti centimini se potesse macenare,
Intrementi alle molina non se degia finare.
Or chi vedesse prescia che era alle molina!
Nocte et dì non finavase per la granne agina;
Li molenari alli homini regeano in de schina,
Et de macenare forte nullo se fengnìa.
Dicto agio li centimini et non agio dicto quanti:
Foro deliberati quaranta macenanti,
In omne quarto dece; fo vuto a Deo et ad santi,
Se dice che custaro mille firini contanti.
Con tucto quisto acconcime, gran paura avevamo,
Non tanto della terra, ca ben defendevamo,
Ma de tenere li passi non ne confidavamo;
Se intravano in contato, gran affando avevamo!
Or lo conte de Nola, quanno in Abruczo venne,
Fo facto veceré d'Abruczo, Chiete et Penne;
Quatrocento barbute li foro date, che tenne;
Nui vi facemmo lega, ma male ne lli avenne.
Mille firini d'oro ad usura tollemmo
Per dareli alli sollati che però recollemmo,
Ché ne lli toccò ad parte, como li comenemmo;
No lli lassaro gire alcuni che ecco abemmo.
Mannòli lo commandamento che nui li mandassemo,
Ad pena de mille oncie, como promisso avemo;
Mandàmoncy li scindici ché ne defendessemo;
Feceli condempnare, né tanto facessemo!
Essenno condempnati, abe cetto ad devisare:
Le bestie che aveva Aquila in Chiete fé pilliare;
Adsay vi contennemmo, non potembo altro fare
Che mille altri florini non se facesse dare.
Lectore, anche recordate, che ad mente te llo rechi:
Per granne cortesìa, guarda lo teo non sprechi;
De vino grosso vivi, se non ày delli grechi;
Beato chi à un ochio in terra delli cechi!
Quisto proverbio in Aquila sacciate ch'è veduto:
Quando missere Burello in Aquila fo venuto,
Quanto petì in Cosillio, tanto abe ottenuto;
Et tanto cechi fommo, ognuno fo surdo et muto!
Uno adaminto ad Aquila allora ademandone
Et dixe che allo re fo promisso a Sselmone;
Et non fo nullo ascottiante che dicesse de none!
Uno adaminto in Aquila in otto dì colto fone.
Dixe che la moneta lo re volea mandare
Alla Ecclesia de Roma, ché la volea pagare,
Per lo nostro interdicto per farelo levare,
Et che la benedictione de llà degia mandare.
Alli mille trecento cinquanta nove contati,
Dello mese de decembero, ad dicissette dì intrati,
Venne la benedictione; intendete, cari frati;
Omne ecclesia sonò, tanto fommo alegrati!
Se fommo multo alegri, certo rascione avemmo:
Tre anni et quatro misci la missa non odemmo,
Né llo Figliolo de Dio colli ochi non vedemmo,
Né nullo nostro morto in ecclesia non misemmo.
Voi sapete dello morto che commenente n'era.
Alla casa dello morto se appicciava la cera;
Quanno ad santi portavase, ramorease la lumera;
Geano per fi ad santi, tornavano in primera.
Li ciry che erano apprisi, li homini li servavano
Per fi alla benedictione; ad preti no lli davano;
Li frati colli chlirici necessitaty ne duravano,
Ca non aveano cera, né de messe non guadagnavano.
Alli mille trecento et anchi plu sessanta,
Ad dece dì de magio, che lo roscingnolo canta,
Fo facta festa in Aquila novella, bona et santa,
Dónna fo molto alegra la gente tuctaquanta.
La festa che fo facta, fo allo vescovato,
Et fo per santo Maximo benedicto et laudato,
Che venìa de ottobro, che era homo affandato:
Chi cobelli facevavi, era scomonicato.
Erano tre faccende in quilli tempi ad fare,
Et tucte necessarie, che non se poteano innutiare:
De vennegnare le vigne, pistare et recare,
Sflorare la soffrana, arare et sementare.
Poy che queste facenne era necessitate,
De cento, tre persone non erano campate
Che per qualeche faccenda non foxe scomonecate;
Per regirese ad benedire era una gran pietate!
Paulo, nostro episcopo, misese ad ymaginare,
Una, perché la festa non se possea guardare,
Et l'altra, ché alla gente omne anno era ad penare;
Pensò se questa festa potesse transmutare.
Fé fare uno gran Consillo dentro allo viscovato
De tucti soy prelati et savi dello clericato;
Fé fare questa preposta, et fo determinato
Che translatare potesse, senza nullo peccato.
Remiselo in Consillio, in Palaczo del communo,
Che translatare potesse senza peccato alcuno;
Ly consellieri accordarose, no llo contradisse niuno:
«Facciase», tutti disseno, «con grande festa et duno!»
Visaro de fare la festa ad dece dì de magio
Per lo facto et per lo modo como vi contaragio.
Ad una ad una l'Arti gero per uno viagio,
Tucti colli ciri in mani de uno paragio.
Et lo communo offerse li ciri che solea;
Tucta la corte ad simmiti colla famiglia sea
Offersero li ciri, ognuno como selea;
Lo camborlingo pagava co lloro et despennea.
Et anchi lo guardiano con ambo li notari,
Illi colli ciri in mani, et cirotti ad mandatari,
Anchi li trometteri con multi altri giurlari.
Fra tucte queste spese custaro adsay denari.
Quilli della fraterneta ficero gran presente:
Uno gran ciro offersero tucti communamente
Et cescasuno uno cirotto, et fo una gran gente;
Et uno ciro fé la Civita, lo quale fo bello presente.
Or vi vollio contare dello nostro chircato.
De tucte le castella ecco fo radunato,
Tuctiquanti parati, ognuno con suo prelato;
Omne eclesia arecò soa croce al viscovato.
Più de novanta cruci loco vidi adunate;
Lo sole vi ferìa et davavi claritate,
Parìa uno allustrare in tempo de meza state;
Poy multi confaluni ci vidi in veritate.
Era tucto coperto denanti lo viscovato,
Et factovi l'altaro, et lo offitio cantato;
Lo viscovo et lo abbate, cescasuno parato
Et ambo con le mitre, stavano cantu lato.
Sacciate ca in placza vidi stare tanta gente,
Dentro et de casaly, quando io pusci mente,
Tucte le altre cose ad me parsero niente.
Lo predicare odemmo multo devotamente.
Nanti venne alta nona che ne revennessemo,
Sì che tucta la messa complita vedessemo.
Dixe: «Lo nostro Patre tuctiquanti preghemo
Che nne guarde et defenda, in qualunca acto semo!»
Anni mille trecento et plu sessanta correa;
De novebero revenne la granne compagnea;
Tucto Penne et Abruczo omne jorno correa,
Et menacciava ad Aquila che correre ce volea.
Ad dire la veritate, nui pur dubito avembo;
Che remetta lo contado Consillo ne facembo;
Al capitano nostro questo comisembo
Con dudicy boni homini che in compagnia li dembo.
Non pottero una soma de roba fare venire;
Diceano allo capitano: «Vóilo sapire?
Non volemo remettere! nanti volemo gire
Ad parareli alli passy et co lloro morire!»
Lo capitano et li altri annaro alli passi;
Prese, in Forca de Penne, li passi alty et li bassi;
De fodero et de lena stavano bene grassi;
De bria che patessero, may non erano lassi.
Se dici: quanti foro che li passi guardaro?
Io agio odito dire ad quilli che vi andaro,
Senza li fodereri che la roba portaro,
Ottomilia persone; et così li stimaro.
Tridici dì vi stettero che non se nne partero,
Et ficerovi le case de legna, questo è vero,
Et stavano forniti de ciò che li è mistero;
Lo facto sappero quilli, giamay no lli assalliero.
Adsay gero rotianno; poco vi guadangnaro;
Adsay necessitati de mangnare duraro;
Capoccia de soffrana alcuni manecaro;
Non pottero resistere, la Pescara passaro.
Et passaro per l'acqua como desperati,
Ca li punti foro rupti et stavano guardati;
Adsay li passi chiesero, ma no lli foro dati;
Intenno che allo passare assay ne foro annegati.
Quanno fo tucto questo, non ne sappembo niente.
Ordinò lo Consillio de reflescare la gente:
Che Admiterno de fore vada communamente.
Allo primo commanno vennero immantenente.
Forrìa stata bella hosta solo li fodereri,
Et un'altra hosta fora, dico, li balestrery,
Et la majure fora quella delli baccoleri
Che gevano più de vollia che a lepori levereri.
De fine ad Sancta Plagia uno delli quarti andò:
Fo lo quarto de San Johanni; lo capitano trovò
Che se nne revenìa con quilli che loco fo,
Ca no vi fo mistero, sì che li retornò.
Lo quarto de San Petro ne venne da poy
Multo bello et accuncio, vollio sacciate vui,
De sey milia persone forno, aderambo nui,
Sensa li fodereri che foro mille li soy.
Vinnero un poco ad tardo; posarose ad Collemagio,
Et ecco reinforsarose de tucto bon forragio;
La demane per tempo prisero loro viagio;
Per fi allo Pogio gero con granne festa et gajo.
Trovaro lo capetano che se nne revenea;
Parseli multo bella questa gente che gea;
Feceli fare la mustra, ché vedere li volea,
Et poy se nne revindero tucta in compagnea.
[1360/1362] son. 15
Se noi fossemo un velle et unum nolle,
Spetialmente ad cose de communo,
Et amasse suo honore ciascaduno,
Et fosse stante et fermo et non molle,
Nui sederemmo sì bene in quisto colle
Como altra terra che sacciate ognuno,
Et dello chiaro non se farrìa bruno
Né suprarrìa alcuno matto né folle!
Non soffererìa mai tanto oltragio
Quanto ha sofferto et quanto se li face,
Né farìa tributo né homagio
Ad altri che ad lu re, como ce adjace:
Uno adaminto lu anno per usagio;
Et ciascun homo se vivera in pace!
Ma havemo certi noi nellu communo
Che, per bene nostro, cento non vale uno!
[1360/1362] son. 16Lassate uscire le parole de bocca,
Voi consiglieri che amate l'honore!
Quanno se leva alcunu dicetore
Che con malitia alla rinchera brocca,
Et lo contrario delle bone cocca
Con bon parole, con falso colore,
Contraditeli tutti con remore,
Ché non despiace a De' chi li rabbocca!
Et scusa havete, ché havete jurato,
Lu dì che consiglieri foste fatti,
De consegliare lo megliore stato.
Non concedate a superbi et a matti,
Perché ciascunu sarrìa prejurato!
De pena poi con Dio facerrà fatti.
Hor non sedate per muti e per tristi;
A chi mal dice, dite: «Mal dixisti!»
[1360/1362] son. 17
Oh alme sante ch'Aquila faceste,
Che tanta gente menaste in communo
Et tante gratie ce faceste et duno
Con molti affanni quali soffereste,
Deh, se rennuivasse Dio le vostre teste
Et fosse consigliero ciascheduno,
De quilli che hoggi vivono, nisciuno
Non haverìa loco dove voi forreste!
Se allhora alcuna gente iniqua e ria
All'Aquila voleva fare torto,
Per voi, allhora, non se sofferìa.
Quanto re Karlo fo savio et accorto;
Et più castella tolte li havìa;
Et homo non ne fo prescione o morto!
Et convenìa che pur lu re facesse
De quello che all'Aquila piacesse!
[1360/1362] son. 18La mala guida che l'Aquila ha hauta,
Hauta ne haverrìa, se voi fossete;
Sì bene, credo, che guidato haverrete,
Et l'Aquila non sarrìa così caduta
In tanti falli quanti, a mia paruta,
Per duppii modi, come voi sapete,
De tante genti et de tante monete,
A punti è stata la terra perduta!
Se solu penetuti noi fossemo
De tantu male quantu havemo fatto,
Et da hora innanti più non peccassemo,
Né pregiassemo né folle né matto;
Quanno home pecca, punir lu lassassemo;
Con Dio dello passato farrem patto.
Secunno che la mia mente rasciona,
Dio refarrìa questa terra anco bona.
Dell'altro anno sequente un'altra compagnia venne;
Foro Ongari li sollati che lo legato tenne;
Poy che li habe cassati, altri no lli retenne;
Ad dece dì de marzo foro in Abruczo et Penne.
Questa è la verità: ca nanti lo sappembo,
Certe plu gran dubio della compagnia habembo;
Continuo nella Marca nostra spia misembo,
Et de ciò lo Consillio plu fiate tenembo.
Per fare lo reparo venne lo vecerege,
Et fo lo conte de Nola, sì como vi sse lege;
Et commandò alle terre che ciascuno studegie
De gire allo reparo dannunca se delege.
Tucti cunti et baruni de Abruzo commandao;
Chi no lli tenne playto et chi lo sequitao;
Et lo communo d'Aquila con li altri caminao:
Ducento fanti d'Aquila in ciò deliberao.
Per pagare quisti fanti li denari colsembo;
Mandare li volevamo, et una littera avembo
Che non era mistero; et nui li sostenembo;
A pochi dì poi questo passaro, et nui li dembo.
Dallo conte de Nola la lictera revenne
Che erano passati in Abruzo fi in Penne;
In granne prescia in Aquila lo Consillio se tenne;
Nui mandambo la gente, sì como se convenne.
Ad quatro florini lo mese gere ducento fanti,
Et ad dudici lo cavallo et boni calvacanti;
Antono de Ciccarello, capo de tuctiquanti,
Dicessette once démmoli de florini in contanti.
Ad dicessette jorni de marzo se pagaro;
In domeneca de Palme quisti si se abiaro;
Non plu che junti in Penne, et quilli llà tiraro;
Regero verso Pescara, in prescia là passaro.
In jovedì santo passaro la Pescara;
Nulla gente de Chiete a lloro se non repara;
Però che erano tanti, non vi levaro gara
Né sse mettea ad reseco, chi havea la vita cara.
Civita et Ortona et Lanciano assaltaro,
Arsogna et la Guardia et plu terre assaltaro;
Prede et presciuni prisero de quilli che trovaro;
Poy passaro lo Sanguero, et de llà derrobaro.
[1360/1362] son. 19 O consellieri tristi et sciavorati,
Como vi fate ottare tanti mali
Ad Aquilani tucti in generali?
Pregano Deo che sciate desertati!
Però che vui vi sete male portati,
Ché avete refermaty li offitiali;
Non fate como li homini liali,
Ché avete li nostri statuti guastati!
Ad capitani, notari et camborlingo
Li date questa terra per molliera,
Ad petetione de quilli che vy lingo.
Quanno se leva alcuno nella ringhera
Con alcuna parola che vi pingo,
Tucti ammortete più che nulla fera!
Non lettere de re né gli statuti
Non vallio; or semo li male venuti!
Quilli medesmi se nne fanno gabe
Dicono che poco sinno Aquila abe!
Anni mille trecento sessanta uno correa;
Ad cinque dì de magio, venne in presentia mea,
Quando scorìo lo sole che tanto resplendea;
Parovisse la luna che lume li tollea.
Retorno allo exercito della grande compagna.
Per quisto regno tristo, se non foxe la magagna,
May venuti non forano d'Ongarìa né della Magna,
Né dannagiati non abera valore d'una castagna!
In quisto regno miseli le nostre dessentiuni
Che già so state tante fra cunti et fra baruni:
Chi tenea dallo re et chi dal duca alcuni;
Et non vollio plu spremere de più laydy sermuni.
Poy passaro in Pullia; gero multo rotianno;
Quando là et quando qua sempre gero predianno;
Lo duca faceali le spalle et géli sostentanno:
Illo per amor de questo non ne passò de banno.
De contare omne cosa fora granne increscenza.
Hor era tanta gente, lo re no vi avea valenza;
Restrense lo Consillio, et abe provedenza
Delli Ongari sollare et mandarel' in Provenza;
Ca loco avea la vria de un'altra compagna;
De multi pagisi erano, ma li plu della Magna;
Abingnone assediarono con tucta la campagna;
Correa la Provensa quella gente grifagna.
Or fece questa rascione: «Se serao squartaty
Che non foxero tanty inseme adunati,
Dannose adosso alli altri, illi erano sbaralliati».
Fece fare lo tractato et abeli sollati.
Quisti Ongari sollaty, lo re li abione,
Et ad omne passagio le littere mannone
Che li sia dato passo, ca ad suo servitio sone.
Li Ongari se abiaro, vennero ad Selmone.
A dire el vero, nui qualeche dubio abembo,
Ché erano ottocento; et anco altro sentembo:
Missere Phelippo in Marsci; et nui provedembo:
De dì et de notte l'Aquila ben guardare facembo.
Plu che quindici dì stettero da Selmona,
Per lo plano de Valve, chi de su et chi de jone;
Perché erano multi, intrareli non lassone,
Set non dà cento stagi che illi assecurone.
Lo re mandò le lictere per lo suo trasorero:
Che demo lo passo alli Ongari et ciò ca li è mistero,
Et illi comparavano derrata per denero.
Dixero li Aquilani: «Fecciamolo volentero».
Fo facto lo Consillio; fóli resposto et dicto:
«Ben che lo passo damoli per lo nostro destricto,
Ma lo duca del Ducato, che tè lo passo stricto,
Se passareli non lassa, tornarao qui dericto».
Ad questo lui respuse: «Ad lo duca sia mandato,
Pregannolo dall'Aquila siali lo passo dato».
Mannamovi l'amasciata, et hebelo renunzato:
Che passare non lassali, ché non piace allo legato.
Ad dire la verità, pur dubito havevamo
Però che dui planete da presso sentevamo:
L'una era delli Ongari li quali aspettevamo,
L'altra de misser Phelippo che non ne fidavamo.
Fra questo mezo venne misere Caraphello;
Lassò misser Phelippo che pilliò Capestrello.
In Aquila fecemboly granne honore et bello:
Cento firini demboli ché se compre un cappello.
Con nostri amasciaduri mandambolo ad Selmone
Al conte Nicola Ongaro, che li Ongari guidone,
Ché acconceno, como passeno, Amiterno et Forcone;
Como li comisembo, coscì loro acconcione.
Dixe che quillo conte in Aquila intrasse,
Che stesse per stagio, mintri li altri passasse,
Con alequanti Ongari, li mellio che menasse,
Ca li denari so in Aquila, et loco se pagasse.
Et dixe che li Ongari inseme non gissero,
Anchi delli ottocento dui parti ne facissero,
Però che per lo contado danno non facissero
Né li nostri vergogna né onta recepissero.
Lo conte li respuse: de ciò che li è petuto
De fare tutto all'Aquila; et questo in core ha avuto;
Et non lassare fare, per nisciuno partuto,
Cosa che incresca ad Aquila, ca non m'à deservuto.
Venne lo conte in Aquila con sessanta persone;
Trovò lo tesaurero, et ecco se pagone;
Dudicimilia firini de oro li contone,
Et ben pagò ad rotunno ciò che qua comparone.
Quatrocento ne vinnero in una compagnìa,
Et questo fo in vigilia de santa Lucìa,
Et quatrocento ne passaro di poi la festa sia,
Multo privatamente, dericti per la via.
Non passaro per la terra, ma fore dalle mura:
Da porta de Paganica, ma non per quella altura,
Per la valle de Collebrenciuni, et avevano pagura;
No lli bisognava, ca lo re li assecura.
Revoltàvanose ad Aquila, dico, spessamente:
Vedevano per le mura et dentro multa gente;
Passaro in granne prescia, non se fixero niente,
Non aspettava l'uno l'altro, né amico né parente.
Mannamboli la scorta per lo nostro terrino
Che dareli facesse órigio, pane et vino
Per lo denaro loro, como a lloro vicino,
Et vergogna non avissero: como nui, né plu né mino.
Parichi jorni stetteno ad la Vareta et ad Marana,
Et alla Posta stetteno più de una settimana;
Poi se partero, andaro verso Toscana;
Appresso se partìo lo conte dall'Aquila soprana.
Anni mille et trecento sessantuno corrìa
Quando passaro li Ongari che in Provenza gia;
Ma dice che dero volta, ché girevi non volìa;
Ad Florenza lassaro la scorta che loro avìa.
Como avemo lo bono jorno, così se vole parlare,
Et quando lo captivo, se vole despreczare;
Così con li cosellieri a nnui bisogna fare:
Quando conselliavano bene, li vollio ben laudare.
Questa è la veritate: plu volte vi so stato
Nello Consillio d'Aquila che vi è ben conselliato,
E pare che tucti tireno ad nostro bono stato,
Et multi boni mody; ma poi non son observati.
Correa mille trecento, sessantadui intraro,
Et fo lo primo mese, como è lo gennaro;
Allora parichi homini nella Camora intraro;
De refare li capituli tucti se accordaro;
Spetialemente ad nocze, ad morti et ad filliate,
Che no vi degiano avere altre genti adunate
Set non dello suo quarto; questo agia libertate;
Forcia li parenti in terzo grado, sacciate.
Quisti et li altri capituli che foro reformati,
Et chi no lli observa, che non se lli agia pietaty!
Tucto fora ben facto, se fussero observati,
La quale cosa non credo; che non siano guastaty.
[1360/1362] son. 20 Io me protesto de quisti statuti
Che so facti de nocze et de corructi,
Per refrenare nostri usati bructi,
Che poco tempo serrao mantenuti.
Ch'io me recordo per li giorni giuti
Che più volte so facty et poi so ructi,
Et all'usati ne semo raducti,
Et dello facto ne semo pentuty.
Quando li guasta alcuno majorente,
Se è chiamato che degia pagare,
Quillo manna lo pigno immantenente;
Ad pochi jorni se llo fa redare.
Lu poverello paga integramente,
Ché uno denaro non ne pò spontare.
Adunca serrìa mellio de non farely,
Poy che li grossy non vollio observarely.
Multe fiate scrivo per fastidio et per ira,
Per quello che vegio et sento, ma la mente gira,
Ca pare che me venga allo core una tira;
Però la mia persona spisso piagne et sospira.
Quando me recordo che bene statevamo,
Uno solo pagamento allo re l'anno davamo,
Et quando lo sossidio, ché agiuto li davamo
Quando faceva l'armata, et nui lo sapevamo.
Nisuna altra graveza ad nui no se poneva;
Capitani né altri chiedere non poteva
Né altri consellieri già no lli profereva;
Lo salario davamoli che avere soleva.
Or chi vole homo mettere in tale male stato
Che serrìa trista l'Aquila, se l'avesse durato!
Et quilli che vengo poy nui, lassamoli in tale stato,
L'anima ce maledisserano, et non se ne averiano peccato!
Quando per veceré, quanno per capitani,
Era plu che adamento che paga Aquilani;
Questo non fora stato se foxemo stati sani,
Ma erevamo divisi plu che homini strani.
Ad tempo de re Roberto, io vollio che me cridi,
May no lli vidi fare in Abruczo vicyrigi;
Ben facea giustitieri per rasciuny et per ligi,
Ma non dicea ad Aquila: «Obedire li digi!»
Sì che con veceré non avevamo ad fare;
Per veceré avevamo chi Aquila à guidare;
Sì che bui, consellieri, che avete ad conselliare,
No vi lassete vencere né torcere né plecare!
[1360/1362] son. 21 Agiate, consellieri, la fede bona
Spetialemente allo nostro communo!
Et vui della Ragionta, cescasuno,
Et anco dico ad omne altra persona!
Quando sete ad Consillio, ove se aduna,
Se foxe adomandato dono alcuno,
Gridate de non, tucti in communo,
Ché nulla colta oltragiosa se puna!
Or vi recordo, quando lo jurambo,
Et fommo più de persone ducento,
Delli melluri che in Aquila trovambo:
Per fi ad dece anni non fare donamento
Ad altri che allo re; coscì acceptambo;
In Camora fo quisto juramento.
Mille trecento sessantauno li anni
Correano, quando fo se mme demanni.
Anni mille trecento sessanta dui si fone.
Io vidi comensare gran lite et questione
Fra lo viscovo de Aquila et quillo de Selmone;
Fo per alecune eclesie che erano in Forcone.
Benché le nostre eclesie erano in nostro contato,
Elle non respondeano allo nostro vescovato,
Né llo viscovo nostro vi aveva signorato
Dallo tempo che recordome et fui al mundo nato.
Avevamo uno valente homo che stava ad Avingnone;
Dico misser Nicola che de Baczano fone;
Stava ben collo papa, lettere impetrone
Che queste eclesie foxero nostra jurisditione.
Nostro vescovo Paulo, che era de Baczano,
Da poi che questa lictera ad illo venne ad mano,
Sentendose la forza dello popolo aquilano,
Pilliòse queste eclesie, et venneli de plano.
Lo vescovo de Valve, de po che lo sentìo,
Como homo ben freczante, ad Avingione gio,
Et prepose questa cosa dello vescovato sio:
Che lo viscovo de Aquila sposseduto l'avìo
De dicessette ecclesie che aveva lo vescovato,
Che erano state soe per gran tempo passato,
Et sempre como vescovo l'avea signorato.
Fra questo missere Nicola fo morto et sotterrato.
Comensòse lo plaito ben sollicitamente;
Et spese adsay denari, et sempre era presente,
Et lo vescovo nostro dalla corte era assente;
Per procuratore resposta valse poco et niente.
Lo viscovo de Valve pur vicquese lo plaito;
Persona più sollicita non fo may, crederailo;
Fecese dare la sententia et vennesene de salto,
Recause le commessiuni et trasela d'aguaito.
Lo procuratore nostro la sentenzia appellao,
Et quella appellatione bene un ando durao,
Ché lo viscovo nostro, colla forza che ao,
Fra questo la possessione che aveva non lassao.
Non remase per Aquila che non se despesesse,
Quando vinti once o trenta in questo non missesse,
Acciò che la questione in corte non perdesse,
Ché nostro viscovato vetoperio non avesse.
Lo vescovo de Valve lassò l'anno passare;
Rechiese li commessarii che illi dejano fare
Lo commando del papa, senza nullo tardare,
Che in possessione méttanolo et dejalo adjutare.
Li commessarii dixero: «Questo fare non volemo;
Correcciareli coll'Aquila, questo fare non devemo;
In qualunca altra cosa adjutare te potemo,
Fáymolo volentero; et questo schifaremo».
Li Aquilani, vedendo che lo playto perduto ène,
Et resistere allo papa, cridi, non venìa bene,
Et averenne vergogna era ad nui gran pene,
Avevamo pagura non ne uscesse gran mene.
Lo viscovo sempre ad Aquila petea lo so adjuto;
Dicea: «No fay forza sel playto pare perduto,
Ca nne averemo honore per cescasuno partuto».
Li Aquilani se restrensero, abero proveduto.
Mannarono ad Selmontini una bella admasciata,
Pregandoli de questa cosa dónna è questione nata,
Per lo amore de Aquila, per loro sia mitigata,
Ché l'Aquila co lloro non ne sia correcciata.
Sermontini respusero: «Volenteri lo farramo,
Però che Aquilani generalemente amamo;
Né per questo né per altro no lli correcciaramo;
Ma non è nostro facto, sì che non poteramo».
Con tucta questa resposta, l'amasciata mannaro
De boni mercatanti che troppo ben parlaro.
Quanno foro in Consillo, troppo ben se scusaro:
«Che non è nostro facto, per noi non c'è reparo».
Per nui li fo resposto: «Sacciate veramente,
Che questo non credate: che may se lasse niente!
Sia de llà chi vole, né tanto sia potente
Che Balve signoregie uno de nostra gente!
Se nci devesse gire ciò che allo mundo avemo,
Figlioli et figliole nostre, et quanti ne farremo,
Nanti consumaremoli che questo perdessemo!
Chi ne lli è in contrario ben ne lli pagaremo!
Anchi vuy, Sermontini, che scusa vui pilliate?
Ché troppo ben sapemo, quando vui volessate,
De farelo collo viscovo multo ben poterrate;
Annatevinde con Deo, et plu non rascionate!»
Et più layde parole in Consillo foro usate.
Escerose de Palaczo de mala voluntate,
Et abero paura, dicendo in veritate;
Poi li fo menacciato per piacza et per le strate.
Sermontini parterose quasi che desfidati;
Che non vengano in Aquila multo foro vetati;
Et elli non ci vindero per multi dì passati,
Ca, s'elli pur venevano, non erano ben tractati
Dicta vi agio la questione secondo è gita et corsa:
Contra nui la sententia per rascione et non per forsa.
Li Aquilani provedero de mettere mani ad borsa
Et compararo uno castello lo quale se chiama Orsa.
Et fecero questa rascione: «Se quisto castello avemo,
In cangno delle ecclesie allo viscovo darremo;
Se Sermontini non volliono, lo frino li mettemo,
Ché non porrao uscire, quannunca voleremo».
Tanto de studio abemmbo che Orsa comparammo,
Et per avere lo assenso allo re mannambo;
Mandamoncy dui scindici li mellio che trovammo;
Multo contrario abembocy più che no lli pensammo.
Era male informato lo re et la regina;
Fólli dicto che l'Aquila aveva granne ruina:
Se llo re li concede, la gente Sermontina
Sempre briga aspettavano de sera et de matina.
Mandambo quisti sindici per questo et altre cose
Chel capitano facéanne, che erano oltragiose,
Le quali non posso dicere per versi né per prose;
Dallo re impetrarono lictere gratiose.
Que prode fanno queste lictere coscy avute,
Che per tucti li rigi ad nui son concedute,
Poi che alli capitanii non so facte temute?
Or non ci foxe pegio: alcune ne so perdute!
Al cunto nostro de Orsa io vollio retornare.
Li amasciaduri accettarola et fecerola pagare,
Et lo ascenso dallo re fecero acceptare;
Ma le cautele de Orsa non pottero recare.
Lo re prese le carti et no y le dajeva;
Diceva che questa cosa illu acconciare la voleva;
Fece chiamare li viscovi alla presentia sea;
Ma nullo ce non gio, ciascuno scusa prendea.
Li amasciaduri revindero, le carti non recaro;
Sessanta jurni stettero, li homini li contaro;
Ducento florini n'abero per lo loro salaro
Et anchi ducento altri per questo presentaro.
Fónne messa la colta per questa questione.
Or vollio che sacciate quello che vi custone
Collo plaito che fece ad corte de Avignone
Et anchi colla moneta che Orsa se comparone.
Dice che firini vinti nove centonara;
Nulla bestia vidi che may foxe scì cara!
Or vollia Dio che all'Aquila non jaccia più cara,
Et più male non escane che comparata ad gara!
Et stanno in quisti termini, lo duca fo prescione;
Ad cinque dì de marzo allo re menato fone;
Ad Castello dell'Ovo subito se mannone;
Et chi ne fo dolente et chi se nne alegrone.
Avendo poy lo re lo duca imprescionato,
Represe gran valore, fo più reassecurato.
La compagnia remase, et perdìo capo et lato;
Per uscirese dello regno ad lo re hanno mandato.
Quilli Ongari che volse lo re se li capao;
Per in Cicilia mannareli tucti li sollao;
Et li altri che remasero, licentia li donavo
Che dello regno uscessero, et si lli assecurao.
Escerose dello regno certe con gran fretta,
Repassaro per Abruczo quella gente maldetta.
Et may ce non revenga de quella tale setta!
Chi la volesse, Dio lo malanno li metta!
Cacciata questa compagnia, lo duca era prescione;
Chi più potea nello regno reflatare non pone;
Fece uno veceré lo quale se chiamone
Missere Galiotto, de Malistini fone.
Quatrocento barbute li dé per soa famellia;
Sopra li malantrini lo dì et la notte vellia.
Tanti ne fece impennere che fo una maravellia;
Ponamo ca ad multi increbe, ma alli più semellia.
Collo Consillio che abe lo re deliberao
De fare un parlamento, per dire quello che pensao
Per assettare lo regno, che gran mistero n'ao;
Per tutto lo regame le lectere mandao.
Fece fare lo commando ad cunti et ad baruni
Et ad tucte citadi et anco alli comuni,
Che vadano ad parlamento; non se scuse nisciuni!
Quilli che non ci gessero, ad pena de tradisciuni!
Lo primo dì d'aprile devevano comparire;
Ciò che se commandava devevano obedire.
Tante gente fo a Napoli, como agio odito dire,
Per omne ruva ad spalle homo convene gire.
Fo facto lo parlamento e fatta la proposta,
Et alli scindici de Aquila fo data la resposta,
Et aberone honore della proposta nosta,
Ché non ce abe contrario che li foxe descosta.
Ciò che in Consillio fecese non posso recontare,
Ca io no vi so stato, odìvilo contare:
Ca tucte offenze facte volea perdonare,
Et meza de duana et residii lassare.
O quanto foro lieti cunti tucti et baruni
Et citati et castella colli loro communi
Dello re che aveva facte tante remissiuni,
Et poy che deveva strugere tucti li rei larruni!
Fo dato lo combiato, la gente se partìo;
Coll'alegrecze tornano ciascuno ad loco sio.
Ad pochi dì poi questo lo re alli bangni gio
Et feceselli male tanto che ne morìo.
Ad vinti quatro jurni de magio fo sotterrato,
Et tucto quisto regno ne fo adsay tribulato,
Credendo che lo rege refosse in bono stato.
Nui le obsequie fecemboli denanti allo viscovato.
Lo duca de Duraczo se stava pure prescione;
A pochi dì poi questo, della dollia amalone;
Sì forte amalanza abe che illo non campone;
Ad vinti uno de jungio illo sotterra introne.
Alli mille trecento et più sessanta dui
Correa li anni Domini, vo che sacciate vui,
Quando morìo lo re et lo duca po' lui;
Jhesu Christo perdonali ad colloro et ad nui!
In quillo anno medesmo, l'amasciata mandambo
Nanti che lo re moresse; la feria impetrambo;
De quella de magio, dico, quando la comensambo,
Et per tucti pagisci questa feria annuntiambo.
Avevamo la feria, dico, lo santo Luca;
Per la feria dell'Isola non valea palluca;
Divisaro Aquilani che ad magio se conduca,
Et sia facta sì bella, como sole traluca.
Ad dece dì de magio se devia comensare,
In festa de santo Maximo si sse degia affermare,
Et otto dì da poi essa degia durare,
Et tucte le Arti de Aquila in piacza degia stare.
Como fo devisato così fo percomplito.
Io vidi lo Mercato così bene fornito
De logie et de coperte, tutto parìa fiorito.
Sì bella feria may non fo nello tempo gito.
Io vidi in Santo Maximo tutto lo clericato
De Aquila et de contado, tuctoquanto adunato,
De più de cento cruci nanti allo viscovato;
Fo dicta la missa in piacza et lo offitio cantato.
Poi vidi tucte l'Arti che gero ad offerire,
Et ciascuna per simiti, chi mellio potea gire,
Colli cirotti in mani, et nulla deseverire,
Cescasuno cirotto all'Arte comparire.
Da poi gio la corte, dico, del capetano
Con tucti soi offitiali, colli cirotti in mano;
Poy lo camborlingo, notari et guardiano;
Adsay strominti forocy, se Dio me faccia sano!
Or vi dirrò la feria quando fo comensata:
Correano li anni Domini como s'è registrata,
Anni mille trecento sessanta dui è stata.
Dio faccia bene ad quilli che l'abero devisata!